da Flaminia De Rossi | Ott 20, 2015
Il viaggio di 5 uomini che hanno il compito di tracciare la linea mediana di una strada che unisce due Città del Messico.
La sottile linea gialla non è solo una rotta da segnalare sul manto stradale ai rari automobilisti che passano per la strada ma è il simbolo della vita che va avanti e che forse in certi momenti vuole rallentare.
Vernice, pennello e tanta precisione uniti ad allegria e spensieratezza sono gli ingredienti di questa avventura maschile, ma anche i consigli di una buona vita che il caposquadra Antonio vuole dare alla sua truppa da buon padre di famiglia. 217 km intensi di buon sentimento!
Cinque moderni cowboys solitari riuniti insieme dalla necessità di guadagnare qualche soldo partono senza aspettative, ognuno di loro con le proprie fragilità, ansie e ricerche.
Chiusi in se stessi man mano scoprono sentimenti di amicizia che li porta ad aprire il loro animo ai compagni davanti ad un fuoco acceso sotto il cielo stellato, rilassandosi all’ombra delle palle del grande toro!
Questa avventura maschile a bordo di un pick up sgangherato é il racconto di chi rimettendo in discussione se stesso e i propri limiti torna a sperare in un futuro. Questo viaggio è intenso e profondo nei volti dei protagonisti e anche nella fotografia, ricco di immagini belle e toccanti.
Ognuno di noi ha bisogno di risolversi, in cerca di qualcosa per ricongiungere passato e futuro, anche solo iniziando a cambiare il presente.
Alla fine della strada scopriranno che c’è una linea sottile tra giusto e sbagliato, tra vita e morte.
data di pubblicazione 20/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 20, 2015
Amelio e Pagliarani presentano alla festa del Cinema nella Sezione Ufficiale un interessante documentario che riesce a cogliere, con sguardo attento, le problematiche dei disagi sociali e di integrazione. Attingendo ad un variegato e significativo materiale d’archivio, ci viene narrata una buona fetta della storia dell’istruzione italiana partendo dai primi anni del ‘900 e rievocando poi con enfasi il periodo del “ventennio” dove la scuola e l’istruzione in genere venivano considerati una vera fucina di alti valori patriottici.
Con interviste reali a scolari e maestri, veniamo a conoscere una Italia molto grezza e poco integrata, appena uscita dal disastro della guerra, dove l’istruzione era ancora quasi un privilegio di pochi e dove l’analfabetismo era dilagante tra le classi sociali più basse.
Documentario di una semplicità disarmante, ma dal quale non si può che percepire la sensibilità di Amelio, regista al quale dobbiamo tanto per averci regalato quel capolavoro indimenticabile che è stato Il ladro di bambini.
Restiamo in attesa della seconda parte…
data di pubblicazione 20/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 20, 2015
Kinga Debska è una regista e sceneggiatrice polacca che ha studiato prima a Varsavia e poi a Praga realizzando, nella sua carriera cinematografica, diversi documentari e film fiction per la televisione per i quali ha ottenuto diversi riconoscimenti nel suo Paese.
In questo film Kinga Debska ci presenta due sorelle con caratteri e prerogative di vita completamente diversi che si trovano per gravi circostanze di malattia, che colpiscono prima la madre e poi paradossalmente anche il padre, a doversi fronteggiare per arginare una situazione delicata che sembra a tratti sfuggire loro di mano.
La prima, Marta, è una attrice di fiction televisive, che riscuote un discreto successo sul piccolo schermo ma non nella vita; Kesia, al contrario, insegnante elementare con un figlio ubbidiente ed un marito fannullone, apparentemente confusa e fragile sa comunque trovare una discreta armonia nel proprio ambito familiare. La condizione della madre con cui dovranno misurarsi, fornirà loro il pretesto, atteso forse da anni, per confrontarsi e finalmente per tirar fuori, ognuna per la propria parte, tutti i rancori e malumori accumulati negli anni.
Questo dello scontro-incontro tra le due sorelle sembra essere il fulcro centrale della storia mentre le malattie dei genitori sembrano rappresentare un tema secondario, da trattare senza pietismo se non addirittura con un pizzico di ironia e leggerezza, che purtroppo sullo schermo si trasforma in superficialità a causa della non convincente interpretazione delle due attrici protagoniste (Agata Kulesza e Gabriela Muskala) che spesso sembrano affrontare, insieme al padre Tadeusz (Marian Dziedziel), situazioni difficili in maniera quasi grottesca, minacciando quindi la credibilità della narrazione stessa.
data di pubblicazione 20/10/2015
da Rossano Giuppa | Ott 20, 2015
Un autunno velato e umido nel sud della campagna francese. Elliot (il bravissimo Alex Lawther) un quindicenne inglese con la passione per la letteratura e la poesia e sua madre Beatrice sono nella loro casa delle vacanze per imballare oggetti e ricordi. La casa fa parte del passato, il matrimonio dei genitori è giunto al termine, tutto è polveroso ed irrecuperabile. Il giovane Elliot, che ama Proust e Hugo e che desidera diventare uno scrittore, protetto dalla sua giacca militare, scopre la sua sessualità e la necessità di allontanarsi dal contesto familiare in inevitabile disfacimento. L’amicizia con Clement, bello e inquieto, i turbamenti e gli approcci difficili con lui, unitamente al progressivo cedimento della madre, lo portano sull’orlo del baratro, verso una strada senza uscita. Ma il tuffo nella diga, la discesa verso la fine, hanno il potere di scuotere Elliot e di renderlo cosciente del proprio presente. L’acqua fredda deterge e tonifica: la vita è difficile e complicata ma deve essere vissuta, dalla sofferenza si riparte.
