I SOLITI IGNOTI di  Mario Monicelli, 1958

I SOLITI IGNOTI di Mario Monicelli, 1958

Da annoverarsi tra i capolavori del regista Mario Monicelli che ottenne con questa spassosissima commedia due nastri d’argento ed una nomination agli Oscar nel 1959 come miglior film straniero. Una banda di scalcinati ladruncoli organizza un accurato furto per raggiungere la stanza del Banco dei Pegni, dove è custodita la cassaforte, passando dall’appartamento attiguo, normalmente abitato da due anziane signore. Approfittando dell’assenza di queste, si introducono quindi nella casa e riescono a demolire la parete che secondo i loro piani li avrebbe portati direttamente davanti al cospicuo bottino. Ma con grande stupore si troveranno invece nella cucina dove, fallito il colpo, non gli rimarrà altro che approfittare della pasta e ceci trovata e mangiarsela con gusto. Cast eccezionale di attori passato poi alla storia del cinema italiano: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Totò, Memmo Carotenuto, Carlo Pisacane, Tiberio Murgia, Lella Fabrizi, Carla Gravina ed una splendida Claudia Cardinale agli esordi. Il film ci suggerisce questa ricetta di pasta e ceci.

INGREDIENTI: 500 grammi di ceci secchi – 100 grammi di guanciale o lardo – rosmarino, salvia, due spicchi d’aglio ed una cipolla – un cucchiaio di concentrato di pomodoro – olio extravergine d’oliva, sale e pepe q.b. – una patata – 200 grammi di pasta ditalini.

PROCEDIMENTO: I ceci vanno messi a bagno almeno la sera prima. Lavare bene i ceci e farli cuocere in acqua con la cipolla, la patata, sale, pepe, alcune foglie di salvia ed un rametto di rosmarino. Preparare il battuto con il lardo o guanciale da far soffriggere in abbondante olio, con l’altro spicchio d’aglio, la salvia ed il rosmarino, tutto ben triturato. Aggiungere al soffritto il concentrato di pomodoro ed amalgamare. Versare i ceci già cotti, dopo averne frullata una buona parte con il frullatore ad immersione insieme alla patata, fare cuocere ancora una decina di minuti prima di versare la pasta. La zuppa va servita tiepida e condita con olio d’oliva extravergine e pepe.

IL LIBRO DI IPAZIA di Mario Luzi, regia di Roberto Zorzuth

IL LIBRO DI IPAZIA di Mario Luzi, regia di Roberto Zorzuth

Il libro di Ipazia di Mario Luzi è un esempio classico in versi dove il teatro è solo “in prestito”: ciò avviene perché l’autore, ormai scomparso, durante la sua produzione poetica si è dedicato anche alla drammaturgia – vedi Rosales , Hystrio e altri – ma dando maggior peso all’aspetto lirico anziché a quello scenico.

In scena alla Sala Uno, per la regia di Roberto Zorzuth, e prodotto dalla compagnia Politecnico col Festival dei Teatri di Pietra – con cui ha già svolto diverse piazze estive – narra lo sfondo delle vicende della affascinante protagonista, vissuta fra il IV e il V secolo d.c., scienziata e filosofa, martire del paganesimo e della libertà di pensiero e ancora oggi avvolta in un alone di mistero. Nell’epoca Ellenistica, in cui la donna è quasi sempre relegata ad un ruolo subalterno, è su di lei che sembra giocarsi il destino della città di Alessandria, durante le sommosse fra Cristiani e Impero Romano d’Oriente. Ma, anche se i versi, appunto, sembrano richiamare una partitura musicale, sono le parole ad essere pregne di significato e ad intessere il forte legame fra la poesia e la tradizione di un certo teatro italiano – ormai passata, come quella della memorabile edizione del compianto grandissimo Orazio Costa Giovangigli.

