IN NOME DEL PAPA RE di Luigi Magni, 1977

IN NOME DEL PAPA RE di Luigi Magni, 1977

Meraviglioso film storico sulla Roma papalina del grande Luigi Magni, con un Nino Manfredi perfetto nella parte di un monsignore, giudice della Sacra Consulta, che scopre da una nobildonna sua amica di essere il padre di suo figlio, un giovane rivoluzionario destinato ad essere condannato a morte dal tribunale ecclesiastico. Quando il Monsignore (Manfredi) si reca in carcere a fargli visita, il giovane, per nulla pentito delle sue gesta e con fare strafottente, gli confessa che tra le persone che odia di più al mondo ci sono i preti come lui e quel padre che non ha mai conosciuto!

Il film segue il già fortunato Nell’anno del Signore e precede In nome del popolo Sovrano (1990), sempre di Magni e sempre interpretati dal grande Manfredi, seppur in ruoli diversi. Le musiche sono di Armando Trovajoli.

Abbiniamo a questo splendido film una ricetta molto popolare e decisamente romana: i supplì.

INGREDIENTI:300 gr. di riso carnaroli per risotti – sugo di pomodoro o di carne con macinato di vitella – 1 etto di parmigiano – 1 noce di burro – 3 uova – 200gr di pangrattato – 1 fior di latte tagliato a cubetti – sale e pepe q.b. – olio di arachidi per friggere.

PROCEDIMENTO: Bisogna fare un vero e proprio risotto con un sugo di pomodoro e basilico o se preferite con un sugo di carne (con del macinato di vitella); quando avrete raggiunto la cottura, aggiungere ½ etto di parmigiano e girare, pepe e sale, ed una noce di burro. Farlo freddare a temperatura ambiente. Preparare gli altri ingredienti sul tavolo da lavoro: mettere in un piatto piano il pangrattato, in un altro la mozzarella tagliata a cubetti, in una ciotolina il restante parmigiano e in una ciotola le uova sbattute regolate di sale e pepe nero. A questo punto, bagnarsi le mani e mettere nel centro della mano una noce di risotto freddo, inserire uno o due cubetti di fior di latte ed un po’ di parmigiano grattugiato, e richiudere con le mani il riso con il ripieno al centro sino a formare una specie di palla allungata; rotolare il supplì nell’uovo sbattuto, nel pangrattato, poi ancora nell’uovo ed infine nel pangrattato. Questa duplice operazione creerà una crosta molto croccante e spessa al supplì, che resterà al contrario morbido ed umido all’interno.

Friggere in abbondante olio di arachidi ben caldo. Scolare i supplì con un colino, salarli e servirli in un piatto da portata coperto di carta paglia.

LA CANTATRICE CALVA di Eugène Ionesco, regia di Massimo Castri

LA CANTATRICE CALVA di Eugène Ionesco, regia di Massimo Castri

(Teatro Vascello – Roma, 31 marzo/4 aprile 2015)

Dopo Pirandello e Beckett, Massimo Castri torna a immergersi nelle stranianti atmosfere dell’umoristico teatro dell’assurdo. La cantatrice calva di Ionesco. Quella che “si pettina sempre allo stesso modo”. Quella alla quale resta affidato il testamento artistico di Castri, scomparso nel gennaio del 2013.

“Interno borghese inglese, con poltrone inglesi”. La scena riproduce fedelmente la cornice della “serata inglese” entro cui si inscrive la pièce di Ionesco, mentre il rintocco dell’orologio scandisce con impeccabile precisione l’immobile scorrere del tempo che attraversa le vite dei signori Smith e dei signori Martin. Quando la maschera aderisce così perfettamente al volto fino a soffocarlo, non resta che adattarsi al tanto alienante quanto rassicurante conformismo delle convenzioni borghesi, fatto di cene sempre uguali e di persone interscambiabili persino nel nome (Bobby Watson), di aneddoti già sentiti e di sposi che non si riconoscono, di pompieri in cerca di incendi da spegnere e di cameriere che recitano versi ardenti di infuocato calore. Di frasi fatte e di coppie sfatte.

