da Antonietta DelMastro | Mar 18, 2015
Siamo a Parigi nel 2022. François Hollande è alla fine del suo secondo mandato, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen sta per affermarsi alle elezioni presidenziali e contro di lei si schiera una alleanza di partiti che porta all’Eliseo Mohammed Ben Abbes, leader della Fratellanza musulmana. Obiettivo di Ben Abbes è l’islamizzazione di tutta l’Unione Europea, alla quale ha già aderito la Turchia e a breve, secondo i disegni di Ben Abbes, aderiranno i paese nord africani.
Quindi si tratta di una presa di potere pacifica e senza spargimento di sangue da parte di un islam moderato, che riesce ad affermarsi anche grazie alla decadenza della società occidentale e probabilmente all’esigenza di tornare a dei valori che si pensavano perduti e che sembrano essere offerti dalla scelta islamica. Scelta che porta inevitabilmente con sé un ritorno alla società patriarcale e poligamica e alla conseguente perdita della parità dei diritti tra i sessi.
Narratore di questa storia è François, docente della Sorbona, specialista di Huysmans, chiaro rappresentante della sua epoca: annoiato, senza volontà, senza coraggio, con una morale piuttosto dubbia, interessato più al sesso che non a quello che gli accade intorno. François attraversa il romanzo con un unico grande dilemma, che risolverà solo nelle ultime pagine, proseguire la sua vita così come la conosce, con una libertà di cui non sa cosa fare, o cedere alle lusinghe della conversione all’islam: “… avrei avuto una nuova opportunità; e sarebbe stata l’opportunità di una seconda vita, senza molto nesso con la precedente.”
da Antonietta DelMastro | Mar 18, 2015
Restiamo nel campo degli “scambi epistolari” con il libro di Daniel Glattauer del 2010.
A chi non è capitato, nella concitazione della vita quotidiana, di inviare per errore una e-mail a un indirizzo sbagliato? Il romanzo prende spunto da questo assunto e ci trasforma in spettatori di una partita di tennis giocata con il computer a suon di e-mail tra Emmi Rothner, sposa e madre, e Leo Leike, psicoterapeuta reduce dall’ennesimo fallimento sentimentale.
Dopo le prime pagine tra i due sconosciuti nasce una amicizia con scambi di battute sagaci, pungenti e con una buona dose di ironia. Ben presto, però, l’amicizia si trasforma in qualcosa di diverso, di più profondo, che mette a rischio tutta la loro vita “reale”, qualche cosa a cui non basta più il continuo scambio di e-mail, qualcosa che fa dire a Leo “ogni volta che ricevo una sua e-mail, mi batte forte il cuore, oggi come ieri…”.
Ma un sentimento che è nato dietro a un computer, che manca dei rossori, degli occhi negli occhi, dei sospiri che tanto ci insegnano dell’altro può, in qualche modo, sopravvivere a un vero incontro?
da Maria Letizia Panerai | Mar 17, 2015
La scrittrice Irène Némirovsky, ebrea russa internata e poi morta ad Auschwitz nel 1942, non avrebbe certo potuto immaginare che il suo manoscritto Suite francese, pensato come un’opera letteraria divisa in partiture al pari una sinfonia e rimasto purtroppo incompiuto, sarebbe diventato un giorno un best seller internazionale.
Giugno del 1940: siamo a Bussy, piccola cittadina della campagna francese e Lucile (Michelle Williams), giovane donna dall’aria un po’ smarrita ed assente di chi non comprende sino in fondo cosa stia accadendo nel suo paese e nella vicina Parigi appena bombardata, è seduta al suo pianoforte. Lucile, il cui marito Gaston è stato fatto prigioniero in guerra, vive con la suocera Madame Angellier (Kristin Scott Thomas), donna dispotica ed in apparenza arida. Quando i tedeschi occupano Bussy, nella sontuosa villa Angellier viene “acquartierato” l’ufficiale Bruno Von Falk (Matthias Schoenaerts).
