BLACKHAT di Michael Mann, 2015

BLACKHAT di Michael Mann, 2015

Honk Hong, la centrale nucleare di Chai Wan subisce un attacco hacker (a carico dei sistemi di raffreddamento delle barre) che provoca l’esplosione di un reattore. Poco dopo, a Chicago, la Borsa subisce l’aggressione informatica dello stesso hacker, che fa schizzare alle stelle il prezzo della soia. La reazione delle Autorità è immediata. L’esercito cinese e l’F.B.I. decidono di unire le proprie forze per stanare il blackhat, e cioè l’hacker malintenzionato, creando una task force che si avvale della collaborazione di un ex pirata cibernetico statunitense, Nicholas “Nick” Hathaway, detenuto per una lunga serie di crimini informatici. Inizia così una serrata caccia all’uomo che porterà i protagonisti dagli Usa in Cina, Malesia ed Indonesia.

Michael Mann torna dopo sei anni d’assenza (Nemico Pubblico, 2009) e lo fa in maniera prepotente, firmando un thriller cibernetico di pregevole fattura. La storia è intensa, nonostante alcuni (voluti) buchi di sceneggiatura che non pregiudicano la narrazione, anzi, la esaltano, contribuendo ad accrescere l’interesse dello spettatore. Il ritmo è alto, la musica accompagna con maestria le sequenze più emozionanti (che sono copiose) e dei cali d’attenzione non si vede nemmeno l’ombra.

Fedele alla propria tradizione cinematografica, Mann mescola l’azione col sentimento, fonde i colpi d’arma da fuoco e la violenza al ritratto psicologico dei protagonisti, profondo e disilluso. Nick non è una brava persona (e ne è perfettamente consapevole), ciononostante non rinuncia a difendere o vendicare i propri affetti. Blackhat è quindi un film di genere, pregno però di elementi d’autore: il pessimismo e la malinconia sono tangibili, come tangibili sono le paure post 11 settembre, ancora radicate nella coscienza statunitense. I riferimenti a Collateral e Miami Vice sono lampanti, mentre la figura di Nick sembra ricalcare quella di Frank, protagonista di Strade Violente.

Blackhat non è per tutti: rigoroso e iper-realista nel ricostruire le procedure informatiche, nonché complesso e dettagliato nei dialoghi e nei confronti umani. Tante le scene che sono un piacere per gli occhi: le panoramiche delle metropoli, le inquadrature dall’alto, in aereo o in elicottero, la rappresentazione del mondo cibernetico – tra cavi, processori e strumenti vari- come un mondo a sé stante, che vive delle proprie regole, nonché la straordinaria sequenza del conflitto a fuoco nel tunnel e tra i container (dove Mann fa uso del digitale in maniera assolutamente innovativa).

Da non perdere. Chapeau.

 

data di pubblicazione 13/03/2015


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IL RE DI GIRGENTI scritto, diretto ed interpretato da Massimo Schuster e Fabio Monti

IL RE DI GIRGENTI scritto, diretto ed interpretato da Massimo Schuster e Fabio Monti

(Teatro Due – Roma, 10/14 marzo 2015)

A vussìa cuntamu stu cuntu. Con questo “incipit” i due protagonisti ci raccontano una storia popolare siciliana nella quale non possono mancare gli ingredienti di base: storia, leggenda, tragedia, farsa.

Ma chi può rappresentare al meglio tutto questo se non la marionetta? I pupi nel gergo siculo. Ed ecco qui rappresentata la storia (u cuntu), tratta da un romanzo di Andrea Camilleri e basata su un episodio storico del 1718 quando, a seguito di una rivolta popolare contro la guarnigione sabauda al potere, Zosimo, contadino istruito, diventerà il Re di Girgenti, anche se per poco.

Domata la rivolta verrà infatti condannato a morte, ma dal patibolo il suo spirito potrà finalmente volare libero su un aquilone e da quel punto di osservazione, sempre più alto nel cielo, potrà osservare le miserie del mondo, ma anche l’immensità dell’universo.

