ADDIO A LUCA RONCONI (E FORSE AL TEATRO DI REGIA ?)

ADDIO A LUCA RONCONI (E FORSE AL TEATRO DI REGIA ?)

La grande novità del teatro in Italia nel secondo dopoguerra ( e in definitiva la sua forza ) si ebbe grazie all’affermarsi, anche nel nostro paese, (con notevole ritardo rispetto, per esempio, alla Francia e alla Germania), del cosiddetto “teatro di regia cioè di quel teatro dove tra il testo e la sua rappresentazione si inserisce l’opera mediatrice, scientifica, interpretativa, del regista, a volte ingombrante, a volte meno, ma a mio avviso sempre indispensabile.

Il 1945, data che gli storici del teatro, se vogliamo un poco semplicisticamente, stabilirono come data di inizio del teatro di regia, coincide con la messa in scena  di Parenti terribili di Cocteau ad opera di Luchino Visconti, a cui segui’ la nascita  del Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler e a Roma l’attività di Orazio Costa che fu non solo regista ma maestro di generazioni di attori,tra cui Ronconi stesso. A loro si aggiunsero via via altre personalità registiche come Giorgio De Lullo, Luigi Squarzina, Giancarlo Cobelli, Franco Enriquez, Massimo Castri e molti altri che hanno creato straordinari spettacoli alcuni dei quali rappresentati in tutto il mondo.

Gli ultimi anni hanno, ahinoi, visto la scomparsa di quasi tutti loro, cominciando da Strehler, morto nel 1997 fino a Ronconi, mancato l’altro giorno, ultimo di quella generazione prodigiosa e irripetibile che nonostante i suoi 82 anni ha continuato fino alla fine ha continuato a regalarci creazioni straordinarie.

Come tutti sanno Luca debuttò negli anni Cinquanta come attore ma ben presto nel ruolo di interprete iniziò a sentirsi stretto. Vittorio Gassman nella sua autobiografia ha testimoniato di quanto Luca tendeva ad “allargarsi “,a prendersi la responsabilità dello spettacolo intiero.

Gli inizi come regista non furono facilissimi per la ritrosia del mondo teatrale ad accettare certe idee e tesi altamente innovative. Fu dopo il famoso Orlando Furioso del 1969, primo esempio italiano di “teatro totale”, un successo planetario, che il talento visionario ed estroso di Ronconi cominciò ad essere apprezzato dando il via la alla costruzione del suo mito. In 50 anni ha messo in scena classici e contemporanei, grandi romanzi, opere liriche, perfino testi di scienza e di economia, e pure  testi da tutti dichiarati “ irrappresentabili (basti pensare alle nove  ore quasi integrali di  Strano interludio) ma che in mano sua  si tramutavano in stimolanti operazioni che ad ogni frammento rivelavano  un’intelligenza fuori dal comune.

Se Strehler creava spettacoli poetici, di incredibile ritmo e musicalità, Ronconi tendeva invece a vertiginose indagini dove si  sprecavano le sollecitazioni e gli interrogativi, quasi fosse un Kubrick della scena teatrale. Non si può poi dimenticare il Ronconi guida d’attori, anche la generazione degli attuali dai 40 ai 50 anni gli deve tutto: da Massimo Popolizio a Galatea Ranzi, da Luca Zingaretti, a Favino a Gifuni, tutti talenti da lui valorizzati.

Oggi fare un teatro di regia di alto livello è diventato complicatissimo: crisi economica, crisi di valori, morte di tutti i maestri, scarsa volontà di sacrificio e di approfondimento in un mondo che corre troppo. Per questo il dopo-Ronconi appare nebuloso …

Beato a chi ha vissuto quei tempi di passione di ardore per il mestiere, mi considero fortunato di aver visto almeno in parte  quei meravigliosi spettacoli!

