da Alessandro Pesce | Ott 8, 2015
Durante una spedizione su Marte, una tempesta tremenda costringe l’equipaggio a partire improvvisamente, ma dimenticano un uomo sul pianeta. Per fortuna questo navigatore non si perde d’animo ed escogita sistemi per sopravvivere da solo lassù.
Per raccontare questa storia Ridley Scott sceglie di usare il filtro della memoria degli anni 80 sia evocando lo stile di certe pellicole simili sia facendo ricorso a una strabordante serie di stereotipi del tipo in voga in quell’epoca: fantasia sfrenata e poco credibile nell’immaginazione fantastica, un umorismo da Happy Days (Fonzie compreso), facile esultanza ad ogni risultato raggiunto, applausi e certe ingenuità volute compresa l’insistita presenza di canzoni datate e disco music.
Indubbiamente Scott riesce a divertire e a ritrovare una vena che sembrava scomparsa nelle ultime prove scialbe, ma il gioco su cui basa il film presto mostra la corda, ovvero, forse, siamo noi pubblico a non essere più disposti ad accettare quel tipo di “divertissement”, fatto sta che il risultato finale è modesto, la lunghezza del film è sproporzionata e Damon protagonista è sprecato.
data di pubblicazione 08/10/2015
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da T. Pica | Ott 8, 2015
(Piccolo Eliseo – Roma, 8 ottobre/1 novembre 2015)
Una sorprendente Iaia Forte porta sul palcoscenico appena restaurato del Piccolo Eliseo di Roma un incorreggibile e spregiudicato Tony Pagoda. L’emblema del machismo partenopeo, frutto della “penna” di Paolo Sorrentino con il romanzo Hanno tutti ragione, si muove sul palco attraverso il camaleontico corpo di un’attrice decisamente femminile e intensa. Il pubblico del teatro diviene il pubblico dell’evento top della carriera del cantante melodico Tony Pagoda: il concerto al Radio City Music di New York al cospetto nientepopodimeno di Frank Sinatra in persona! La cocaina, l’alcool, il disprezzo per tutte le comuni banalità con cui tutte le persone conosciute “hanno ragione” ispirano il flusso di coscienza dell’apparentemente arido cantante. E così nell’attesa tra le quinte e il camerino e sul palco del Radio City Music al cospetto della leggendaria The Voice, Tony si scatena: tra una canzone e un ballo esibizionista da voce ai suoi ricordi, alle sue gesta di latin lover senza scrupoli. Ma, tra una sigaretta e una canzone, tra un apprezzamento colorito e le irresistibili considerazioni ciniche, Tony svela anche il suo lato fragile e umano di uomo romantico ancora, e per sempre, innamorato di un’unica donna: Beatrice; di uomo “ispirato” dalle sfumature, che solo un’anima sensibile può vedere e apprezzare. Ma non c’è modo di trovar pace. E così, dopo la sconvolgente emozione dell’incontro con Frank Sinatra che lo va a salutare in camerino dopo il concerto, Tony è inevitabilmente attratto dalla “calamita” dell’effimero peccaminoso e non può che abbandonare l’estasi della realizzazione di un sogno, l’idillio del successo canoro, per precipitarsi nel torbido dell’insoddisfazione perenne – del resto il successo sta sul cesso – abbandonandosi ad una solitaria notte brava con 3 prostitute che poi, però, si risolve in una fonte di riflessioni e di bilanci sulla sua vita: tutto è stato troppo…o troppo poco. I temi dell’effimero, dell’apparenza, del sogno come ritorno all’infanzia e delle fragilità umane ricorrono nella rappresentazione dei primi due capitoli di Hanno tutti ragione. La solitudine, contrastata perseguendo in tutte le sue possibili forma la “comunicazione”, e la debolezza di un uomo che, fin dalla scomparsa dei suoi genitori, è cresciuto celando la sua sensibilità e l’amore per le sfumature della vita dietro un’ostentata sicurezza fatta di gestualità volgare e pacchiani anelli d’oro; l’asfissia della mondanità vissuta galleggiando in apnea, il percepirsi come un uomo che è una vita che manca, riflettono il malessere dello sfavillante Tony Pagoda che altro non è che la caricatura di se stesso e di tutti quegli uomini che “armati” di machismo e bullismo testosteronico, tendono, per una puerile vergogna, a insabbiare le ferite e le fragilità dell’anima sminuendo continuamente la donna e la vita. Ovviamente è geniale che dietro un simile maschilista e la sua tracotanza ci sia Iaia Forte che parla, gesticola e balla proprio come farebbe Mr. Pagoda. Soltanto durante la simbolica narrazione dell’atto sessuale tra Tony e le 3 prostitute si percepisce che dietro quel macho c’è la bravissima Iaia Forte con le sue movenze e i passi gitani rievocativi della Carmen di Enzo Moscato che ha interpretato nella scorsa stagione teatrale. Ma non è tutto. Iaia “Pagoda” è anche una vera cantante che incanta e coinvolge un pubblico emozionato in una versione davvero intensa di Nun è peccato. Una grande prova di teatro da non perdere!
