da Alessandro Pesce | Ott 18, 2015
Yoko è in una navicella spaziale, l’ha scelta per l’arredamento rétro, è tutta sola in quella navicella, con l’unica compagnia del computer e di un rubinetto che perde gocce. Yoko fa la postina intergalattica da un pianeta all’altro, portando oggetti comuni e di un passato arciremoto; inoltre Yoko annota su un diario maniacalmente tutto ciò che fa e che nota, comprese le gocce che perde quel rubinetto. Yoko preferirebbe che gli abitanti dei pianeti usassero il teletrasporto, invece continuano a scegliere di ricevere pacchi, per emozionarsi ancora. Al di fuori, paesaggi post atomici e qualche raro esemplare umano. Il tempo scorre sempre uguale per Yoko, scandito dalle sue consegne, dai suoi tempi, da qualche incontro, qualche inconveniente, qualche notazione ironica. Questo suo tempo sembra come la rappresentazione più vicina all’idea di infinito, ma l’angoscia non prevale, proprio per la pulizia e la normalità che traspare dai gesti e dai pensieri di Yoko.
E allora fa capolino la sensazione che il film di Sion Siono non voglia parlare tanto dello spazio e del futuro apocalittico quanto della nostra vita ieri come oggi come sempre nel suo trascorrere, atemporalmente vacuo.
data di pubblicazione 18/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 18, 2015
Room, tratto dal romanzo di Emma Donoghue (titolo italiano: Stanza, letto armadio, specchio) e già vincitore del premio del pubblico al Festival di Toronto, arriva in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma.
Joy (Brie Larson), poco più che adolescente, viene rapita da un uomo che la tiene sequestrata in un capanno chiuso da una porta blindata, assicurandole la sopravvivenza e abusando sessualmente di lei. Il frutto della perversa prigionia è il piccolo Jack (lo straordinario Jacob Tremblay), che illumina con uno spiraglio di speranza la vita della donna. Joy protegge il bambino lasciandogli credere che non esista altro mondo al di fuori di Stanza, popolata da immobili ma fedeli creature: Armadio, Letto, Sedia 1 e Sedia 2, Gabinetto. Tutto il resto Jack lo conosce attraverso la magia della televisione, mentre lo scorrere del tempo e l’alternarsi delle stagioni è scandito dal sole, dalla pioggia e dal ghiaccio che si intravedono sui vetri di Lucernario. Quando Jack compie cinque anni, Joy decide di squarciare “il velo di Maya” che aveva caritatevolmente steso sugli occhi del bimbo, convincendolo a collaborare con lei per evadere dalla sbarre di Stanza.
Il ritorno nel mondo per Joy e la sua scoperta da parte di Jack si riveleranno però processi dolorosi e complessi. Gli occhi del bimbo devono abituarsi alla luce accecante del sole e alla messa a fuoco di immagini in vorticoso movimento, il suo corpo deve imparare a difendersi dai germi che affollano l’aria che cambia continuamente di temperatura, la sua mente deve gestire spazi infintamente più estesi e tempi altrettanto più ridotti rispetto a quelli che regolavano la vita in Stanza.
“Venire al mondo” è tanto difficile quanto affascinante e l’attrazione per quel che si agita al di fuori di Porta è irresistibile per l’Uomo, che è anche e soprattutto un animale sociale. Room sembra inserirsi in maniera coerente in un minimo comun denominatore mostrato da queste prime giornate del Festival capitolino: la vita rinchiusa ma protetta dalle mura domestiche e la fuga da quella realtà artefatta, usando come ponte tra “dentro” e “fuori” il cinema (The Wolfpack), la fotografia (Distancias cortas) o la televisione, come nel caso del piccolo Jack.
