da Elena Mascioli | Mar 6, 2015
(Carrozzerie n.o.t – Roma, 5/8 Marzo 2015)
La particolarità dello spazio teatrale, le Carrozzerie n.o.t (a Ponte Testaccio – Roma), dà il destro ad una rappresentazione totale, in cui anche gli spettatori e l’immobilità statuaria degli attori non in scena diventano parte significante e visibile del discorso teatrale e meta-teatrale della giovane compagnia Marabutti, nata nel 2013. Una compagnia che mette in scena un suo doppio, cioè un’altra compagnia alle prese con le prove de Il gabbiano di Checov. Ma il testo e il gioco teatrale non culminano con lo svelamento risolutivo di un’identità nascosta, nel modo tipico delle commedie sin dai tempi antichi di Plauto. Perché l’identità è qui stratificata, il doppio si fa triplo, in una sovrapposizione volutamente confusionaria, in cui le voci e le parole dei personaggi di Checov si incrociano a quelle degli attori che cercano di metterlo in scena, i quali a loro volta tentano di esprimere, drammaturgicamente, le domande, le difficoltà, i sogni e le illusioni/disillusioni di chi si interroga e impernia la propria vita intorno all’arte, oggi. Le voci si accavallano: Non esiste sacralità nell’arte… Quindi per te l’assenza del gabbiano non è un problema? Ho delle difficoltà a credere che questo sia un gabbiano …L’opera d’arte deve esprimere un pensiero chiaro o preciso… C’è bisogno di forme nuove ma io non ho talento e non ho soldi…A chi credi che possa interessare lo sproloquio di uno scrittore? Anche una quinta, inizialmente in scena come tale, diventa camera con vista e poi camerino, a celare e poi svelare la bella prova di tutti gli attori, Benedetta Corà, Fabrizio Milano, Stefano Patti, Chiara Poletti, Mario Russo e lo stesso Paolo Zaccaria. Un ottimo lavoro che supera di gran lunga il rischio, paventato da uno dei personaggi in scena, che della compagnia Marabutti si dica: Avevano del talento, ma sempre meno di altri.
*foto di Valeria Tomasulo*
data di pubblicazione 06/03/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Mar 6, 2015
(Teatro dell’Orologio, Roma – 5/8 marzo 2015)
Fragile. Con questa parola scritta sullo schienale di una vecchia poltrona si accendono le luci sull’Edipus rielaborato in chiave decisamente originale da Leo Moscato con la stupefacente interpretazione di Eugenio Allegri. Un unico protagonista sul palco per rappresentare la tragedia greca per antonomasia attraverso il metateatro. Inizialmente pare che vada in scena la storia di un attore che, abbandonato dalla prima attrice della sua compagnia teatrale – e via via dall’intera compagnia di attori – si ritrova malinconico e un po’ posticcio a rappresentare, sotto la regia maldestra di un distratto “ragazzo”, una versione rocambolesca dell’Edipo. Dopo pochi istanti di smarrimento, però, ecco che quello che apparentemente sembrava un attore di commediole sul viale del tramonto lascia tutti esterrefatti. Da solo veste i panni di tutti i personaggi della tragedia: il re Laio, la regina Giocasta e Edipo e il coro del popolo di Tebe. Una rappresentazione surreale dove il protagonista da vita con estrema credibilità e trasporto ai 3 personaggi chiave dell’Edipo con la sola “complicità” dei fantocci che a rotazione assumono le fattezze dell’uno e poi dell’altro personaggio per fargli da spalla. L’intero spettacolo, recitato con un linguaggio nuovo, frutto dell’abile commistione della lingua latina con il dialetto lombardo/veneto e qualche parola della lingua italiana corrente e colorita, riesce a dare una veste nuova alla tragedia lasciandola al contempo immutata. Anche nell’epilogo il protagonista (ovvero il solo membro superstite della compagnia teatrale “unipersonale”) dismessi i panni dei personaggi rappresentati torna a rannicchiarsi sulla vecchia poltrona con la scritta “fragile” e si rimette sul naso la sfera rossa del pagliaccio. Fragile è l’animo umano, fragili sono i sentimenti, fragili sono le passioni che muovono gli eventi tragici e lieti, fragile è l’arte dell’attore come ahimè troppo spesso è fragile il rispetto e l’attenzione riservata dalla società al mestiere dell’attore e al Teatro.