Il tutto supportato da dialoghi che sfruttano, esasperandolo ad arte, l’espediente di una “ovvietà fuori contesto”, amplificato dalla pressoché completa rinuncia di ogni verosimile nesso di conseguenzialità logica. Emblematico il dilemma epistemologico sintetizzato dall’interrogativo “Quando suonano alla porta c’è qualcuno o no?”: l’incalzante scambio di battute che ne deriva, sembra sintetizzare il superamento di una causalità a priori di matrice kantiana a favore di un falsificazionismo dal sapore popperiano, elevato a chiave di lettura di un’esistenza annoiata e (anche per questo) paradossale. E, dunque, “quando suonano alla porta, talvolta c’è qualcuno, talaltra non c’è nessuno”.

L’impegnativo peso di un classico che torna in scena per l’ennesima volta è ben sostenuto dalla mai tentennante maestria degli attori (Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio e Francesco Borchi), capaci di coinvolgere e travolgere il pubblico nella serrata “battaglia di luoghi comuni” che prepara alla circolare chiusura dello spettacolo.

Una perla di indubbio valore, ospitata dalla deliziosa conchiglia del Teatro Vascello, immersa nelle acque di Monteverde Vecchio e offerta agli spettatori dalle sapienti mani della Direzione artistica di Manuela Kustermann.

data di pubblicazione 01/04/2015


Il nostro voto:

LA CANTATRICE CALVA di Eugène Ionesco, regia di Massimo Castri

IL RITORNO A CASA di H.Pinter, regia di Peter Stein

Quando Ted, professore di filosofia in un’università americana, torna con la moglie Ruth, nella casa della sua infanzia a Londra, trova la sua famiglia che non ha lasciato la vecchia dimora dove vivono ancora il vecchio padre, lo zio Sam e i due fratelli Lenny e Joey, La casa è rimasta tale e quale in maniera impressionante, con la poltrona del padre capofamiglia al centro della scena. Questo ritorno è l’occasione di una serie di incontri in cui i rapporti sono quelli tipici del Pinter prima maniera: caratterizzati da dialoghi e battute brevi, contradditorie, come i comportamenti dei personaggi; pause, silenzi, dettagli trascurabili o ingranditi in maniera deformata. Ogni azione, ogni parola ne sottintende altre, ogni insinuazione o silenzio potrebbe dar adito ai malintesi. La crudeltà dei rapporti familiari può ricomporsi al calore di un ricordo per poi smentirsi nuovamente, mentre il personaggio di Ruth catalizzerà l’interesse del microcosmo maschile e potrà, a fine commedia, occupare il posto del padre, la famosa poltrona del Capofamiglia, ma non è detto che invece  la donna sarà una vittima sacrificale, mentre Ted lascerà definitivamente la casa perché ha capito che probabilmente è la sola via di salvezza. Questa pièce oggi non è più scandalosa come poteva apparire al momento della prima londinese (1964) ma colpisce ancora come coltello nella piaga dell’istituzione familiare e soprattutto piace perché aldilà di ogni lettura è una bellissima pièce, dove è stimolante soprattutto il linguaggio, il non detto. Un eterno problema dei registi è stato sempre: come mettere in scena il linguaggio di Pinter. C’è chi ha esagerato con le metafore e i silenzi, specialmente nei primi allestimenti; c’è chi ha piegato alla propria poetica i temi pinteriani, tradendoli del tutto (per esempio Visconti), c’è chi oggi sceglie la strada di un realismo alla Eduardo, come ha  fatto molte volte Carlo Cecchi. Quando nel 1974 ci fu la prima italiana di Ritorno a casa, Carla Gravina chiese consiglio a Pinter sul personaggio di Ruth e l’autore le disse: “cerca di non farne una ninfomane”. Dunque si presume che volesse personaggi naturali, non grotteschi. Potrebbe quindi suscitare qualche perplessità quella recitazione imposta dal grande regista tedesco Peter Stein, tutta sopra le righe, sia nella voce sia nel linguaggio del corpo, ma tutto sommato gli attori sono efficacissimi (in primis Paolo Graziosi) e la messinscena del bellissimo spettacolo nel suo insieme è da ammirare per l’encomiabile sorvegliatissima e intelligente regia che  sottolinea ogni battuta e ogni spazio, ogni vuoto. In definitiva il suo progetto registico ha vinto e gli applausi scrosciano.

data di pubblicazione di 30/03/2015


Il nostro voto:

LATIN LOVER di Cristina Comencini, 2015

LATIN LOVER di Cristina Comencini, 2015

C’è tanto cinema italiano nell’ultimo film di Cristina Comencini, con vere e proprie ricostruzioni di scene celebri tratte dai film di Scola, De Sica, Monicelli, Germi, Risi, Leone e Fellini. La regista e sceneggiatrice, oltre che apprezzata scrittrice, accorcia le distanze del cinema nostrano odierno rispetto al boom degli anni ‘60 e ’70,grazie a questa pellicola corale godibile, ironica e ben calibrata.

