PRIDE di Matthew Warchus, 2014

PRIDE di Matthew Warchus, 2014

(Festival di Cannes – Sezione Quinzaine des Réalisateurs)

LGSM è l’acronimo di Lesbian and Gay Support the Miners, nome che nel 1984 si diede uno sparuto gruppo di attivisti gay; Lesbiche e gay aiutano i minatori divenne anche il loro slogan, urlato per le strade di Londra, allo scopo di rastrellare fondi per i minatori del Galles che, proprio in quell’anno, avevano iniziato uno sciopero in massa per protestare contro lo smantellamento di molti siti estrattivi voluto dal governo di Margaret Thatcher. Il movimento, capitanato dal giovane attivista Mark Ashton che ebbe l’acume di ravvisare una certa – seppur incredibile – assonanza tra la lotta della comunità gay londinese e quella dei minatori, in quanto entrambi vittime dello stesso sistema, dovette ovviamente affrontare diffidenze, pruriginose intolleranze ed inevitabili pregiudizi anche da parte di alcuni gruppi degli stessi minatori, che rifiutavano l’idea di farsi sostenere avvicinando così le loro differenti forme di protesta. Tuttavia LGSM riuscì ugualmente nel suo intento, arrivando ad organizzare un grande concerto di beneficenza per la raccolta fondi, favorendo così anche l’incontro sociale tra queste due realtà così apparentemente distanti.

Pride di Matthew Warchus, vincitore quest’anno a Cannes della Queer Palm e in nomination ai Golden Globe 2015, è una piacevole commedia basata su questi fatti realmente accaduti, capace di narrare un’incredibile storia di solidarietà tra individui in lotta per difendere i propri diritti nell’Inghilterra degli anni ‘80, senza però essere un film di impegno politico. Girato nelle location dell’epoca e parlando di persone realmente esistite, il film seppur scivoli in facili cliché e in un pò di retorica, lasciando sicuramente più spazio al divertimento che all’analisi del periodo storico in cui si svolge l’intera vicenda, risulta tuttavia piacevole perché non ha la pretesa di essere “impegnato”. Pride è intriso di una certa piacevole leggerezza, con un tema centrale orientato più sull’amicizia che sulla denuncia, concetto perfettamente simboleggiato dalle immagini finali che ricostruiscono il Gay Pride del 1985 a Londra in cui, tra lo stupore generale, una moltitudine di minatori gallesi raggiunsero i loro sostenitori per aprire il corteo, a conferma che l’unione e la solidarietà tra individui, anche se molto diversi tra loro, renda forti.

 data di pubblicazione 17/12/2014


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NATALE IN CASA CUPIELLO di Eduardo De Filippo, regia di Antonio Latella

NATALE IN CASA CUPIELLO di Eduardo De Filippo, regia di Antonio Latella

Il Teatro Argentina, fino al 1 gennaio 2015, ospita Natale in Casa Cupiello, lo spettacolo che la penna dolce e amara di Eduardo ha reso mirabile sintesi di quella contraddittoria atmosfera della quale sono permeate queste settimane di Festa. La famiglia riunita, l’unità ritrovata, la statica perfezione del Presepe è quel che si vede. I legami che si allentano, i vuoti che non si colmano, l’inesorabile disfacimento dell’illusione è quel che si sente. Luca, ingenuo e utopico sognatore, prova a rendere il Presepe virtuoso catalizzatore di buone intenzioni e di buoni sentimenti, ma, costretto ad aprire quegli occhi che per troppo tempo ha tenuto chiusi, si troverà a disegnare la sua personalissima parabola, così cristologica eppure così umana, che dalla Natività conduce alla Morte.

Incidere sperimentalmente su un pezzo di teatro che tende alla perfezione nella sua versione originale è indubbiamente un’operazione ardita, come quella di valorizzare una messa in scena densa di simbolismi, che sviscera il testo e gli attori, che lavora sul linguaggio e sui corpi, quando si ha a che fare con battute che “parlano da sole”.

È sicuramente potente e suggestiva la resa della dialettica stasi-cambiamento, attraverso quell’immobilismo iniziale spazzato via dal movimento tumultuoso che invade letteralmente l’intero palcoscenico per poi ricomporsi nel finale in una plasticità pacata e armonica.

