da Maria Letizia Panerai | Apr 30, 2015
Amelie (un’esordienteAudrey Tatou) è una giovane cameriera che ogni giorno incontra tanta gente, ed ha come peculiarità quella di coltivare dei particolari passatempo: come immergere la mano in un sacco di legumi, spaccare la crosticina di una creme brulée con la punta del cucchiaino o far rimbalzare sassi sull’acqua del Canal Saint Martin! Sino a quando un giorno, esattamente il 31 agosto 1997, mentre assiste in TV al servizio sulla morte di Lady Diana, le cade di mano un tappo di bottiglia che finisce sotto una piastrella, dove Amelie trova una vecchia scatola piena di cianfrusaglie, che per lei rappresenteranno degli indizi per rintracciarne il proprietario. Lo trova, e gli restituisce il contenuto della scatola che…gli cambierà la vita. Da quel momento Amelie decide di far felice il prossimo: alleviare le pene degli altri sarà la sua missione.
Partendo dal sacco di legumi in cui Amelie è solita infilare le mani, associamo a questo film una particolare ricetta a base di ceci (o del legume che più preferite): gli hamburger vegetariani.
INGREDIENTI: 500 gr di ceci (lenticchie o cicerchia) lessati – 2/3 fette di pancarré – 1 scalogno – 2 uova – Sale – 2 cucchiaini di senape – zenzero tritato qb – 1 mazzetto di prezzemolo – olio q.b.- pan grattato q.b..
PROCEDIMENTO: Lessate e scolate i ceci (ma se preferite lenticchie o cicerchia), metteteli nel mixer con le fette di pan carrè spezzettate, lo scalogno a pezzetti, lo zenzero, i due cucchiaini di senape, il prezzemolo e le due uova; frullare fino a ottenere un impasto non perfettamente omogeneo, ma un po’ granuloso. Formare degli hamburger con le mani e impanateli lievemente con del pan grattato, cuoceteli dunque in una padella antiaderente leggermente unta d’olio, fino a che non diventeranno croccanti e dorati, avendo cura nel girarli. Basteranno pochi minuti. Si possono servire, come dei veri hamburger, con pomodori e misticanza per contorno oppure in un panino farcito con un sottile strato di formaggio.
da Accreditati | Apr 26, 2015
Il senegalese Samba Cissè (Omar Sy) vive da dieci anni a Parigi presso uno zio e lavora con lui in un ristorante.
Privo di regolare permesso di soggiorno, viene internato insieme a tanti altri clandestini in un centro di accoglienza situato nei pressi della pista di atterraggio di un aeroporto come a significare, per tutti gli ospiti irregolari e in attesa di giudizio, che in qualsiasi momento lì potrebbe atterrare l’aereo che li riporterà in patria con il foglio di via. Samba dunque convive con la paura che un giorno quello potrebbe essere il suo destino; mentre è in attesa della sentenza che stabilirà se concedergli o meno di rimanere in Francia, viene assistito da una associazione umanitaria che segue gli immigrati nel lungo travaglio giuridico per evitare l’espulsione. Lì conosce Alice (una “leggera” Charlotte Gainsbourg), manager d’azienda in congedo lavorativo a causa di un forte esaurimento nervoso, che frequenta il centro inizialmente con scarsa convinzione e a solo scopo “terapeutico”: tra i due nasce una rispettosa attrazione.