Il racconto di Abrahamson sa essere potente e delicato al tempo stesso, trasformando la tragedia di un orrendo reato nella delicata poesia sulle meraviglie del mondo scoperte dall’ingenuo stupore degli occhi di un bambino costretto troppo presto a divenire adulto, ma che, sulle prime confuso dalle vertigini di Mondo, ne rimane infine benevolmente “rapito”.
data di pubblicazione 18/10/2015
da Maria Letizia Panerai | Ott 18, 2015
Federico vive prigioniero nella sua decadente casa oltre che nel suo corpo obeso, corpo che gli impedisce ogni più elementare movimento, ma che soprattutto gli impedisce di socializzare, costringendolo ad una solitudine forzata. Sua sorella, pur di proteggerlo, vorrebbe che Fede non guardasse mai al di fuori della propria finestra non essendo in grado da solo di varcare la porta di casa a causa della pesante mole che è costretto a trascinarsi dietro; e quindi, durante la settimana, fa visite al fratello in compagnia del marito Ramon. Ma un bel giorno Ramon mostra la sua nuova macchinetta fotografica digitale a Federico, facendo nascere nell’uomo un desiderio, forse l’unico dopo tanti anni di solitudine: quello di averne una anche lui, perché averla vuol dire uscire di casa per fotografare ma, soprattutto, desiderare di farlo. Questo oggetto del desiderio, così normale ma così difficile da ottenere per un uomo come Federico che dovrà trascinarsi fuori per poterlo acquistare, accorcerà le distanze tra il suo handicap ed il mondo esterno, consoliderà una amicizia tutta al maschile, e permetterà all’uomo di avere un contatto anche con il proprio corpo perché, fotografandosi i piedi, potrà finalmente vederli. Distancias cortas è un film sulla ribellione, ma quella sana, che nasce dall’amore e dall’amicizia, che ti porta a vivere nonostante le difficoltà.
data di pubblicazione 18/10/2015
da Rossano Giuppa | Ott 17, 2015
Manhattan Lower East Side. I sei fratelli Angulo vivono in un appartamento separati dal mondo. Non escono, studiano in casa, è troppo alto il rischio di essere contaminati dai pericoli esterni. Il loro padre ha deciso così. L’uomo, seguace del culto Hare Krishna, ha potere assoluto su tutta la famiglia. Tutto ciò che per loro è vita al di là di mura e finestre domestiche, è una trasposizione intelligente di una realtà costruita attraverso la visione di oltre 5.000 film, analizzati con meticolosità ossessiva e replicati all’interno dell’appartamento, con una maniacale ricostruzione di attrezzature sceniche e costumi, realizzati con le proprie mani. La settima arte è l’unico cordone ombelicale con il mondo, una passione fatta di divertimento e professionalità sorprendenti, di straordinaria familiarità con le tecniche di recitazione, regia e scenografia.
Ad un tratto uno dei sei decide di uscire, anche se con una maschera. E’ l’inizio dell’interazione con il mondo ed è l’incontro casuale con la regista Crystal Moselle, ma anche con videocamere, google, mail. È l’illusione del cinema a salvarli e proprio la visione de Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan si muove qualcosa in Mukunda, uno dei cinque maschi, dandogli il coraggio di andare contro gli ordini paterni. La regista esordiente li avvicina a poco a poco, entrando in progressiva sintonia con il nucleo familiare attraverso il comune amore per il cinema, raccontando l’esistenza anomala degli Angulo e la loro graduale acquisizione di una misura di autonomia e autodeterminazione. I sei fratelli dai lunghi capelli neri, dopo anni di prigionia si impossessano delle strade della City, delle spiagge di Long Island, delle rive del fiume Hudson, costruendo la propria identità attraverso anche uno styling forse improbabile ma certamente geniale, un look anni ‘70 da gangster dai toni noir ‘impecable’ senza volerlo.
The Wolfpack, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Sundance nella sezione Documentari è un film straordinariamente intelligente. I ragazzi Angulo si raccontano come personaggi da film, reinterpretano i copioni, compiendo un percorso di formazione e di sviluppo, inusuale e temporalmente compresso. E il loro percorso è filmato con rispetto dalla regista che semplicemente ed efficacemente si fa testimone della loro trasformazione in giovani uomini, brillanti, curiosi e riflessivi.
data di pubblicazione 17/10/2015
da Flaminia De Rossi | Ott 17, 2015
Jeeg Robot d’acciaio è un manga giapponese, che viene pubblicato su una rivista nel 1975. La storia tratta del risveglio dal sonno millenario dell’antico popolo Yamatai, governato da Mimika e dai suoi 3 comandanti Ikima, Amaso e Mimashi, a contrastarli interviene Hiroshi con Jeeg.