Ma l’Arte non demorde e contro quella fragilità, sdrammatizzata proprio da quel pallino rosso sul naso del commediante – come a dire “anche io non mi prendo troppo sul serio nel rappresentare la tragedia di Edipo” – e ribadita orgogliosamente sulla poltrona come ad avvisare “attenzione, trattare con cura, con il giusto rispetto riservato alle cose delicate e preziose”, si sfodera l’energia, la forza, la brutalità delle passioni e delle parole che hanno reso indimenticabile fino ai giorni nostri la tragedia di Edipo portata abilmente in scena al Teatro dell’Orologio.
data di pubblicazione 06/03/2015
Il nostro voto:
da Elena Mascioli | Mar 5, 2015
Il bisogno di connettersi con gli altri. Non stiamo parlando di social network, ma di ciò che entra in scena, attraverso la voce di uno dei protagonisti, nello spettacolo Uomini e Topi, trasmesso nei cinema italiani lo scorso 3 Marzo per la rassegna National Theater Live. Tratto dall’omonimo romanzo di Steinbeck, premio Nobel nel 1962 per le sue scritture realistiche e immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale, lo spettacolo, sotto la direzione della regista teatrale Anna D. Shapiro, ci catapulta nella California degli anni successivi alla Grande Depressione, raccontandoci di un mondo in cui la sola cosa personale che uno ha è da dove viene e dove andrà. Il mito americano è già sbriciolato e i sogni accarezzati dagli uomini sono piccoli come topi e già aridi come la terra che quegli uomini devono coltivare per conto di altri. L’unica possibilità di sognare resta solo a chi è capace di farlo assieme a qualcun altro, a chi sa immaginare una casetta, con un po’ di terra, una stanza ciascuno, dei polli ma soprattutto dei conigli da far accudire a Lennie. George (interpretato dl poliedrico James Franco qui alla sua prima ed egregia prova a Broadway) si connette, condivide, si prende cura dell’amico, più debole perché affetto da un ritardo mentale: parla al suo posto, lo istruisce, cerca di tenerlo fuori dai guai. Ma Lennie si porta drammaticamente addosso, nella sua prorompente fisicità, la fragilità e la pericolosità dell’innocenza e ci regala, attraverso i gesti di una mano e lo sguardo sognante o spaventato che gli conferisce un magistrale Chris O’ Dowd (I Love Radio Rock, Le amiche della sposa, St. Vincent), il sapore dolce e straziante della tenerezza. Una sola striscia di cielo sembra trafiggere la scenografia, scarna e bellissima nella rappresentazione degli esterni, così come l’acqua taglia, nel suo scorrere, il palcoscenico, e costringe lo spettatore a guardare fisicamente e simbolicamente al di là di quel fiume su cui nasce e muore la vicenda. Sul palcoscenico e negli occhi di chi guarda si materializza l’emozione e la commozione pura che solo una storia di uomini e di topi così magistralmente diretta e interpretata poteva regalare.
Prossimi appuntamenti di una rassegna ormai imperdibile: replica di Skylight – 24 Marzo, Medea – 7 Aprile, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – 5 Maggio. Non solo, ma ovviamente al Cinema Farnese Persol.