E della parola l’allestimento in questione fa un buon uso, ponendola inevitabilmente in primo piano e sorreggendola con un’ottima interpretazione degli attori, che si muovono con padronanza in uno spazio essenziale ma anche suggestivo. Articolato in otto scene con prologo ed epilogo, l’impianto registico prevede una scena fissa con momenti di Teatro fisico, alternati ad altri ben più statici. Le interpretazioni attoriali, pur essendo di cifra fin troppo tradizionale, sono stilizzate e compensano bene la apparente povertà di azione voluta dal poeta.

Ipazia appare solo in due scene intense, per essere poi chiamata in questione da altri. La figura è quella di una donna coraggiosa e in contatto con un alter-ego (forse ultraterreno?) e piena di ideali dove il caos vorrebbe produrre fondamenti per il “nuovo”. Come nel più grande teatro classico, la sua fine non viene rappresentata in pubblico, ma solo raccontata a posteriori, dopo mille presagi. Buona ed efficace l’interpretazione dell’attrice Cristina Putignano. Interessante l’apporto del personaggio ambiguo del Prefetto – interpretato con espressività e grande misura da Andrea Bonella -, da cui intravediamo i pericoli e le paure vissute da chi è al comando e tuttavia sente di essere in balia degli eventi.

Bravi anche Fabio Pappacena (Sinesio), Alessandra Cavallari (Ione), Arianna Saturni (Teodora), e lo stesso Roberto Zorzuth (Gregorio). Da vedere.

 data di pubblicazione 18/11/2014


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INTERSTELLAR di Christopher Nolan, 2014

INTERSTELLAR di Christopher Nolan, 2014

statuetta

Tre anni dopo Inception Christopher Nolan torna a un soggetto fantascientifico. Qui la materia non è fredda e concettuale come nel precedente film, si tratta di salvare la Terra, con una missione spaziale che parte alla volta di Saturno allo scopo di trovare delle risorse: negli States, infatti, le coltivazioni sono ridotte al minimo e non c’è da mangiare. Non immaginate però imprese in pompa magna supportate dal tifo popolare e venate di eroismo. La missione  si svolge in assoluta segretezza. Nell’equipaggio c’è un padre: Cooper (lo struggente Matthew Mc McConaughey), che ha dovuto abbandonare la giovane  figlia Murphy, legata a lui da speciali affinità elettive e c’è una donna, il Dottor Brand (una persuasiva Anne Hathaway) che ha lasciato a casa l’anziano padre, la “mente” della missione (il solito monumentale Micheal Caine). Non si sa se la spedizione ha speranze di riuscita, non si sa quanto tempo staranno fuori, quando Cooper tornerà, se tornerà, Murphy sarà una donna adulta e il padre del Dott. Brand sarà probabilmente già passato a miglior vita.

Questa rete di affetti familiari ed il fascino, la paura dell’ignoto, sono componenti nuove per il cerebrale Nolan che per la prima volta guadagna in calore e in afflato.

Ma purtroppo il grande regista eccede in altri difetti: costruisce una sceneggiatura inutilmente complessa, verbosissima, infarcita di dialoghi retorici o di  sciocco humour, zeppa di colpi di scena, vanamente lunghissima (ben 169 minuti!)

Inoltre manca la poesia dell’infinito, lo stupore e lo sgomento di film come Gravity, per non parlare della profondità filosofiche di capolavori come 2001 o Solaris.

Il divertimento c’è, ma mancano il rigore e la misura, qualità che latitano negli autori di oggi, i quali probabilmente non hanno più fiducia nella semplicità come filtro di interpretazione della realtà.

 data di pubblicazione 17/11/2014


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RETROSPETTIVA DI FRANCO FONTANA, Fotografo

RETROSPETTIVA DI FRANCO FONTANA, Fotografo

Mostra a cura di Denis Curti nell’ambito del progetto ABC (Arte-Bellezza-Cultura) – REGIONE LAZIO –

(Palazzo Incontro – Roma, 15 ottobre 2014 – 11 gennaio 2015)