La convivenza forzata con il nemico invasore porta le due donne a limitare all’essenziale la frequentazione con lo sgradito ospite; ma l’amore di quest’uomo, che prima di arruolarsi era un compositore, per la musica, scatenerà l’inaspettata ed inconfessabile complicità tra lui e la giovane Lucile, esercitando su di lei un fascino particolare che si trasformerà in passione.
Suite francese, del regista inglese Saul Dibb, è molto fedele alle caratteristiche del romanzo dal quale è nata l’ispirazione, riuscendo ad entrare perfettamente in sintonia con lo stile romantico-sentimentale dell’autrice ed evidenziando da un lato il suo forte risentimento verso il pettegolezzo e la maldicenza (Bruno ha come incarico quello di catalogare le lettere anonime dei delatori che arrivano al comando tedesco), e dall’altro una certa propensione che Lucile ha verso il nemico, dipinto in molte circostanze come gentile e sensibile, in contrapposizione alla sgradevolezza delle persone del posto. I nazisti, come nel romanzo, sono giovani belli ed educati, che corteggiano le donne di Bussy invece di violentarle e che giocano come bambini mentre si fanno il bagno in un lago in mezzo alla campagna.
Ottima la fotografia e molto suggestive alcune scene, anche se il film può sembrare a volte sdolcinato ed incontrare solo il gusto di chi ama le storie d’amore.
Decisamente bravi gli interpreti principali, dalla Scott Thomas al ben ritrovato M. Schoenaerts (Un sapore di ruggine ed ossa), che tuttavia vengono surclassati dall’intensità interpretativa della Williams, perno centrale di tutto il film che, dopo aver lavorato con un regista come Ang Lee, essere stata moglie delusa di Ryan Gosling ed essersi sorprendentemente calata nei panni di Marilyn nel biopic di Simon Curtis, conferma le sue doti di attrice raffinata e sensibile.
data di pubblicazione 17/03/2015
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da Alessandro Pesce | Mar 16, 2015
Dave e Mark sono due fratelli, con un’infanzia desolata dietro le spalle. Soli per il mondo, hanno sempre dovuto cambiare casa e quindi si sono morbosamente attaccati l’uno all’altro.
Si sono dedicati ambedue al wrestler, uno sport dove l’approccio fisico è stretto e carnale, riuscendo ad arrivare a vertici olimpionici. Dave ha una famigliola felice, con una moglie e due bimbi; Mark vive solo in una casetta un po’trascurata, è un gladiatore solitario e taciturno, Dave è iperprotettivo, ha un bisogno continuo di sentire se il fratello minore sta bene, e vuole sempre abbracciarlo. Un giorno Mark riceve la telefonata di uno degli uomini più ricchi d’America, Du Pont, uno strano tipo, appassionato di wrestler, patriota reazionario, erede di una fortuna immensa e antica, che si è allontanato dalla tradizione familiare di corse di cavalli per prendere sotto la sua ala,( per la disperazione di sua madre ) i campioni di lotta della nazione americana, l’ambiguo sport di combattimento, pieno di abbracci e contorsioni, che ha suscitato in lui una passione strana e tardiva. Du Pont ha un progetto ambizioso: ospitare nel suo ranch e allenare i migliori lottatori, diventare un mentore per loro e far si che vincano le gare più importanti e le Olimpiadi.
L’atmosfera cupa che pervade tutto il film, diventa ancora più inquietante quando si passa dalla desolazione della periferia nella parte iniziale all’opulenza della tenuta Du Pont, dove tutto, dagli ambigui solerti collaboratori del padrone di casa, alla presenza ancora autorevole della vecchia madre, ai disturbanti trofei allineati nella sala appositamente dedicata (“ la cripta del mostro” ) provocano una sensazione di abiezione e un senso di panico, come propedeutici per una svolta violenta.
