I TACCUINI DI MOSELLA FITCH – Capitolo uno di Stefano Massini con Barbara Valmorin  – Teatro delle Donne.

I TACCUINI DI MOSELLA FITCH – Capitolo uno di Stefano Massini con Barbara Valmorin – Teatro delle Donne.

(Teatro Due – Rassegna A Roma! A Roma! – Roma, 3/8 marzo 2015)

Mosella Fitch si suicida il giorno del suo ottantesimo compleanno.

Lascia al garzone del droghiere precise istruzioni riguardo la sistemazione del suo cadavere e, in modo particolare, circa la custodia dei suoi preziosi taccuini.

Questi suoi appunti, scritti per aiutarla a non dimenticare, contengono dettagliate informazioni circa la sua vita a partire dalla sua prematura nascita, completamente inascoltata sin dal suo tenue primo vagito in un giorno in cui la pioggia aveva spinto la madre, tra il fango e gli escrementi, a tentare di salvare le vacche che davano sussistenza alla famiglia.

Mosella cresce sviluppando sentimenti ed atteggiamenti tipici degli individui affetti da forme di autismo: lei è Dio e dall’alto di un albero, che rappresenta il suo trono di giudice universale, impartisce urbi et orbi punizioni esemplari alla stupida umanità sottostante, con un cinismo che rappresenta il sadismo.

Lo stesso atteggiamento non cambia quando lei stessa sarà costretta a frequentare la scuola; durerà poco, odiata da tutti e soprattutto dalla maestra, per cui decide di abbandonare l’istruzione e di ritirarsi intanto a casa a fare pane, perché lei comunque diventerà uno scienziato e come tale non avrà bisogno di studiare: le dieci dita delle mani saranno sufficienti ad inculcarle lo scibile matematico.

Questo lavoro, il cui testo è stato scritto da Stefano Massini, giovane regista teatrale fiorentino, formatosi come assistente di Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano, è presentato da Teatro delle Donne diretto da Maria Cristina Ghelli, che da molti anni affronta problematiche prevalentemente al femminile.

Affiancata dal giovanissimo Luigi Fedele, risulta subito veramente singolare l’interpretazione di Barbara Valmorin che dà voce lei stessa ai “taccuini” nelle mani del garzone, su uno sfondo di scena quasi metafisico accompagnato da canzoni che ci portano in un passato non tanto lontano. Attrice prevalentemente teatrale, ma con una formidabile e riconosciuta carriera anche cinematografica, la vediamo valida interprete, come in questo caso, di ruoli drammatici in cui prevale la sua presenza scenica e l’espressività del suo volto.

data di pubblicazione 04/03/2015


Il nostro voto:

VIZIO DI FORMA di Paul Thomas Anderson, 2015

VIZIO DI FORMA di Paul Thomas Anderson, 2015

Los Angeles, sul finire degli anni ‘60. Larry “Doc” Sportello, uno degli ultimi hippie della zona e consumatore abituale di marijuana, si trascina (giorno e notte) nei dintorni di Gordita Beach, svolgendo, con poca dedizione, l’attività di investigatore privato abusivo (con un ufficio all’interno di uno studio medico, ed in particolare ginecologico!). Nel corso di una classica giornata da dolce far niente, Doc viene sorprendentemente avvicinato dalla sua ex ragazza, Shasta Fay Hepworth, che gli chiede di indagare su presunti, strani movimenti che riguardano il suo nuovo amante, l’imprenditore edile (letteralmente palazzinaro) Mickey Wolfmann, operati, tra l’altro, da un gruppo di fanatici neo-nazisti, un potente cartello dell’eroina ed alcuni agenti dell’F.B.I.

Settimo lungometraggio dell’acclamato Paul Thomas Anderson, Vizio di Forma – adattamento italiano del titolo originale Inherent Vice – è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Thomas Pynchon, edito nel 2011. Ci sarebbero tutti gli elementi del classico noir-poliziesco, ma così non è, perché Vizio di Forma appartiene ad una categoria indefinibile, che mischia elementi del cinema letterario, e quindi d’autore, da un lato, ad aspetti del cinema popolare, e quindi di genere, dall’altro.