L’impressione dello spettatore, tuttavia, è quella di aver assistito a uno spettacolo nuovo, che resta “Natale in casa Cupiello” solo nel titolo e nel nome dei personaggi. La questione del “riadattamento dei classici” a teatro è troppo nota e troppo complessa per essere affrontata da uno sguardo laico. Quello stesso sguardo laico che però, almeno ogni tanto, preferirebbe che la rilettura di un testo non originale venisse sostituita dalla scrittura di un testo originale. E che Eduardo, almeno ogni tanto, non venisse riletto, ma solo interpretato.

 data di pubblicazione 14/12/2014


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GLI ARANCINI DI MONTALBANO di Andrea Camilleri

GLI ARANCINI DI MONTALBANO di Andrea Camilleri

La ricetta degli arancini di riso (in Sicilia dette arancine) non possiamo che ovviamente abbinarla all’omonimo racconto di Andrea Camilleri ed alla serie televisiva, che hanno come protagonista il Commissario Montalbano, egregiamente interpretato da Luca Zingaretti.

Invece di passare la notte di Capodanno con la fidanzata Livia a Parigi, Montalbano decide di rimanere a Vigata a casa della fedele cameriera Adelina che per l’occasione ha preparato le gustose arancine al ragù. La serata viene drasticamente disturbata dalla notizia che uno dei due figli di Adelina, entrambi pregiudicati, è sospettato di aver partecipato ad una rapina in un supermercato. Sarà una telefonata anonima agli inquirenti a rivelare che il ragazzo è totalmente estraneo al fatto e quindi la cena viene salvata e con essa anche le famose arancine

Vi suggeriamo due tipi di condimento tradizionale della tipica ricetta siciliana: quello al ragù e quello in bianco.

INGREDIENTI (per la preparazione di circa 24 arancini): 800 grammi di riso arborio super fino – una cipolla – brodo – olio d’oliva ed un litro d’olio per frittura – 2 bustine di zafferano una noce di burro – 100 grammi di parmigiano – pan grattato e due cucchiai di farina.

Al ragù: 1 cipolla – 200 grammi di carne di vitello macinata – mezzo tubetto di concentrato di pomodoro – 80 grammi di pisellini surgelati – sale, pepe, mezzo bicchiere di vino bianco, olio d’oliva.

In bianco: 100 grammi provoletta dolce – 100 grammi provoletta affumicata – 100 grammi di prosciutto cotto praga – 30 grammi di salame milano .

PROCEDIMENTO: Preparare un ragù ristretto facendo prima soffriggere in olio d’oliva la cipolla a pezzetti e la carne, sfumando il tutto con un mezzo bicchiere di vino bianco. Aggiungere un bicchiere di acqua ed il concentrato di pomodoro e lasciare cuocere a fuoco lento per un 40 minuti, a metà cottura aggiungere i pisellini, sale e pepe. Altrimenti si prepara una besciamelle abbastanza densa nella quale versare tutti gli ingredienti per arancine in bianco, in modo da ottenere una pasta filante ed omogenea. Si consiglia di preparare i due diversi condimenti la sera prima e di riporli tutta la notte in frigo in modo tale che siano ben solidi al momento di riempire gli arancini.

Preparare il risotto alla maniera tradizionale, facendo soffriggere una cipolla in abbondante olio d’oliva, aggiungere poi il riso ed il brodo insieme a due bustine di zafferano. Il riso dovrà essere cotto al dente. Aggiungere una bella noce di burro ed abbondante parmigiano grattugiato. Il riso va poi disteso su un ripiano e lasciato raffreddare. Una volta che il riso si è freddato, si procede alla preparazione dell’arancino ponendo sul palmo della mano il riso, aggiungere una bella dose di condimento ben rappreso e qualche pezzettino di provola (solo per il condimento rosso al ragù) e richiudere con altro riso in modo da ottenere una palla ben chiusa del diametro di circa 8 o 10 centimetri. Si prepara a parte una pastella semiliquida con farina ed acqua e gli arancini vengono quindi ripassati prima con questo collante, per evitare che si aprano durante la frittura, e poi con il pan grattato cercando di comprimere bene la massa e darle una forma rotonda e compatta.

Infine si passa alla frittura. Si dovrà utilizzare almeno un litro di olio per friggere il quale dovrà essere portato ad una temperatura abbastanza alta prima di immergervi gli arancini; lasciare friggere per circa 4 minuti. Scolare.