data di pubblicazione 08/10/2015
Il nostro voto:
da Antonella D’Ambrosio | Ott 7, 2015
Anton Corbijn si cimenta in una storia intimista che vede come interpreti nientemeno che Dennis Stock, il grande fotografo della Magnum, e James Dean in un momento fulcro della loro vita professionale, quando entrambi sanno di valere, ma non sono ancora pienamente apprezzati dagli altri. La storia ci racconta che ciascuno di loro, consapevole della propria abilità, pensa che farà la fortuna dell’altro.
Dennis Stock, magnificamente interpretato da Robert Pattinson, sa di conoscere il proprio mestiere, mentre è incerto e frenato da problemi economici e da una vita familiare alquanto incerta.
Separato dalla moglie, che lo disprezza perché non trova il tempo di dedicarsi al figlio, si barcamena tra servizi fotografici sui set, alla ricerca di una dimensione artistica che James Dean sa nel profondo di avere già trovato.
È l’incontro di due ambiziosi giovani uomini alla ricerca del riconoscimento professionale l’uno dell’altro. Durante il viaggio intrapreso per portare a termine il servizio fotografico commissionato dalla prestigiosa rivistaLife – il titolo del film gioca sul doppio senso del significato life-vita –
andranno oltre questo iniziale intendimento. Si riconosceranno come entrambi orfani di uno dei due genitori e cominceranno ad aprirsi l’uno all’altro, trovando ambedue uno spunto per cambiare.
Corbijn ha vinto la scommessa di farci entrare nella realtà di quell’epoca di trasformazione e contemporaneamente di mostrarci le foto in bianco e nero di Stock (si vede anche la famosa foto di Marlon Brando vestito da Napoleone): dal punto di vista fotografico, nonostante il film sia girato in digitale, è gratificante poter quasi toccare con mano la consistenza della pellicola. L’amore di Corbijn per il suo mestiere di fotografo l’ha senz’altro favorito nelle scelte tecniche e registiche, con qualche insistenza forse eccessiva per le scene in camera oscura, quando Dennis vi si ritira per sviluppare il suo servizio.
Nonostante il film non voglia essere un biopic sulla figura del mito James Dean, che anzi lo segue e lo ritrae nella sua vita privata e fa conoscere al pubblico lati sconosciuti del grande attore, tuttavia il pur convincente Dane DeHaan sembra non essere riuscito perfettamente a scrollarsi dalle spalle il mito e appare frenato nella sua interpretazione; si pensi alla bravura di Michelle Williams alle prese coll’intramontabile Marilyn Monroe.
Due settimane del 1955, anno stesso della morte di James Dean, cruciali per i due protagonisti e visivamente godibili per il pubblico; il tema della crescita personale aggiunge interesse alla pellicola.
data di pubblicazione 07/10/2015
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da Antonio Iraci | Ott 6, 2015
Un gruppo di uomini di notte si aggira per una campagna della Turchia: un commissario di polizia, un procuratore, un medico, un presunto assassino.
Sono alla ricerca del cadavere della vittima e con il passare del tempo, sino al ritrovamento del corpo, emergono dei retroscena inquietanti che aprono nuovi sospetti e perplessità sulla verità di ciò che è realmente accaduto.
Il noto regista turco Ceylan, premiato per questo film nel 2011 a Cannes con il Grand Prix speciale della giuria, accompagna l’intera narrazione in un susseguirsi di azione e contrazione, come solo un sapiente artista cinematografico come lui riesce a fare.