È un film complesso, a tratti sofisticato, che evidenzia il cambiamento dei tempi e l’ottusa discriminazione nei confronti di chi, come Doc Sportello, è considerato superato, fuori moda o, addirittura, pericoloso per il semplice fatto di essere un hippie. La marijuana che fa spazio all’eroina e la filosofia peace&love che cede il passo al razionalismo e alle psicosi di massa (legate agli eventi di Charles Manson) rappresentano il messaggio di fondo di Vizio di Forma, sintetizzabile nelle visionarie sequenze a casa hippie, l’ultimo avamposto (tragi-comico) di una civiltà oramai appartenente al passato.

La narrazione è nebulosa e lisergica, volutamente volta a confondere lo spettatore, come confusi e stralunati sono, d’altronde, i personaggi della storia, costantemente in preda ai fumi degli stupefacenti, ad eccezione dell’integerrimo poliziotto Christian “Bigfoot” Bjornsen, vero e proprio alter ego di Sportello. Il ritmo è lento e statico (praticamente non esistono scene d’azione) e la lunghezza è – a parere di chi scrive – eccessiva. Vizio di forma è difficile da metabolizzare. Non è un film per tutti: lo si intuisce nella prima mezz’ora e se ne ha la consapevolezza a metà film. Urge una seconda (e forse una terza) visione, per afferrare tutti i particolari e comprendere appieno, quindi, il significato del vizio intrinseco, ma la sensazione di fondo è che si tratti di un opera non sempre coerente, fin troppo labirintica, con alcuni personaggi soltanto abbozzati (vedi, tra i vari, l’avvocato di Doc Sportello, Sauncho Smilax) e comunque non sempre funzionali alla trama. Un buon film, nel complesso, ma non completamente convincente. Inevitabili, tuttavia, sono l’empatia e la simpatia verso Doc, strano eroe di questa ancor più strana vicenda, complice lo straordinario Joaquin Phoenix, ingiustamente snobbato (?) dall’Academy.

data di pubblicazione 02/03/2015


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AVRÓ CURA DI TE di Massimo Gramellini e Chiara Gamberale –  Longanesi Editore, 2014

AVRÓ CURA DI TE di Massimo Gramellini e Chiara Gamberale – Longanesi Editore, 2014

Uno scambio epistolare che dura circa un anno tra Gioconda, detta Gio’, professoressa in piena crisi post separazione, e Filèmone suo angelo custode.

La storia comincia quasi per gioco.

Gio’ scrive al proprio angelo custode per avere un aiuto, per affrontare la situazione in cui si trova, per cercare di capire e chiarire i suoi sentimenti, i suoi errori, le sue paure, le sue insicurezze, le ansie che si sono scatenate in lei in seguito alla separazione dal suo compagno, Leonardo; chiude la lettera nel cassetto di un comodino e la mattina successiva trova la risposta di Filèmone, l’Angelo Custode, che le risponde: avrò cura di te

Per tutto il tempo in cui proseguirà lo scambio epistolare, che a volte non può che farci sorridere, Filèmone cerca di fare capire a Gio’ gli errori che ha commesso ma senza mai giudicarla, senza mai rimproverarla per i suoi comportamenti, la porterà per la mano a capire l’importanza di far tacere, a volte, la ragione a favore del cuore, perché alcune prove non possono essere superate se non affidandoci al cuore.

Le svelerà segreti che la lasceranno frastornata, che mineranno alcune sue certezze, che faranno vedere una nuova realtà che le permetterà di capire e trovare la soluzione dei suoi problemi.

Un libro ricco di buoni sentimenti che le due voci narranti, Gio’/Filèmone, danno la possibilità di leggere in due versioni: donna/uomo.

I FUNERALI DI TOGLIATTI di Franco Rossi con Massimo Verdastro

I FUNERALI DI TOGLIATTI di Franco Rossi con Massimo Verdastro

(Teatro Due – Roma, 27 febbraio/1 marzo 2015)

21 agosto 1964: muore Palmiro Togliatti.

Questa data non verrà mai dimenticata dal narratore, anche lui di nome Palmiro, ma non certo per le ragioni che crede il padre, convinto comunista.

Quel giorno succede dell’altro: Eugenia viene stuprata da un gruppo di giovani coetanei e lui, nonostante ne fosse forse segretamente innamorato, era lì.

Tutta una vita per pensare a quello, ma direi senza pentimento, incapace di dare amore vero e soprattutto di rendere giustizia a quella donna che disperatamente si era rivolta a lui, quasi implorandolo.