PICASSO E LA MODERNITÀ SPAGNOLA

PICASSO E LA MODERNITÀ SPAGNOLA

(Firenze, Palazzo Strozzi-20 settembre 2014-25 gennaio 2015)

In collaborazione con il Museo Nacional Centro deArte Reina Sofìa di Madrid, Palazzo Strozzi ci presenta fino al 25 gennaio 2015 una mostra tutta dedicata a Pablo Picasso ed al suo rapporto con altri pittori spagnoli contemporanei, ben noti anche da noi, quali Joan Mirò, Salvador Dalì, Gris, Julio Gonzàlez, Antoni Tàpies ed altri.

Le tematiche proposte dagli artisti  che emergono da circa 90 quadri e disegni in esposizione, sono varie e abbracciano il periodo che inizia nel 1910 e termina con i primi anni sessanta,  ancora sotto la dittatura franchista, inserendosi quindi in un contesto storico-politico molto drammatico e travagliato per la Spagna.

E’ proprio con riferimento alla guerra civile spagnola e al drammatico bombardamento della città di Guernica (che porterà poi alla vittoria del regime nazionalista di Franco) che Picasso realizza l’opera forse più drammaticamente rappresentativa delle tensioni e contraddizioni del secolo:  la ferocia  della Storia e le drammatiche vicende, di cui l’uomo è vittima e protagonista,  travolgono e cancellano qualunque codice di riferimento precedente sia  etico che estetico … la crisi della Storia e il buio della ragione in cui precipita si traducono  quindi, per un artista  universale come Picasso, in crisi del linguaggio e nel buio di ogni possibile rappresentazione …

È da questo deserto bruciato dal fuoco dei bombardamenti fascisti che diventa necessario rigenerare il senso e il valore di un nuovo linguaggio che, sovvertendo i canoni estetici di riferimento, si  affermi come espressione di una definitiva frattura tra l‘Uomo e la Storia:  una rappresentazione che sia la negazione di quanto fin allora affermato attraverso la pittura commemorativa: in questo senso, pur non proponendo la visione dell’opera definitiva originale, la mostra offre l’opportunità di esaminare tutta una serie di disegni e dipinti preparatori che testimoniano esaurientemente il convulso travaglio dell’artista, in questa disperata quanto appassionata ricerca di un immagine “nuova”, di un immagine “altra” . 

Le macerie di Guernica dunque, sono anche le macerie del quadro cosiddetto “di Storia”, in cui colore, prospettiva, rappresentazione naturalistica, sono annientati dal vuoto prodotto dalla follia umana,  stabilendo una definitiva distanza dal passato e ponendosi come manifesto della pittura del nuovo secolo. L’esposizione universale del 1937 fu infatti teatro del suo sbalorditivo debutto (AdM).

Non penso sia il caso di soffermarsi a sottolineare ulteriormente  l’importanza di questa opera che ha sicuramente rivoluzionato l’arte figurativa del novecento, ma certamente si rimane colpiti dall’atteggiamento di totale opposizione all’ideologia fascista, allora dilagante, con il quale l’artista affronta il soggetto.

Picasso afferma inoltre che non esiste alla base di un dipinto  una idea definitiva e “a priori”, ma l’opera piuttosto subisce tutta una serie di trasformazioni a partire da un’idea in divenire, che dal suo concepimento l’accompagna fino alla definitiva  realizzazione e prosegue, in un processo di continuo cambiamento, attraverso lo sguardo mutevole ed il peculiare stato d’animo dell’osservatore.

Spostando lo sguardo altrove, questa tesi la riscontriamo anche nelle altre sezioni della mostra ed in particolare in quella che comprende alcuni dipinti di donne, iniziando proprio dal lavoro del 1963: Il pittore e la modella.

Le donne sono un tema costante nella vita dell’artista e non solo come soggetto fonte di ispirazione ma come fulcro vitale  della  sua vita  privata  e creativa,  fino alla sua morte.

Il soggetto femminile è un universo  mutevole e inafferrabile da esplorare con ossessiva e divorante curiosità, con maniacale ripetitività; una forma archetipica centrale al suo immaginario  che di volta in volta assume le forme o i tratti delle donne che accompagnano la sua vita sentimentale o che alimentano i sui appetiti sessuali: immagine arcaica, ma anche compagna carnale e lasciva, spesso rappresentata in abbandoni erotici che rasentano il pornografico.