L’attore di cinema Saverio Crispo (Francesco Scianna in versione “sciupafemmine”, molto lontano dai suoi esordi sempre con la Comencini ne Il più bel giorno della mia vita), viene celebrato nel suo paese natale a dieci anni dalla morte, con una cerimonia pubblica con tanto di targa commemorativa; partecipano all’evento le due mogli “ufficiali”, e quattro delle cinque (forse sei…) figlie, alcune delle quali nate fuori dal matrimonio, ma tutte con una caratteristica comune: si chiamano con nomi che iniziano con la “S” di Saverio, come fosse un marchio di fabbrica.

Nonostante le innumerevoli avventure amorose, Saverio è stato un uomo adorato dalle donne che, anche dopo innumerevoli tradimenti, ci tengono ancora oggi ad essere ricordate come parte integrante della sua vita; vero e proprio seduttore, uomo latino dal temperamento romantico dotato di fascino e galanteria, si è sempre atteggiato nella vita privata a specchio della sua carriera di attore. Le cinque figlie, di nazionalità italiana, francese, spagnola, svedese e americana, sono infatti testimonianza della sua carriera internazionale: oggi, tuttavia, da donne oramai adulte, alcune delle quali con significativi problemi di autostima, si ritrovano tutte insieme a celebrare “quell’ombra” proiettata in luogo di un’evanescente figura paterna troppo spesso assente con ognuna di loro.

L’intero cast, quasi completamente al femminile, è di tutto rispetto e tra le interpretazioni spicca l’ultima di Virna Lisi alla quale Latin lover è dedicato. Ottima la coppia Finocchiaro-Marcorè. Divertente e originale l’idea delle incursioni dentro i film più famosi del nostro panorama nazionale. Buono il ritmo da ritrovata commedia all’italiana, con non poche divertenti sorprese, alcune delle quali quasi impensabili! Da vedere.

data di pubblicazione di 29/03/2015


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LA FAMIGLIA BÉLIER di Éric Lartigau, 2015

LA FAMIGLIA BÉLIER di Éric Lartigau, 2015

Paula Bélier (Louane Emera). Bélier, come “montone”. Sedici anni. Il corpo che cambia, il cuore che inizia a battere tra i banchi di scuola, la fisiologica contrapposizione generazionale con i propri genitori, il distacco dal nido familiare come necessario anello di congiunzione tra l’adolescenza e l’età adulta. Fin qui nulla di nuovo. Solo che Paula è l’unica nella sua famiglia in grado di sentire e di parlare. Comunica con la mamma (Karin Viard, semplicemente strepitosa), il papà (François Damiens) e il fratellino (Luca Gelberg) attraverso il linguaggio dei segni, rendendosi generoso e impeccabile ponte tra il silenzio che avvolge la sua casa e il frastuono che si agita fuori da quelle mura. Un’armonia in cui le note e le pause sembrano integrarsi su uno spartito dal solido equilibrio, fino a quando il destino, amabilmente crudele, non decide di imporre un nuovo ritmo e una nuova melodia nella fattoria della famiglia Bélier. Paula ha una pepita in gola, che il suo insegnante di canto (Éric Elmosnino) ha tutta l’intenzione di lasciar brillare alla luce del sole. Perché chi ha ricevuto in dono dei talenti non può permettersi il lusso di non investirli nella ricerca di un sogno. Anche qualora quel sogno richieda di abbandonare la bucolica campagna per la caotica città. Anche qualora quel sogno dovesse rendere ancor più doloroso il fisiologico distacco.

Sarebbe riduttivo leggere La famiglia Bélier come un film sulla diversità o come una più ampia riflessione sulle tante vie attraverso cui è possibile comunicare, se solo si trovi il coraggio di guardare (e di sentire) oltre le etichette e gli schemi. Si tratta piuttosto di un delicato componimento poetico, fatto di punti di vista, apparentemente antitetici, che si alternano, si avvicinano, si sfiorano e infine si fondono pur restando distinti, come quando, nella scena del duetto e in quella dell’audizione, lo spettatore “sente” di essere una nota e, al tempo stesso, una pausa, parte integrante dell’affascinante spartito intitolato “famiglia Bélier”.