La mostra fotografica di Franco Fontana (Modena 1933) si presenta suddivisa in sezioni, ciascuna con tematiche ben segnate: i paesaggi – urbani ed extraurbani – il mare e le piscine. Come prima sensazione il visitatore si trova subito immerso, direi inaspettatamente, in un contesto dove regna assoluto il colore, reale presenza nel tutto insieme al contrasto tra luce e ombra, che sviluppa con i suoi toni iperreali una sovrapposizione piatta di forme e di superfici, creando una composizione geometrica ben costruita e volutamente artificiale. In Fontana il colore è infatti il vero protagonista della scena a cui viene affidato il compito magico e fantastico di svelarci quello che non riusciremmo mai a percepire con i nostri sensi, di vedere al di là della superficie. Ciò si percepisce subito nelle immagini riguardanti le distese extraurbane delle campagne della Basilicata o della Puglia: qui il colore fa contrasto e si confonde nello stesso tempo ed il tutto ci emoziona intimamente come se ci trovassimo di fronte ad un quadro di Rothko. Diversa sensazione per quanto riguarda i paesaggi urbani. Qui le superfici cromatiche si alternano tra contrasti di luce che appiattiscono il tutto e dove non c’è più spazio per niente se non per la solitudine umana che invade il campo: l’uomo, o la sua ombra, sta lì quasi a contemplarsi solo, immerso in un contesto quasi metafisico. Non è forse la stessa sensazione che potremmo percepire davanti ad un quadro di Hopper? Anche in Fontana infatti i colori brillanti e luminosi ci trasmettono solo una sensazione di vuoto, un senso di inquietudine, di disagio. Anche le immagini riguardanti il mare, tema molto caro a Fontana, ci infondono una percezione di smarrimento: qui solo una leggera quasi invisibile linea lo divide con il cielo, come se le due masse si fondessero in un’unica superficie piatta e priva di movimento. Negli spazi acquosi delle piscine vengono poi mostrati i corpi sinuosi e tonici di donne  che, come sculture dalle forme ben levigate, sembrano esaltare una fisicità tutta al femminile perché, come dice lo stesso Fontana, quando manca la donna, il mondo perde la luce…Ecco perché oggi, nella celebrazione dei suoi cinquanta anni di attività, Fontana si presenta a noi non solo come un eccellente fotografo, ma come un artista a tutto campo, i cui lavori trovano giusto e meritato apprezzamento, a livello nazionale ed internazionale, con il continuo conferimento di prestigiosi premi a riconoscimento della sua non comune opera.

 data di pubblicazione 17/11/2014

CHOCOLAT di  Lasse Hallström, 2000

CHOCOLAT di Lasse Hallström, 2000

In un tranquillo quasi anonimo paesino francese arriva dal nulla la estroversa Vianne (Juliette Binoche) insieme alla sua bambina Anouk (Victoire Thivisol) per sconvolgere, con l’apertura sulla piazza della sua singolare cioccolateria, le abitudini degli abitanti del luogo. Il sindaco moralista e bigotto (Alfred Molina) non esita a scatenare una guerra  contro la peccaminosa donna che, oltre ad offrire cioccolato in tempo di penitenza quaresimale, socializza persino con l’estroverso Roux (Johnny Deep) a capo di un gruppo nomade di zingari che si sono accampati nei paraggi. Alla fine la donna riuscirà con la sua tenacia ed il suo buon umore a scalfire il cuore di tutti, incluso quello del sindaco, ed a portare un poco di vita nel grigiore freddo di quella comunità chiusa e piena di pregiudizi. Il film non può che suggerirci questa ricetta di un plumcake tutto al cioccolato.

INGREDIENTI: 200 grammi di farina – 1 cucchiaino di bicarbonato – 50 grammi di cacao amaro – 275 grammi di zucchero – 80 grammi di panna acida – 175 grammi di burro morbido – 2 uova – 1 bustina di vaniglina – 175 grammi di gocce di cioccolato.

PROCEDIMENTO: Amalgamare tutti gli ingredienti mescolando bene ed aggiungendo poi 125 ml di acqua bollente, sino ad ottenere un impasto molto fluido, e completando infine il tutto con le gocce di cioccolato. A questo punto sistemare l’impasto in uno stampo da plum cake, foderato di carta da forno bagnata, ed infornare per 45 minuti ad una temperature di 180 gradi quindi coprire lo stampo con carta di alluminio e completare la cottura per altri 20 minuti. Servire da solo o accompagnato con una abbondante cucchiaiata di panna montata.