Sorprendenti le interpretazioni di Massimo Schuster, pluripremiato attore e regista lodigiano che ha fondato nel 1975 il Théâtre de l’Arc-en-Terre e del catanese Fabio Monti, direttore artistico e fondatore della Compagnia EmmeA’ Teatro, che danno voce alle varie marionette in un serrato e ben espressivo dialetto siculo, diventando loro al tempo stesso marionette con una mimica drammaturgica degna dei migliori cantastorie siciliani di un tempo.

Di conseguenza, non è tanto la vicenda narrata che tiene tutti con il fiato sospeso, quanto l’intensità dei suoni degli strumenti utilizzati, ora prorompenti ora appena percettibili, che fanno da accompagno a quella specifica musicalità del dialetto utilizzato che, grazie al buon Camilleri, è entrato oramai a far parte del lessico familiare italiano.

 

data di pubblicazione 12/03/2015


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MORTDECAI di David Koepp, 2015

MORTDECAI di David Koepp, 2015

L’eccentrico collezionista d’arte Lord Charlie Mortdecai ha un debito di 8 milioni di sterline con il governo inglese e allora decide di accettare l’incarico di recuperare un dipinto, rubato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, che sarebbe la chiave del segreto dell’oro del Terzo Reich. Se riuscisse nell’intento potrebbe pagare il debito e non sarebbe costretto a vendere o affittare ai turisti la sua sontuosa residenza, prospettiva che lo terrorizza.
Adattamento della prima avventura del personaggio letterario creato da Kyril Bongfiglioli, la tipologia di narrazione prelude a mio avviso a una serialità anche perché le caratteristiche dei personaggi sono assai felici: il protagonista con le sue manie estetiche e la passione per i propri baffi, la fedeltà granitica della coppia che resiste ad ogni attacco, la straordinaria guardia del corpo, deus ex machina in molti frangenti, con l’unico punto debole della propria erotomania e infine il bizzarro ispettore di Scotland Yard perennemente innamorato di Lady Johanna.
Il regista David Koepp che cambia stile a ogni film, qui giustamente s’è buttato sul fumetto tecnologico rispettando però un’aura postmoderna che regala fascino all’ambientazione
L’insieme è molto brillante, con qualche calo di mordente dovuto più che altro all’eccessiva lunghezza del plot.
Depp ovviamente è a suo agio in questo ennesimo personaggio- “maschera” in cui si sta specializzando; piuttosto scipiti invece Ewan Mc Gregor e la Paltrow, molto efficaci i personaggi di contorno.

data di pubblicazione 09/03/2015


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TUTTO SUA MADRE di Guillaume Gallienne, 2013

TUTTO SUA MADRE di Guillaume Gallienne, 2013

Il film prende le mosse dalla pièce teatrale delle stesso Guillaume Gallienne, attore, sceneggiatore e regista, dal titolo molto esplicativo: Les Garcons et Guillaume, à Table. Il testo è strettamente autobiografico e racconta, anche sul grande schermo, del particolare rapporto di Guillaume con la madre, ma soprattutto dell’incredibile pregiudizio dei suoi familiari, che sin da quando era piccolo lo etichettarono come omosessuale solo perché i suoi comportamenti erano dissimili dalla marcata prepotenza virile dei fratelli e del padre. Cresce dunque da “diverso”, rifugiandosi in un mondo immaginario frequentato da principesse, mascherandosi sovente in abiti femminili, ma soprattutto imitando sua madre, donna autoritaria che egli ama sopra ogni cosa, sino a confondersi con essa, nella voce e nei gesti.

A questa splendida ed intelligente commedia, in cui si ride di gusto non senza un velo di melanconia, abbiniamo una tipica ricetta francese che ben si sposa con l’ambientazione del film: i bignè.

INGREDIENTI: 125 gr. di acqua e 125 gr.  di latte – 100 gr. di burro – 1 pizzico di sale – 150 gr. di farina  – 4 uova.