Sotto diversa prospettiva è il ritratto di Dora Maar, una delle tante donne di Picasso, amante dell’artista tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta, fotografa che ha dettagliatamente documentato la realizzazione di Guernica.

In questo dipinto dalle tinte forti si rimane colpiti dall’intensità dell’espressione della donna ritratta che lascia intravedere il variegato ed incostante mondo dell’artista ed il suo differente atteggiamento verso la vita e soprattutto verso l’amore.

Da non sottovalutare infine le opere degli altri pittori spagnoli in mostra che, nel solco tracciato da Picasso, hanno a loro volta contraddistinto, attraverso un personale percorso di vita e di ricerca, altri aspetti della  modernità, nonostante o forse proprio in virtù del fatto di aver vissuto in un drammatico contesto come quello a cui abbiamo fatto riferimento sopra.

La mostra di Palazzo Strozzi offre pertanto al visitatore un percorso artistico ricco e affascinante e fa comprendere come questi artisti, iniziando appunto  da Picasso, abbiano  veramente rivoluzionato il concetto di forme e di bellezza che ha  caratterizzato il  XX secolo.

 data di pubblicazione 12/12/2014

UNA SERA DELITTO, UNA SERA CASTIGO a cura di Sergio Rubini, con Sergio Rubini e Pier Giorgio Bellocchio

UNA SERA DELITTO, UNA SERA CASTIGO a cura di Sergio Rubini, con Sergio Rubini e Pier Giorgio Bellocchio

(Teatro Argot Studio – Roma, 3/14 dicembre 2014)

Dal 3 al 14 dicembre il Teatro Argot Studio si conferma centro sperimentale e culla del teatro tradizionale della scena romana e non è un caso se Sergio Rubini ha scelto proprio questo luogo per portare in scena il Romanzo di Dostoevskij. In un teatro piccolo, il cui pavimento in parchè consumato lascia respirare i passi di coloro che lo hanno solcato, e ancora oggi lo solcano, mossi esclusivamente dalla irrefrenabile e più pura fiamma per l’arte della recitazione, Sergio Rubini e Pier Giorgio Bellocchio danno vita a un apparente “reading” di Delitto e Castigo, strutturando l’Opera in due serate. I due attori realizzano un’interpretazione vibrante dei passi più salienti del testo di Dostoevskij al punto che i fogli che ogni tanto sembrano leggere, sfogliare o che più semplicemente sono arrotolati tra le loro mani o poggiati sul leggio, sembrano essere la sola finzione scenica della rappresentazione. L’atmosfera è intima, buia, la scenografia minimale: un tavolino con una candela, due sedie di legno e qualche giacca e dei cappotti pendono dal soffitto. Poi solo due volti, e a tratti solo due corpi, illuminati nella loro interezza da una calda ma non troppo incisiva luce, accompagnati da qualche sporadico rumore di sottofondo, trasmettono tutta l’ansia, le angosce, il fluire di coscienza, le emozioni del protagonista Raskol’nikov, sapientemente calibrato da Bellocchio, da un lato e l’ipocrisia, i sentimenti, la rassegnazione, lo squallore e, talvolta, l’aridità dei personaggi, femminili e maschili, contro i quali Raskol’nikov si imbatte, tutti egregiamente rappresentati da uno stupefacente Rubini, dall’altro. Sergio Rubini e Pier Giorgio Bellocchio rapiscono il pubblico al punto che l’intervallo che separa (anche) per 3-4 giorni la “serata Delitto” dalla “serata Castigo” non si percepisce bensì rimane intatto il filo narrativo ed emozionale che unisce il massimo pathos degli ultimi minuti del Delitto alla fuga di Raskol’nikov dal palazzo dell’usuraia assassinata che da inizio al Castigo. Lo spettacolo regge interamente sui volti, la gestualità e, soprattutto, sulle perfette modulazioni delle voci dei due attori, il protagonista Raskol’nikov, la voce narrante e i vari personaggi: entrambi emozionano, scuotono, catalizzano lo spettatore in un moto interiore continuo. Nella seconda serata come non citare il cameo della brava ed espressiva Vanessa Scalera – veterana del palco dell’Argot – nei panni del personaggio di Sonia.