data di pubblicazione 05/03/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Mar 4, 2015
(Caffè Letterario – Roma, 2 marzo 2015)
Nella vita – ci sono cose – nella vita – ci sono – cose – nella vita – molte cose – che non vorresti vedere – nella vita – ci sono cose – che non avresti mai immaginato – cose (…). Con questi fulminei tasselli di un mosaico vocale dal ritmato eco/rimbalzo tra le quattro attrici protagoniste, si apre la rappresentazione Mosaico di Donna – Vetustà scritto da Cecilia Bernabei. Il testo, espressione di un maturo lavoro di drammaturgia, incanta e regala al pubblico un ritratto universale ed eterno del significato di essere “donna” e della sua condizione immutata nel tempo attraverso i profili, a tratti classici e a tratti inediti, di cinque personaggi femminili appartenenti a paesi, epoche e contesti sociali differenti e lontani tra loro, ciascuno simboleggiato da un oggetto che ne sintetizza superficialmente l’immagine tradizionale tramandata dalla storia. I tasselli del Mosaico di Donna iniziano ad essere ordinati partendo da Penelope, la quale dopo aver ripetuto annoiata le sue famigerate qualità di donna forte e paziente tramandate nei secoli, finalmente da voce alla sua vera essenza, fatta anche di paure e fragilità. Penelope scende dal piedistallo dove era stata “imprigionata” come sommo esempio di virtù, di devozione assoluta e si confessa per quello che è: una donna complessa e semplice, una donna come tutte le altre donne. Con estrema lucidità si ribella alla (sola) immagine di moglie e madre perfetta confessando una sua debolezza che sino ad oggi è stata omessa (probabilmente) per mano di quel disperato bisogno patriarcale di tappezzare la storia e la società con il mito e la leggenda di donne stereotipate come virtuose e impeccabili. Fa poi il suo ingresso la debole, confusa e agitata Messalina. Dall’icona di donna balzata agli onori della cronaca e degli archivi storici esclusivamente per le sue trasgressioni, i suoi adulteri e le vendette di palazzo, la Messalina di Cecilia Bernabei si sofferma sui dolori, sui traumi subiti – non curati e consolati da amore e rispetto e per questo, poi, degenerati – da una quattordicenne costretta dall’imperatore Caligola a sposare un uomo trent’anni più anziano di lei, corrotto, zoppo (Claudio). Tuttavia, la luce fatta sulle sofferenze e i drammi interiori di Messalina non riescono a restituirle alcuna dignità e benevolenza tanto che persino il terzo personaggio femminile, Rosvita di Gendersheim, la condanna con il crocifisso tra le mani senza alcun accenno di perdono cristiano. Ma anche Rosvita, apparentemente dedita alla morigerata vita di Chiesa, non fu solo religiosa devozione a Dio. La poetessa si ribellò con discrezione, grazie alle sobrie spoglie dell’abito monacale e ai silenziosi corridoi dei monasteri, alla figura di donna sottomessa e silente per dare voce al suo pensiero e trattare, nonostante fosse una donna, temi osteggiati come il peccato, il demonio, la corruzione attraverso la scrittura e il Teatro, assumendo una veste eversiva per gli anni del buio Medioevo. E’ poi il turno dell’eterea Costanza D’Altavilla, una “lady di ferro”, emblema della razionalità stratega che così operò mossa dalla passione e dall’amore sconfinato di moglie e di madre; amore che poi si mostra al pubblico come la sua più grande debolezza: per amore divenne “schiava” del ruolo integerrimo di sovrano calcolatore, guida inarrestabile e tenace del suo popolo. A completare il Mosaico giunge la poetessa Christine De Pizan annunciatrice del progetto “La città delle Dame”: progetto estremamente attuale – e ancora oggi utopistico – di una città in cui accogliere tutte le donne che vogliano condividere le proprie storie, fatte di drammi, successi, sofferenze, soprusi e amore. Una città delle donne e per le donne che, grazie alla loro stessa forza, il loro coraggio, la loro pazienza, dovrà poggiare su fondamenta d’acciaio per accoglierle, sostenerle e proteggerle. Una città in cui si cureranno le ferite, tuteleranno i diritti e i sogni di tutte le donne (ancora oggi troppo spesso violati, infranti, calpestati e soffocati), si darà spazio al confronto delle esperienze per farne tesoro. C’è l’intero universo femminile in questo spettacolo strutturato in un atto unico da non perdere. Così come da non perdere è la lettura del testo che si spera di trovare presto nelle librerie!
data di pubblicazione 04/03/2015
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Mar 4, 2015
(Teatro Due – Rassegna A Roma! A Roma! – Roma, 3/8 marzo 2015)
Mosella Fitch si suicida il giorno del suo ottantesimo compleanno.
Lascia al garzone del droghiere precise istruzioni riguardo la sistemazione del suo cadavere e, in modo particolare, circa la custodia dei suoi preziosi taccuini.
Questi suoi appunti, scritti per aiutarla a non dimenticare, contengono dettagliate informazioni circa la sua vita a partire dalla sua prematura nascita, completamente inascoltata sin dal suo tenue primo vagito in un giorno in cui la pioggia aveva spinto la madre, tra il fango e gli escrementi, a tentare di salvare le vacche che davano sussistenza alla famiglia.
Mosella cresce sviluppando sentimenti ed atteggiamenti tipici degli individui affetti da forme di autismo: lei è Dio e dall’alto di un albero, che rappresenta il suo trono di giudice universale, impartisce urbi et orbi punizioni esemplari alla stupida umanità sottostante, con un cinismo che rappresenta il sadismo.