E’ una fortuna che questa storia metaforica ma realmente accaduta nel 1988,al tramonto dell’era reaganiana, sia stata girata da un autore sensibile e robusto come Bennet Miller che ha evitato le trappole del genere e ha soprattutto indagato nella psiche dei tre uomini, suggerendo genialmente e con estrema sensibilità i risvolti e i numerosi sottotesti,
Perfetti i protagonisti, specie l’irriconoscibile Steve Carrel, ma anche Ruffalo, Tatum e il cameo di Vanessa Redgrave.
data di pubblicazione 16/03/2015
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da Felice Antignani | Mar 13, 2015
Honk Hong, la centrale nucleare di Chai Wan subisce un attacco hacker (a carico dei sistemi di raffreddamento delle barre) che provoca l’esplosione di un reattore. Poco dopo, a Chicago, la Borsa subisce l’aggressione informatica dello stesso hacker, che fa schizzare alle stelle il prezzo della soia. La reazione delle Autorità è immediata. L’esercito cinese e l’F.B.I. decidono di unire le proprie forze per stanare il blackhat, e cioè l’hacker malintenzionato, creando una task force che si avvale della collaborazione di un ex pirata cibernetico statunitense, Nicholas “Nick” Hathaway, detenuto per una lunga serie di crimini informatici. Inizia così una serrata caccia all’uomo che porterà i protagonisti dagli Usa in Cina, Malesia ed Indonesia.
Michael Mann torna dopo sei anni d’assenza (Nemico Pubblico, 2009) e lo fa in maniera prepotente, firmando un thriller cibernetico di pregevole fattura. La storia è intensa, nonostante alcuni (voluti) buchi di sceneggiatura che non pregiudicano la narrazione, anzi, la esaltano, contribuendo ad accrescere l’interesse dello spettatore. Il ritmo è alto, la musica accompagna con maestria le sequenze più emozionanti (che sono copiose) e dei cali d’attenzione non si vede nemmeno l’ombra.
Fedele alla propria tradizione cinematografica, Mann mescola l’azione col sentimento, fonde i colpi d’arma da fuoco e la violenza al ritratto psicologico dei protagonisti, profondo e disilluso. Nick non è una brava persona (e ne è perfettamente consapevole), ciononostante non rinuncia a difendere o vendicare i propri affetti. Blackhat è quindi un film di genere, pregno però di elementi d’autore: il pessimismo e la malinconia sono tangibili, come tangibili sono le paure post 11 settembre, ancora radicate nella coscienza statunitense. I riferimenti a Collateral e Miami Vice sono lampanti, mentre la figura di Nick sembra ricalcare quella di Frank, protagonista di Strade Violente.
Blackhat non è per tutti: rigoroso e iper-realista nel ricostruire le procedure informatiche, nonché complesso e dettagliato nei dialoghi e nei confronti umani. Tante le scene che sono un piacere per gli occhi: le panoramiche delle metropoli, le inquadrature dall’alto, in aereo o in elicottero, la rappresentazione del mondo cibernetico – tra cavi, processori e strumenti vari- come un mondo a sé stante, che vive delle proprie regole, nonché la straordinaria sequenza del conflitto a fuoco nel tunnel e tra i container (dove Mann fa uso del digitale in maniera assolutamente innovativa).
Da non perdere. Chapeau.
data di pubblicazione 13/03/2015
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da Antonio Iraci | Mar 12, 2015
(Teatro Due – Roma, 10/14 marzo 2015)
A vussìa cuntamu stu cuntu. Con questo “incipit” i due protagonisti ci raccontano una storia popolare siciliana nella quale non possono mancare gli ingredienti di base: storia, leggenda, tragedia, farsa.
Ma chi può rappresentare al meglio tutto questo se non la marionetta? I pupi nel gergo siculo. Ed ecco qui rappresentata la storia (u cuntu), tratta da un romanzo di Andrea Camilleri e basata su un episodio storico del 1718 quando, a seguito di una rivolta popolare contro la guarnigione sabauda al potere, Zosimo, contadino istruito, diventerà il Re di Girgenti, anche se per poco.