Muovendosi in un contesto socio-politico certo non facile, l’autore lancia un messaggio ben preciso dove all’apparente persistere della tenebra notturna improvvisamente si affaccia il vigore delle luci dell’alba, perché dopo una notte di pianto al mattino viene la gioia, quella gioia che lo stesso Ceylan sembra affermare e che non ci deve abbandonare mai.
A questo film, dal tocco decisamente levantino, abbiniamo la ricetta del tabulè, piatto che per il denso profumo che emana ci rimanda ad una bella e conturbante notte orientale.
INGREDIENTI: 1 kg. di couscous precotto – 1 peperone giallo e 1 peperone rosso – 1 cetriolo – 1 vasetto di capperi – 1 kg. di limoni – 1 mazzetto di menta – 1 mazzetto di basilico – 1 melanzana – 2 zucchine – 1 cipolla rossa – 1 spicchio di aglio – sale e pepe q.b.
PROCEDIMENTO: Spremere i limoni e conservarne il succo. Friggere le melanzane e gli zucchini a cubetti molto piccoli. Tagliare i peperoni ed il cetriolo a pezzettini. Tagliare anche il basilico e la menta nonché la cipolla e lo spicchio d’aglio, sempre in pezzetti molto piccoli.
Assemblare i componenti, incluso i capperi ben lavati, con il couscous che deve essere messo in un gran recipiente a crudo e man mano che si aggiungono gli ingredienti va anche aggiunto il succo di limone.
Ottenuto il tabulè, lo stesso deve essere fatto riposare almeno dodici ore in frigo, meglio se un giorno, in modo da far sì che i singoli sapori possano amalgamarsi bene. Servire pertanto freddo.
da Rossano Giuppa | Ott 6, 2015
(Teatro della Cometa – Roma, 1/18 ottobre 2015)
Wikipiera al Teatro della Cometa di Roma non è solo un’intervista dal vivo abilmente condotta da Pino Strabioli a Piera Degli Esposti.
É un viaggio piacevole e sorprendente nella vita e nelle emozioni dell’attrice, nelle scelte e nelle passioni, nel suo essere un po’ controcorrente ma coerente. É il racconto di un’inebriante stagione della cultura italiana, la più irriverente forse, la più insolente ma che ha lasciato tracce indelebili.
Più di 50 anni di carriera, ricordi, incontri e pezzi di teatro in ordine sparso per un percorso di vita di una donna diversa, un’attrice diversa, capace di scelte coraggiose e di importanti rifiuti, capace di buttarsi in un mare in tempesta e di raggiungere sempre una sponda.
Facevo l’attrice da bambina a casa, da sola, le scuole di teatro mi avevano rifiutata. Riuscire a recitare portando la mia diversità ha voluto dire avere determinazione e forza…la prima a fare un monologo quando era appannaggio solo dei maschi.
Ha lavorato con Calenda, Castri, Pasolini, Ferreri, ha fatto avanguardia con Leo De Berardinis ed il collettivo Beat 72, ha collaborato con la scrittrice Dacia Maraini: artista eclettica e curiosa, di sinistra come allegramente si definisce, impegnata, irriverente e fuori dagli schemi.
Il dialogo con Pino Strabioli scorre con piacevolezza e complicità, senza eccessi, in una continua sovrapposizione di ricordi ed immagini: l’abbandono della scuola dopo le elementari perché troppo angoscianti, l’amore per la letteratura, il desiderio di essere da grande dama di compagnia, la convinzione di voler fare l’attrice, i tanti provini, un concorso di bellezza, il rifiuto a Strehler, la lunga collaborazione artistica con il Teatro Stabile de l’Aquila. E poi ancora il rapporto di amicizia che da bambina la lega a Lucio Dalla, l’incontro folgorante con De Chirico, i dialoghi con Pasolini, l’inchino di Eduardo De Filippo, la passione erotica per Robert Mitchum. E per finire la grande prova d’attrice con un monologo di Beckett che lascia incantati e ci conduce tra le pieghe dei sogni più belli, quelli che trasformano la sofferenza in colta bellezza.
data di pubblicazione 06/10/2015
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Ott 5, 2015
Un “caso editoriale”, un titolo che incuriosisce e le classifiche di vendita scalate in pochi giorni; l’ho comprato per questo.