Risulta coerentemente inserita nei tempi e nello spirito del racconto anche la prospettiva politico-sociale, affidata alla candidatura di papà Bélier a Sindaco del suo paese. Il manifesto con la foto di un sordo e lo slogan “Io vi ascolto”, insieme alla (a tratti esilarante) campagna elettorale portata avanti con entusiastica e contagiosa convinzione, stigmatizzano, senza ridondante retorica, quel sordomutismo di una classe politica che, sempre più spesso, risuona in maniera assordante nei tradizionali modelli della democrazia occidentale.

Convincente la prova della protagonista Louane Emera, classe 1996, la quale passa con ammirevole disinvoltura dallo psichedelico luccichio del palcoscenico di “The Voice” alle luci caldamente suffuse di una commedia che, sia pur cedendo a tratti alle lusinghe dello stereotipo d’effetto (la corsa dell’ultimo minuto e all’ultimo respiro), è in grado di coinvolgere, divertire, stupire e commuovere.

 

data di pubblicazione 26/03/2015


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CRESCERANNO I CARCIOFI A MIMONGO di Fulvio Ottaviano, 1996

CRESCERANNO I CARCIOFI A MIMONGO di Fulvio Ottaviano, 1996

Film semplice e senza pretese, potremmo dire girato quasi in maniera dilettantesca, che affronta il difficile tema della disoccupazione giovanile, il tutto svolto con una velata malinconia dalla quale però, a tratti, emerge una inaspettata vitalità.

Sergio (Daniele Liotti) si è laureato in agraria con una tesi sulla coltivazione dei carciofi. Vani sono i suoi tentativi di trovare lavoro mentre Enzo (Valerio Mastandrea), con il quale divide casa, non pensa altro che a spassarsela con le donne.

Un giorno viene a sapere che Rita (Francesca Schiavo), la sua ex ragazza e della quale è ancora innamorato, sta per sposarsi. Imprevedibilmente lei stessa propone a Sergio di passare con lui la notte prima delle nozze per festeggiare l’addio al nubilato.

Ma ci aspetta un finale a sorpresa: Rita non si sposerà più ed insieme a Sergio andranno in Africa, a Mimongo, ad avviare una coltivazione di carciofi.

Il film ci suggerisce questa ricetta molto semplice: tortino con carciofi ed alici.

INGREDIENTI: 8 carciofi – 1kg di alici fresche ben pulite dalle lische – 400 grammi di formaggio fresco tipo primo sale – sale e pepe q.b. – pan grattato ed olio d’oliva.

PROCEDIMENTO: Pulire i carciofi e tagliarli in fettine molto sottili. Sistemare le alici già ben pulite e tagliare il formaggio a fettine. Oleare una teglia e cospargerla con il pan grattato, quindi sistemare un primo strato di carciofi, poi uno strato di alici e poi di fettine di formaggio. Aggiungere un poco di sale, pepe ed olio d’oliva, poi rifare l’altro strato sino a chiudere con le fettine di formaggio.

Il tortino va poi coperto con un foglio di alluminio ed infornato per circa un’ora alla temperatura di 180°. Va servito tiepido.

LA CANTATRICE CALVA di Eugène Ionesco, regia di Massimo Castri

CARMEN di Enzo Moscato, regia di Mario Martone

(Teatro Argentina – Roma, 18 marzo 2015/19 aprile 2015)