Eric Toledano e Olivier Nakache, registi e sceneggiatori francesi di nuova generazione, a pochi anni dal grande successo di Quasi amici, ci propongono questa nuova commedia dal gusto agro-dolce, molto leggera ma con tocchi di profondo realismo, alternando continuamente il mondo altamente borghese in cui vive Alice e la dura condizione da immigrato clandestino di Samba. Tra gli altri interpreti emerge con grande sorpresa, in un ruolo “insolito”, l’attore Tahar Rahim (Il profeta, Il padre) nella parte di un algerino che si finge brasiliano e si fa chiamare Wilson allo scopo di essere accolto da tutti con maggior accondiscendenza. Il film propone ancora una volta, in una salsa non proprio originale, il tema della difficoltà d’inserimento degli immigrati nel nostro mondo occidentale globalizzato, che dovrebbe essere più accogliente e preparato di un tempo nei confronti di queste persone in cerca di una speranza di vita, ma che poi non lo è. Samba è una favola in bianco e nero, una sorta di “love story” post moderna da prendere così come è, senza grandi pretese, per non rimanerne delusi o con aspettative disattese da grande film. Buona la recitazione, buona l’ambientazione e ottime le musiche; e se tra le scene famose di Quasi amici c’è quella del ballo di Driss sulle note di Boogie Wonderland degli Earth Wind and Fire, in Samba c’è un siparietto di Tahar Rahim tipo “spot della Coca Cola” altrettanto cool e coinvolgente. Insomma, un film che tutto sommato si fa vedere e che ci lascia soddisfatti non ultimo per il finale che, come in tutte le favole che si rispettino, ha ovviamente un prevedibile lieto fine.
data di pubblicazione 26/04/2015
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da Alessandro De Michele | Apr 26, 2015
(Teatro Argentina – Roma, 21/23 aprile 2015)
L’Epos di un popolo è il potente crogiuolo da cui attingiamo i modelli più profondi del nostro funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo: immagini mitiche a cui ritorniamo per riflettere sulla vita e sulle teorie che formuliamo su di essa.
In questo senso la riproposta di uno dei miti fondativi della nostra cultura occidentale, quale l’Eneide virgiliana, mai è sembrata così pertinente ed appropriata ai nostri tempi di disorientamento e perdita.
Storie di guerre e umane tragedie di esuli in fuga, disperati approdi sulle coste di terre della speranza, ci riportano prepotentemente alla tragicità di un presente in cui la sacralità dell’accoglienza riservata agli stranieri non ci garantisce più la benevolenza degli dei né la realizzazione del loro disegni.
Lo spettacolo di Giancarlo Cauteruccio, che dopo trent’anni viene riproposto al Teatro Argentina in una versione riveduta ed asciugata, ci spiazza e ci emoziona non solo per queste contingenti coincidenze sull’attualità, ma per la forza espressiva di un linguaggio che, scavalcando la concezione drammaturgica del racconto di parola, (punto essenziale della ricerca teatrale di quegli anni), affida all’immagine e alla suggestione del suono tutta la potenza evocativa di un territorio poetico fuori dal tempo.
Lo fa con grande effetto, coniugando l’arcaico con la tecnologia virtuale (allora in fase embrionale di sperimentazione) l’elaborazione del suono con il verso poetico. Questa combinazione sapientemente orchestrata contribuisce a fare, dell’esperienza teatrale in atto, un’esperienza squisitamente sensoriale e al tempo stesso profonda in quanto capace di schiudere visioni che fanno della scena il luogo del nostro immaginario più astratto al quale abbandonarsi con il piacere di perdersi.
In linea con questa scelta di concentrazione espressiva che si fa “performance – teatrale -concerto” è l’esecuzione live dei musicisti dei Litfiba, (autori ed esecutori delle splendide musiche) e dello stesso Cauteruccio, che portando al centro della scena il suo corpo “goffo e provato dal tempo”, fa risuonare le parole virgiliane con la potenza della sua voce.
In questo modo il timbro sporco e vibrante di suggestioni arcaiche sembra infatti squarciare le ondeggianti acque virtuali che dal boccascena invadono la platea e ci sommergono con la forza di un rito spettacolare che, giocando sulle sovrapposizioni, sfugge alle convenzionali definizioni.
Non a caso questa emozionale immersione, in un non-racconto teatrale fatto di quadri scenici che, come frammenti riportati alla luce del tempo ci parlano senza una logica continuità, raggiunge la sua massima forza espressiva laddove la forza della parola e del suono si fanno immagine e dove l’immagine evoca reconditi spazi di significato in cui la parola non ha accesso, con esiti di astrazione assolutamente convincenti.
In questo senso appena più dissonante ci è apparsa la performance canora di Ginevra Di Marco, non certo per la qualità della sua esecuzione, ma perché una certa didascalicità del verso lirico della canzone ci riporta su piani più razionalmente accessibili e, per questo, forse meno emozionanti.