Il Teatro di Roma, di cui Ronconi fu direttore per molti anni, dedicherà la sera di domenica 8 marzo in onore suo. Da non perdere.

data di pubblicazione 24/02/2015

SELMA di Ava DuVernay, 2015

SELMA di Ava DuVernay, 2015

statuetta

Uno dei grandi meriti del film Selma – della sua giovane regista Ava DuVerany e delle sue scelte – è di essere riuscito a porre l’attenzione su un momento storico cruciale, su un tema fondamentale e purtroppo ancor attuale nelle sue non realizzazioni, pur se in ambiti e contesti diversi, come quello dei diritti civili, senza scadere minimamente nella retorica, in un equilibrio efficace tra il racconto storico, la realizzazione cinematografica e il coinvolgimento emotivo. Il rischio era più che una probabilità, per un film che racconta delle battaglie per il diritto al voto dei cittadini neri e del loro culmine nella marcia partita da Selma, in Alabama, nella primavera del 1965, sotto la guida di Martin Luther King. Il racconto, invece, passa per l’emotività della causa, la violenza degli avvenimenti, l’asciuttezza e la lucidità del resoconto politico senza oltrepassare il confine della lacrima facile o semplicisticamente dei buoni o cattivi. Attraverso gli occhi, il volto e la memorabile interpretazione di David Oyelowo (già visto in Interstellar e Butler – un maggiordomo alla casa bianca ma soprattutto in Lincoln di Spielberg, in cui il suo personaggio chiede al presidente se i neri sarebbero stati in grado di votare da lì a 100 anni) ci viene restituita una figura di Martin Luther King complessa, nei suoi dubbi e nelle sue scelte di vita personale, oltre che di guida politica e spirituale, ma soprattutto di un uomo tra e con altri esseri umani, un uomo che identifichiamo con la sua battaglia ma emblema e figura di tutti gli altri uomini e donne in marcia dietro di lui. E proprio la possibilità di conoscere la complessità di un simile movimento, delle posizioni diverse al suo interno, delle divergenze, dei passi falsi, della presenza, poco raccontata in genere, anche delle donne, Coretta King e Annie Lee Cooper su tutte, dà senso di realtà alla battaglia, non la relega nel cantuccio dei fatti storici che facciamo finta di conoscere, ma la concretizza e la attualizza in maniera sorprendente. Le scelte tecniche, l’ambientazione al Sud, in Alabama, sullo stesso ponte Edmund Pettus su cui la marcia ebbe luogo, la scelta della luce naturale e del suo uso espressivo, ad opera del bravissimo direttore della fotografia Bradford Young, concorrono a fare di Selma un film elegante e potente. Ulteriore brivido di emozione sulle note del brano originale GLORY, cantato da John Legend e Common, premiato con l’Oscar 2015 per la miglior canzone. Da non perdere.


data di pubblicazione 24/02/2015


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SLAVA’S SNOWSHOW, creato e messo in scena da Slava Polunin

SLAVA’S SNOWSHOW, creato e messo in scena da Slava Polunin

(Teatro Argentina – Roma, 18 febbraio/1 marzo 2015)

Un clown in costume giallo, con una sciarpa rossa, guanti rossi, grandi scarpe, ed una corda al collo; altri clowns con grandi nasi rossi, cappotti verdi, orecchie; e poi telefoni di spugna, un cavallino a dondolo, un letto rosso, una vela per andare lontano, una scopa, ali d’angelo, palloncini bianchi, palle e palloni giganteschi, sfere illuminate, luna, stelle, bastoncini, un pesce cane, un attaccapanni, un cappotto nero e un cappello bianco, polvere, valigia, il fischio di un treno, il vapore della locomotiva, il verso di gabbiani lontani, una lettera che fa piangere e… “diventa neve”, un ombrello rotto, bandierina bianca e bandierine rosse, una fatina bianca su di un’altalena, coriandoli; colore giallo, ma anche rosso, arancio, verde, blu, azzurro, bianco, luce e buio, ragnatele, ovatta, cielo stellato e soffice come un grande piumone, vento, acqua, neve… tanta, tanta, tanta neve di… carta velina. E poi ancora Chaplin, Marcel Marceau, Fellini, Benigni… e la musica: dal colorato suono dell’inconfondibile trombetta che va a tempo con i passi e gli ammiccamenti dei volti dei clown, sino alla musica d’autore con i solenni Carmina Burana, le atmosfere rilassate e ritmate della samba di “Mas que nada” passando per “Via con me” di Paolo Conte.

Si torna bambini con lo spettacolo Slava’s Snowshow che si sta rappresentando in questi giorni al Teatro Argentina, nell’ambito di un palinsesto a dir poco variegato ed interessante che il nuovo Direttore Artistico Antonio Calbi ha selezionato per il pubblico romano.