Al Teatro Argentina, si proprio al Teatro Argentina e non al Teatro dell’Opera o al Teatro La Scala di Milano, è in scena Carmen. L’opera secolare e indimenticabile di Bizet assume una veste completamente inedita.  Anzitutto, al posto dell’orchestra tradizionale, tipica di ogni opera lirica che si rispetti, prende posto nel golfo mistico la poliedrica Orchestra di Piazza Vittorio che assume nella narrazione diretta da Mario Martone un ruolo fondamentale grazie all’espressività e la poliedricità dei suoi componenti. Subito dopo il golfo mistico dei musicisti – che mai come in questa occasione diviene simbolo del Golfo di Napoli come crocevia di culture, volti, colori e artisti provenienti da tutto il mondo – si sviluppa la scena, anch’essa inconfondibilmente rievocativa dei vicoli partenopei nonché dei paesaggi realizzati dagli artigiani di San Gregorio Armeno. Lo spettatore si imbatte nella Carmen gitana (magistralmente interpretata da Iaia Forte) alla quale fa da contraltare il “soldatino forestiero” del Nord Italia (Roberto De Francesco). La storia è tremendamente attuale e per nulla lontana dai tristi fatti di cronaca nera che vedono sempre troppo spesso le donne vittime dei loro compagni. Mario Martone e Enzo Moscato, con la complicità dei colori, dei suoni e delle voci dei musicisti dell’Orchestra di Piazza Vittorio rivoluzionano l’opera lirica di Bizet, che rimane appannata sullo sfondo. Le musiche riscritte per l’occasione, e solo in parte ri-arrangiate ispirandosi al pentagramma lirico, sono le vere protagoniste del ritmo della storia portata in scena e creano un connubio inscindibile con i colori sfavillanti e luccicanti (delle lampadine, degli abiti di scena) contrapponendosi alla drammaticità della storia e alla tragedia del femminicidio. Questo, infatti, si consuma durante il chiasso e le risate di una processione guidata dalla torre decisamente kitsch, dotata di Madonnina illuminata, dalla quale un cantante neomelodico e un cantante arabo (forse tunisino o egiziano) – anch’esso decisamente neomelodico – intrattengono la folla dei “devoti” napoletani. Il tema della malavita, della disperazione, della “stupidità” dell’amore che supera il limite degenerando in gesti tragici, della rassegnazione di chi è nato e cresciuto nella Napoli arida dei sobborghi e, solo per questa circostanza storico-temporale-geografica, non fa nulla per provare a migliorare, a ribellarsi ad essere migliore, sono ben sintetizzati nella rappresentazione. L’Opera, però, prende inoltre le distanze dai Libretti di Bizet perché la Carmen di Martone non muore, non tace bensì, per mano del folle amante Josè, viene soltanto resa cieca. E così Carmen, seppur privata dei suoi luminosi occhi azzurri, non rimane al buio, non rimane la silente vittima del suo amante-carnefice. Carmen vive ed con le sue parole, le sue denunce, continua e continuerà a dar voce al suo pensiero che è sempre stato profondo a dispetto della sua immagine superficiale di prostituta. Carmen dunque come donna viva e pensante, forte, diviene il messaggio di speranza e di lotta avverso i soprusi e le violenze contro le donne e il femminicidio. Nella rappresentazione, purtroppo, non convince l’interpretazione del personaggio di Josè, un po’ giù di tono, spento, che non corrisponde al Josè mosso dalla cieca passione omicida per la sua Carmen. L’Opera realizzata dal talento di Martone e Moscato catalizza sicuramente l’attenzione per tutti i 75 minuti ma, forse, il merito va principalmente alla bellezza e al ritmo delle composizioni musicali (accompagnate da una valida Iaia Forte in veste di cantante) che rievocano non solo atmosfere gitane ma anche arabeggianti quasi a ricordare proprio quelle Terre in cui ancora troppo spesso alla donna è negata voce, è negato spazio, nella famiglia come nella società, in nome di un finto ed ottuso rispetto.

data di pubblicazione 25/03/2015


Il nostro voto:

# DELL’ALLUVIONE scritto, diretto e interpretato da Elena Guerrini.

# DELL’ALLUVIONE scritto, diretto e interpretato da Elena Guerrini.

 (Teatro Due Roma,  20 – 22 marzo 2015)

Nel novembre del 2012 il fiume Albenga esonda travolgendo uomini e cose.

Il fango entra dovunque, nelle case e nell’animo della gente e si porta via tutto.

La coscienza di molti è invasa dai detriti, si attendono i soccorsi per un tempo sospeso lungo come tutta una vita, anch’essa spazzata via. Abbiamo una alluvione.

Solo qualcuno galleggia senza sporcarsi: sono i politici che detengono il potere e che già pensano, mentre il fiume sommerge il paese, a tutto quello che ne verrà in termini di ricostruzione e di soldi da intascare.