Siamo trascinati per mano in una favola urbana ambientata in una Roma di superpoteri.
La ripresa in volo di una Roma nota a tutti ci guida verso una zona periferica, popolare e lasciata a se stessa, Tor Bella Monaca, attraversando la magia suggestiva della passeggiata lungo il Tevere.
La vicenda magica, pop e pulp inizia proprio qui, lungo l’argine del fiume.
Il protagonista Enzo, un delinquente di borgata, per sfuggire alla polizia si getta nelle acque del Tevere.
Il biondo Tevere lo contamina di una sostanza radioattiva che gli darà una forza sovrumana.
Il dono dei nuovi poteri scatena in lui una svolta nella sua carriera di delinquente: è soprannominato l’eroe del Bancomat perché è stato ripreso dalla telecamera mentre lo scassinava e lo smurava a mani nude, e diventa il Re della rete, il supereroe criminale.
Il video ottiene milioni di visualizzazioni, scatenando la gelosia e l’invidia della banda di criminali capitanata dallo “zingaro” (Luca Marinelli). Strabiliante la sua interpretazione, anche quella canora di “non sono una signora” di Loredana Bertè.
Il nostro Enzo (Claudio Santamaria) è destinato a difendere l’umanità dalla perfida banda.
Ma il vero superpotere lo ottiene quando entra in contatto con Alessia, convinta che sia Hiroshi, l’eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d’acciaio. Alessia è una ragazza disturbata che riesce a trasformare il solitario e scontroso pregiudicato concentrato su se stesso in una persona pronta ad aprirsi ai sentimenti.
Il magico giro sulla ruota panoramica a corrente amorosa e non elettrica, la dichiarazione d’amore ad Alessia e al mondo intero sono momenti pieni di poesia delicate, caratterizzati da una colonna sonora “vintage” e da una stilosa ironia romana che condiscono e rendono il film irresistibile e esilarante.
data di pubblicazione 17/10/2015
da Antonella D’Ambrosio | Ott 17, 2015
Il 19 e 20 ottobre sarà possibile vedere in sala il documentario di ben 114 minuti – la sintesi ultimamente non è in voga, o mancano i montatori dal carattere di ferro ? – Io sono Ingrid, fortemente voluto da Isabella Rossellini per omaggiare la figura della madre e girato dal regista svedese Stig Bjorkman.
Nel centenario della nascita ci voleva un film che mostrasse il dietro le quinte di questa artista forte e determinata.
Il regista stesso racconta di aver conosciuto meglio la grande attrice, studiando la particolare documentazione fornita dai figli. Anche il pubblico si troverà a svelare, dopo aver visto questo interessante film distribuito dalla prestigiosa BIM, una Ingrid diversa dalla nota e degna di molta stima.
Dai biopic sappiamo che numerosi grandi attori hanno alle spalle un’infanzia tormentata; non sfugge a questa sofferenza neppure la vita della Bergman, bambina presto orfana di madre e adolescente anche dell’amato padre, che l’aveva indirizzata alla passione per le fotografie e per i video amatoriali.
Con grande soddisfazione molta parte della pellicola contiene proprio i documenti di vita familiare girati dalla diva – mamma.
Si presenta ai nostri occhi uno spaccato di vita dell’epoca stimolante anche per i personaggi coinvolti. Un buon nucleo vede la presenza del grande Roberto Rossellini in atteggiamenti molto affettuosi verso la sua prole.
Seguire la volitiva donna nelle sue coraggiose scelte e godere delle immagini da lei stessa girate fa percepire il doppio prezioso livello che il regista è riuscito a dare: l’allora che torna presente con tutta la sua forza prorompente e il senno di poi che contempla con occhio distaccato, ma sempre attento, una vita e una storia densa di eventi coinvolgenti e anche complicati.
Si ascoltano con interesse le interviste rese mai banali dalle forti ma misurate frasi dell’attrice. Piacevole l’intercalare delle testimonianze di chi l’ha conosciuta, visi e parole riempiono lo schermo di affetto, dolore, ma soprattutto tanta passione.
