LATIN LOVER di Cristina Comencini, 2015

LATIN LOVER di Cristina Comencini, 2015

C’è tanto cinema italiano nell’ultimo film di Cristina Comencini, con vere e proprie ricostruzioni di scene celebri tratte dai film di Scola, De Sica, Monicelli, Germi, Risi, Leone e Fellini. La regista e sceneggiatrice, oltre che apprezzata scrittrice, accorcia le distanze del cinema nostrano odierno rispetto al boom degli anni ‘60 e ’70,grazie a questa pellicola corale godibile, ironica e ben calibrata.

L’attore di cinema Saverio Crispo (Francesco Scianna in versione “sciupafemmine”, molto lontano dai suoi esordi sempre con la Comencini ne Il più bel giorno della mia vita), viene celebrato nel suo paese natale a dieci anni dalla morte, con una cerimonia pubblica con tanto di targa commemorativa; partecipano all’evento le due mogli “ufficiali”, e quattro delle cinque (forse sei…) figlie, alcune delle quali nate fuori dal matrimonio, ma tutte con una caratteristica comune: si chiamano con nomi che iniziano con la “S” di Saverio, come fosse un marchio di fabbrica.

Nonostante le innumerevoli avventure amorose, Saverio è stato un uomo adorato dalle donne che, anche dopo innumerevoli tradimenti, ci tengono ancora oggi ad essere ricordate come parte integrante della sua vita; vero e proprio seduttore, uomo latino dal temperamento romantico dotato di fascino e galanteria, si è sempre atteggiato nella vita privata a specchio della sua carriera di attore. Le cinque figlie, di nazionalità italiana, francese, spagnola, svedese e americana, sono infatti testimonianza della sua carriera internazionale: oggi, tuttavia, da donne oramai adulte, alcune delle quali con significativi problemi di autostima, si ritrovano tutte insieme a celebrare “quell’ombra” proiettata in luogo di un’evanescente figura paterna troppo spesso assente con ognuna di loro.

L’intero cast, quasi completamente al femminile, è di tutto rispetto e tra le interpretazioni spicca l’ultima di Virna Lisi alla quale Latin lover è dedicato. Ottima la coppia Finocchiaro-Marcorè. Divertente e originale l’idea delle incursioni dentro i film più famosi del nostro panorama nazionale. Buono il ritmo da ritrovata commedia all’italiana, con non poche divertenti sorprese, alcune delle quali quasi impensabili! Da vedere.

data di pubblicazione di 29/03/2015


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LA FAMIGLIA BÉLIER di Éric Lartigau, 2015

LA FAMIGLIA BÉLIER di Éric Lartigau, 2015

Paula Bélier (Louane Emera). Bélier, come “montone”. Sedici anni. Il corpo che cambia, il cuore che inizia a battere tra i banchi di scuola, la fisiologica contrapposizione generazionale con i propri genitori, il distacco dal nido familiare come necessario anello di congiunzione tra l’adolescenza e l’età adulta. Fin qui nulla di nuovo. Solo che Paula è l’unica nella sua famiglia in grado di sentire e di parlare. Comunica con la mamma (Karin Viard, semplicemente strepitosa), il papà (François Damiens) e il fratellino (Luca Gelberg) attraverso il linguaggio dei segni, rendendosi generoso e impeccabile ponte tra il silenzio che avvolge la sua casa e il frastuono che si agita fuori da quelle mura. Un’armonia in cui le note e le pause sembrano integrarsi su uno spartito dal solido equilibrio, fino a quando il destino, amabilmente crudele, non decide di imporre un nuovo ritmo e una nuova melodia nella fattoria della famiglia Bélier. Paula ha una pepita in gola, che il suo insegnante di canto (Éric Elmosnino) ha tutta l’intenzione di lasciar brillare alla luce del sole. Perché chi ha ricevuto in dono dei talenti non può permettersi il lusso di non investirli nella ricerca di un sogno. Anche qualora quel sogno richieda di abbandonare la bucolica campagna per la caotica città. Anche qualora quel sogno dovesse rendere ancor più doloroso il fisiologico distacco.