IL SALE DELLA TERRA di Wim Wenders e Juliano Ricardo Salgado, 2014

IL SALE DELLA TERRA di Wim Wenders e Juliano Ricardo Salgado, 2014

Fotografare dal greco significa “disegnare con la luce”, dunque il fotografo è colui che con la luce, che si riflette su di una scena, crea un’immagine. Unico maschio di otto figli, Sebastião Salgado viene avviato agli studi di economia dal padre, proprietario di una fazenda in Brasile ed allevatore di bestiame, e negli anni settanta per lavoro si trasferisce in Francia e poi a Londra; sarà sua moglie, architetto, a regalargli una macchina fotografica che segnerà l’inizio di una vita avventurosa ed unica attraverso il mondo, la natura, le civiltà, i popoli e le loro sofferenze. Il grande regista Wim Wenders, assieme a Juliano Ricardo Salgado, figlio di Sebastião, ispirati dalla potenza delle sue immagini rigorosamente in bianco e nero, alternando fotografie, storia personale e riflessioni dell’artista, ci regalano Il sale della terra, film imperdibile perché necessario ad ogni essere umano come esperienza per sentirsi più forti, più vivi, in quanto spettatori di un documento toccato da una grazia edificante per l’anima ed illuminante per lo spirito, oltre che pervaso da una straziante bellezza (AdM).Fotografo di persone più che di paesaggi, l’uomo è sempre al centro di ogni suo scatto proprio perché gli esseri umani sono il sale della terra, in tutte le loro manifestazioni, anche le più terribili. I suoi progetti fotografici lo hanno portato dall’Indonesia all’Africa, dai paesi dell’America latina quali Bolivia, Ecuador, alla catena montuosa delle Ande, e poi  in Messico del nord dove i suoi scatti riescono a raccogliere suoni attraverso gli occhi, per poi tornare dopo dieci anni di “esilio volontario e necessario” in Brasile. Ed è dal nord del Brasile, dove non era mai stato, che riparte il suo occhio sul mondo, su quella parte di terra in cui la morte e la vita sono molto vicine, animato da gente di grande forza morale oltre che fisica. Poi, nel 1998, accanto a Medici Senza Frontiere è in Etiopia per testimoniare l’enorme indigenza dei rifugiati, dove la gente, che ha la pelle arsa dal vento come la corteccia degli alberi, si abitua a morire… In quei posti Salgado tornerà molte volte, spinto dall’empatia per la condizione umana, dopo una sola digressione nel 1991 per testimoniare l’archeologia dell’era industriale in Kuwait, in occasione dell’esplosione dei pozzi di petrolio, ma dal 1993 al 1999 saranno sempre l’uomo e le sue sofferenze al centro della sua opera, attraverso foto sulla migrazione dei popoli in Tanzania e Rwanda, sui reietti delle guerre e sul genocidio nella ex Jugoslavia: le tende dei rifugiati…il mondo intero ne sembrava ricoperto. Siamo animali molto feroci, noi umani; tutti dovevano vedere quelle immagini, l’orrore della nostra specie.

Infine, dopo essere sceso per decenni nel cuore delle tenebre per testimoniare al mondo intero la dimensione della catastrofe dei nostri tempi, Salgado assieme alla moglie, che gli è sempre stata accanto in questo grande e appassionato viaggio che è stata la loro vita, decidono di fermarsi e di dedicarsi alla ricostruzione delle condizioni climatiche della Mata Atlantica in Brasile, con il progetto Istituto terra in favore dell’ecosistema, piantando due milioni di alberi nella zona in cui era cresciuto da bambino, ricreando parte di una foresta che oramai non c’era più, perché gli alberi sono cosa di tutti e ci danno il concetto di eternità. E se gli uomini sono il sale della terra, è la terra che è riuscita a guarire le ferite interiori di Sebastião Salgado accumulate negli anni: io sono parte della natura, come un albero, una tartaruga, un sassolino…

 data di pubblicazione 17/11/2014


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IL REGNO D’INVERNO (WINTER SLEEP) di Nuri Bilge Ceylan, 2014