Lo stesso atteggiamento non cambia quando lei stessa sarà costretta a frequentare la scuola; durerà poco, odiata da tutti e soprattutto dalla maestra, per cui decide di abbandonare l’istruzione e di ritirarsi intanto a casa a fare pane, perché lei comunque diventerà uno scienziato e come tale non avrà bisogno di studiare: le dieci dita delle mani saranno sufficienti ad inculcarle lo scibile matematico.
Questo lavoro, il cui testo è stato scritto da Stefano Massini, giovane regista teatrale fiorentino, formatosi come assistente di Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano, è presentato da Teatro delle Donne diretto da Maria Cristina Ghelli, che da molti anni affronta problematiche prevalentemente al femminile.
Affiancata dal giovanissimo Luigi Fedele, risulta subito veramente singolare l’interpretazione di Barbara Valmorin che dà voce lei stessa ai “taccuini” nelle mani del garzone, su uno sfondo di scena quasi metafisico accompagnato da canzoni che ci portano in un passato non tanto lontano. Attrice prevalentemente teatrale, ma con una formidabile e riconosciuta carriera anche cinematografica, la vediamo valida interprete, come in questo caso, di ruoli drammatici in cui prevale la sua presenza scenica e l’espressività del suo volto.
data di pubblicazione 04/03/2015
Il nostro voto:
da Felice Antignani | Mar 2, 2015
Los Angeles, sul finire degli anni ‘60. Larry “Doc” Sportello, uno degli ultimi hippie della zona e consumatore abituale di marijuana, si trascina (giorno e notte) nei dintorni di Gordita Beach, svolgendo, con poca dedizione, l’attività di investigatore privato abusivo (con un ufficio all’interno di uno studio medico, ed in particolare ginecologico!). Nel corso di una classica giornata da dolce far niente, Doc viene sorprendentemente avvicinato dalla sua ex ragazza, Shasta Fay Hepworth, che gli chiede di indagare su presunti, strani movimenti che riguardano il suo nuovo amante, l’imprenditore edile (letteralmente palazzinaro) Mickey Wolfmann, operati, tra l’altro, da un gruppo di fanatici neo-nazisti, un potente cartello dell’eroina ed alcuni agenti dell’F.B.I.
Settimo lungometraggio dell’acclamato Paul Thomas Anderson, Vizio di Forma – adattamento italiano del titolo originale Inherent Vice – è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Thomas Pynchon, edito nel 2011. Ci sarebbero tutti gli elementi del classico noir-poliziesco, ma così non è, perché Vizio di Forma appartiene ad una categoria indefinibile, che mischia elementi del cinema letterario, e quindi d’autore, da un lato, ad aspetti del cinema popolare, e quindi di genere, dall’altro.
È un film complesso, a tratti sofisticato, che evidenzia il cambiamento dei tempi e l’ottusa discriminazione nei confronti di chi, come Doc Sportello, è considerato superato, fuori moda o, addirittura, pericoloso per il semplice fatto di essere un hippie. La marijuana che fa spazio all’eroina e la filosofia peace&love che cede il passo al razionalismo e alle psicosi di massa (legate agli eventi di Charles Manson) rappresentano il messaggio di fondo di Vizio di Forma, sintetizzabile nelle visionarie sequenze a casa hippie, l’ultimo avamposto (tragi-comico) di una civiltà oramai appartenente al passato.
La narrazione è nebulosa e lisergica, volutamente volta a confondere lo spettatore, come confusi e stralunati sono, d’altronde, i personaggi della storia, costantemente in preda ai fumi degli stupefacenti, ad eccezione dell’integerrimo poliziotto Christian “Bigfoot” Bjornsen, vero e proprio alter ego di Sportello. Il ritmo è lento e statico (praticamente non esistono scene d’azione) e la lunghezza è – a parere di chi scrive – eccessiva. Vizio di forma è difficile da metabolizzare. Non è un film per tutti: lo si intuisce nella prima mezz’ora e se ne ha la consapevolezza a metà film. Urge una seconda (e forse una terza) visione, per afferrare tutti i particolari e comprendere appieno, quindi, il significato del vizio intrinseco, ma la sensazione di fondo è che si tratti di un opera non sempre coerente, fin troppo labirintica, con alcuni personaggi soltanto abbozzati (vedi, tra i vari, l’avvocato di Doc Sportello, Sauncho Smilax) e comunque non sempre funzionali alla trama. Un buon film, nel complesso, ma non completamente convincente. Inevitabili, tuttavia, sono l’empatia e la simpatia verso Doc, strano eroe di questa ancor più strana vicenda, complice lo straordinario Joaquin Phoenix, ingiustamente snobbato (?) dall’Academy.