Se ne consiglia la visione a cinefili, fan della diva, romantici e appassionati del recente passato: tutti troveranno spunti per gradire la ricca opera.
data di pubblicazione 17/10/2015
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Ott 17, 2015
Quattro adolescenti si trovano in una clinica dove, con metodi più o meno ortodossi, vengono curati i loro disturbi comportamentali.
Siamo alla vigilia di Natale ed i giovani, due ragazzi e due ragazze, sembrano con il passare del tempo veder accentuare i propri disagi in un ambiente ostile appena sfiorato dalla visita dei genitori che, per puro dovere, fanno sentire la propria presenza che si palesa anche come l’origine e la causa dei loro traumi esistenziali.
All’inizio vigili e sospettosi tra di loro, si troveranno alla fine a dover ammettere a se stessi il desiderio di complicità e di affetto che li unirà sempre di più in un vortice di forte coesione emotiva.
Nonostante il tema sia visto e rivisto in tutte le possibili salse agrodolci, Four Kings convince per il linguaggio espressivo usato, che non lascia alcun sapore di scontato nella storia narrata ma che invece sembra unirci ai quattro protagonisti in una sorta di empatia.
Forse da alcuni potrà sembrare banale e prevedibile la figura del giovane medico psichiatra, comprensivo e progressista nel metodo di terapia usato verso i ragazzi, ma anche lì si intravede un disagio, una difficoltà ad inserirsi in un contesto asettico e preordinato nel quale la società, ed in particolare il contesto lavorativo della clinica, spietatamente lo costringe a muoversi.
La regista Theresa von Eltz, nata a Bonn, dopo aver studiato storia e scienze politiche a Berlino e Oxford si è occupata con successo di serie televisive e questo film, presentato nella sezione Alice alla Festa del Cinema di Roma, rappresenta il suo film di esordio.
data di pubblicazione 17/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 17, 2015
Il regista francese Plisson ha avuto il suo grande giorno quando gli è stato assegnato il prestigioso César per il film On the way to school che per lui ha rappresentato veramente una sfida verso se stesso e verso tutti coloro che trovavano l’idea alquanto bizzarra: osservare la storia di quattro bambini, di quattro angoli sconosciuti del pianeta, per raccontare i loro sforzi quotidiani per raggiungere la propria scuola e poter ricevere una adeguata istruzione.
Analogo progetto educativo lo riscontriamo un questo film presentato quest’anno a ROMA in occasione della Festa del Cinema: anche qui abbiamo quattro giovani, ognuno diverso per cultura, ma tutti uniti nell’impegnarsi quotidianamente per raggiungere il proprio sogno di emancipazione da una realtà familiare fatta di miseria e di stenti.
Provenienti da quattro angoli sperduti del mondo, in questo documentario The big day vediamo intrecciarsi quattro storie diverse di quattro giovani che si impegnano, con grande sacrificio e sforzo, in attesa del grande giorno che cambierà radicalmente la propria vita e spalancherà le porte da un futuro migliore per sé e per i familiari che hanno fermamente creduto in loro.
Un tocco di pura poesia che ci fa comprendere a noi tutti, anche a quelli che non sono più giovani, come nella vita il prefiggersi un obiettivo, qualunque esso sia, è fondamentale per farci stare bene con noi stessi.
Belle e vere le immagini in sottofondo che ci hanno aiutato a comprendere in pieno la realtà in cui si muovono i quattro protagonisti.
data di pubblicazione 17/10/2015
da Antonella D’Ambrosio | Ott 17, 2015
Monster Hunt ha ottenuto un immenso successo in Cina e certamente a ragione. Con una fotografia ammaliante, dagli sgargianti colori, ci immette in un mondo di fantasia popolato di simpatici mostri non troppo cattivi.
L’eroe è zoppo e all’inizio forse anche un po’ tonto, ma sappiamo che è stato scelto dalla sua comunità come sindaco; ammirabile questo far emergere l’imperfezione e l’amore che nasce da un contrasto.
La ragazza è piena di doti maschili e si vanta della sua aggressività mettendola in atto in tutte le situazioni con spavalderia e furbizia.