L’attrice, in questo serrato monologo tra i pochi oggetti sparpagliati, sopravvissuti al disastro, trova abilmente il pretesto per denunciare che qui in Italia non funziona niente e, mentre la gente è imbottita di programmi spazzatura, i teatri chiudono e si muore di inedia: solo una vera rivoluzione interiore, più che sociale, ci potrà salvare da questa dilagante indifferenza a tutto.

Buona l’interpretazione di Elena Guerrini, alla quale ha fatto seguito un serrato dibattito con il pubblico presente sulla disastrosa situazione dei teatri italiani; l’attrice, che è anche regista dello spettacolo, ha lavorato per molti anni in teatro con la compagnia di Pippo Delbono e nel cinema affiancando registi quali Pupi Avati, Pappi Corsicato, Giuseppe Bertolucci.

Da alcuni anni organizza laboratori teatrali portando avanti un discorso di impegno politico ed ambientale.

 

data di pubblicazione 23/03/2015


Il nostro voto:

NESSUNO SI SALVA DA SOLO di Sergio Castellitto, 2015

NESSUNO SI SALVA DA SOLO di Sergio Castellitto, 2015

Tesoro ma non hai cenato?” … “si ma ora ho fame!”. Con questo scambio finale di battute tra madre e figlia (Anna Galiena e Jasmine Trinca) volgono al termine gli ultimi minuti del nuovo film diretto da Sergio Castellitto che si svolge nel tempo di una serata a cena fuori tra una coppia in crisi. Nessuno si salva da solo riporta sul grande schermo un tema caro ai registi italiani degli ultimi anni, ovvero quello delle nuove famiglie dei trentenni contemporanei: coppie sempre troppo spesso segnate dallo scontro tra passione e precarietà – d’animo e lavorativa – che finisce con il rendere il nucleo familiare sempre più fragile e utopistico. Gaetano e Delia (i 2 protagonisti interpretati da Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca) appartengono a due realtà familiari socialmente diverse eppure uguali: nell’infanzia e nell’adolescenza di entrambi ha inciso il peso di figure genitoriali che sotto profili differenti sono state tradizionali e al contempo anomale e che, in modi diversi, li hanno segnati profondamente. E proprio questo è il primo messaggio del film: la famiglia ci segna. Se un genitore o entrambi, anche in buona fede o semplicemente per distrazione, ci provocheranno un trauma ecco che quel gesto, quell’episodio, il clima domestico ci segnerà per sempre e segnerà quello che proveremo a costruire come compagno/a, come marito/moglie e come genitore. Accanto al “giuoco delle parti” dei personaggi delle famiglie dei due protagonisti, nella narrazione della loro storia assume un peso specifico l’elemento del cibo – ma per fortuna con sfumature decisamente soft rispetto a quelle dell’ultimo lavoro di Saverio Costanzo, Hungry Hearts -: i sintomi di un’intolleranza alimentare sono l’occasione che fa incontrare il “tamarro” Gaetano con la nutrizionista Delia; i di lei problemi con il cibo durante il liceo – scaturiti dalla presenza troppo sexy, femminile e ingombrante della mamma (un’impeccabile Anna Galiena nel ruolo di madre, nonna e suocera). E, prima di tutto, è proprio una cena al ristorante – apparentemente finalizzata all’organizzazione delle prime vacanze estive da figli di genitori separati dei piccoli Cosimo e Nicola – a dare inizio alla narrazione della loro storia d’amore. Che la sceneggiatura di Margaret Mazzantini proiettata sul grande schermo grazie all’occhio sensibile di Sergio Castellitto, che si destreggia come piace e lui tra continui flash back, avrebbe colpito lo spettatore e che Nessuno si salva da solo non potesse lasciar indifferenti era ovvio. Tuttavia, questa volta la storia non convince fino in fondo: Gaetano non persuade come grande innamorato di Delia, considerato che cade nel banale clichè tradendola con la biondina svampita, sciocca e sbiadita. Così come non convince l’interpretazione di Scamarcio – rigido nella sua immagine a volte un po’ troppo piena di sé – e di Jasmine Trinca (sicuramente 10 e lode per i primi piani dei suoi occhi che riempiono i silenzi del film) la quale affettata in una recitazione talvolta troppo di maniera finisce con il mangiarsi le parole fino a non rendere nell’unico momento di sincerità in cui Delia – rigida, dura e bugiarda anche con se stessa – scoppia a piangere con rimmel colato. L’interpretazione dei due attori non tocca tutte le corde giuste e non arriva fin dove Castellitto è capace di arrivare (come fece, ad esempio, con Penelope Cruz in Non ti muovere). Un po’ frettoloso il ruolo del deus ex machina affidato ai personaggi di Roberto Vecchioni accompagnato dalla splendida e magnetica Angela Molina. Durante l’intera cena la coppia di mezza età, appassionata, sorridente e complice, fa da contraltare alla tensione, alle accuse, agli insulti con tanto di lanci di gelato in faccia della giovane coppia neo separata. E proprio l’uscita dal ristorante insieme ai due sconosciuti e i pochi tratti di strada percorsi con loro ascoltando il verbo filosofeggiante di Vecchioni diventano il tavolo in cui si rimescolano le carte della partita di cuore e sentimenti tra Gaetano e Delia. Alle 4 del mattino Gaetano accompagna a casa Delia, la bacia sulla guancia e ne va. Ed è così che a Delia, sotto le note e la voce toccanti Lucio Dalla, viene improvvisamente una gran fame: cibo e amore, cibo e passione. Perché il vero amore non fa venir solo le sdoganate “farfalle nello stomaco”, ma spesso quando lo incontri, o quando lo ritrovi, viene un sanissimo e gustosissimo appetito. E la poesia di Lucio Dalla di quell’“appetito” è la colonna sonora per eccellenza.