PROCEDIMENTO: Per prima cosa setacciate la farina e conservatela da parte, quindi accendete il forno a 160°. In un pentolino mettete il composto metà latte metà acqua, assieme al burro e il sale; appena raggiunto il bollore togliete dal fuoco e gettateci dentro tutta insieme la farina (senza avere paura di cerare grumi). Mescolate tutto bene in modo da ottenere una pasta compatta e rimettete sul fuoco, moderato, continuando a mescolare per evitare di farla attaccare o bruciare.

Fate cuocere per 2-3 minuti circa sempre mescolando con cura, in modo che la farina cuocia e soprattutto che l’umidità si disperda, sino a quando l’impasto si staccherà dalle pareti formando una palla. Quando l’impasto tenderà a compattarsi in una palla unica, dunque, è il momento di spegnere e di far freddare. Appena l’impasto si sarà freddato, cominciate ad aggiungere le uova, una alla volta: verificate che ogni uovo sia ben amalgamato prima di aggiungere il successivo.

Una volta pronta la pasta prelevatene piccole porzioni e modellatele con l’aiuto di due cucchiaini, quindi adagiatele sulla placca del forno foderata di carta da forno (a seconda della grandezza del cucchiaio otterrete dei mignon o dei bignè più grandi). Infornate e sorvegliate la cottura: a seconda del vostro forno e della grandezza dei bignè vi serviranno dai 15 ai 25 minuti circa.

È importante che il calore del forno non sia eccessivo per permettere alla pasta di crescere e di gonfiarsi durante la cottura: l’interno dovrà risultare cavo per fare spazio alla farcitura e l’esterno fragrante. Una volta fuori dal forno fate raffreddare i vostri bignè su di una gratella e aspettate che siano completamente freddi prima di farcirli a piacere.

Essendo una ricetta priva di zucchero, vi permetterà una farciture sia dolce che salata; è importante la grandezza dei bignè perché, in caso di mignon, sono perfetti come aperitivo se farciti con formaggio molle lavorato con altri ingredienti (come tonno, patè etc.).

 

 

PROFONDO ROSSO di Dario Argento, 1975

PROFONDO ROSSO di Dario Argento, 1975

Profondo Rosso nel 2015 compie 40 anni ed è il film che, dopo L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, consacrò Dario Argento come uno tra i grandi autori di Thriller/Horror. La pellicola vanta gli effetti speciali di Carlo Rambaldi oltre alla colonna sonora del gruppo dei Goblin, allora sconosciuto, divenuta poi famosissima; altre composizioni sono invece firmate dal pianista jazz Giorgio Gaslini. Il titolo evoca il tanto sangue che tinge di scarlatto quattro famose scene, estremamente cruente, di delitti. Il serial killer generalmente agisce dopo aver sentito una nenia per bambini, che minacciosa preannuncia il suo arrivo allo spettatore: chi non la ricorda senza provare un brivido lungo la schiena? Chi non ricorda la Villa abbandonata dove il protagonista scopre sotto l’intonaco il grafito raffigurante un bambino con un lungo coltello insanguinato in mano ed un uomo con il petto cosparso di sangue, con sullo sfondo un albero di Natale? E cosa dire del quadro che scompare dal corridoio dove si consuma il primo delitto?

Per chi non lo avesse ancora visto, è decisamente un film da non perdere, ed il rosso dominante ci evoca una ricetta che con questo colore ha a che fare: i bocconcini di pollo con i peperoni rossi!

INGREDIENTI: 1 petto di pollo a bocconcini – 1 grosso peperone rosso – mix di erbe da arrosti – 1 manciata di pinoli – ½ bicchiere di vino bianco – olio d’oliva q.b. – 2 cucchiaini di concentrato di pomodoro allungato con acqua calda – sale e pepe q.b..

PROCEDIMENTO: In una padella antiaderente dai bordi alti fate saltare i bocconcini di pollo in olio, aggiustando di sale e pepe; aggiungete il mix di erbette secche da arrosti e tirate il tutto con mezzo bicchiere di vino bianco.