IL REGNO D’INVERNO (WINTER SLEEP) di Nuri Bilge Ceylan, 2014

(Palma d’Oro al Festival di Cannes 2014)

Il regista turco Ceylan certo si può considerare oramai di casa a Cannes dopo avervi vinto diversi premi: 2011 Gran Premio per Una Volta in Anatolia – 2008 Premio alla Regia per Tre scimmie, 2006 Premio FIPRESCI per Climi ed ancora nel 2003 Gran Premio e per miglior attore con Distante. Il titolo di questo suo ultimo lavoro potrebbe avere come traduzione più appropriata: sonno d’inverno, vale a dire letargo. Il film infatti induce spesso ad appisolarsi: dialoghi molto prolissi e spesso pretestuosi. Ma tutto ciò volutamente, da parte del regista, per dimostrare come spesso le parole nascondono altro. Sono dunque un riempitivo, a volte necessario, per comunicare rancore e soprattutto noia.

Ci troviamo in Anatolia. Il benestante Aydin, che ha recitato in teatro per moltissimi anni senza apparente successo, si dedica alla scrittura di articoli su un periodico locale ed è intenzionato a scrivere un corposo ed impegnativo libro sul teatro turco con velleità pseudo intellettualistiche. A tempo perso, visto che i suoi cospicui affari immobiliari vengono gestiti da un suo fidato dipendente, gestisce insieme alla giovane e bella moglie Nihal un piccolo Hotel (Hotello) frequentato da rari turisti che spingendosi fin lì, nella splendida regione dell’Anatolia, cercano percorsi alternativi a quelli frequentati dalle masse. In casa, oltre alla paziente domestica, vive anche la sorella Necla annoiata e delusa per il recente divorzio, che non perde occasione per manifestare la propria insofferenza verso gli altri e verso la vita in genere. L’eccessiva verbosità degli incontri incrociati tra i personaggi viene fortunatamente interrotta dalla visione degli esterni: paesaggi incantati sotto un manto di neve che rende il tutto quasi irreale e certamente ci fa riprendere, con una boccata d’ossigeno, energia sufficiente per affrontare il dialogo successivo. Ottima quindi la fotografia che ci rivela i paesaggi incantati all’esterno e la realtà di ogni giorno all’interno di quelle case scavate nella roccia dove, accanto alle pur semplici azioni quotidiane, regna comunque l’incomprensione reciproca e dove anche le migliori azioni del protagonista vengono irrimediabilmente travisate.

Singolare quindi la rappresentazione di quella realtà, apparentemente isolata e fuori dal mondo, dove però si concentrano evidenti le ben note differenze di classe e dove i pochi ricchi ed i tanti poveri sono costretti a sopportarsi e ad affrontarsi quotidianamente.

E non solo in Anatolia…

 data di pubblicazione 17/11/2014


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SABATO DOMENICA E LUNEDI’ di Lina Wertmuller, 1990  (dall’omonima pièce di Eduardo De Filippo)

SABATO DOMENICA E LUNEDI’ di Lina Wertmuller, 1990 (dall’omonima pièce di Eduardo De Filippo)