Dopo tanti anni, un giorno, Palmiro vede Eugenia dal balcone della sua abitazione, in una di quelle costruzioni popolari che crescono come funghi nelle periferie delle città: la vede sì, ma precipitare nel vuoto e poi il nulla, solo il rumore della caduta al suolo. Eugenia è morta, suicida, e tutto il vicinato accorre attonito ed incuriosito.

Ne I funerali di Togliatti, in scena al Teatro Due in questo giorni, molto convincente risulta l’interpretazione di Massimo Verdastro, accompagnato dal vivo dalla chitarra e dal violino, in alternanza, suonati da Giulio Saverio Rossi, anche se il racconto, a volte frammentario, sembra divagare allontanandosi dal dramma vissuto per introdurci in sentieri laterali di artificiosa retorica, in un buio di scena che appesantisce già di per sé il monologo.

Massimo Verdastro, nato a Roma nel 1957, è attore e regista con alle spalle una vivace attività teatrale, iniziata a Roma e consolidata poi a Palermo nella scuola di Teatro di Michele Perriera, città dove svolge per anni un intenso lavoro drammaturgico e fonda insieme ad altri soci la cooperativa Teatès.

Il suo poliedrico dinamismo lo porta a firmare come regista moltissimi lavori, con un taglio sempre molto particolare, partendo dal teatro classico fino ad arrivare allo sperimentale.

Nel 2002 ottiene il premio UBU come miglior attore non protagonista per L’Ambleto, dramma teatrale scritto nel 1972 da Giovanni Testori, quale scrittura in chiave comica e dialettale dell’Amleto di Shakespeare. Lo spettacolo in programma, proposto dalla Compagnia SemiCattivi/Centro Sperimentale d’Arte Contemporanea, ha vinto nel 2012 il Premio Autori Italiani della rivista Sipario, menzione speciale monologhi.

 

data di pubblicazione 01/03/2015


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ADESSO CHE HAI SCELTO, di e con Mimmo Sorrentino

ADESSO CHE HAI SCELTO, di e con Mimmo Sorrentino

(Teatro Due – Roma, 24/26 febbraio 2015)

Nel 1994 nasce il Teatro dell’Argine a San Lazzaro di Savena, Bologna, come progetto artistico, culturale e sociale. I suoi esperimenti teatrali hanno avuto molto successo non solo nel territorio di appartenenza ma anche all’estero. Mimmo Sorrentino, è regista e drammaturgo che aderisce a questo progetto: insegnante di “Teatro Partecipato” presso la scuola “Paolo Grassi “ di Milano, nel 2013, per 24 settimane racconta, nella rubrica “Piazza Verdi” promossa da RAI Tre, le sue storie di vita di teatro sperimentato da diverse realtà sociali in giro per l’Italia. Vince nel 2014 il premio della critica promosso da Anct, Sezione Teatri della diversità.

Il suo spettacolo Adesso che hai scelto, che si sta rappresentando in questi giorni al Teatro Due, esce dagli schemi canonici della drammaturgia teatrale. Ma il dramma c’è, lo percepiamo subito.

Sorrentino ci racconta delle storie vere, di realtà vere che vivono il teatro e lo rappresentano per sé e nel proprio contesto. Fuori da quell’ambiente non avrebbe più senso ed è per questo che le diversità messe in scena sono funzionali agli stessi interpreti per riscattarsi, per conoscersi, per affermarsi: una sorte di necessaria catarsi.

Sorrentino dà l’incipit e spiega le regole del gioco: noi del pubblico saremo qui gli artefici, lo spettacolo lo facciamo noi e decidiamo noi cosa vogliamo che ci venga raccontato. Abbiamo a disposizione 5040 diverse opzioni, non poche direi, ma dobbiamo decidere, badando bene che ogni scelta, una volta presa, comporta una responsabilità perché la imponiamo agli altri.

Il meccanismo funziona, ci si appassiona, ci si diverte a sentire le storie raccontate con una spontaneità che ci coinvolge in prima persona, perché si tratta di racconti di vita vissuta veramente da coloro che vengono riconosciuti come diversi: detenuti, tossici, malati terminali, rom…ma anche medici, magistrati venditori ambulanti, anche loro diversi per “motivi diversi”.

Ognuno ha da raccontare la propria storia e noi ce la lasciamo raccontare.