Sarebbe riduttivo leggere La famiglia Bélier come un film sulla diversità o come una più ampia riflessione sulle tante vie attraverso cui è possibile comunicare, se solo si trovi il coraggio di guardare (e di sentire) oltre le etichette e gli schemi. Si tratta piuttosto di un delicato componimento poetico, fatto di punti di vista, apparentemente antitetici, che si alternano, si avvicinano, si sfiorano e infine si fondono pur restando distinti, come quando, nella scena del duetto e in quella dell’audizione, lo spettatore “sente” di essere una nota e, al tempo stesso, una pausa, parte integrante dell’affascinante spartito intitolato “famiglia Bélier”.

Risulta coerentemente inserita nei tempi e nello spirito del racconto anche la prospettiva politico-sociale, affidata alla candidatura di papà Bélier a Sindaco del suo paese. Il manifesto con la foto di un sordo e lo slogan “Io vi ascolto”, insieme alla (a tratti esilarante) campagna elettorale portata avanti con entusiastica e contagiosa convinzione, stigmatizzano, senza ridondante retorica, quel sordomutismo di una classe politica che, sempre più spesso, risuona in maniera assordante nei tradizionali modelli della democrazia occidentale.

Convincente la prova della protagonista Louane Emera, classe 1996, la quale passa con ammirevole disinvoltura dallo psichedelico luccichio del palcoscenico di “The Voice” alle luci caldamente suffuse di una commedia che, sia pur cedendo a tratti alle lusinghe dello stereotipo d’effetto (la corsa dell’ultimo minuto e all’ultimo respiro), è in grado di coinvolgere, divertire, stupire e commuovere.

 

data di pubblicazione 26/03/2015


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CRESCERANNO I CARCIOFI A MIMONGO di Fulvio Ottaviano, 1996

CRESCERANNO I CARCIOFI A MIMONGO di Fulvio Ottaviano, 1996

Film semplice e senza pretese, potremmo dire girato quasi in maniera dilettantesca, che affronta il difficile tema della disoccupazione giovanile, il tutto svolto con una velata malinconia dalla quale però, a tratti, emerge una inaspettata vitalità.

Sergio (Daniele Liotti) si è laureato in agraria con una tesi sulla coltivazione dei carciofi. Vani sono i suoi tentativi di trovare lavoro mentre Enzo (Valerio Mastandrea), con il quale divide casa, non pensa altro che a spassarsela con le donne.

Un giorno viene a sapere che Rita (Francesca Schiavo), la sua ex ragazza e della quale è ancora innamorato, sta per sposarsi. Imprevedibilmente lei stessa propone a Sergio di passare con lui la notte prima delle nozze per festeggiare l’addio al nubilato.

Ma ci aspetta un finale a sorpresa: Rita non si sposerà più ed insieme a Sergio andranno in Africa, a Mimongo, ad avviare una coltivazione di carciofi.

Il film ci suggerisce questa ricetta molto semplice: tortino con carciofi ed alici.

INGREDIENTI: 8 carciofi – 1kg di alici fresche ben pulite dalle lische – 400 grammi di formaggio fresco tipo primo sale – sale e pepe q.b. – pan grattato ed olio d’oliva.

PROCEDIMENTO: Pulire i carciofi e tagliarli in fettine molto sottili. Sistemare le alici già ben pulite e tagliare il formaggio a fettine. Oleare una teglia e cospargerla con il pan grattato, quindi sistemare un primo strato di carciofi, poi uno strato di alici e poi di fettine di formaggio. Aggiungere un poco di sale, pepe ed olio d’oliva, poi rifare l’altro strato sino a chiudere con le fettine di formaggio.

Il tortino va poi coperto con un foglio di alluminio ed infornato per circa un’ora alla temperatura di 180°. Va servito tiepido.