Sabato Domenica e Lunedì è una commedia di Eduardo ma anche un film per la TV di Lina Wertmuller, grande regista di cinema con alle spalle indimenticabili trascorsi televisivi, basti ricordare Il giornalino di Gian Burrasca (1964) con Rita Pavone e Bice Valori. La vicenda narrata nel film è abbastanza fedele al testo teatrale e prende a pretesto un fine settimana in casa dei coniugi Peppino e Rosina Priore (Luca De Filippo e Sophia Loren), per parlare delle incomprensioni accumulate dai due in trent’anni di matrimonio. E’ sabato, e mentre Rosa è affaccendata nella preparazione del suo famoso ragù, suo marito Peppino dimostra molto nervosismo con tutti ed in particolare con lei; l’indomani, al pranzo domenicale, vengono invitati anche il vicino di casa Luigi Ianniello (Luciano De Crescenzo) e sua moglie: Luigi, grande amico di Peppino, è sempre molto galante con la padrona di casa esaltandone in modo particolare le qualità culinarie, ma Peppino questa volta sembra non sopportare tanta gentilezza e davanti a tutti i presenti si lascia andare ad una memorabile scenata di gelosia, che sconcerta non solo il mal capitato amico e la moglie, ma anche tutti gli altri commensali. Rosina reagisce con molta veemenza alle illazioni del marito geloso, sino ad avere un leggero malore (bravissima la Loren in questa scena quando, davanti gli sguardi increduli di tutti, si mette china sui pavimenti della sala da pranzo e simula come li ha lavati per trent’anni). Il lunedì, “passata la nottata”, sarà giorno di riflessione, pentimento e chiarimenti tra i coniugi Priore.

A questo punto, la nostra domanda è: esiste la ricetta del vero, originale ragù di Rosina Priore? No, non esattamente. Diciamo che ci sono delle “regole generali” per prepararlo, ma poi ognuno ci mette di suo. La presenza della passata di pomodoro e del concentrato di pomodoro sono d’obbligo, ovviamente. Si alla cipolla, no al trito sedano/carota/cipolla, no all’aglio. Originariamente la cipolla si faceva consumare nello strutto, ora sostituito dall’olio extravergine di oliva: può passare. No al basilico, non ci va; si a qualche foglia di alloro. Per quanto riguarda i tagli di carne da utilizzare, questi variano da famiglia a famiglia. Molti hanno modificato, aggiunto e sottratto alcune tipologie di carni per il gusto personale. Sicuramente nel ragù non ci va la carne tritata, quella è un’altra cosa. Generalmente si utilizza la carne di manzo, la cosiddetta “corazza” o “biancostato”. Molti aggiungono braciole (meglio se di lòcena, farcite con un trito di prezzemolo, aglio a pezzetti piccolissimi, parmigiano grattugiato o pecorino, uva passa e pinoli), braciole di cotenna, nervi ecc… Ce ne sono anche di realizzati con salsiccia e polpette. Il ragù attraversa tre fasi: inizialmente si “tira” la cipolla con l’olio o la sugna, poi si rosola la carne, in ultimo si aggiungono concentrato di pomodoro e passata di pomodoro oppure i pelati passati al passaverdure, e si lascia “pippiare” dalle quattro alle sei ore ed oltre. Fatelo la sera prima, riposato è ancora più buono!!

INGREDIENTI (per il ragù napoletano – o’ Ragù): 700 gr di corazza tagliata a pezzi da 4 o 5 cm di lato – 2 braciole di lòcena farcite con prezzemolo, parmigiano o pecorino, uva passa , aglio e pinoli – un paio di “tracchiulelle” o “puntine” di maiale – una cipolla – 6 cucchiai di olio – un bicchiere di vino rosso – 2,5 litri di passata di pomodoro – 140 gr di concentrato di pomodoro.

PROCEDIMENTO: Tritare finemente la cipolla e versarla in un tegame, meglio se di coccio, unitamente all’olio. Dopo un paio di minuti aggiungere la carne e farla rosolare. Questa è una fase molto delicata, bisogna girare spesso la carne e fare in modo che la cipolla non bruci ma si “consumi”. Quando la carne è rosolata e la cipolla è trasparente, sfumare con il vino e continuare la cottura fino a che lo stesso non sia evaporato. Aggiungere il concentrato di pomodoro e continuare a far “tirare” il tutto in pentola, alla fine aggiungere la passata di pomodoro, abbassare la fiamma al minimo possibile, coprire

lasciando il cucchiaio di legno tra la pentola ed il coperchio e farlo cuocere lentamente, “pippiare” per sei ore ed oltre.