La scenografia è superlativa: all’inizio è come la cameretta dei sogni di ogni bambino, per poi trasformarsi come un cilindro caleidoscopico in un mare glaciale, in montagne innevate, in stazione, e poi in ghiacciaio, fino ad uno spettacolare “palco” sotto la neve che coinvolge tutti gli spettatori, con il fluttuante gioco di sfere colorate di tutte le dimensioni che investono l’intera platea.

Ed al clown poi basta togliersi il naso per presentarsi al pubblico e ringraziarlo…

data di pubblicazione 24/02/2015


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NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

C’erano una volta un musulmano, un ebreo e un cinese. E alla fine arriva pure l’uomo nero. Inizia come una barzelletta l’ultimo film di Philippe de Chauveron, senza che però la storia riesca a innescare i meccanismi di quella comicità capace di far sì che una poco pretenziosa storiella indossi le ali della raffinata commedia.

Le quattro figlie femmine di una conservatrice famiglia cattolica francese mettono a dura prova le capacità di sopportazione dei pur volenterosi genitori. Ciascuna di loro prende in marito un tassello di quel “multiculturalismo”, che, restato a lungo un tratto caratterizzante dell’esperienza socio-culturale americana e del cinema che ne è la rappresentazione, obbliga ormai anche l’Europa a una seria riflessione “politica”, di fronte alla quale neppure la Decima Musa può chiudere gli occhi. Sono però lontane tanto le atmosfere di Indovina chi viene a cena? quanto il magnetismo esercitato sulla sala dal cinema francese campione di incassi degli ultimi anni (il pensiero corre, evidentemente, a Giù al Nord e a Quasi amici). I dialoghi si susseguono assecondando una per niente esilarante sequela di luoghi comuni: tra prepuzi amputati, divieti alimentari, stereotipi della cultura cinese e una (fin troppo) macchiettistico scambio culturale tra “famiglia bianca” e “famiglia nera”, Non sposate le mie figlie sembra fallire sia l’intento di divertire sia quello di far riflettere. I momenti di fratellanza simboleggiati dalla guerra di palle di neve tra adulti che tornano bambini e dalla Marsigliese cantata con la mano sul cuore da quella che sembra la panchina della nazionale francese di calcio, sembrano davvero troppo poco ai tempi di “Je suis Charlie”.

Prima di avviarsi al prevedibile “vissero tutti felici, contenti e tolleranti”, il film, almeno, lascia nello spettatore la voglia di provare una volta della vita il brivido della Zumba. Perché anche in ciò che sembra lontano e diverso dal nostro modo di essere e di pensare, in fondo, possiamo trovare una parte di noi stessi.

data di pubblicazione 22/02/2015


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CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO di Sam Taylor-Johnson, 2015

CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO di Sam Taylor-Johnson, 2015

Tanto tuonò che alla fine la terra rimase asciutta. Dopo il consueto balletto di nomi su chi avrebbe assunto l’oneroso onere di sbancare al botteghino con la trasposizione cinematografica di Cinquanta sfumature di grigio, fenomeno letterario firmato da E.L. James, anche produttrice del film, lo scettro arriva tra le mani della britannica Sam Taylor-Johnson. Il volto, le labbra, le mani e i corpi vogliosi di Anastasia Steele e Christian Grey, novelli eroi romantici di un’epoca in cui la trasgressione assume la consistenza della regola, diventano quelli di Dakota Johnson e Jamie Dornan. L’uscita italiana è meticolosamente anticipata da interviste sul profondo lavoro fatto dagli attori per svestirsi dei loro panni (in senso più reale che metaforico), impreziositi da delicati aneddoti sugli scompensi ormonali che inonderebbero la sala durante la proiezione.

Fin dalla prime inquadrature si ha però la sensazione che le aspettative, anche quelle più modeste, siano destinate a infrangersi contro la barriera di un prodotto troppo spudoratamente proiettato sul risultato di un successo commerciale che, pur vietato ai minori degli anni quattordici, a tratti fa respirare a pieni polmoni le atmosfere di Beverly Hills e Dawson’s Creek.

Mr. Grey, apre il cassetto delle sue cravatte grigie, con la stessa convinzione del modello della pubblicità di Calzedonia. Anastasia, bollente di incontenibile desiderio a seguito del primo incontro con il miliardario bello e dannato, a cui ancora nessuna ha avuto l’ardire di scrutare dentro, ma che in tante hanno già ammirato fuori, corre fuori sotto la pioggia e, come nella pubblicità Nestea, informa lo spettatore di avere caldo. Molto caldo. Manca solo la voce fuori campo che esclami “Grey. Ottimo direi” perché lo spot possa dirsi davvero completo.