CARMEN di Enzo Moscato, regia di Mario Martone

CARMEN di Enzo Moscato, regia di Mario Martone

(Teatro Argentina – Roma, 18 marzo 2015/19 aprile 2015)

Al Teatro Argentina, si proprio al Teatro Argentina e non al Teatro dell’Opera o al Teatro La Scala di Milano, è in scena Carmen. L’opera secolare e indimenticabile di Bizet assume una veste completamente inedita.  Anzitutto, al posto dell’orchestra tradizionale, tipica di ogni opera lirica che si rispetti, prende posto nel golfo mistico la poliedrica Orchestra di Piazza Vittorio che assume nella narrazione diretta da Mario Martone un ruolo fondamentale grazie all’espressività e la poliedricità dei suoi componenti. Subito dopo il golfo mistico dei musicisti – che mai come in questa occasione diviene simbolo del Golfo di Napoli come crocevia di culture, volti, colori e artisti provenienti da tutto il mondo – si sviluppa la scena, anch’essa inconfondibilmente rievocativa dei vicoli partenopei nonché dei paesaggi realizzati dagli artigiani di San Gregorio Armeno. Lo spettatore si imbatte nella Carmen gitana (magistralmente interpretata da Iaia Forte) alla quale fa da contraltare il “soldatino forestiero” del Nord Italia (Roberto De Francesco). La storia è tremendamente attuale e per nulla lontana dai tristi fatti di cronaca nera che vedono sempre troppo spesso le donne vittime dei loro compagni. Mario Martone e Enzo Moscato, con la complicità dei colori, dei suoni e delle voci dei musicisti dell’Orchestra di Piazza Vittorio rivoluzionano l’opera lirica di Bizet, che rimane appannata sullo sfondo. Le musiche riscritte per l’occasione, e solo in parte ri-arrangiate ispirandosi al pentagramma lirico, sono le vere protagoniste del ritmo della storia portata in scena e creano un connubio inscindibile con i colori sfavillanti e luccicanti (delle lampadine, degli abiti di scena) contrapponendosi alla drammaticità della storia e alla tragedia del femminicidio. Questo, infatti, si consuma durante il chiasso e le risate di una processione guidata dalla torre decisamente kitsch, dotata di Madonnina illuminata, dalla quale un cantante neomelodico e un cantante arabo (forse tunisino o egiziano) – anch’esso decisamente neomelodico – intrattengono la folla dei “devoti” napoletani. Il tema della malavita, della disperazione, della “stupidità” dell’amore che supera il limite degenerando in gesti tragici, della rassegnazione di chi è nato e cresciuto nella Napoli arida dei sobborghi e, solo per questa circostanza storico-temporale-geografica, non fa nulla per provare a migliorare, a ribellarsi ad essere migliore, sono ben sintetizzati nella rappresentazione. L’Opera, però, prende inoltre le distanze dai Libretti di Bizet perché la Carmen di Martone non muore, non tace bensì, per mano del folle amante Josè, viene soltanto resa cieca. E così Carmen, seppur privata dei suoi luminosi occhi azzurri, non rimane al buio, non rimane la silente vittima del suo amante-carnefice. Carmen vive ed con le sue parole, le sue denunce, continua e continuerà a dar voce al suo pensiero che è sempre stato profondo a dispetto della sua immagine superficiale di prostituta. Carmen dunque come donna viva e pensante, forte, diviene il messaggio di speranza e di lotta avverso i soprusi e le violenze contro le donne e il femminicidio. Nella rappresentazione, purtroppo, non convince l’interpretazione del personaggio di Josè, un po’ giù di tono, spento, che non corrisponde al Josè mosso dalla cieca passione omicida per la sua Carmen. L’Opera realizzata dal talento di Martone e Moscato catalizza sicuramente l’attenzione per tutti i 75 minuti ma, forse, il merito va principalmente alla bellezza e al ritmo delle composizioni musicali (accompagnate da una valida Iaia Forte in veste di cantante) che rievocano non solo atmosfere gitane ma anche arabeggianti quasi a ricordare proprio quelle Terre in cui ancora troppo spesso alla donna è negata voce, è negato spazio, nella famiglia come nella società, in nome di un finto ed ottuso rispetto.

data di pubblicazione 25/03/2015


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# DELL’ALLUVIONE scritto, diretto e interpretato da Elena Guerrini.

# DELL’ALLUVIONE scritto, diretto e interpretato da Elena Guerrini.

 (Teatro Due Roma,  20 – 22 marzo 2015)

Nel novembre del 2012 il fiume Albenga esonda travolgendo uomini e cose.