È in questa suggestiva combinazione di racconto epico e allucinazione post-moderna, in cui la tecnologia si inserisce come residui diurni nella tessitura di un sogno, che l’Eneide di Krypton ha mantenuto la forza evocativa di una rappresentazione fuori dal tempo, capace di palarci di ciò di cui abbiamo sempre bisogno, illuminandoci sul nostro domani.
Per dirla con un verso di Pound: “Rendi forti i nostri sogni – perché il nostro domani non perda coraggio – a lume spento”
data di pubblicazione 26/04/2015
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Apr 25, 2015
Ancora un altro splendido film di Ang Lee. Tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, Ragione e sentimento vinse il Golden Globe 1995, l’Orso d’oro a Berlino nel 1996 e nello stesso anno Emma Thompson (che ne è anche interprete) l’Oscar per la sceneggiatura non originale; infine, nel 1999, fu inserito dal British Film Institute nella lista dei migliori cento film britannici del XX secolo!
Nel cast, assieme alla Thompson, troviamo Hugh Grant e Kate Winslet giovanissimi, oltre a Alan Rickman e Robert Hardy. Siamo nell’Inghilterra della fine del 700: Henry Dashwood, morendo, lascia tutto al suo figlio maschio di primo letto; la seconda moglie e le figlie Elinor, Marianne e Margaret, sono invece costrette a vivere molto modestamente, senza tuttavia perdere la loro dignità. Le ragazze sono nell’età in cui si vivono le vicende amorose, che non saranno prive di cocenti delusioni: alla fine opereranno delle scelte, più razionali che passionali, ma che nel tempo si riveleranno giuste. Ambientazione da favola: case stupende immerse nella campagna inglese, laghi e fiumi, fiori e costumi, balli nella Londra dell’epoca, tutto perfetto come ogni film di questo meraviglioso regista.
A questo film da rivedere, non possiamo che abbinare una ricetta di biscotti perfetti per l’ora del the: i canestrelli.
INGREDIENTI: – 3 tuorli sodi – 125 gr di farina – 125 gr di fecola di patate – 150 gr di burro – 75 gr di zucchero a velo – 1 baccello di vaniglia o 1 bustina di vanillina – sale q.b..
PROCEDIMENTO: Lessare le uova per 10 minuti dal momento del bollore. Una volta che sono sode e un po’ raffreddate sgusciarle e tagliarle, prelevando solo il tuorlo e schiacciarli in una ciotola con una forchetta. Aggiungere le farine mescolate insieme, il burro a pezzetti ammorbidito, e incominciare a impastare con la punta delle dita. Unire anche lo zucchero a velo, la vanillina (o ancora meglio i semini di un baccello di vaniglia) e un pizzico di sale; lavorare energicamente fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo. All’inizio risulterà un composto slegato e farinoso. Una volta raggiunto il risultato desiderato, formare una palla e lasciarla riposare in frigorifero mezz’ora avvolta nella pellicola per alimenti. Con l’aiuto di un po’ di farina, stendere con il mattarello la pasta allo spessore di un centimetro circa. Con lo stampino a forma di fiore, immerso prima nella farina per non farlo attaccare all’impasto, ritagliare i canestrelli, poi con una cannuccia un po’ grossetta da bibita praticare il buco al centro. Infornare a 180° fisso per circa 20’ sino a quando diventeranno ben dorati. Una volta raffreddati, spolverizzarli con altro zucchero a velo. Ottimi con il the, ma anche con il caffè.
da Antonio Iraci | Apr 25, 2015
Film cult americano che ha come protagonista l’indimenticabile Joan Crawford che per questo lavoro, nei panni di Mildred, ottenne nel 1946 il premio Oscar come migliore attrice.
Mildred vive con il marito Albert (Bruce Bennet) e le sue due figlie Veda (Ann Blyth) e Kay (Jo Ann Marlowe) conducendo una normale e modesta vita da casalinga.
Accortasi che il marito la tradisce con un’altra donna, si separa da lui ed a fatica inizia una nuova vita lavorando intensamente in un ristorante di proprietà di Ida Corwin (Eve Arden) con la quale stringe una profonda amicizia.