Girare spesso il ragù al fine di non farlo attaccare alla pentola. Alla fine vi troverete una salsa densa, i grassi saranno affiorati in superficie ed avrà un colore rosso scuro, molto intenso. Ci andrebbero conditi i classici ziti spezzati, formato ideale di pasta da usare con il ragù, ma anche degli splendidi paccheri vanno bene. Ovviamente, in barba alle regole del galateo, è assolutamente obbligatoria la scarpetta finale, anche se, nelle sei ora di cottura, è facile che qualcuno abbia giocato d’anticipo intingendosi un pezzo di pane!

COME RESTARE VEDOVE SENZA INTACCARE LA FEDINA PENALE di Luca Manzi

COME RESTARE VEDOVE SENZA INTACCARE LA FEDINA PENALE di Luca Manzi

Al Teatro Due di Roma, dall’11 al 30 novembre 2014, torna in scena Come restare vedove senza intaccare la fedina penale, scritto da Stella Saccà, con la collaborazione di Luca Manzi (tra gli ideatori della serie televisiva Boris), al quale è affidata anche la regia.Gli Accreditati, presenti alla prima dello spettacolo, si sono trovati piacevolmente immersi in una serata scandita da battute fulminee e fulminanti, da momenti di introspezione e retrospezione, da un gruppo tenuto insieme da passione e professione.Quattro donne sulla scena (Beatrice Aiello, Camilla Bianchini, Serena Bilanceri, Stella Saccà). Quattro uomini evocati dalle loro storie. Quattro destini che si incrociano su Facebook. Quattro sogni che non si rassegnano alla disillusione. Quattro sconosciute che diventano amiche. Il piano è apparentemente semplice: ciascuna ucciderà il marito di una delle altre. Ma si sa che i piani apparentemente semplici sono quelli destinati a rivelarsi tremendamente complicati. Un intreccio che si svolge piacevolmente, con delle “parentesi talent” che strappano l’applauso a scena aperta.Un teatro da incoraggiare. Un teatro da scoprire.

 data di pubblicazione 15/11/2014


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DUE GIORNI UNA NOTTE di Luc e Jean-Perre Dardenne, 2014

DUE GIORNI UNA NOTTE di Luc e Jean-Perre Dardenne, 2014

(Festival di Cannes  –  In Concorso)

Alla supplica di morettiana memoria, Dì qualcosa di sinistra, rispondono splendidamente i Fratelli Dardenne, con il loro film Due giorni una notte, ovviamente parlando di sinistra in senso astratto, pensando in particolare ad una parola come solidarietà. Lineari, nelle tesi esposte e nelle rappresentazioni, limpidi, oserei dire, misurati nella realizzazione ma ricchissimi, come sempre, nel risultato (con l’aiuto di una splendida Cotillard!), i Dardenne restringono le dimensioni spazio- temporali della narrazione, circoscrivendole a due giorni e una notte e allo spazio fisico e umano dei colleghi della protagonista, per dilagare e penetrare in profondità nelle pieghe della nostra società, della condizione del lavoro e dei lavoratori, ma, soprattutto, della persona, che è e deve essere, contemporaneamente, pianeta che ruota su stesso ma anche attorno ad altre stelle, parte di un sistema solare. Il quadro dipinto ci restituisce la triste immagine di una condizione, di un universo, quello lavorativo di una società ormai perennemente in crisi, economica, finanziaria e valoriale, in cui alla persona viene richiesto, dalla situazione, di scegliere tra l’essere singolo e l’essere membro di una comunità, tra la propria salvaguardia (in termini minimi, lavorativa, di sussistenza, sopravvivenza) e il famigerato bene comune, il bene di un altro membro della comunità. Quella che i telegiornali chiamerebbero una guerra tra poveri, e che invece i Dardenne ci restituiscono come una lotta, una battaglia personale, con se stessi, le proprie debolezze, paure, malattie, in un percorso che diventa scoperta di dialogo con l’altro, di conoscenza delle miserie altrui, di solidarietà trasversale o di rifiuto. E ciò che conta, alla fine, è semplicemente “aver preso parte”. Libertà è partecipazione, cantava Gaber. Assolutamente da non perdere.


data di pubblicazione 15/11/2014


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