Il fango entra dovunque, nelle case e nell’animo della gente e si porta via tutto.

La coscienza di molti è invasa dai detriti, si attendono i soccorsi per un tempo sospeso lungo come tutta una vita, anch’essa spazzata via. Abbiamo una alluvione.

Solo qualcuno galleggia senza sporcarsi: sono i politici che detengono il potere e che già pensano, mentre il fiume sommerge il paese, a tutto quello che ne verrà in termini di ricostruzione e di soldi da intascare.

L’attrice, in questo serrato monologo tra i pochi oggetti sparpagliati, sopravvissuti al disastro, trova abilmente il pretesto per denunciare che qui in Italia non funziona niente e, mentre la gente è imbottita di programmi spazzatura, i teatri chiudono e si muore di inedia: solo una vera rivoluzione interiore, più che sociale, ci potrà salvare da questa dilagante indifferenza a tutto.

Buona l’interpretazione di Elena Guerrini, alla quale ha fatto seguito un serrato dibattito con il pubblico presente sulla disastrosa situazione dei teatri italiani; l’attrice, che è anche regista dello spettacolo, ha lavorato per molti anni in teatro con la compagnia di Pippo Delbono e nel cinema affiancando registi quali Pupi Avati, Pappi Corsicato, Giuseppe Bertolucci.

Da alcuni anni organizza laboratori teatrali portando avanti un discorso di impegno politico ed ambientale.

 

data di pubblicazione 23/03/2015


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NESSUNO SI SALVA DA SOLO di Sergio Castellitto, 2015

NESSUNO SI SALVA DA SOLO di Sergio Castellitto, 2015

Tesoro ma non hai cenato?” … “si ma ora ho fame!”. Con questo scambio finale di battute tra madre e figlia (Anna Galiena e Jasmine Trinca) volgono al termine gli ultimi minuti del nuovo film diretto da Sergio Castellitto che si svolge nel tempo di una serata a cena fuori tra una coppia in crisi. Nessuno si salva da solo riporta sul grande schermo un tema caro ai registi italiani degli ultimi anni, ovvero quello delle nuove famiglie dei trentenni contemporanei: coppie sempre troppo spesso segnate dallo scontro tra passione e precarietà – d’animo e lavorativa – che finisce con il rendere il nucleo familiare sempre più fragile e utopistico. Gaetano e Delia (i 2 protagonisti interpretati da Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca) appartengono a due realtà familiari socialmente diverse eppure uguali: nell’infanzia e nell’adolescenza di entrambi ha inciso il peso di figure genitoriali che sotto profili differenti sono state tradizionali e al contempo anomale e che, in modi diversi, li hanno segnati profondamente. E proprio questo è il primo messaggio del film: la famiglia ci segna. Se un genitore o entrambi, anche in buona fede o semplicemente per distrazione, ci provocheranno un trauma ecco che quel gesto, quell’episodio, il clima domestico ci segnerà per sempre e segnerà quello che proveremo a costruire come compagno/a, come marito/moglie e come genitore. Accanto al “giuoco delle parti” dei personaggi delle famiglie dei due protagonisti, nella narrazione della loro storia assume un peso specifico l’elemento del cibo – ma per fortuna con sfumature decisamente soft rispetto a quelle dell’ultimo lavoro di Saverio Costanzo, Hungry Hearts -: i sintomi di un’intolleranza alimentare sono l’occasione che fa incontrare il “tamarro” Gaetano con la nutrizionista Delia; i di lei problemi con il cibo durante il liceo – scaturiti dalla presenza troppo sexy, femminile e ingombrante della mamma (un’impeccabile Anna Galiena nel ruolo di madre, nonna e suocera). E, prima di tutto, è proprio una cena al ristorante – apparentemente finalizzata all’organizzazione delle prime vacanze estive da figli di genitori separati dei piccoli Cosimo e Nicola – a dare inizio alla narrazione della loro storia d’amore. Che la sceneggiatura di Margaret Mazzantini proiettata sul grande schermo grazie all’occhio sensibile di Sergio Castellitto, che si destreggia come piace e lui tra continui flash back, avrebbe colpito lo spettatore e che Nessuno si salva da solo non potesse lasciar indifferenti era ovvio. Tuttavia, questa volta la storia non convince fino in fondo: Gaetano non persuade come grande innamorato di Delia, considerato che cade nel banale clichè tradendola con la biondina svampita, sciocca e sbiadita. Così come non convince l’interpretazione di Scamarcio – rigido nella sua immagine a volte un po’ troppo piena di sé – e di Jasmine Trinca (sicuramente 10 e lode per i primi piani dei suoi occhi che riempiono i silenzi del film) la quale affettata in una recitazione talvolta troppo di maniera finisce con il mangiarsi le parole fino a non rendere nell’unico momento di sincerità in cui Delia – rigida, dura e bugiarda anche con se stessa – scoppia a piangere con rimmel colato. L’interpretazione dei due attori non tocca tutte le corde giuste e non arriva fin dove Castellitto è capace di arrivare (come fece, ad esempio, con Penelope Cruz in Non ti muovere). Un po’ frettoloso il ruolo del deus ex machina affidato ai personaggi di Roberto Vecchioni accompagnato dalla splendida e magnetica Angela Molina. Durante l’intera cena la coppia di mezza età, appassionata, sorridente e complice, fa da contraltare alla tensione, alle accuse, agli insulti con tanto di lanci di gelato in faccia della giovane coppia neo separata. E proprio l’uscita dal ristorante insieme ai due sconosciuti e i pochi tratti di strada percorsi con loro ascoltando il verbo filosofeggiante di Vecchioni diventano il tavolo in cui si rimescolano le carte della partita di cuore e sentimenti tra Gaetano e Delia. Alle 4 del mattino Gaetano accompagna a casa Delia, la bacia sulla guancia e ne va. Ed è così che a Delia, sotto le note e la voce toccanti Lucio Dalla, viene improvvisamente una gran fame: cibo e amore, cibo e passione. Perché il vero amore non fa venir solo le sdoganate “farfalle nello stomaco”, ma spesso quando lo incontri, o quando lo ritrovi, viene un sanissimo e gustosissimo appetito. E la poesia di Lucio Dalla di quell’“appetito” è la colonna sonora per eccellenza.