La storia è fin troppo nota. Christian, ragazzo dall’immancabile passato traumatico e traumatizzante, dopo una lunga parentesi da sottomesso, sente che è giunto il momento di divenire dominatore. Un dominatore minuzioso, che scandisce il rito nella sua stanza dei giochi con meticolosa precisione, che redige con la cura di un raffinato giurista il contratto al quale è affidato il sinallagma del piacere, ma che è disposto a forzare ogni protocollo per la vergine che, con ammirabile disinvoltura, si lascia plasmare dal suo Signore per poi plasmarlo a servo del suo amore.

Le tanto annunciate scene di sesso non risultano né insistite né audaci. I corpi che si cercano e si uniscono sono certamente dotati di una potente carica estetica, che solo di rado si traduce però in autentica carica erotica. Il rituale di voluttuosa violenza portato sul grande schermo resta alla fase del tentativo incompiuto, come le sfumature della psiche dei due protagonisti, solo timidamente accennate e che a stento raggiungono la decina, restando molto lontane dal traguardo annunciato dal titolo.

Il film finisce annunciando l’inizio del secondo episodio. Che speriamo migliori se non altro nella colonna sonora, recuperando, almeno in parte, l’eccitante e avvolgente silenzio dell’immaginazione di così tanti lettori, affidatisi con disinibito imbarazzo alle suadenti pagine di un “caso letterario”.


data di pubblicazione 22/02/2015


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IL RICCIO di Mona Achache, 2009

IL RICCIO di Mona Achache, 2009

Film di esordio di Mona Achache che ne ha curato anche la sceneggiatura, non difetta di quell’”eleganza” omessa nel titolo. I tre personaggi Paloma, Renè e Ozu, sono tratteggiati in maniera molto fedele, anche se la giovane regista ha sostituito le innumerevoli citazioni letterarie e filosofiche della scrittrice Muriel Barbery con una serie di trovate sceniche ed inserti di animazione.

La visione negativa che la dodicenne Paloma, brillante ed intelligente con tendenze suicide, ha della società attraverso l’osservazione del suo nucleo familiare la destinazione finale è la boccia dei pesci. Una cosa è certa: io lì non ci vado, diviene il mezzo con cui la Achache ci presenta il “suo” riccio cinematografico, ovvero la portinaia del lussuoso palazzo Art Noveau di rue de Granelle dove vive la bambina, quella Madame Michel che è dotata de l’eleganza del riccio: fuori protetta da aculei, una vera e propria fortezza,…dentro semplice e raffinata come i ricci…… fintamente indolenti, risolutamente solitari. Bambina e portinaia hanno in comune l’intento di celarsi agli altri: entrambe vogliono sottrarsi ad un ambiente sociale che reputano estraneo e superficiale e trovano rifugio nelle proprie solitarie passioni, opponendosi con la forza della cultura alla tendenza all’omologazione. Non riusciranno, tuttavia, a sfuggire allo sguardo dell’elegante e raffinato Kakuro Ozu, il gentiluomo giapponese quasi surreale, che farà inaspettatamente incontrare queste due esponenti di un mondo in grado di “vedere oltre” lo sciocco perbenismo dell’alta borghesia.

Il risultato è un film profondo ma non opprimente, colto ma non elitario, un vero e proprio inno alla vita tratteggiato dal decisivo cambiamento di Paloma e della sua idea della morte

Dedichiamo a Madame Michel, che mentre “ingoiava” libri nella sua stanza segreta trangugiava anche interi fogli di cioccolato fondente, la nostra golosa ricetta di brownies.

INGREDIENTI– 250 gr di cioccolato fondente 70%  – un goccio di acqua – 250 gr di burro (salato) oppure non salato+1 pizzico di sale – 200 gr di zucchero di canna – 100 gr di noci sgusciate (oppure nocciole, o pecan, o un mix di frutta secca) – 60 gr di cacao amaro – 50 gr di farina – 3 uova intere + 1 tuorlo – 1/2 cucchiaino di lievito per dolci.