Domata la rivolta verrà infatti condannato a morte, ma dal patibolo il suo spirito potrà finalmente volare libero su un aquilone e da quel punto di osservazione, sempre più alto nel cielo, potrà osservare le miserie del mondo, ma anche l’immensità dell’universo.
Sorprendenti le interpretazioni di Massimo Schuster, pluripremiato attore e regista lodigiano che ha fondato nel 1975 il Théâtre de l’Arc-en-Terre e del catanese Fabio Monti, direttore artistico e fondatore della Compagnia EmmeA’ Teatro, che danno voce alle varie marionette in un serrato e ben espressivo dialetto siculo, diventando loro al tempo stesso marionette con una mimica drammaturgica degna dei migliori cantastorie siciliani di un tempo.
Di conseguenza, non è tanto la vicenda narrata che tiene tutti con il fiato sospeso, quanto l’intensità dei suoni degli strumenti utilizzati, ora prorompenti ora appena percettibili, che fanno da accompagno a quella specifica musicalità del dialetto utilizzato che, grazie al buon Camilleri, è entrato oramai a far parte del lessico familiare italiano.
data di pubblicazione 12/03/2015
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da Alessandro Pesce | Mar 9, 2015
L’eccentrico collezionista d’arte Lord Charlie Mortdecai ha un debito di 8 milioni di sterline con il governo inglese e allora decide di accettare l’incarico di recuperare un dipinto, rubato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, che sarebbe la chiave del segreto dell’oro del Terzo Reich. Se riuscisse nell’intento potrebbe pagare il debito e non sarebbe costretto a vendere o affittare ai turisti la sua sontuosa residenza, prospettiva che lo terrorizza.
Adattamento della prima avventura del personaggio letterario creato da Kyril Bongfiglioli, la tipologia di narrazione prelude a mio avviso a una serialità anche perché le caratteristiche dei personaggi sono assai felici: il protagonista con le sue manie estetiche e la passione per i propri baffi, la fedeltà granitica della coppia che resiste ad ogni attacco, la straordinaria guardia del corpo, deus ex machina in molti frangenti, con l’unico punto debole della propria erotomania e infine il bizzarro ispettore di Scotland Yard perennemente innamorato di Lady Johanna.
Il regista David Koepp che cambia stile a ogni film, qui giustamente s’è buttato sul fumetto tecnologico rispettando però un’aura postmoderna che regala fascino all’ambientazione
L’insieme è molto brillante, con qualche calo di mordente dovuto più che altro all’eccessiva lunghezza del plot.
Depp ovviamente è a suo agio in questo ennesimo personaggio- “maschera” in cui si sta specializzando; piuttosto scipiti invece Ewan Mc Gregor e la Paltrow, molto efficaci i personaggi di contorno.
data di pubblicazione 09/03/2015
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da Maria Letizia Panerai | Mar 8, 2015
Il film prende le mosse dalla pièce teatrale delle stesso Guillaume Gallienne, attore, sceneggiatore e regista, dal titolo molto esplicativo: Les Garcons et Guillaume, à Table. Il testo è strettamente autobiografico e racconta, anche sul grande schermo, del particolare rapporto di Guillaume con la madre, ma soprattutto dell’incredibile pregiudizio dei suoi familiari, che sin da quando era piccolo lo etichettarono come omosessuale solo perché i suoi comportamenti erano dissimili dalla marcata prepotenza virile dei fratelli e del padre. Cresce dunque da “diverso”, rifugiandosi in un mondo immaginario frequentato da principesse, mascherandosi sovente in abiti femminili, ma soprattutto imitando sua madre, donna autoritaria che egli ama sopra ogni cosa, sino a confondersi con essa, nella voce e nei gesti.
A questa splendida ed intelligente commedia, in cui si ride di gusto non senza un velo di melanconia, abbiniamo una tipica ricetta francese che ben si sposa con l’ambientazione del film: i bignè.