 

data di pubblicazione 23/03/2015


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VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

Le montagne fredde e innevate dell’Albania. Una bambina rimasta orfana salvata da un uomo in grado di divenire la sua finestra sul mondo e, al tempo stesso, le sbarre che le impediscono di prendersi il mondo pulsante al di fuori di quella finestra. È un misto di Georgie e Lady Oscar la piccola Hana, la quale, crescendo, assume i lineamenti mascolinamente femminili di Alba Rohrwacher e carica sulle sue gracili spalle il peso di quella roccia che a un certo punto “sceglie” di diventare. In una società retta da un modello familiare e sociale integralmente e incondizionatamente patriarcale la donna non può davvero scegliere. Non può bere, non può contraddire, non può fumare, non può essere libera (anche solo di non essere qualcosa di chiaramente definito). L’alternativa è scendere dalle montagne e lasciarsi trascinare via dalle onde del mare, come fa Lila, la sorella di Hana, schivando la pallottola del matrimonio combinato che vorrebbero piantarle nel cuore; oppure restare, come fa Hana, invocando la tutela offerta dal Kanun, legge non scritta eppure in grado di assumere quella forza di indiscussa e indiscutibile inderogabilità che solo le leggi non scritte sono in grado di vedersi riconosciuta senza bisogno di tribunali e di sentenze. Hana giura di restare vergine. Che vuol dire non solo rinunciare alla propria sessualità, ma anche al proprio nome, al proprio corpo, alla propria pelle, al proprio sguardo. Quando entrambi i genitori muoiono, quando sulle montagne la neve inizia a sciogliersi, Hana “sceglie” però di scivolare a valle. Di cercare sua sorella. Di allentare gradualmente la pressione di quella fascia che le comprime il seno. Di specchiarsi nelle acque di una piscina capace di tenere a galla i corpi (e le anime) più diversi. Di sorridere di fronte a quelle parole “mai dette e scritte male” che proiettano la sua vicenda particolare sul più ampio schermo di una, per dir così, “condizione femminile” capace di andare ben oltre i confini segnati dai monti albanesi.
Una storia indubbiamente potente, ispirata al romanzo omonimo di Elvira Dones e che segna l’esordio cinematografico di Lucia Bispuri, tenuta a battesimo dalla buona accoglienza riservatale all’ultimo Festival di Berlino. Sebbene il messaggio e la “morale” si rivelino, almeno a tratti, didascalicamente esibiti, lasciando in troppo evidente superficie l’avvio di una complessa e per nulla scontata metamorfosi, Vergine giurata resta un film armoniosamente composto nella convincente alternanza spazio-temporale che scandisce il racconto, con un’essenzialità dei dialoghi tesa a valorizzare l’eloquenza delle immagini e la dinamica fissità dello sguardo di Alba Rohrwacher, costante e rassicurante certezza del cinema italiano degli ultimi anni (Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia per Hungry Hearts di Saverio Costanzo).