Il libro racconta la storia di Rachel, single di ritorno e senza amici, che tutte le mattine prende un treno fino al suo ufficio di Londra; la sua vita è decisamente squallida e quel viaggio è il fulcro della sua giornata perché dal finestrino può guardare le case che le passano davanti e immaginare le vite delle persone che le abitano.
In particolar modo si affeziona ad un coppia di sposi che chiamerà Jess e Jason, tutte le mattine li vede nel loro giardino che fanno colazione e fantastica sulle loro vite appagate, serene, tranquille. Ma, una mattina, sarà testimone di una scena che stravolgerà l’idillio che aveva immaginato.
L’idea iniziale è sicuramente interessante, immaginare la vita che si svolge nelle case che si vedono passare mentre siamo su un treno – come non ripensare al racconto di Cornell Woolrich La finestra sul cortile da cui il grande maestro Hitchcock trasse il meraviglioso film -, peccato che non venga sviluppata affatto… il libro diventa il solito giallo di cui si capisce chi è il deus ex machina, e quali siano le motivazioni che ci sono dietro alle sua azioni, poco dopo averne letto la prima metà; prima metà che si raggiunge faticosamente perché il libro si trascina per pagine e pagine senza che nulla accada, in un continuo alternarsi di flashback temporali e autori diversi, sono le tre donne attrici del testo Rachel, Anna e Megan che scrivono, rendendo faticosa e a tratti noiosa la lettura. Il finale, grondate buonismo, è piuttosto scontato.
Un libro decisamente sopravvalutato.
data di pubblicazione 05/10/2015
da Antonella D’Ambrosio | Ott 5, 2015
Dopo il CONCORSO SCUOLE CLUB UNESCO è stato pubblicato il libro Isonzo teatro di guerra che contiene la riproduzione dei disegni, plastici e poster fatti dagli alunni e anche delle lettere e poesie del 1915 che li hanno ispirati; in copertina il significativo disegno che riproduce il fiume col ponte spezzato.
Nell’introduzione Marina Cerne, vicepresidente della sezione di Gorizia del Club UNESCO, ben descrive i materiali studiati dagli alunni per i loro elaborati:
“Disegni di fantasie lontane, fotografie recenti eseguite in luoghi simbolici, vecchie immagini ripescate nei cassetti di casa …. E poi le lettere: conservate per cent’anni dalle famiglie attente depositarie di archivi storici…Fotografie di uomini in divisa impettiti: forse la foto fatta per la fidanzata o la moglie al momento del richiamo alle armi, con la divisa ben stirata e le mostrine in vista. Copie di lettere dolci, talvolta sgrammaticate conservate per cent’anni – sottolineo: cent’anni – che raccontano tanto affetto, amore, preoccupazione, nostalgia, talvolta spirito di sacrificio, abnegazione ed eroismo, venute alla luce e tornate a vivere e parlare grazie alla ricerca di questi bambini e ragazzi, nipoti e bis- e tris- nipoti. Che così forse hanno riscoperto una parte delle loro radici, della storia drammatica, difficile e pervicace delle loro famiglie, ancorate in questa nostra terra, – valorizzandone la memoria”.
Con determinazione Marina Cerne persegue l’idea di far rientrare l’Isonzo tra i siti del patrimonio dell’umanità.
La sacralità dell’Isonzo è ispirata dalle bellezze naturali e dalle battaglie succedutesi che hanno sparso il sangue di oltre 300.000 soldati italiani e austroungarici durante la prima guerra mondiale.
Il fiume è stato infatti teatro delle maggiori operazioni militari sul fronte italiano dal 1915 al 1917: delle ben dodici sanguinose battaglie dell’Isonzo.
Il tesoro immenso di sensazioni dei ragazzi, di cui il libro è documentazione, sono il ricco substrato della memoria che si tramanda tra generazioni. In una società dell’effimero come la nostra, esistono ancora insegnanti e istituzioni che stimolano la curiosità dei giovani e i ricordi degli anziani.