Ruoli rovesciati, dunque, ma evoluzione dei personaggi e tanto divertimento.
Il mostriciattolo da salvare, con simpatiche smorfiette da neonato, farà da trait d’union tra i due mondi che si odiano a vicenda
Politicamente corretto, visivamente appagante il connubio tra gli attori in carne ed ossa e i mostri, adatto a tutte le età; da sottolineare la figura del samurai, venale cattura mostri, anch’esso redento.
data di pubblicazione 17/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 17, 2015
Il 2015 riporta in auge il connubio tra giornalismo d’inchiesta e grande schermo, che sembrava ormai relegato negli scaffali del cinema da collezione: dopo l’ottima accoglienza di Spotlight all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Truth si vede assegnato il compito di inaugurare la decima edizione della Festa del Cinema di Roma e di invertire la tendenza rispetto alle più disimpegnate aperture delle ultime edizioni (L’ultima ruota del carro, Soap Opera).
Il film d’esordio di James Vanderbilt racconta la scandalo esploso a seguito di una puntata della trasmissione televisiva “60 Minutes” andata in onda nel 2004, nell’ultima fase di quella campagna elettorale post 11 settembre che avrebbe consegnato per la seconda volta lo scettro di Presidente degli Stati Uniti a George W. Bush.
Il “boccone è succulento”: molti privilegiati figli del Texas, tra cui il giovane Bush Junior, evitano il sanguinario fronte della Guerra in Vietnam arruolandosi nella più rassicurante Guardia Nazionale dell’Aeronautica, non certo sulla base di pretesi meriti da pilota, ma sfruttando la via spianata dalle pressioni e dalle raccomandazioni che regolano i rapporti tra uomini di potere.
Mary Mapes (Cate Blanchett), dopo aver scosso l’America (e non solo) con il servizio sulla prigione di Abu Ghraib, decide di “produrre” anche questa storia, mettendo in campo una squadra formata dal Colonnello Roger Charles (Dennis Quaid), dalla docente di giornalismo Lucy Scott (Elisabeth Moss) e dall’alternativo freelance Topher Grace (Mike Smith). Il racconto televisivo è affidato al volto e alla voce di Dan Rather (Robert Redford), autentica istituzione dell’informazione made in USA.
I tasselli del mosaico sembrano progressivamente ricomporsi in quadro coerente e credibile, confortato da documenti e dichiarazioni tra loro concordanti. La puntata viene però mandata in onda in tempi troppo stretti per rendere inattaccabile un’inchiesta a dir poco esplosiva. Il “sistema” si insinua allora nelle fessure lasciate aperte dalle lancette di “60 Minutes” e giunge ad allestire un autentico processo, in cui l’accusa e la difesa si fronteggiano senza le garanzie di un giudice terzo e imparziale.
Il meticoloso racconto del c.d. Rathergate, sostenuto da un ritmo narrativo incalzante e coinvolgente, diviene anzitutto un inno appassionato in difesa della libertà di stampa e del giornalismo alla vecchia maniera, stretto nella morsa degli intrighi della politica, delle logiche di mercato e dell’incalzare spersonalizzante dei nuovi media. Truth è però anche una più ampia riflessione sugli abusi e le prepotenze del potere, che gli anticorpi della Democrazia non riescono ad arginare. Chi, per amore di quella verità evocata dal titolo, sceglie di sfilarsi dagli ingranaggi del “sistema manipolato”, si espone al rischio dell’umiliazione professionale e personale e si vede sottoposto a tortura con la minaccia di esecuzione sommaria, fino a quando, implorando a chi abusa del suo potere di porre fine al supplizio, non ammetta la sua resa.
La prova di Cate Blachett è impeccabilmente monumentale e la sinergia con l’inossidabile Robert Redfort contribuisce a rendere pienamente convincente un film che forse indulge in qualche passaggio alla retorica del monologo demagogico, ma che urla negli occhi dello spettatore il monito di continuare a fare domande, senza accontentarsi delle risposte preconfezionate. L’alternativa è il consolidarsi di un sistema di informazione in cui la diversificazione dei media conduce paradossalmente a una sempre più impenetrabile omologazione della pubblica opinione.
data di pubblicazione 17/10/2015
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