Una volta evaporato il vino, abbassate la fiamma e togliete dalla pentola i pezzetti di pollo; aggiungete al fondo di cottura che rimane nella padella il peperone, fatto in pezzi non troppo grandi, aggiustate con un po’ di sale e fatelo cuocere a fuoco moderato senza coperchio girando di sovente per evitare che la pelle del perone si stacchi. Raggiunta una media cottura, aggiungete nuovamente il pollo nella padella con i pezzi di peperone ed irrorare il tutto con  due cucchiaini di concentrato di pomodoro allungato in acqua calda, abbassate fiamma e coprite. Cuocere per circa 20 minuti; cinque minuti prima di spegnere il fuoco, buttate nel pollo la manciata di pinoli e girate. Servite caldo accompagnandolo con tanto pane per fare una gustosa scarpetta!

AUTÓMATA di Gabe Ibañez, 2015

AUTÓMATA di Gabe Ibañez, 2015

Anno 2044. La Terra è ormai prevalentemente desertificata e l’umanità ridotta a poco più di venti milioni di individui, a causa di pericolose tempeste solari. Le nubi sono create artificialmente allo scopo di proteggere la popolazione dai raggi solari, la tecnologia ha subito una sensibile involuzione e gli esseri umani vivono in (apparente) simbiosi con i Pilgrim, automi creati dalla multinazionale R.O.C. per servire l’uomo nelle attività all’aperto. Essi rispondono a due protocolli: non posso nuocere ad alcuna forma vivente e non possono modificare se stessi o altri robot. Il perito assicurativo della R.O.C., Jacq Vacuam, indaga su presunti casi di malfunzionamento dei Pilgrim e si imbatte in una realtà che va oltre la propria immaginazione: la violazione del secondo protocollo.

Secondo lungometraggio – dopo Hierro – dello spagnolo Gabe Ibañez, Autòmata è un thriller distopico e fantascientifico che affascina per contenuto, nonostante duri un po’ troppo, abbia un ritmo altalenante e la sceneggiatura presenti forzature nella parte centrale della narrazione. Le sequenze alla “discarica – un’immensa baraccopoli separata dal centro urbano mediante un altissimo muro di cemento – sono visionarie, tra la rappresentazione di robot mutilati e automi dediti alla prostituzione o alla cartomanzia. Particolarmente interessante è l’ossimoro tecnologico tra gli androidi, provvisti di un’intelligenza artificiale dalle potenzialità illimitate, e gli strumenti utilizzati dagli uomini, schermi a tubo catodico, stampanti ad aghi e cercapersone (anziché cellulari). Capaci di provare emozioni e, addirittura, di creare la vita, gli automi rappresentano il futuro della Terra (Per morire bisogna essere prima vivi, recita uno di essi), mentre l’uomo (definito una scimmia violenta) è destinato all’estinzione.

Inevitabili sono i rimandi a Blade Runner, dall’autocoscienza dei robot alla pioggia radioattiva ed ai giganteschi ologrammi che si muovono tra gli edifici fatiscenti. Convincente la prova di Banderas, uscito (finalmente!) dal personaggio degli spot di un noto biscottificio italiano. Buona la fotografia grigiastra, perfettamente in sintonia con la realtà rappresentata, e davvero giusta la scelta di non ricorrere al digitale per la raffigurazione degli automi: il senso di umanità che hanno deriva, in parte, anche da ciò.

Autòmata è nel complesso un film da apprezzare, anche alla luce del basso budget impiegato (circa quindici milioni di Euro) per realizzarlo. Il set è, in buona parte, quello de I Mercenari 2, qui utilizzato per finalità (fortunatamente) più nobili.

data di pubblicazione 07/03/2015


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LA PATETICA – Tre sgangherati movimenti sulle note di Checov, Testo di Lorenzo De Liberato – Regia di Paolo Zaccaria e Lorenzo De Liberato

LA PATETICA – Tre sgangherati movimenti sulle note di Checov, Testo di Lorenzo De Liberato – Regia di Paolo Zaccaria e Lorenzo De Liberato

(Carrozzerie n.o.t – Roma, 5/8 Marzo 2015)