INGREDIENTI: 125 gr. di acqua e 125 gr. di latte – 100 gr. di burro – 1 pizzico di sale – 150 gr. di farina – 4 uova.
PROCEDIMENTO: Per prima cosa setacciate la farina e conservatela da parte, quindi accendete il forno a 160°. In un pentolino mettete il composto metà latte metà acqua, assieme al burro e il sale; appena raggiunto il bollore togliete dal fuoco e gettateci dentro tutta insieme la farina (senza avere paura di cerare grumi). Mescolate tutto bene in modo da ottenere una pasta compatta e rimettete sul fuoco, moderato, continuando a mescolare per evitare di farla attaccare o bruciare.
Fate cuocere per 2-3 minuti circa sempre mescolando con cura, in modo che la farina cuocia e soprattutto che l’umidità si disperda, sino a quando l’impasto si staccherà dalle pareti formando una palla. Quando l’impasto tenderà a compattarsi in una palla unica, dunque, è il momento di spegnere e di far freddare. Appena l’impasto si sarà freddato, cominciate ad aggiungere le uova, una alla volta: verificate che ogni uovo sia ben amalgamato prima di aggiungere il successivo.
Una volta pronta la pasta prelevatene piccole porzioni e modellatele con l’aiuto di due cucchiaini, quindi adagiatele sulla placca del forno foderata di carta da forno (a seconda della grandezza del cucchiaio otterrete dei mignon o dei bignè più grandi). Infornate e sorvegliate la cottura: a seconda del vostro forno e della grandezza dei bignè vi serviranno dai 15 ai 25 minuti circa.
È importante che il calore del forno non sia eccessivo per permettere alla pasta di crescere e di gonfiarsi durante la cottura: l’interno dovrà risultare cavo per fare spazio alla farcitura e l’esterno fragrante. Una volta fuori dal forno fate raffreddare i vostri bignè su di una gratella e aspettate che siano completamente freddi prima di farcirli a piacere.
Essendo una ricetta priva di zucchero, vi permetterà una farciture sia dolce che salata; è importante la grandezza dei bignè perché, in caso di mignon, sono perfetti come aperitivo se farciti con formaggio molle lavorato con altri ingredienti (come tonno, patè etc.).
da Maria Letizia Panerai | Mar 7, 2015
Profondo Rosso nel 2015 compie 40 anni ed è il film che, dopo L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, consacrò Dario Argento come uno tra i grandi autori di Thriller/Horror. La pellicola vanta gli effetti speciali di Carlo Rambaldi oltre alla colonna sonora del gruppo dei Goblin, allora sconosciuto, divenuta poi famosissima; altre composizioni sono invece firmate dal pianista jazz Giorgio Gaslini. Il titolo evoca il tanto sangue che tinge di scarlatto quattro famose scene, estremamente cruente, di delitti. Il serial killer generalmente agisce dopo aver sentito una nenia per bambini, che minacciosa preannuncia il suo arrivo allo spettatore: chi non la ricorda senza provare un brivido lungo la schiena? Chi non ricorda la Villa abbandonata dove il protagonista scopre sotto l’intonaco il grafito raffigurante un bambino con un lungo coltello insanguinato in mano ed un uomo con il petto cosparso di sangue, con sullo sfondo un albero di Natale? E cosa dire del quadro che scompare dal corridoio dove si consuma il primo delitto?
Per chi non lo avesse ancora visto, è decisamente un film da non perdere, ed il rosso dominante ci evoca una ricetta che con questo colore ha a che fare: i bocconcini di pollo con i peperoni rossi!
INGREDIENTI: 1 petto di pollo a bocconcini – 1 grosso peperone rosso – mix di erbe da arrosti – 1 manciata di pinoli – ½ bicchiere di vino bianco – olio d’oliva q.b. – 2 cucchiaini di concentrato di pomodoro allungato con acqua calda – sale e pepe q.b..