data di pubblicazione 23/03/2015


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NOI E LA GIULIA di Edoardo Leo, 2015

NOI E LA GIULIA di Edoardo Leo, 2015

La storia uscita dalla penna di Marco Bonini e da quella di Edoardo Leo (che poi assume anche il compito di dirigerla) non si caratterizza certo per tratti originali, almeno per come si mostra nella sua struttura essenziale. Tre quarantenni (Luca Argentero, Edoardo Leo e Stefano Fresi), legati dai lacci sempre più soffocanti di famiglie e lavori che li stanno inevitabilmente conducendo sull’orlo del fallimento umano e/o economico, si ritrovano per caso di fronte a un casale dall’affascinante bellezza decadente. Troppo caro per ciascuno di loro, ma alla portata di tutti e tre messi insieme. Spinti da quell’alito di lucida irrazionalità che accarezza chiunque abbia sperimentato nella propria vita il brivido di una “vera scelta”, decidono di mettersi in società, per provare a risorgere insieme da quelle macerie.
Il primo tocco di inconfondibile “italianità” sta nella decisione di aprire un agriturismo, moda e chimera degli ultimi decenni di turismo “fatto in casa”. Il secondo tocco sta nell’incontro scontro con la camorra, con il pizzo e con le mazzette, cifra caratterizzante di un Paese in cui un sogno ha lo stesso prezzo di un televisore al plasma, da acquistare rigorosamente nel “negozio di fiducia” suggerito dai vigili urbani incaricati di rilasciare i permessi necessari per l’apertura.
Una vecchia Giulia, indimenticato simbolo dell’ottimistica Italia del boom economico, con il suo stereo difettoso, diviene la “base” (in senso tanto letterale quanto metaforico) sulla quale i tre sognatori cercheranno di edificare la propria “resistenza”. Tutto ciò supportato dal convincente contributo di Claudio Amendola, nostalgico di falce e martello (in senso tanto letterale quanto metaforico), di Anna Foglietta e di Claudio Buccirosso, i quali sostengono egregiamente l’impegno di una recitazione marcatamente caricaturale, senza (quasi) mai trascendere nella macchietta fine a se stessa.
Di certo non mancano spunti interessanti nella scrittura di un genere, quello della commedia, che sembra attraversare un periodo di autentica stagnazione, ma l’impressione resta quella di un film che non riesce a ingranare la marcia giusta della Giulia, passando da brusche accelerazioni ad altrettanto bruschi rallentamenti e impantanandosi con compiacimento eccessivo nelle pozzanghere di quelle eterne verità che, se troppo chiaramente esplicitate, sconfinano nell’insostenibile evidenza del luogo comune.

data di pubblicazione 22/03/2015


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LA TIGRE E IL DRAGONE di Ang Lee, 2000

LA TIGRE E IL DRAGONE di Ang Lee, 2000

Presentato fuori concorso al 53^ Festival di Cannes, La Tigre e il dragone sbancò i botteghini in Europa e negli Stati Uniti, vincendo anche 4 premi Oscar. E’ uno dei tanti capolavori del pluripremiato Ang Lee (vincitore di altri 2 Oscar per I segreti di Brokeback Muntain, Vita di Pi – Orso d’Oro per Banchetto di Nozze e Ragione e sentimento – Leone d’Oro per I segreti di Brokeback Muntain e Lussuria).