Queste testimonianze dell’oggi focalizzate con attenzione e amore, estraendo non solo le espressioni più originali, ma anche le ripetitive, in quanto significative di sensazioni condivise, hanno cercato e trovato il legame tra generazioni e partorito una forte presa di coscienza contro tutte le guerre.
L’Isonzo è un simbolo così profondo e una realtà così vasta da non poter essere confinata alla sola provincia di Gorizia: fa parte della storia di tutti noi.
data di pubblicazione 05/10/2015
da Rossano Giuppa | Ott 5, 2015
Al Roma Europa Festival in scena Vortex Temporum della coreografa Anne Teresa De Keersmaeker.
Vortex Temporum è una composizione di Gérard Grisey in 3 movimenti, chiamati da Vortex Temporum I, II, III. Ciascun movimento è seguito da un breve interludio, costituito da fruscii pressoché inudibili.
Il titolo definisce la nascita di una formula di arpeggi vorticosi, iterati e la sua metamorfosi in vari campi temporali; alla fine è la continuità ad imporsi con il tempo dilatato: «la metrica è spesso annegata nella vertigine della durata pura» scriveva infatti Grisey; «l’ultima parola, diceva Varèse, è l’immaginazione. Io vi aggiungo l’emozione che crea la forma musicale … La musica è Numero e Dramma diceva Pitagora, l’arte musicale è un’arte violenta per eccellenza. Ci fa percepire ciò che Proust chiamava un po’ di tempo allo stato puro, quel tempo che presuppone simultaneamente l’esistenza e l’annientamento di ogni forma di vita».
In Vortex Temporum Anne Teresa De Keersmaeker prende spunto dalla composizione di Grisey per dare immagine e nuova dinamicità alla musica polifonica. Sei danzatori e sei musicisti in uno spazio ampissimo. Ciascun danzatore è legato ad uno dei sei musicisti in scena ed il suo gesto è in relazione alle note dello strumento. Tutti i performer sono in continuo movimento ed attraversano lo spazio, risucchiati in un vortice di centri concentrici.
Anne Teresa De Keersmaeker, già prima musicista che coreografa, in Vortex Temporum costruisce una piece che sintetizza e testimonia un percorso artistico estremo e complesso. Costruita con rigore, la performance si basa sulla “spettrale armonia” della composizione di Grisey strutturata partendo da arpeggio soggetto a continue metamorfosi e transizioni, e si sviluppa dall’evoluzione di un nucleo attorno al quale orbitano movimenti e suoni, in circolo vorticoso. Un eccellente cast di danzatori e musicisti uniti insieme in uno spazio dilato e mobile che inghiotte ed espelle rumori e sensazioni. Angoscioso ed ossessivo, il lavoro esplora come il tempo possa contrarsi ed espandersi, in una contrapposizione coreografica che esalta la partitura, i gesti dei musicisti, i movimenti dei danzatori.
data di pubblicazione 05/10/2015
da Maria Letizia Panerai | Ott 4, 2015
La psicologa Susanna (Monica Guerritore) e suo marito Alfredo (Antonio Catania), cinquantenni colti, aperti, senza pregiudizi e molto protesi verso gli altri, vivono e lavorano a Roma, lui come architetto e lei come responsabile di un consultorio per donne in difficoltà che subiscono violenze e soprusi; il loro unico figlio (Elio Germano) studia a Londra ed è fidanzato con Flaminia (Myriam Catania), “pariolina” ricca e viziata. Susanna è sicuramente quel genere di persona che identifica nel lavoro i propri ideali non riuscendo a rimanere inerme di fronte a qualsiasi forma di maltrattamento, e per questa sua “ossessione” viene sovente presa in giro da una coppia di amici (Iaia Forte e Giorgio Gobbi), proprietari di un casale in Umbria vicino a quello dove lei ed Alfredo amano trascorrere da sempre i week-end e le vacanze estive. Ma un giorno d’estate, dal finestrino della sua auto, Susanna scorge lungo la strada che la riporta in villa un uomo che picchia una giovane donna: decide istintivamente di voler proteggere la ragazza coinvolgendo il marito, suo vecchio compagno di lotte sociali sin dai tempi del liceo, che inizialmente si mostra contrario.