Nella realtà odierna, fin troppo spesso insipidamente patinata e vuota, è bello imbattersi in attori navigati e famosi che, nonostante la fama, le luci del grande schermo e gli anni di onorata carriera, amano ritornare alle origini, alle dimensioni di quei teatri/scuola in cui hanno mosso i primi passi, per offrire uno spaccato di vero Teatro. E dove, come nel caso del Teatro Argot di Trastevere, a sipario calato quegli stessi attori, compreso il mattatore Rubini, nell’atrio e nel cortiletto insieme al pubblico fondono le dimensioni “palcoscenico” e “realtà”.

 data di pubblicazione 11/12/2014


Il nostro voto:

I TRE “FRANCESCO” di Liliana Cavani

I TRE “FRANCESCO” di Liliana Cavani

La terza volta di Liliana Cavani alle prese con la figura gigantesca del Santo di Assisi, quasi un’ossessione che ritorna ogni ventina d’anni a tormentare la creatività della grande regista imponendo un necessario ripensamento e approfondimento.

Nel 1966 il primo incontro, abbastanza casuale, una proposta accettata dall’allora giovanissima Cavani, con modesto interesse da parte sua, poi risolta in un film televisivo che forse rimane il migliore dei tre, permeato da sollecitazioni contemporanee (le prime proteste giovanili, la contestazione agli albori) e che dal punto di vista formale risentiva sia del cinema didattico e politico sia dell’influenza del teatro epico brechtiano (di quegli anni sono i grandi allestimenti di Giorgio Strehler). Fu un Francesco che nulla concedeva all’iconografia né alla leggenda favolistica. Quasi inesistente l’aspetto dei miracoli, molto presente, invece, quello della “scomodità” del personaggio. Qualcosa di lontano dal “pazzerello” di Dio tratteggiato quindici anni prima da Rossellini e per nulla parente dall’immaginifico film che dopo qualche anno creerà Zeffirelli. L’edizione del ‘66, Francesco di Assisi nonostante, quindi, fosse scevra da ogni spettacolarizzazione, fu successo di venti milioni di spettatori, il protagonista Lou Castel fu lanciato come perfetto interprete di personaggi  difficili e l’anno stesso girò I pugni in tasca.

Diversa la scena mondiale e il respiro culturale nel 1989, l’anno del secondo film, intitolato semplicemente Francesco: Liliana Cavani era diventata una regista di fama internazionale, autrice di grandi e famose pellicole, come Il portiere di notte, Aldila del bene e del male e molti altri. La produzione necessitava di nomi hollywoodiani e Mickey Rourke nel ruolo del titolo e Elena Bonham Carter come Chiara sembravano avere l’innocenza e la naiveté dei loro personaggi. Questo secondo film, ovviamente, non aveva nulla del didascalismo del primo, la storia cominciava laddove finiva l’altro, ancora oggi restano nella mente le scene eremite sulla neve, il viso tormentato di Rourke tra il dolore e il mistero della santità. La spiritualità, il misticismo hanno preso il posto della contestazione, forse per questo la fortuna di questo film al botteghino è stata decisamente relativa.

Oggi questo nuovo Francesco ai tempi di Papa Francesco, nasce dalla voglia di approfondire alcuni aspetti trascurati volutamente nei due precedenti, come l’esperienza ad Oriente e di esaltare l’impossibilità di incasellare la figura di Francesco in qualsivoglia categoria, perché la sua vita e le sue scelte sono  atipiche, estreme, positivamente contraddittorie e in ultima analisi, impossibili da omologare, è questa la sua modernità, come dice la Cavani, non è possibile inquadrare Francesco nel passato, ma se mai nel futuro. Il film prodotto dalla CIAO RAGAZZI della Rai, ha per pubblico ideale i giovanissimi e troppe volte nel corso della fiction prevale un linguaggio facile e televisivo che lascia il tempo che trova, ma nonostante ciò Francesco ci tocca e incanta egualmente, soprattutto quando si percepisce quella che Diego Fabbri chiamava la follia del Cristianesimo puro.

 data di pubblicazione 10/12/2014

ITALIA 15/18 – STORIE COMUNI DEL TEMPO DI GUERRA, di Alessandra Fallucchi

ITALIA 15/18 – STORIE COMUNI DEL TEMPO DI GUERRA, di Alessandra Fallucchi

Cento anni dalla Prima Guerra Mondiale. Dieci giovani attori sul palco e nel proscenio, a raccontare e a cantare di questa guerra, “l’unica guerra senza un eroe, un generale, uno statista: il protagonista è la massa dei corpi”.  Un racconto necessario, perché “il recupero della memoria è un dovere nei confronti dei sommersi”.  Questo lo spunto, l’obiettivo e l’incipit dello spettacolo Italia 15/18 – Storie comuni del tempo di guerra, ideato e diretto da Alessandra Fallucchi, ora in scena al Teatro Due Roma, fino al prossimo 14 Dicembre.