Saremo poi noi pubblico a chiudere la pièce, perché le nostre poesie scritte al momento sono anche le nostre storie e ci piace sentircele raccontare…

data di pubblicazione 26/02/2015


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UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA di R. Andersson, 2015

UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA di R. Andersson, 2015

L’umanità, le sue contraddizioni, il mondo nella banalità e nelle sorprese, come osservati da un piccione appollaiato su di un albero. Sguardo ineffabile, ironico, toccante, desolato, onirico, a volte lisergico, più spesso assurdo come uno Ionesco o un Beckett in ritardo di mezzo secolo.

Non c’è granché di nuovo nella filosofia e nei pensieri di questo piccione e nemmeno nel suo linguaggio, ma ci  sono sprazzi di pura poesia e una bislaccheria che non puo’ non incantare.

A colmare qualche lacuna supplisce una messinscena perfetta, i 39 quadri di questo affresco sono davvero precisi in ogni dettaglio visivo. Divertitevi a osservare tutte le posizioni e i minimi movimenti dei componenti dell’insieme nelle varie scene: nulla è lasciato al caso.

Dopo i primi tre “incontri con la morte”, il resto è volutamente frammentato e affidato a un sottilissimo trait d’union rappresentato da due buffi venditori di scherzi di carnevale e a un refrain che sottintende piccole e grandi solitudini: mi fa piacere sapere che state bene  ripetono i personaggi  al telefono con un tono dolente e in un ambiente squallidamente atemporale dove i cellulari ci sono, ma anche i soldati a cavallo e dei vecchi caffè senza stile.

Autore di poche opere, di cui nessuna uscita in Italia, questo Roy Andersson, e il suo humour scandinavo forse non meritavano il Leone d’oro, ma i suoi “ quadri “ ci resteranno dentro.

data di pubblicazione 26/02/2015


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ADDIO A LUCA RONCONI (E FORSE AL TEATRO DI REGIA ?)

ADDIO A LUCA RONCONI (E FORSE AL TEATRO DI REGIA ?)

La grande novità del teatro in Italia nel secondo dopoguerra ( e in definitiva la sua forza ) si ebbe grazie all’affermarsi, anche nel nostro paese, (con notevole ritardo rispetto, per esempio, alla Francia e alla Germania), del cosiddetto “teatro di regia cioè di quel teatro dove tra il testo e la sua rappresentazione si inserisce l’opera mediatrice, scientifica, interpretativa, del regista, a volte ingombrante, a volte meno, ma a mio avviso sempre indispensabile.

Il 1945, data che gli storici del teatro, se vogliamo un poco semplicisticamente, stabilirono come data di inizio del teatro di regia, coincide con la messa in scena  di Parenti terribili di Cocteau ad opera di Luchino Visconti, a cui segui’ la nascita  del Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler e a Roma l’attività di Orazio Costa che fu non solo regista ma maestro di generazioni di attori,tra cui Ronconi stesso. A loro si aggiunsero via via altre personalità registiche come Giorgio De Lullo, Luigi Squarzina, Giancarlo Cobelli, Franco Enriquez, Massimo Castri e molti altri che hanno creato straordinari spettacoli alcuni dei quali rappresentati in tutto il mondo.

Gli ultimi anni hanno, ahinoi, visto la scomparsa di quasi tutti loro, cominciando da Strehler, morto nel 1997 fino a Ronconi, mancato l’altro giorno, ultimo di quella generazione prodigiosa e irripetibile che nonostante i suoi 82 anni ha continuato fino alla fine ha continuato a regalarci creazioni straordinarie.

Come tutti sanno Luca debuttò negli anni Cinquanta come attore ma ben presto nel ruolo di interprete iniziò a sentirsi stretto. Vittorio Gassman nella sua autobiografia ha testimoniato di quanto Luca tendeva ad “allargarsi “,a prendersi la responsabilità dello spettacolo intiero.

Gli inizi come regista non furono facilissimi per la ritrosia del mondo teatrale ad accettare certe idee e tesi altamente innovative. Fu dopo il famoso Orlando Furioso del 1969, primo esempio italiano di “teatro totale”, un successo planetario, che il talento visionario ed estroso di Ronconi cominciò ad essere apprezzato dando il via la alla costruzione del suo mito. In 50 anni ha messo in scena classici e contemporanei, grandi romanzi, opere liriche, perfino testi di scienza e di economia, e pure  testi da tutti dichiarati “ irrappresentabili (basti pensare alle nove  ore quasi integrali di  Strano interludio) ma che in mano sua  si tramutavano in stimolanti operazioni che ad ogni frammento rivelavano  un’intelligenza fuori dal comune.