Le due donne, oramai socie in affari, decidono di aprire un nuovo ristorante ed in occasione dell’acquisto dei locali Mildred conosce il venditore Monty Beragon (Zachary Scott), ricco possidente di cui si innamora.
Morta la figlia Kay di polmonite, Mildred riversa tutto il proprio affetto su Veda, ragazza viziata ed ingrata che tra l’altro si lascia sedurre, assecondandolo, Monty, il nuovo marito della madre.
Dopo varie ed alterne vicende Veda si sposa, abbandona subito dopo il marito e, allontanata da casa, inizia a lavorare come ballerina in un locale notturno, conducendo una vita dissoluta.
La madre, presa dai rimorsi, le chiede di tornare a stare con lei esponendola quindi nuovamente alle attenzioni da parte del marito.
Per il compleanno di Veda, Monty la invita da sola nella sua casa al mare e quando improvvisamente arriva Mildred trova i due abbracciati, come due amanti.
A questo punto Veda chiede alla madre di divorziare per poter sposare lei stessa Monty, ma al rifiuto da parte di entrambi, frustrata e delusa in un momento di rabbia uccide con una pistola l’uomo.
Mildred in un primo momento si autoaccusa dell’omicidio per salvare la figlia irriconoscente, ma la polizia scopre la verità ed arresta Veda, mentre a Mildred non rimane altro che tornare con il primo marito Albert.
Visto che Mildred era solita preparare torte per i vicini, lei stessa ci suggerisce questa torta di ricotta e pere, semplice ma di grande effetto.
INGREDIENTI: 300 grammi di farina, 150 grammi di burro, 350 grammi di zucchero, 1 bustina di lievito vanigliato per dolci, 1 uovo, 1 tavoletta di cioccolato fondente amaro, 500 grammi di ricotta di pecora, due pere.
PREPARAZIONE: Preparare l’impasto per la base e la copertura della torta, utilizzando solo 150 grammi di zucchero assieme alla farina, il burro e lievito; ripore l’impasto ottenuto per circa mezz’ora in frigorifero avvolto nella pellicola per alimenti. Poi lavorare la crema di ricotta utilizzando i rimanenti 200 grammi di zucchero, mettendo il cioccolato fondente a piccole scaglie, e le due pere tagliate a piccoli cubetti. Quindi foderare la teglia con i due terzi del’impasto, mettere dentro la crema di ricotta, sistemare sopra la pasta rimasta, ben spianata in modo da ottenere una torta perfettamente sigillata.
Fare cuocere in forno a 180° per circa 45 minuti.
da T. Pica | Apr 23, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma, 21 aprile 2015 / 26 aprile 2015)
Si respira un’aria primaverile decisamente british in quel del Teatro dell’Orologio di Roma! Mauro Parrinello, protagonista nel ruolo di George insieme Elisa Benedetta Marinoni (nel ruolo di Flip), ha saputo ricreare, nella veste di regista di Tre Desideri, la tipica atmosfera dei piccoli teatri londinesi. A distanza di quasi quindici anni dall’esordio dell’opera di Ben Moor, i due protagonisti potrebbero tranquillamente essere una coppia dei nostri giorni: e come gran parte delle coppie dei trentenni di mezzo mondo – “mondo” che ricorre all’inizio e alla fine dello spettacolo con l’immagine della Terra vista dal Planetario – anche loro finiscono con lo smarrirsi tra interrogativi sul futuro, sulla perenne “ricerca di altro”, che impediscono loro di vivere serenamente il presente. A far da contraltare a quello che poi è l’amaro, ma indolore, epilogo c’è l’immortale bellezza della note di “Can’t take my eyes off you” – cantata da Frank Sinatra, Gloria Gaynor, così come da Lauryn Hill e Damien Rice è sempre bella – che si diffonde come per magia ogni volta che c’è un “primo appuntamento” o durante una festa di fidanzamento quasi a dar voce alla latente speranza che in quei momenti c’è nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. E quella “voce” fa ripeter al cuore “dai che è lui (o lei) quello (quella) giusto(a) / dai che stavolta me lo sento / si siamo proprio fatti l’uno per l’altra / oddio quando mi piace dai che stavolta davvero guarderò nessun altro (o altra), lo (la) amo….siamo perfetti!” ovvero, riassumendo, la magica atmosfera d’amore del “mantra” “Can’t take my eyes off you, ‘cause you are just too good to be true”. Eppure, dopo aver