PROCEDIMENTO: Accendere il forno a 170°/180°, fisso e non termo-ventilato, prendere una teglia possibilmente quadrata da circa 23 cm. Foderata di carta da forno; dunque, preparate tutto l’occorrente sul tavolo: fare in pezzi 200 gr. di cioccolato fondente e metterlo a fondere a bagnomaria, mescolando di tanto in tanto, nel frattempo frantumare i restanti 50 gr e tritare grossolanamente le noci (o gli altri ingredienti). Metter quindi in una coppa il burro a temperatura ambiente assieme allo zucchero e montarli con le fruste elettriche finché diventano soffici e leggeri, quindi aggiungere le 3 uova + tuorlo, lasciando andare per quasi 5 minuti le fruste in modo da montare tutto molto bene. A questo punto, colate il cioccolato fondente fuso oramai tiepido nell’impasto ed  incorporare le scaglie di cioccolato, le noci, la farina setacciata col lievito, il cacao. Versare il composto così ottenuto nella teglia rivestita con carta da forno e infornare per 20 minuti. Tagliare poi la torta quadrata ottenuta (che deve risultare umida dentro) a quadratini  di circa 3 cm per lato, dei bei “quadrotti” che dovranno essere spolverati con abbondante zucchero a velo.

LA PAURA MANGIA L’ANIMA di Rainer W. Fassbinder, 1974

LA PAURA MANGIA L’ANIMA di Rainer W. Fassbinder, 1974

Germania, inizio anni ’70. Alì (El Hedi Ben Salem) è un immigrato marocchino che deve lottare ogni giorno contro i pregiudizi per le sue origini. Tale ostilità diventerà più manifesta dopo aver sposato una donna tedesca di mezza età, Emmi (Brigitte Mira).

Alì, umiliato per essere stato esposto come un oggetto di desiderio di fronte alle colleghe di lavoro della moglie, decide di abbandonarla e di iniziare una nuova relazione con la barista di un locale dove lui va solitamente a bere birra con gli amici.

Alla fine però Emmi capirà, i due si riconcilieranno e la loro unione, nonostante la differenza d’età, di cultura e di razza, verrà finalmente accettata da tutti, incluso dai figli della donna.

Nella scena finale Alì è ricoverato in ospedale per un’ulcera allo stomaco, tipica malattia da immigrato (Gastarbeiter). Il piatto che abbiamo deciso di abbinare a questo film, tipico della cucina tedesca, è il polpettone di carne.

INGREDIENTI: 800 grammi di carne macinata – 100 grammi di pecorino grattugiato – prezzemolo – sale e pepe q.b. – 2 uova – 2 patate grandi – 100 grammi prosciutto cotto – 100 grammi di emmenthal – uno spicchio di aglio.

PROCEDIMENTO: Fare bollire le due patate in acqua salata; quindi lasciatele raffreddare e schiacciatele anche in maniera grossolana con una forchetta. Intanto preparate l’impasto con la carne macinata aggiungendo sale, pepe, prezzemolo, il pecorino, le due uova e lo spicchio d’aglio triturato ed infine le patate schiacciate.

Una volta preparato l’impasto, date al polpettone una forma allungata introducendo nel mezzo l’emmenthal a pezzi grossi ed il prosciutto lasciato a fette intere. Sigillare bene e sistemare in una teglia ben oleata; infine mettere a forno per almeno 45 minuti ad una temperatura di 180°.

Una volta pronto va fatto raffreddare bene prima di poterlo tagliare a fette, e va quindi servito con un contorno di crauti o di patate al forno (queste ultime possono essere preparate assieme al polpettone stesso).