Se Strehler creava spettacoli poetici, di incredibile ritmo e musicalità, Ronconi tendeva invece a vertiginose indagini dove si  sprecavano le sollecitazioni e gli interrogativi, quasi fosse un Kubrick della scena teatrale. Non si può poi dimenticare il Ronconi guida d’attori, anche la generazione degli attuali dai 40 ai 50 anni gli deve tutto: da Massimo Popolizio a Galatea Ranzi, da Luca Zingaretti, a Favino a Gifuni, tutti talenti da lui valorizzati.

Oggi fare un teatro di regia di alto livello è diventato complicatissimo: crisi economica, crisi di valori, morte di tutti i maestri, scarsa volontà di sacrificio e di approfondimento in un mondo che corre troppo. Per questo il dopo-Ronconi appare nebuloso …

Beato a chi ha vissuto quei tempi di passione di ardore per il mestiere, mi considero fortunato di aver visto almeno in parte  quei meravigliosi spettacoli!

Il Teatro di Roma, di cui Ronconi fu direttore per molti anni, dedicherà la sera di domenica 8 marzo in onore suo. Da non perdere.

data di pubblicazione 24/02/2015

SELMA di Ava DuVernay, 2015

SELMA di Ava DuVernay, 2015

statuetta

Uno dei grandi meriti del film Selma – della sua giovane regista Ava DuVerany e delle sue scelte – è di essere riuscito a porre l’attenzione su un momento storico cruciale, su un tema fondamentale e purtroppo ancor attuale nelle sue non realizzazioni, pur se in ambiti e contesti diversi, come quello dei diritti civili, senza scadere minimamente nella retorica, in un equilibrio efficace tra il racconto storico, la realizzazione cinematografica e il coinvolgimento emotivo. Il rischio era più che una probabilità, per un film che racconta delle battaglie per il diritto al voto dei cittadini neri e del loro culmine nella marcia partita da Selma, in Alabama, nella primavera del 1965, sotto la guida di Martin Luther King. Il racconto, invece, passa per l’emotività della causa, la violenza degli avvenimenti, l’asciuttezza e la lucidità del resoconto politico senza oltrepassare il confine della lacrima facile o semplicisticamente dei buoni o cattivi. Attraverso gli occhi, il volto e la memorabile interpretazione di David Oyelowo (già visto in Interstellar e Butler – un maggiordomo alla casa bianca ma soprattutto in Lincoln di Spielberg, in cui il suo personaggio chiede al presidente se i neri sarebbero stati in grado di votare da lì a 100 anni) ci viene restituita una figura di Martin Luther King complessa, nei suoi dubbi e nelle sue scelte di vita personale, oltre che di guida politica e spirituale, ma soprattutto di un uomo tra e con altri esseri umani, un uomo che identifichiamo con la sua battaglia ma emblema e figura di tutti gli altri uomini e donne in marcia dietro di lui. E proprio la possibilità di conoscere la complessità di un simile movimento, delle posizioni diverse al suo interno, delle divergenze, dei passi falsi, della presenza, poco raccontata in genere, anche delle donne, Coretta King e Annie Lee Cooper su tutte, dà senso di realtà alla battaglia, non la relega nel cantuccio dei fatti storici che facciamo finta di conoscere, ma la concretizza e la attualizza in maniera sorprendente. Le scelte tecniche, l’ambientazione al Sud, in Alabama, sullo stesso ponte Edmund Pettus su cui la marcia ebbe luogo, la scelta della luce naturale e del suo uso espressivo, ad opera del bravissimo direttore della fotografia Bradford Young, concorrono a fare di Selma un film elegante e potente. Ulteriore brivido di emozione sulle note del brano originale GLORY, cantato da John Legend e Common, premiato con l’Oscar 2015 per la miglior canzone. Da non perdere.


data di pubblicazione 24/02/2015


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SLAVA’S SNOWSHOW, creato e messo in scena da Slava Polunin

SLAVA’S SNOWSHOW, creato e messo in scena da Slava Polunin

(Teatro Argentina – Roma, 18 febbraio/1 marzo 2015)