vissuto con Flip e George la fase del rapporto amoroso assaggia questa cosa è disgustosa (ma quanta verità!) e la fase a cosa stai pensando?, è sufficiente che all’improvviso ciascuno abbia la possibilità di esprimere 3 desideri di realizzazione istantanea per far sì che donne e uomini si perdano dietro futili paure, i soliti egoismi, o le solite banali megalomanie, a scapito del bene comune e, nel caso dei protagonisti George e Flip, a scapito del rapporto di coppia per desiderare “di non averti mai incontrata” e per finire nella fase mucca pazza del loro rapporto. Con la cartina tornasole dei 3 desideri che si dissolvono con la Nuvola si ribadisce come uomo e donna non siano fatti per camminare e invecchiare insieme mostrandosi decisamente repellenti al matrimonio. Sono due particelle di segno opposto che si attraggono intensamente e con pari forza si respingono – alla ricerca di un altro amore perchè ci si illude di meritare sempre qualcosa di grande e migliorare rispetto a quello che si adorava fino a qualche istante prima – fino a dimenticarsi grazie all’immediato incontro (frutto della forza attrattiva che fa avvicinare altri due atomi di segno opposto) con colui/colei che verrà subito dopo. C’è di buono che grazie al self control di Ben Moor tutto sembra apparentemente semplice e senza strascichi dolorosi e se non è detto che anche per i due protagonisti sia davvero così, senza rimpianti e ripensamenti, sicuramente la sua visione aiuta a vivere con la giusta leggerezza i piccoli fallimenti e ad affrontare con onesta franchezza i sentimenti che cambiano e svaniscono. Una rappresentazione davvero valida del testo di Ben Moor e ben articolata anche con le “incursioni” musicali ad hoc dotate – anch’esse – di inconfondibile british humor così come l’espressività, anche fisica, dei due Attori. Un toccasana in questa primavera!
data di pubblicazione 23/04/2015
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Apr 22, 2015
I bambini sanno, ovvero la “seconda volta” di Walter Veltroni che, dopo il successo di Quando c’era Berlinguer, si mette di nuovo dietro la macchina da presa per girare un docufilm che ci riporta non solo all’infanzia, ma che soprattutto ci introduce nel complesso ruolo di genitore. E non è importante esserlo veramente nella vita perché, assistendo alla proiezione di questo film, lo si diventa.
Dopo avere intervistato trecentocinquanta bambini tra gli 8 e i 13 anni, quell’età in cui si diventa ciò che poi si è, dal colloquio con trentanove di loro Veltroni ha voluto in particolare sorprenderci con le loro grandi risposte che fanno sorridere e commuove al contempo: basta ascoltarli, per rimanere colpiti dalla spontaneità e profondità disarmanti con cui comunicano il loro personalissimo modo di sentire il nostro tempo. L’empatia con questi trentanove bambini si instaura anche grazie all’amore del regista per il cinema: traendo ispirazione dal proiezionista Alfredo di Nuovo Cinema Paradiso nella famosa scena dei baci censurati, Veltroni omaggia lo spettatore all’inizio del suo film con il montaggio di diverse scene che ritraggono solo bambini che corrono, tratte da pellicole di Tornatore, Salvatores, i fratelli Taviani e tanti altri. E così, magicamente, ci traghetta nel loro mondo, e i bambini intervistati diventano immediatamente i nostri figli: naturali o adottati, alcuni diversi, altri feriti perché quando hai un dolore impari ad incassare e a non sottovalutare, alcuni ghettizzati nei campi rom o salvati dagli sbarchi a Lampedusa, altri ancora guariti da una brutta malattia che non è come avere la febbre, o semplicemente italiani nati da genitori immigrati. Tutti, però, indistintamente, hanno occhi colmi di speranza e mai di rabbia, alcune volte velati di tristezza, come Marius, ma basta poco perché guizzino come grandi olive nere sotto il sole, qualcuno di loro è preoccupato per il futuro anche se futuro è comunque una bella parola; tuttavia alla domanda sei felice? quasi tutti rispondono senza esitare “sì!”, perché per esserlo basta sognare o perché i bambini, al contrario dei grandi, sanno fare la pace ed inventare le cose.