Sullo sfondo, metaforicamente e scenograficamente, una trincea: tre soldati, tre caratteri, tre dialetti, i piccoli racconti delle “signorine profumate che ti fanno divertire”, delle lettere alla moglie lontana, dell’acqua che è la cosa più importante, del patriottismo infranto sulle aspre montagne della guerra, scenario di epurazioni fratricide, perché non è concesso non avere più coraggio. Gli attori, tutti professionisti sotto i 30 anni, della compagnia Il Carro dell’Orsa, hanno la stessa giovane età dei soldati, delle crocerossine, delle mogli e madri abbandonate, delle signorine profumate e ci raccontano, in scena,  le loro piccole storie. Frutto di un lavoro di ricerca e documentazione che ha come fonte primaria le lettere e i diari dell’epoca, lo spettacolo diventa “un’autobiografia popolare collettiva”.  Collettiva e ben congegnata è anche la resa scenica, con momenti di voci soliste, inserite sempre in un canto, in un racconto, in un movimento scenico che oserei definire coreografato, variegato dal riuscito espediente della figura intermedia di un cantastorie.  I canti sono quelli popolari, dell’epoca raccontata, ma la loro resa polifonica, con l’accompagnamento della chitarra, estremamente contemporanea.

Un ritornello conclude lo spettacolo e si propaga, come un’eco, nella mente nei cuori degli spettatori: “Ed i secoli sono passati, ragazzi uccisi senza ragione. Per governanti senza coscienza siamo carne da cannone.”  Da far vedere in tutte le scuole del “Regno”.

Teatro Due Roma 3-14 Dicembre 2014

 data di pubblicazione 8/12/2014


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RICETTE D’AMORE di Sandra Nettelbeck, 2001

RICETTE D’AMORE di Sandra Nettelbeck, 2001

Ricette d’amore, il film di esordio della regista tedesca Sandra Nettelbeck, è una vera chicca. Martha, cuoca professionista in un noto ristorante di Amburgo, conduce una vita di totale solitudine, scandita quasi esclusivamente dal suo lavoro che svolge in maniera ineccepibile, quasi maniacale (bellissime le immagini della meticolosità nei gesti mentre indossa il grembiule o quando entra nella cella frigorifera del ristorante per trovare qualche minuto di silenzio e privacy). L’incontro con due persone inaspettate e molto diverse da lei, travolgeranno la sua “normalità”: una di queste è un cuoco italiano (Sergio Castellitto) che piomba nella sua cucina portando disordine ma anche tanto colore/calore. Sarà proprio questo cuoco, con un semplice piatto di spaghetti, ad arrivare diretto al cuore di una persona speciale. Un piatto di spaghetti semplici ma molto raffinati è la nostra proposta, in onore alla Martha del film, donna piena di talento e dotata di tanto coraggio da riuscire a capovolgere tutta la sua vita. Ecco i nostri spaghettoni con pesto di pistacchi e bottarga.

INGREDIENTI:1 pacco di spaghettoni (possibilmente di gragnano) – bottarga di muggine da grattare (non quella in barattoli già grattugiata) – pesto di pistacchi (occorrente:150gr di pistacchi sgusciati- 40 gr di parmigiano- sale e pepe q.b.- olio d’oliva – pinoli q.b.).

PROCEDIMENTO: Preparare il pesto come fareste quello tradizionale con il basilico, tritando in un mortaio i pistacchi, i pinoli, il parmigiano, sale e pepe, olio di oliva; se non volete prepararlo, alcune drogherie molto fornite lo vendono già pronto in barattoli di vetro. Grattugiate a parte della bottarga ed affettatene a lamelle un’altra parte per decorare il piatto. I quantitativi dipendono dalle persone ed anche dal gusto: sicuramente la bottarga non dovrà coprire il gusto raffinato del pesto, che dovrà prevalere nel condimento della pasta. Dopo aver cotto la pasta ed averla condita in una coppa con il pesto di pistacchi, un po’ di acqua di cottura, un po’ di olio d’oliva a crudo e la bottarga grattugiata, disporre gli spaghetti al centro del piatto aiutandovi con un mestolo ed una forchetta per formare un nido, quindi adagiate sopra alcune lamelle di bottarga e irrorare con un filo d’olio d’oliva. E’ un piatto raffinato ma dal gusto deciso.