La particolarità dello spazio teatrale, le Carrozzerie n.o.t (a Ponte Testaccio – Roma), dà il destro ad una rappresentazione totale, in cui anche gli spettatori e l’immobilità statuaria degli attori non in scena diventano parte significante e visibile del discorso teatrale e meta-teatrale della giovane compagnia Marabutti, nata nel 2013. Una compagnia che mette in scena un suo doppio, cioè un’altra compagnia alle prese con le prove de Il gabbiano di Checov. Ma il testo e il gioco teatrale non culminano con lo svelamento risolutivo di un’identità nascosta, nel modo tipico delle commedie sin dai tempi antichi di Plauto. Perché l’identità è qui stratificata, il doppio si fa triplo, in una sovrapposizione volutamente confusionaria, in cui le voci e le parole dei personaggi di Checov si incrociano a quelle degli attori che cercano di metterlo in scena, i quali a loro volta tentano di esprimere, drammaturgicamente,  le domande, le difficoltà, i sogni e le illusioni/disillusioni di chi si interroga e impernia la propria vita intorno all’arte, oggi. Le voci si accavallano: Non esiste sacralità nell’arteQuindi per te l’assenza del gabbiano non è un problema? Ho delle difficoltà a credere che questo sia un gabbianoL’opera d’arte deve esprimere un pensiero chiaro o preciso… C’è bisogno di forme nuove ma io non ho talento e non ho soldi…A chi credi che possa interessare lo sproloquio di uno scrittore? Anche una quinta, inizialmente in scena come tale, diventa camera con vista e poi camerino, a celare e poi svelare la bella prova di tutti gli attori, Benedetta Corà, Fabrizio Milano, Stefano Patti, Chiara Poletti, Mario Russo e lo stesso Paolo Zaccaria. Un ottimo lavoro che supera di gran lunga il rischio, paventato da uno dei personaggi in scena, che della compagnia Marabutti si dica: Avevano del talento, ma sempre meno di altri.


*foto di Valeria Tomasulo*

 

data di pubblicazione 06/03/2015


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EDIPUS di Giovanni Testori, con Eugenio Allegri

EDIPUS di Giovanni Testori, con Eugenio Allegri

(Teatro dell’Orologio, Roma – 5/8 marzo 2015)

Fragile. Con questa parola scritta sullo schienale di una vecchia poltrona si accendono le luci sull’Edipus rielaborato in chiave decisamente originale da Leo Moscato con la stupefacente interpretazione di Eugenio Allegri. Un unico protagonista sul palco per rappresentare la tragedia greca per antonomasia attraverso il metateatro. Inizialmente pare che vada in scena la storia di un attore che, abbandonato dalla prima attrice della sua compagnia teatrale – e via via dall’intera compagnia di attori – si ritrova malinconico e un po’ posticcio a rappresentare, sotto la regia maldestra di un distratto “ragazzo”, una versione rocambolesca dell’Edipo. Dopo pochi istanti di smarrimento, però, ecco che quello che apparentemente sembrava un attore di commediole sul viale del tramonto lascia tutti esterrefatti. Da solo veste i panni di tutti i personaggi della tragedia: il re Laio, la regina Giocasta e Edipo e il coro del popolo di Tebe. Una rappresentazione surreale dove il protagonista da vita con estrema credibilità e trasporto ai 3 personaggi chiave dell’Edipo con la sola “complicità” dei fantocci che a rotazione assumono le fattezze dell’uno e poi dell’altro personaggio per fargli da spalla. L’intero spettacolo, recitato con un linguaggio nuovo, frutto dell’abile commistione della lingua latina con il dialetto lombardo/veneto e qualche parola della lingua italiana corrente e colorita, riesce a dare una veste nuova alla tragedia lasciandola al contempo immutata. Anche nell’epilogo il protagonista (ovvero il solo membro superstite della compagnia teatrale “unipersonale”) dismessi i panni dei personaggi rappresentati torna a rannicchiarsi sulla vecchia poltrona con la scritta “fragile” e si rimette sul naso la sfera rossa del pagliaccio. Fragile è l’animo umano, fragili sono i sentimenti, fragili sono le passioni che muovono gli eventi tragici e lieti, fragile è l’arte dell’attore come ahimè troppo spesso è fragile il rispetto e l’attenzione riservata dalla società al mestiere dell’attore e al Teatro.