IL SEGRETO DEL SUO VOLTO di Christian Petzold, 2015

IL SEGRETO DEL SUO VOLTO di Christian Petzold, 2015

Visto al Festival Internazionale del film di Roma 2014, esce nelle sale, a distanza di qualche mese, il nuovo film di Christian Petzold , Orso d’argento alla regia al Festival di Berlino del 2012 con  La scelta di Barbara. Il titolo italiano, Il segreto del suo volto, fa didascalicamente strage dell’evocazione suscitata invece dal titolo originale, Phoenix. La protagonista, Nelly, torna a Berlino con i segni della Storia sul volto, l’orrore di Auschwitz che la trasfigura.  L’operazione di chirurgia plastica che le restituisce un nuovo volto gioca con la questione dell’identità, non solo individuale ma di una nazione, di un popolo, quello tedesco, che si trova anch’esso, dopo la guerra, ad dover affrontare la deturpazione del proprio volto, della propria identità, anche nel suo essere e riconoscersi carnefice. Integra è invece l’identità profonda di Nelly che però si trova di fronte alla cecità (a tratti inverosimile) di un marito che non la riconosce nella sua nuova pelle. Un’incapacità di riconoscimento sublimata da una volontà tutta razionale e materiale, il desiderio di intascare l’eredità della moglie presunta morta. È così che colui che non vede (o non vuole vedere) il vero volto di Nelly prova a trasformarla a immagine e somiglianza di quella moglie presumibilmente inghiottita dalla Storia, suscitando immancabilmente nello spettatore l’eco di un Vertigo d’annata, spogliato di ogni finalità sentimentale. Molto raffinato il racconto per immagini, anche se a volte statico, nelle sue sublimazioni allegoriche. Gemma rara e preziosa il finale: la splendida Speak Low di Kurt Weil.



data di pubblicazione 20/02/2015


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PER UNA DONNA di Letizia Russo

PER UNA DONNA di Letizia Russo

(Teatro Due Roma – 17/22 febbraio 2015)
La compagnia ATIR (Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca) presenta il terzo spettacolo, nell’ambito della rassegna “A Roma! A Roma!” presso il Teatro Due. Ancora una volta un monologo tutto al femminile, interpretato da Sandra Zoccolan, co-fondatrice del gruppo teatrale che gestisce oggi l’interessante spazio del teatro Ringhiera, nella zona sud di Milano.
Impegnata sia come attrice sia come conduttrice di vari laboratori teatrali, si presenta qui circondata da molti microfoni verso i quali dirige il proprio appello disperato di donna insoddisfatta per un matrimonio piatto e sterile. Ma qui i microfoni non hanno solo una funzione scenica, servono bensì a dare eco alla propria voce interiore, alla voce di quel sé che vorrebbe qualcosa di proibito, di non lecito: una passione verso un’altra donna e l’abbandono di un marito che da anni fedelmente le sta accanto.
Ma come non rimanere aggrovigliati da tutti questi cavi elettrici sulla scena? Essi stessi forse non rappresentano altro che tutte quelle convenzioni sociali che ci attanagliano nella vita e che non ci fanno afferrare la scelta giusta per noi, pur nel rischio di risultare, agli occhi degli altri, ridicoli o quanto meno pazzi.
Letizia Russo, romana classe 1980, autrice anche del testo, riesce a trasmetterci a tratti il travaglio interiore della protagonista, alla quale non rimane altro che lasciarsi condurre da una sorta di filo di Arianna che questa volta non servirà per uscire, ma per entrare nel labirinto della propria coscienza.

data di pubblicazione 19/02/2015


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PELI di Carlotta Corradi, regia Veronica Cruciani

PELI di Carlotta Corradi, regia Veronica Cruciani

(Teatro Argot Studio – Roma, 10 / 22 febbraio 2015)

Peli. Senza i quali gli uomini non sono tali. Peli per essere brutti, e di conseguenza, veri. Quando in scena finalmente appaiono i peli, liberati da tubini e perle d’ipocrisia borghese, la schermaglia verbale delle due donne protagoniste diventa lotta fisica tra i due uomini che vestono quei panni.  L’emozione, in scena e negli occhi del pubblico che gremisce il piccolo spazio del teatro Argot, si materializza davanti alla liberazione di due anime che entrano profondamente in contatto, una volta spoglie di parrucche e bugie pietose servite in una tazza di tè.  Sul tavolo si mescolano e si svelano le carte di un burraco che mette in gioco pinelle e due morali: la convenzionale, borghese, e quella eterna, che sta tutta intorno e al di sopra, come il paesaggio che ci avviluppa e il bel cielo azzurro che ci illumina, come dice Rodolphe in Madame Bovary.

L’applauso, lungo e inteso, che esplode e cresce, all’arrivo del buio finale in scena, rende  esplicita l’emozione intellettuale, prodotta dal testo scritto da Carlotta Corradi.  Le mani e il cuore continuano ad applaudire davanti alle intense e riuscite interpretazioni di Alex Cendron e Alessandro Riceci, sotto la guida di Veronica Cruciani.  L’invito è a non perdere l’occasione di lasciarsi coinvolgere, fino al 22 Febbraio 2015, al Teatro Argot.

data di pubblicazione 18/02/2015


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