data di pubblicazione 02/03/2015
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da Antonietta DelMastro | Mar 2, 2015
Uno scambio epistolare che dura circa un anno tra Gioconda, detta Gio’, professoressa in piena crisi post separazione, e Filèmone suo angelo custode.
La storia comincia quasi per gioco.
Gio’ scrive al proprio angelo custode per avere un aiuto, per affrontare la situazione in cui si trova, per cercare di capire e chiarire i suoi sentimenti, i suoi errori, le sue paure, le sue insicurezze, le ansie che si sono scatenate in lei in seguito alla separazione dal suo compagno, Leonardo; chiude la lettera nel cassetto di un comodino e la mattina successiva trova la risposta di Filèmone, l’Angelo Custode, che le risponde: avrò cura di te
Per tutto il tempo in cui proseguirà lo scambio epistolare, che a volte non può che farci sorridere, Filèmone cerca di fare capire a Gio’ gli errori che ha commesso ma senza mai giudicarla, senza mai rimproverarla per i suoi comportamenti, la porterà per la mano a capire l’importanza di far tacere, a volte, la ragione a favore del cuore, perché alcune prove non possono essere superate se non affidandoci al cuore.
Le svelerà segreti che la lasceranno frastornata, che mineranno alcune sue certezze, che faranno vedere una nuova realtà che le permetterà di capire e trovare la soluzione dei suoi problemi.
Un libro ricco di buoni sentimenti che le due voci narranti, Gio’/Filèmone, danno la possibilità di leggere in due versioni: donna/uomo.
da Antonio Iraci | Mar 1, 2015
(Teatro Due – Roma, 27 febbraio/1 marzo 2015)
21 agosto 1964: muore Palmiro Togliatti.
Questa data non verrà mai dimenticata dal narratore, anche lui di nome Palmiro, ma non certo per le ragioni che crede il padre, convinto comunista.
Quel giorno succede dell’altro: Eugenia viene stuprata da un gruppo di giovani coetanei e lui, nonostante ne fosse forse segretamente innamorato, era lì.
Tutta una vita per pensare a quello, ma direi senza pentimento, incapace di dare amore vero e soprattutto di rendere giustizia a quella donna che disperatamente si era rivolta a lui, quasi implorandolo.
Dopo tanti anni, un giorno, Palmiro vede Eugenia dal balcone della sua abitazione, in una di quelle costruzioni popolari che crescono come funghi nelle periferie delle città: la vede sì, ma precipitare nel vuoto e poi il nulla, solo il rumore della caduta al suolo. Eugenia è morta, suicida, e tutto il vicinato accorre attonito ed incuriosito.
Ne I funerali di Togliatti, in scena al Teatro Due in questo giorni, molto convincente risulta l’interpretazione di Massimo Verdastro, accompagnato dal vivo dalla chitarra e dal violino, in alternanza, suonati da Giulio Saverio Rossi, anche se il racconto, a volte frammentario, sembra divagare allontanandosi dal dramma vissuto per introdurci in sentieri laterali di artificiosa retorica, in un buio di scena che appesantisce già di per sé il monologo.
Massimo Verdastro, nato a Roma nel 1957, è attore e regista con alle spalle una vivace attività teatrale, iniziata a Roma e consolidata poi a Palermo nella scuola di Teatro di Michele Perriera, città dove svolge per anni un intenso lavoro drammaturgico e fonda insieme ad altri soci la cooperativa Teatès.
Il suo poliedrico dinamismo lo porta a firmare come regista moltissimi lavori, con un taglio sempre molto particolare, partendo dal teatro classico fino ad arrivare allo sperimentale.