Ma l’Arte non demorde e contro quella fragilità, sdrammatizzata proprio da quel pallino rosso sul naso del commediante – come a dire “anche io non mi prendo troppo sul serio nel rappresentare la tragedia di Edipo” – e ribadita orgogliosamente sulla poltrona come ad avvisare “attenzione, trattare con cura, con il giusto rispetto riservato alle cose delicate e preziose”, si sfodera l’energia, la forza, la brutalità delle passioni e delle parole che hanno reso indimenticabile fino ai giorni nostri la tragedia di Edipo portata abilmente in scena al Teatro dell’Orologio.

 

data di pubblicazione 06/03/2015


Il nostro voto:

UOMINI E TOPI – National Theatre Live (Of Mice and Men, regia di Anna D. Shapiro, 2014)

UOMINI E TOPI – National Theatre Live (Of Mice and Men, regia di Anna D. Shapiro, 2014)

Il bisogno di connettersi con gli altri.  Non stiamo parlando di social network, ma di ciò che entra in scena, attraverso la voce di uno dei protagonisti, nello spettacolo Uomini e Topi, trasmesso nei cinema italiani lo scorso 3 Marzo per la rassegna National Theater Live. Tratto dall’omonimo romanzo di Steinbeck, premio Nobel nel 1962 per le sue scritture realistiche e immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale, lo spettacolo, sotto la direzione della regista teatrale Anna D. Shapiro, ci catapulta nella California degli anni successivi alla Grande Depressione, raccontandoci di un mondo in cui la sola cosa personale che uno ha è da dove viene e dove andrà. Il mito americano è già sbriciolato e i sogni accarezzati dagli uomini sono piccoli come topi e già aridi come la terra che quegli uomini devono coltivare per conto di altri. L’unica possibilità di sognare resta solo a chi è capace di farlo assieme a qualcun altro, a chi sa immaginare una casetta, con un po’ di terra, una stanza ciascuno, dei polli ma soprattutto dei conigli da far accudire a Lennie. George (interpretato dl poliedrico James Franco qui alla sua prima ed egregia prova a Broadway) si connette, condivide, si prende cura dell’amico, più debole perché affetto da un ritardo mentale: parla al suo posto, lo istruisce, cerca di tenerlo fuori dai guai. Ma Lennie si porta drammaticamente addosso, nella sua prorompente fisicità, la fragilità e la pericolosità dell’innocenza e ci regala, attraverso i gesti di una mano e lo sguardo sognante o spaventato che gli conferisce un magistrale Chris O’ Dowd (I Love Radio Rock, Le amiche della sposa, St. Vincent), il sapore dolce e straziante della tenerezza. Una sola striscia di cielo sembra trafiggere la scenografia, scarna e bellissima nella rappresentazione degli esterni, così come l’acqua taglia, nel suo scorrere, il palcoscenico, e costringe lo spettatore a guardare fisicamente e simbolicamente al di là di quel fiume su cui nasce e muore la vicenda.  Sul palcoscenico e negli occhi di chi guarda si materializza l’emozione e la commozione pura che solo una storia di uomini e di topi così magistralmente diretta e interpretata poteva regalare.

Prossimi appuntamenti di una rassegna ormai imperdibile: replica di Skylight – 24 Marzo, Medea – 7 Aprile, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – 5 Maggio. Non solo, ma ovviamente al Cinema Farnese Persol.

data di pubblicazione 05/03/2015


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MOSAICO DI DONNA – VETUSTÁ di Cecilia Bernabei, regia di Andrea Donatiello e Cecilia Bernabei

MOSAICO DI DONNA – VETUSTÁ di Cecilia Bernabei, regia di Andrea Donatiello e Cecilia Bernabei

(Caffè Letterario – Roma, 2 marzo 2015)