 

data di pubblicazione 23/03/2015


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VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

Le montagne fredde e innevate dell’Albania. Una bambina rimasta orfana salvata da un uomo in grado di divenire la sua finestra sul mondo e, al tempo stesso, le sbarre che le impediscono di prendersi il mondo pulsante al di fuori di quella finestra. È un misto di Georgie e Lady Oscar la piccola Hana, la quale, crescendo, assume i lineamenti mascolinamente femminili di Alba Rohrwacher e carica sulle sue gracili spalle il peso di quella roccia che a un certo punto “sceglie” di diventare. In una società retta da un modello familiare e sociale integralmente e incondizionatamente patriarcale la donna non può davvero scegliere. Non può bere, non può contraddire, non può fumare, non può essere libera (anche solo di non essere qualcosa di chiaramente definito). L’alternativa è scendere dalle montagne e lasciarsi trascinare via dalle onde del mare, come fa Lila, la sorella di Hana, schivando la pallottola del matrimonio combinato che vorrebbero piantarle nel cuore; oppure restare, come fa Hana, invocando la tutela offerta dal Kanun, legge non scritta eppure in grado di assumere quella forza di indiscussa e indiscutibile inderogabilità che solo le leggi non scritte sono in grado di vedersi riconosciuta senza bisogno di tribunali e di sentenze. Hana giura di restare vergine. Che vuol dire non solo rinunciare alla propria sessualità, ma anche al proprio nome, al proprio corpo, alla propria pelle, al proprio sguardo. Quando entrambi i genitori muoiono, quando sulle montagne la neve inizia a sciogliersi, Hana “sceglie” però di scivolare a valle. Di cercare sua sorella. Di allentare gradualmente la pressione di quella fascia che le comprime il seno. Di specchiarsi nelle acque di una piscina capace di tenere a galla i corpi (e le anime) più diversi. Di sorridere di fronte a quelle parole “mai dette e scritte male” che proiettano la sua vicenda particolare sul più ampio schermo di una, per dir così, “condizione femminile” capace di andare ben oltre i confini segnati dai monti albanesi.
Una storia indubbiamente potente, ispirata al romanzo omonimo di Elvira Dones e che segna l’esordio cinematografico di Lucia Bispuri, tenuta a battesimo dalla buona accoglienza riservatale all’ultimo Festival di Berlino. Sebbene il messaggio e la “morale” si rivelino, almeno a tratti, didascalicamente esibiti, lasciando in troppo evidente superficie l’avvio di una complessa e per nulla scontata metamorfosi, Vergine giurata resta un film armoniosamente composto nella convincente alternanza spazio-temporale che scandisce il racconto, con un’essenzialità dei dialoghi tesa a valorizzare l’eloquenza delle immagini e la dinamica fissità dello sguardo di Alba Rohrwacher, costante e rassicurante certezza del cinema italiano degli ultimi anni (Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia per Hungry Hearts di Saverio Costanzo).

data di pubblicazione 23/03/2015


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