Il film La bella gente è del 2009, ma è uscito nelle nostre sale solo alla fine del mese di agosto di quest’anno, dopo che il regista De Matteo ci aveva già conquistati con le sue due pellicole successive: Gli equilibristi nel 2012 e I nostri ragazzi presentato a Venezia nel 2014 (Giornate degli Autori). C’è sempre una famiglia, spesso apparentemente felice, con le sue dinamiche e con problemi a volte giganteschi, al centro delle analisi del regista, funzionali per denunciare pecche che si inseriscono in maniera più ampia nel tessuto sociale contemporaneo. De Matteo nei suoi film non giudica mai ma si limita ad esporre dei fatti, lasciando libero lo spettatore di trarre le proprie conclusioni. Ed anche in questo film di “esordio al contrario”, come potremmo definire La bella gente, nel mirino c’è una certa borghesia di sinistra che quando si confronta con la realtà non sempre riesce a tenere alti i propri ideali, trasformandoli all’improvviso in semplice e volgare buonismo, ma che soprattutto mostra un forte attaccamento a quegli agi raggiunti ed ipocritamente condivisibili, che diventano di nuovo fortemente privati quando qualcuno, che non appartiene ad una ben definita e ristretta cerchia di persone, mostra di volerne un pezzetto minandone l’integrità. A quel punto basta chiudere le porte del proprio casale in una fresca serata estiva e tornare ognuno al proprio posto, facendo finta che nulla sia successo e cullando la stolta illusione di aver fatto la cosa giusta, continuando al contrario a coltivare inconsciamente le proprie debolezze e fragilità.
data di pubblicazione 04/10/2015
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da Antonio Iraci | Ott 4, 2015
Sono passati oramai molti anni dall’apparizione sulla scena letteraria italiana del libro Seminario sulla Gioventù (Adelphi, 1984), romanzo d’esordio dello scrittore Aldo Busi.
Le vicende del protagonista Barbino furono subito associate ad episodi della vita stessa dell’autore e sorprendentemente positivo fu il giudizio dei lettori nei confronti del libro che presto venne etichettato come la sua autobiografia romanzata.
In Aldo Busi si intravide la figura di uno scrittore sui generis, capace non solo di scandalizzare la casalinga frustrata con i bigodini in testa e le ciabatte ai piedi, ma anche di sorprendere tutta quella generazione di post-sessantottini, ancora in erba, che lo innalzarono a profeta di un messaggio proprio, affascinante ma anche a suo modo rivoluzionario e provocatorio.
Dopo molti anni l’autore rinnegò pubblicamente che la sua opera prima facesse diretto riferimento agli anni della sua giovinezza a Montichiari (Brescia), accanto ad una madre petulante e a dei parenti dispotici, ma comunque tale dichiarazione non sconvolse più di tanto: oramai il suo talento letterario era stato decretato dagli innumerevoli romanzi che ne seguirono e la sua fama aveva già valicato abbondantemente i confini nazionali.
Nel frattempo erano seguite le sue prime apparizioni graffianti a cominciare dalla trasmissione Amici di Maria de Filippi, a seguire il reality show L’isola dei famosi, la trasmissione Otto e mezzo, con Barbara D’Urso in Stasera che sera ed altre ancora dove si andava sempre più rafforzando la configurazione di un personaggio trasgressivo e di rottura, in tutti i sensi.
In Vacche amiche, il suo ultimo sforzo letterario composto di un unico capitolo non stop, si segue con difficoltà: un susseguirsi di insulti e di critiche verso tutto e verso tutti dal quale emerge indenne solo lui, in una sorte di voluta mistificazione del sé e di autocompiacimento letterario, e dove non si riscontra più quella misurata provocazione accompagnata da una salata dose di ironia.
Insomma, una valanga denigratoria verso tutto ciò che esiste fuori dal proprio ego narcisistico, senza possibilità di redenzione e con una scrittura pesante da sopportare, dopo aver varcato i limiti della normale decenza.
Se Seminario sulla Gioventù ebbe una gestazione ventennale, ci si augura che anche il prossimo lavoro abbia una analoga attesa, perché la vera letteratura non si fa, come l’autore stesso afferma, “con parole scritte una dopo l’altra, in un certo modo dalla prima all’ultima…”
Forse il tutto dovrebbe essere accompagnato da un sano buon senso.
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