E se il futuro non sarà bello come loro immaginano, anche noi come questo sorprendente regista vogliamo continuare a crederci e sperare.
Film da non perdere per capire meglio le cose della vita.
data di pubblicazione 22/04/2015
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da Alessandro Pesce | Apr 20, 2015
Il sipario si apre su altri due sipari a righe che danno un effetto optical, come fossero tanti fiammiferi allineati, preparando un’emotiva ipnosi collettiva. Ma perché le prime parole, o fonemi, che ascoltiamo, sono incomprensibili? A che serve parlare se non si capisce, si chiede un’ipotetica narratrice. E perché nel palcoscenico finalmente aperto campeggia un enorme punto interrogativo? Stiamo per ascoltare la fiaba di Andersen La piccola fiammiferaia, la storia della bimba povera che muore di gelo o si sta giocando al gioco del teatro con un’intenzione insieme semplice ma anche squisitamente meta teatrale? Non è la prima volta che Chiara Guidi e la Societas Raffaello Sanzio si avvicina al mondo delle fiabe, in un indimenticabile Buchettino (titolo italiano di Pollicino) di anni fa, il pubblico era ospitato in una stanza buia dove tutti, piccoli e grandi, dovevano coricarsi dentro alcuni lettini da collegio ottocentesco e lì ascoltavano la narratrice che raccontava la fiaba mentre i passi dell’orco e la sua ombra inquietavano il fortunato pubblico di quella esperienza teatrale. Qui all’apparenza è tutto più astratto e meno coinvolgente ma poi quando nell’oscurità si dà inizio al rito dei fiammiferi accesi, tutto si fa incantato e toccante: un gioco che non può fermarsi, perché ad ogni fiammifero acceso corrisponde un’evocazione, un ricordo,e basta una musica, una percezione, un attimo di teatro, insomma, e la magia riprende e anche le favole tristi possono riacquistare il calore della memoria, nessun gelo reale vincerà, la fantasia e il teatro hanno la meglio sulla Morte. Protagoniste di questo incantesimo la maestria di Chiara Guidi e la semplicità della piccola attrice che si fa guidare e grazie a loro per la prima volta La bambina dei fiammiferi non è “una favola che mi fa piangere”, come diceva coi lucciconi agli occhi la mia nipotina quando gliela narravo io.
data di pubblicazione 20/04/2015
Il nostro voto:
da Elena Mascioli | Apr 20, 2015
L’amore e la tenerezza passano attraverso il complemento oggetto di “alcune rose”, l’eredità delle Madri attraverso un dativo di possesso. Mia madre, di Nanni Moretti, è un film che lascia nello spettatore un senso poetico di gratitudine: per un racconto tanto personale che però ha il coraggio e la capacità di non chiudersi e ripiegarsi in una nostalgia retorica e ammiccante, di non spingere l’acceleratore sull’emozione spicciola, ma di raccontare l’inadeguatezza umana di fronte alla vita, al dolore, e anche alla sua messa in scena. Margherita, regista impegnata nelle riprese del film Noi siamo qui, dispensa ai suoi attori, da anni, lo stesso suggerimento: mettiti a lato del tuo personaggio. Ma se lei stessa e gli attori che dirige non sembrano cogliere a pieno il senso del messaggio, a metterlo in pratica è proprio lo stesso Moretti, che si mette a lato del personaggio che qui lo incarna: gli occhi blu e la specificità femminile di Margherita (la Buy), appunto, di cui Nanni diventa il fratello Giovanni. E la scelta è più che felice. Margherita si fa megafono di ciò che Nanni ha da dirci: mi dà fastidio la retorica. Quelle frasi non sono vere e non servono a nessuno. Il regista è uno stronzo a cui permettete di fare di tutto. Ma i messaggi di Nanni passano anche attraverso i dialoghi del film che si sta girando: anche sforzandosi, lei non riuscirà a capire cosa significa per noi questo lavoro, dice Vittorio (Enrico Ianniello) al Barry Haggins interpretato da un magnifico Turturro, che balla (scena memorabile!), si dimena nel suo personaggio, ingabbiato nella finzione del cinema americano che rappresenta e che lo fa urlare: riportatemi nella realtà. Nanni non risparmia le critiche anche a sé stesso, e al cinema che rappresenta, soprattutto per l’incapacità di cogliere e raccontare una realtà che è fatta anche di operai con le sopracciglia depilate. I riflettori, inoltre, sono puntati alla difficoltà umana e personale di conciliare un set di finzione con il dolore dell’esistenza che porta a vedere la madre, interpretata dalla grandissima Giulia Lazzarini, incapace di ritrovare le parole giuste dopo tanto aver aiutato le generazioni in veste di insegnante, a trovare quelle stesse parole sul vocabolario dell’esistenza, passando per il latino. Che fine farà quell’eredità, quella cultura, tutto quel lavoro (e quindi, poi, anche il nostro)? Un meraviglioso finale dà una risposta che non è consolazione, ma scelta di vita. E ci regala emozione vera. Grazie Nanni.