Nella vita – ci sono cose – nella vita – ci sono – cose – nella vita – molte cose – che non vorresti vedere – nella vita – ci sono cose – che non avresti mai immaginato – cose (…). Con questi fulminei tasselli di un mosaico vocale dal ritmato eco/rimbalzo tra le quattro attrici protagoniste, si apre la rappresentazione Mosaico di Donna – Vetustà scritto da Cecilia Bernabei. Il testo, espressione di un maturo lavoro di drammaturgia, incanta e regala al pubblico un ritratto universale ed eterno del significato di essere “donna” e della sua condizione immutata nel tempo attraverso i profili, a tratti classici e a tratti inediti, di cinque personaggi femminili appartenenti a paesi, epoche e contesti sociali differenti e lontani tra loro, ciascuno simboleggiato da un oggetto che ne sintetizza superficialmente l’immagine tradizionale tramandata dalla storia. I tasselli del Mosaico di Donna iniziano ad essere ordinati partendo da Penelope, la quale dopo aver ripetuto annoiata le sue famigerate qualità di donna forte e paziente tramandate nei secoli, finalmente da voce alla sua vera essenza, fatta anche di paure e fragilità. Penelope scende dal piedistallo dove era stata “imprigionata” come sommo esempio di virtù, di devozione assoluta e si confessa per quello che è: una donna complessa e semplice, una donna come tutte le altre donne. Con estrema lucidità si ribella alla (sola) immagine di moglie e madre perfetta confessando una sua debolezza che sino ad oggi è stata omessa (probabilmente) per mano di quel disperato bisogno patriarcale di tappezzare la storia e la società con il mito e la leggenda di donne stereotipate come virtuose e impeccabili. Fa poi il suo ingresso la debole, confusa e agitata Messalina. Dall’icona di donna balzata agli onori della cronaca e degli archivi storici esclusivamente per le sue trasgressioni, i suoi adulteri e le vendette di palazzo, la Messalina di Cecilia Bernabei si sofferma sui dolori, sui traumi subiti – non curati e consolati da amore e rispetto e per questo, poi, degenerati – da una quattordicenne costretta dall’imperatore Caligola a sposare un uomo trent’anni più anziano di lei, corrotto, zoppo (Claudio). Tuttavia, la luce fatta sulle sofferenze e i drammi interiori di Messalina non riescono a restituirle alcuna dignità e benevolenza tanto che persino il terzo personaggio femminile, Rosvita di Gendersheim, la condanna con il crocifisso tra le mani senza alcun accenno di perdono cristiano. Ma anche Rosvita, apparentemente dedita alla morigerata vita di Chiesa, non fu solo religiosa devozione a Dio. La poetessa si ribellò con discrezione, grazie alle sobrie spoglie dell’abito monacale e ai silenziosi corridoi dei monasteri, alla figura di donna sottomessa e silente per dare voce al suo pensiero e trattare, nonostante fosse una donna, temi osteggiati come il peccato, il demonio, la corruzione attraverso la scrittura e il Teatro, assumendo una veste eversiva per gli anni del buio Medioevo. E’ poi il turno dell’eterea Costanza D’Altavilla, una “lady di ferro”, emblema della razionalità stratega che così operò mossa dalla passione e dall’amore sconfinato di moglie e di madre; amore che poi si mostra al pubblico come la sua più grande debolezza: per amore divenne “schiava” del ruolo integerrimo di sovrano calcolatore, guida inarrestabile e tenace del suo popolo. A completare il Mosaico giunge la poetessa Christine De Pizan annunciatrice del progetto “La città delle Dame”: progetto estremamente attuale – e ancora oggi utopistico – di una città in cui accogliere tutte le donne che vogliano condividere le proprie storie, fatte di drammi, successi, sofferenze, soprusi e amore. Una città delle donne e per le donne che, grazie alla loro stessa forza, il loro coraggio, la loro pazienza, dovrà poggiare su fondamenta d’acciaio per accoglierle, sostenerle e proteggerle. Una città in cui si cureranno le ferite, tuteleranno i diritti e i sogni di tutte le donne (ancora oggi troppo spesso violati, infranti, calpestati e soffocati), si darà spazio al confronto delle esperienze per farne tesoro. C’è l’intero universo femminile in questo spettacolo strutturato in un atto unico da non perdere. Così come da non perdere è la lettura del testo che si spera di trovare presto nelle librerie!


 data di pubblicazione 04/03/2015


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