MAGIC IN THE MOONLIGHT di Woody Allen, 2014

MAGIC IN THE MOONLIGHT di Woody Allen, 2014

L’eterno dilemma tra ragione e sentimento è Il condimento del film servito in sala da Woody Allen, che, come tutti i grandi chef, rimescola i suoi ingredienti preferiti: dialoghi serrati spruzzati di ironia conclamata, personaggi quasi caricaturali nel loro farsi icone delle posizioni contrapposte, attori in splendida forma che sarebbe un piacere ascoltare e guardare anche se stessero recitando la lista della spesa, ambientazione d’epoca con gustosi paesaggi e costumi d’epoca curati fino nel particolare più minuzioso, cornucopia di citazioni colte e raffinate destinate a lasciare al buio la stragrande maggioranza degli spettatori ma offrendo loro l’ancora di salvezza dell’identificazione con l’altrettanto inconsapevole protagonista. E la magia a cui cedere e credere non è solo quella dell’amore (e non ci vuole molto ad innamorarsi di un uomo come Colin Firth! ndr) ma quella del cinema di un autore che, con tutti gli ingredienti menzionati, ci incanta lasciandoci imbambolati a sorridere per tutto il film. E il retrogusto della riflessione arriva solo il giorno dopo, quando in bocca si sente un sapore un po’ qualunquista e maschilista nel rappresentare vincente, in amore, una donna che sia più giovane, furbetta, ignorante e forse per questo più spensierata di quella che si aveva già accanto. Da vedere, rigorosamente, in lingua originale.

 data di pubblicazione 5/12/2014


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MOMMY di Xavier Dolan, 2014

MOMMY di Xavier Dolan, 2014

(Festival di Cannes  – in Concorso)

Finalmente un film di Xavier Dolan, forse il più completo e il più maturo, è riuscito a trovare distribuzione nelle sale italiane. Vincitore del Premio della Giuria alla 67a edizione del Festival di Cannes, Mommy è un autentico capolavoro e Dolan si riconferma come uno dei più talentuosi registi dell’ultima generazione. Anno di nascita 1989, film realizzati ad oggi cinque: uno più bello dell’altro.

Mommy si ricongiunge perfettamente con il primo lavoro di Dolan, J’ai tué ma mère, tormentata storia di amore e odio tra madre e figlio, chiudendo il cerchio lasciato aperto e capovolgendo l’esito del conflitto primordiale con uno straziante inatteso finale.

Diane è la madre, rimasta vedova, dell’adolescente Steve (l’impressionante Antoine-Olivier Pilon), affetto da una sindrome di iperattività e deficit di attenzione, che lo rende instabile, violento e difficile da gestire. I due insieme sono il ritratto di un amore impossibile e incontrollabile, una forza istintiva che li attira l’uno verso l’altro per poi respingerli e spingerli verso l’autodistruzione. L’elemento di equilibrio sembra poter essere Kyla, la nuova vicina di casa, che dietro il proprio velo di apparente ordinarietà nasconde un bisogno di vitalità che solo la sconclusionata coppia madre-figlio riesce a farle (ri)scoprire. Le due straordinarie muse di Dolan, presenti in quasi tutti i suoi film, Anne Dorval e Suzanne Clement, qui danno il meglio di se stesse interpretando i propri ruoli con un trasporto fisico ed emotivo da brividi.

Dolan è un genio. Scrive, dirige, monta, compone ogni elemento del suo film con un gusto e una maturità rari. Una serie di scelte ed espedienti originali e brillanti si susseguono incalzanti, trascinandoci per due ore abbondanti in un modo di fare cinema che ha un’infinità di cose da dire: dalla colonna sonora che vanta grandissime cover di successo, tra cui una performance stonata al karaoke di Vivo per lei, al formato 1:1 dello schermo, che si espande e si restringe, seguendo l’altalenante percorso di rinascita e riscatto personale di Steve e delle due donne.

Impossibile non innamorarsi di questo film.

 data di pubblicazione 4/12/2014


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