PROCEDIMENTO: In una padella antiaderente dai bordi alti fate saltare i bocconcini di pollo in olio, aggiustando di sale e pepe; aggiungete il mix di erbette secche da arrosti e tirate il tutto con mezzo bicchiere di vino bianco.
Una volta evaporato il vino, abbassate la fiamma e togliete dalla pentola i pezzetti di pollo; aggiungete al fondo di cottura che rimane nella padella il peperone, fatto in pezzi non troppo grandi, aggiustate con un po’ di sale e fatelo cuocere a fuoco moderato senza coperchio girando di sovente per evitare che la pelle del perone si stacchi. Raggiunta una media cottura, aggiungete nuovamente il pollo nella padella con i pezzi di peperone ed irrorare il tutto con due cucchiaini di concentrato di pomodoro allungato in acqua calda, abbassate fiamma e coprite. Cuocere per circa 20 minuti; cinque minuti prima di spegnere il fuoco, buttate nel pollo la manciata di pinoli e girate. Servite caldo accompagnandolo con tanto pane per fare una gustosa scarpetta!
da Felice Antignani | Mar 7, 2015
Anno 2044. La Terra è ormai prevalentemente desertificata e l’umanità ridotta a poco più di venti milioni di individui, a causa di pericolose tempeste solari. Le nubi sono create artificialmente allo scopo di proteggere la popolazione dai raggi solari, la tecnologia ha subito una sensibile involuzione e gli esseri umani vivono in (apparente) simbiosi con i Pilgrim, automi creati dalla multinazionale R.O.C. per servire l’uomo nelle attività all’aperto. Essi rispondono a due protocolli: non posso nuocere ad alcuna forma vivente e non possono modificare se stessi o altri robot. Il perito assicurativo della R.O.C., Jacq Vacuam, indaga su presunti casi di malfunzionamento dei Pilgrim e si imbatte in una realtà che va oltre la propria immaginazione: la violazione del secondo protocollo.
Secondo lungometraggio – dopo Hierro – dello spagnolo Gabe Ibañez, Autòmata è un thriller distopico e fantascientifico che affascina per contenuto, nonostante duri un po’ troppo, abbia un ritmo altalenante e la sceneggiatura presenti forzature nella parte centrale della narrazione. Le sequenze alla “discarica” – un’immensa baraccopoli separata dal centro urbano mediante un altissimo muro di cemento – sono visionarie, tra la rappresentazione di robot mutilati e automi dediti alla prostituzione o alla cartomanzia. Particolarmente interessante è l’ossimoro tecnologico tra gli androidi, provvisti di un’intelligenza artificiale dalle potenzialità illimitate, e gli strumenti utilizzati dagli uomini, schermi a tubo catodico, stampanti ad aghi e cercapersone (anziché cellulari). Capaci di provare emozioni e, addirittura, di creare la vita, gli automi rappresentano il futuro della Terra (Per morire bisogna essere prima vivi, recita uno di essi), mentre l’uomo (definito una scimmia violenta) è destinato all’estinzione.
Inevitabili sono i rimandi a Blade Runner, dall’autocoscienza dei robot alla pioggia radioattiva ed ai giganteschi ologrammi che si muovono tra gli edifici fatiscenti. Convincente la prova di Banderas, uscito (finalmente!) dal personaggio degli spot di un noto biscottificio italiano. Buona la fotografia grigiastra, perfettamente in sintonia con la realtà rappresentata, e davvero giusta la scelta di non ricorrere al digitale per la raffigurazione degli automi: il senso di umanità che hanno deriva, in parte, anche da ciò.
Autòmata è nel complesso un film da apprezzare, anche alla luce del basso budget impiegato (circa quindici milioni di Euro) per realizzarlo. Il set è, in buona parte, quello de I Mercenari 2, qui utilizzato per finalità (fortunatamente) più nobili.
data di pubblicazione 07/03/2015
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