Nel 2002 ottiene il premio UBU come miglior attore non protagonista per L’Ambleto, dramma teatrale scritto nel 1972 da Giovanni Testori, quale scrittura in chiave comica e dialettale dell’Amleto di Shakespeare. Lo spettacolo in programma, proposto dalla Compagnia SemiCattivi/Centro Sperimentale d’Arte Contemporanea, ha vinto nel 2012 il Premio Autori Italiani della rivista Sipario, menzione speciale monologhi.
data di pubblicazione 01/03/2015
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 26, 2015
(Teatro Due – Roma, 24/26 febbraio 2015)
Nel 1994 nasce il Teatro dell’Argine a San Lazzaro di Savena, Bologna, come progetto artistico, culturale e sociale. I suoi esperimenti teatrali hanno avuto molto successo non solo nel territorio di appartenenza ma anche all’estero. Mimmo Sorrentino, è regista e drammaturgo che aderisce a questo progetto: insegnante di “Teatro Partecipato” presso la scuola “Paolo Grassi “ di Milano, nel 2013, per 24 settimane racconta, nella rubrica “Piazza Verdi” promossa da RAI Tre, le sue storie di vita di teatro sperimentato da diverse realtà sociali in giro per l’Italia. Vince nel 2014 il premio della critica promosso da Anct, Sezione Teatri della diversità.
Il suo spettacolo Adesso che hai scelto, che si sta rappresentando in questi giorni al Teatro Due, esce dagli schemi canonici della drammaturgia teatrale. Ma il dramma c’è, lo percepiamo subito.
Sorrentino ci racconta delle storie vere, di realtà vere che vivono il teatro e lo rappresentano per sé e nel proprio contesto. Fuori da quell’ambiente non avrebbe più senso ed è per questo che le diversità messe in scena sono funzionali agli stessi interpreti per riscattarsi, per conoscersi, per affermarsi: una sorte di necessaria catarsi.
Sorrentino dà l’incipit e spiega le regole del gioco: noi del pubblico saremo qui gli artefici, lo spettacolo lo facciamo noi e decidiamo noi cosa vogliamo che ci venga raccontato. Abbiamo a disposizione 5040 diverse opzioni, non poche direi, ma dobbiamo decidere, badando bene che ogni scelta, una volta presa, comporta una responsabilità perché la imponiamo agli altri.
Il meccanismo funziona, ci si appassiona, ci si diverte a sentire le storie raccontate con una spontaneità che ci coinvolge in prima persona, perché si tratta di racconti di vita vissuta veramente da coloro che vengono riconosciuti come diversi: detenuti, tossici, malati terminali, rom…ma anche medici, magistrati venditori ambulanti, anche loro diversi per “motivi diversi”.
Ognuno ha da raccontare la propria storia e noi ce la lasciamo raccontare.
Saremo poi noi pubblico a chiudere la pièce, perché le nostre poesie scritte al momento sono anche le nostre storie e ci piace sentircele raccontare…
data di pubblicazione 26/02/2015
Il nostro voto:
da Alessandro Pesce | Feb 26, 2015
L’umanità, le sue contraddizioni, il mondo nella banalità e nelle sorprese, come osservati da un piccione appollaiato su di un albero. Sguardo ineffabile, ironico, toccante, desolato, onirico, a volte lisergico, più spesso assurdo come uno Ionesco o un Beckett in ritardo di mezzo secolo.
Non c’è granché di nuovo nella filosofia e nei pensieri di questo piccione e nemmeno nel suo linguaggio, ma ci sono sprazzi di pura poesia e una bislaccheria che non puo’ non incantare.
A colmare qualche lacuna supplisce una messinscena perfetta, i 39 quadri di questo affresco sono davvero precisi in ogni dettaglio visivo. Divertitevi a osservare tutte le posizioni e i minimi movimenti dei componenti dell’insieme nelle varie scene: nulla è lasciato al caso.
Dopo i primi tre “incontri con la morte”, il resto è volutamente frammentato e affidato a un sottilissimo trait d’union rappresentato da due buffi venditori di scherzi di carnevale e a un refrain che sottintende piccole e grandi solitudini: mi fa piacere sapere che state bene ripetono i personaggi al telefono con un tono dolente e in un ambiente squallidamente atemporale dove i cellulari ci sono, ma anche i soldati a cavallo e dei vecchi caffè senza stile.
Autore di poche opere, di cui nessuna uscita in Italia, questo Roy Andersson, e il suo humour scandinavo forse non meritavano il Leone d’oro, ma i suoi “ quadri “ ci resteranno dentro.
data di pubblicazione 26/02/2015
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