La vicenda è ambientata nella Cina del XIX secolo e racconta le gesta di Li Mu Bai, maestro di arti marziali la cui spada pare sia dotata di poteri magici, e dell’amore che nutre per la bella Yu Shu Lien: la loro sofferta storia incontrerà non poche difficoltà. La vicenda si articola su di una fitta rete di duelli, quasi tutti al femminile, con guerriere che durante i combattimenti effettuano incredibili acrobazie, una specie di eroine con corpi volanti che si arrampicano sulle pareti, danzando con straordinaria bravura sulle coreografie di Yuen Wo Ping, regista e coreografo di arti marziali cinese (già ammirato in Matrix e Kill Bill). A questo film, tutto da godere, elegante e di grande impatto visivo, non potevamo che abbinare una salsa agrodolce a base di mele, che ricorda le tipiche salse orientali, ottima da accostare agli arrosti di maiale o ad un classico arrosto di vitella.

INGREDIENTI: 1 kg di mele renette – 1 bicchiere di acqua –il succo di un limone – 120gr di zucchero semolato bianco – 4 cucchiai da tavola di brandy – 1 pizzico di cannella in polvere. 

PROCEDIMENTO: Sbucciare e tagliare le mele in pezzi e metterle in una pentola antiaderente con l’acqua ed il limone. Far cuocere sino a quando saranno sfatte; frullate con frullatore ad immersione. Rimettete il tutto sul fuoco aggiungendo lo zucchero, il brandy e la cannella; fate sobbollire per qualche minuto. È una purea di mele agrodolce perfetta per accompagnare gli arrosti di maiale o vitella, ma anche per arrosto di tacchino. Potete prepararla prima e scaldarla prima di portarla a tavola in una salsiera.

CARMEN di Enzo Moscato, regia di Mario Martone

OTELLO riscrittura di Luigi Lo Cascio

Mi sbaglierò, ma dev’essere stato durante la tournèè in cui hanno lavorato insieme Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio in Diceria dell’untore, dev’essere scattato un qualcosa in quel periodo, per  far nascere in entrambi l’interesse, la spinta a interrogarsi  sull’origine della follia. su come e perchè un essere umano (o un popolo) possa transitare dalla VITA alla TRAGEDIA quasi senza accorgersene.

La riscrittura dell’Otello in siciliano che Luigi Lo Cascio ha scritto, punta molto su quest’aspetto: le passioni che si trasformano, che possono diventare fanatismo, perché nel deserto della  solitudine umana fa presto a germogliare un seme cattivo. Specialmente una mente primitiva come spesso è la mente maschile, sicuramente com’è quella di OTELLO (inteso come Archetipo, non si tratta di una traduzione pedissequa di Shaekesperare ) con facilità possa diventare vittima  di sentimenti negativi  quali gelosia e possessività,  fino alle estreme conseguenze.

Comincia dalla fine, come in un flashback da incubo, la rievocazione della vicenda, nella suggestiva nebulosa scena, come  nebulosa è  la mente umana. Si vede Jago incatenato che vomita il suo livore; si vede una donna ferita a morte (la toccante Desdemona di Valentina Cenni) che piange la fine di un amore, piuttosto che della vita terrena. Poi subentra una sorta di coreuta, un soldato che con passione (il bravissimo Giovanni Calcagno) fa rivivere le stazioni del nero cammino verso la tragedia. In un gustoso finale (che però spezza la tensione drammatica delle quasi due ore di bellissimo spettacolo) ambientato sulla luna, Otello, come Orlando, cerca Desdemona perché sulla luna ci sono le anime delle donne che abbiamo ammazzato e il soldato che lo accompagna come un novello Astolfo, sigla un finale quasi etico con esortazione alla ragione.

Se Lo Cascio attore è uno Iago forte e inconsueto. Vincenzo Pirrotta è il miglior Otello non accademico che si potesse immaginare; riassume lui stesso la potenza il senso di tutto lo spettacolo, attingendo al suo background di cuntista, alla sua fisicità possente ma anche infantile, alla sua Mitica tragicità.

data di pubblicazione 18/03/2015


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