data di pubblicazione 20/04/2015
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da Maria Letizia Panerai | Apr 17, 2015
Dopo Divorzio all’Italiana, Petro Germi ci riporta nell’assolata Sicilia, per ambientare il film Sedotta e abbandonata, storia di un matrimonio riparatore in una famiglia patriarcale di Sciacca (in un’Italia in cui, secondo l’allora vigente codice penale, con il matrimonio si cancellava il reato di violenza carnale), interpretato magistralmente da un cast di attori di primissimo livello, ad iniziare da Saro Urzì nel ruolo di Vincenzo Ascalone (premiato a Cannes come miglior interprete maschile) nella parte del padre della “sedotta”, interpretata da una giovanissima e bravissima Stefania Sandrelli (Agnese), sorella minore di un altrettanto giovanissimo Lando Buzzanca nel ruolo del fragile Antonio. Sarà Agnese ad accendere la miccia dell’intrigata vicenda di onore familiare, commettendo l’errore di cedere alle lusinghe di Peppino (Aldo Puglisi), studente fuori corso in Giurisprudenza di cui è segretamente innamorata e promesso sposo della sorella maggiore Matilde (Paola Biggio), bruttina e poco sensuale che preferirà, sul finale tragi-comico di questo film pieno di esilaranti colpi di scena, farsi suora piuttosto che unirsi in matrimonio con il barone Rizieri (uno strepitoso Leopoldo Trieste), spiantato e senza denti, scelto dal padre “in seconda battuta” per difendere l’onore di tutta la famiglia Ascalone.
A questo film, un vero e proprio cult da rivedere, accostiamo la ricetta di un dolce che ha un tipico ingrediente siciliano: il croccante di pistacchi.
INGREDIENTI: 100 gr di pistacchi sgusciati – 150 gr di zucchero – succo di limone qb – buccia grattugiata di mezzo limone
(N.B. se si vuole una variante al sesamo: 200 gr di zucchero – succo di limone qb – 150 gr di sesamo – buccia grattugiata di mezzo limone).
PROCEDIMENTO: Per il croccante di pistacchi, tritare grossolanamente i pistacchi con il tritatutto o al coltello. Far sciogliere in un padellino antiaderente lo zucchero con qualche goccia di limone finché non incomincia a scurirsi e quindi a caramellare, facendo attenzione che non bruci. A questo punto unire i pistacchi e la buccia del limone, e mescolare fino a ottenere un composto colloso, morbido e brunito. Rovesciare il tutto sopra un tagliere ricoperto con carta da forno e, con estrema cautela, stendere il composto prima con un cucchiaio di legno poi, coprendolo con un altro foglio di carta da forno, appiattirlo con il mattarello fino a ottenere una lastra sottile. Questa operazione dovrà svolgersi in tempi brevi, altrimenti il caramello si solidificherà e non sarà più manipolabile. Aspettare pochi minuti prima di togliere il foglio di carta da forno superiore, quindi tagliare il croccante come volete, anche a losanghe come da manuale, prima che sia completamente indurito. Per il croccante di sesamo, il procedimento è il medesimo, con variante nel quantitativo di zucchero che dovrà esser superiore (200 gr.).
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