Un clown in costume giallo, con una sciarpa rossa, guanti rossi, grandi scarpe, ed una corda al collo; altri clowns con grandi nasi rossi, cappotti verdi, orecchie; e poi telefoni di spugna, un cavallino a dondolo, un letto rosso, una vela per andare lontano, una scopa, ali d’angelo, palloncini bianchi, palle e palloni giganteschi, sfere illuminate, luna, stelle, bastoncini, un pesce cane, un attaccapanni, un cappotto nero e un cappello bianco, polvere, valigia, il fischio di un treno, il vapore della locomotiva, il verso di gabbiani lontani, una lettera che fa piangere e… “diventa neve”, un ombrello rotto, bandierina bianca e bandierine rosse, una fatina bianca su di un’altalena, coriandoli; colore giallo, ma anche rosso, arancio, verde, blu, azzurro, bianco, luce e buio, ragnatele, ovatta, cielo stellato e soffice come un grande piumone, vento, acqua, neve… tanta, tanta, tanta neve di… carta velina. E poi ancora Chaplin, Marcel Marceau, Fellini, Benigni… e la musica: dal colorato suono dell’inconfondibile trombetta che va a tempo con i passi e gli ammiccamenti dei volti dei clown, sino alla musica d’autore con i solenni Carmina Burana, le atmosfere rilassate e ritmate della samba di “Mas que nada” passando per “Via con me” di Paolo Conte.

Si torna bambini con lo spettacolo Slava’s Snowshow che si sta rappresentando in questi giorni al Teatro Argentina, nell’ambito di un palinsesto a dir poco variegato ed interessante che il nuovo Direttore Artistico Antonio Calbi ha selezionato per il pubblico romano.

La scenografia è superlativa: all’inizio è come la cameretta dei sogni di ogni bambino, per poi trasformarsi come un cilindro caleidoscopico in un mare glaciale, in montagne innevate, in stazione, e poi in ghiacciaio, fino ad uno spettacolare “palco” sotto la neve che coinvolge tutti gli spettatori, con il fluttuante gioco di sfere colorate di tutte le dimensioni che investono l’intera platea.

Ed al clown poi basta togliersi il naso per presentarsi al pubblico e ringraziarlo…

data di pubblicazione 24/02/2015


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NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

C’erano una volta un musulmano, un ebreo e un cinese. E alla fine arriva pure l’uomo nero. Inizia come una barzelletta l’ultimo film di Philippe de Chauveron, senza che però la storia riesca a innescare i meccanismi di quella comicità capace di far sì che una poco pretenziosa storiella indossi le ali della raffinata commedia.

Le quattro figlie femmine di una conservatrice famiglia cattolica francese mettono a dura prova le capacità di sopportazione dei pur volenterosi genitori. Ciascuna di loro prende in marito un tassello di quel “multiculturalismo”, che, restato a lungo un tratto caratterizzante dell’esperienza socio-culturale americana e del cinema che ne è la rappresentazione, obbliga ormai anche l’Europa a una seria riflessione “politica”, di fronte alla quale neppure la Decima Musa può chiudere gli occhi. Sono però lontane tanto le atmosfere di Indovina chi viene a cena? quanto il magnetismo esercitato sulla sala dal cinema francese campione di incassi degli ultimi anni (il pensiero corre, evidentemente, a Giù al Nord e a Quasi amici). I dialoghi si susseguono assecondando una per niente esilarante sequela di luoghi comuni: tra prepuzi amputati, divieti alimentari, stereotipi della cultura cinese e una (fin troppo) macchiettistico scambio culturale tra “famiglia bianca” e “famiglia nera”, Non sposate le mie figlie sembra fallire sia l’intento di divertire sia quello di far riflettere. I momenti di fratellanza simboleggiati dalla guerra di palle di neve tra adulti che tornano bambini e dalla Marsigliese cantata con la mano sul cuore da quella che sembra la panchina della nazionale francese di calcio, sembrano davvero troppo poco ai tempi di “Je suis Charlie”.

Prima di avviarsi al prevedibile “vissero tutti felici, contenti e tolleranti”, il film, almeno, lascia nello spettatore la voglia di provare una volta della vita il brivido della Zumba. Perché anche in ciò che sembra lontano e diverso dal nostro modo di essere e di pensare, in fondo, possiamo trovare una parte di noi stessi.

data di pubblicazione 22/02/2015


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