Melanconico, delicato e fortemente british, il film celebra l’autunno e la fine di un periodo. Immagini statiche e perfette, musica delicata e struggente rendono il prodotto un po’ troppo algido e poco turbato, ma forte e chiaro circa la strada da intraprendere.
data di pubblicazione 20/10/2015
da Gabriella Ricciardi | Ott 19, 2015
Ellen Page non ha più il visino della ragazzina, un misto di provocazione e tenerezza che aveva in Juno; in Freeheld ha quello di Stacie, una ragazza innamorata delle moto e dei motori e di Laurel (Julianne Moore), una poliziotta integerrima che vorrebbe che il loro amore restasse una cosa privata, ben custodito tra le mura domestiche. Ma l’amore è capace di rompere gli argini che Laurel ha faticosamente costruito per poter avere una carriera pari a quella dei suoi colleghi maschi, e dopo un anno dall’incontro, eccole ristrutturare la casa che hanno scelto per vivere in coppia. Una villetta americana come ce ne sono tante, con giardino e cane, rispondente in tutto e per tutto ai desideri delle due donne che questo chiedono alla vita. Dalle note di regia di Peter Sollett apprendiamo che alla vera storia di Laurel Heaster e Stacie Andree e alla battaglia che la coppia ha combattuto per ottenere giustizia, era già stato dedicato il documentario premio Oscar di Cynthia Wade, e che lui quindi nel suo film, più che l’aderenza alla verità, voleva raccontare come emotivamente l’avevano vissuta Stacie e Laurel, “la storia universale di due persone che solamente cercano un modo per amarsi”. E un modo le due donne lo trovano fino a quando alla pluridecorata dectetive del New Jersey non viene diagnosticato un cancro ai polmoni con nessuna speranza di cura. È in quel momento che Laurel capisce di non avere più tempo e che l’unica cosa che vuole, anche se per questo dovrà esporsi pubblicamente, è che i funzionari della Contea di Ocean, i “freeholders” (i “proprietari”) riconoscano a Stacie il diritto di godere della sua pensione maturata in 23 anni di fedele servizio. Alla battaglia si uniscono l’attivista gay per i diritti civili Steven (Steve Carell) e il detective Dane (Michael Shannon), da sempre compagno di lavoro di Laurel e legato a lei da affetto e stima profondi.
Nella serata inaugurale del loro amore vediamo una splendida Julianne Moore e la Page davvero capaci di ricreare sullo schermo l’elettricità dei primi incontri, reale, senza sbavature né esagerazioni. Una cosa “normale”, di quella normalità che poi le due donne rivendicheranno spesso nel corso del film, straordinaria, ma solo come lo sono tutti gli amori allo stato nascente. Una naturalità invidiabile e lontanissima dai timidi quanto maldestri tentativi italiani. Ma ecco che la vicende soffre la prima evidente ellissi perché, in men che non si dica, sono demolite le resistenze di Laurel e la coppia vive una giornata romantica e felice sulla spiaggia. Il film si propone di raccontare, almeno nelle intenzioni del regista, una storia d’amore, ma diventa da subito invece un film di genere, di quelli che conosciamo bene sulle battaglie civili, di quelli che mentre ti raccontano dell’ingiustizia che stanno denunciando, allo stesso modo ti dicono quanto l’America è capace di porre in crisi se stessa e i suoi “credo” politici, ribaltando l’ingiustizia iniziale in trionfo finale.
Dobbiamo credere al forte amore delle due donne perché ce lo dicono, ma non lo vediamo cinematograficamente narrato, non lo sentiamo, se non in quella serata iniziale. Assistiamo sgomenti e commossi all’avanzare implacabile della malattia, così come all’immancabile momento (in questo genere cinematografico) in cui anche ai duri si scioglie il cuore, e gli agenti di polizia finalmente si recano in massa all’assemblea pubblica per sostenere la lotta della loro collega. Il tutto molto veloce, come se più che a un film stessimo assistendo a una parabola esemplare di una battaglia ben condotta, corretta.
E se il film non sostenesse un diritto sacrosanto che è quello di ottenere diritti uguali per tutti, che siano coppie di fatto o matrimoni, gay o eterossessuali, come lo guarderemmo? Cosa ne avrebbero fatto i Dardenne? Mentre Laurel sta morendo, Stacie le è vicina e continua a dirle che la ama; non nego di aver pensato a Love Story, alle lacrime versate su amori infranti dalla morte, perché anche quello è un genere cinematografico, l’amore che vince la morte che è annientamento. In questo caso l’amore vince (e per davvero), ma è il ritmo del film che non convince, nonostante tenga insieme in modo meritorio la battaglia civile di una comunità e la battaglia privata contro la malattia, l’amore e il diritto e, non da ultimo, quanto ancora costa a una donna essere riconosciuta professionalmente come o più dei suoi colleghi maschi, senza cedere a compromessi.
data di pubblicazione 19/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 19, 2015
Ygor e la sua sorellina Rayane provengono da Campo Grande, una misera e polverosa periferia di Rio de Janeiro, ed una mattina, senza un apparente perché, si ritrovano davanti alla casa di Regina, nel lussuoso quartiere di Ipanema.
Da qui inizierà una spasmodica ricerca da parte dei due bambini che non si rassegnano all’idea di essere stati abbandonati dalla madre a casa di una estranea, ritrovandosi in una realtà che non gli appartiene, nel frastuono di una città moderna che sembra non lasciare spazio alla comunicazione interpersonale ed ai sentimenti più genuini.
La regista brasiliana si è specializzata nella realizzazione di video-arte ed in film che affrontano i problemi sociali del suo Paese.
Anche in questo Campo Grande, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema in collaborazione con Alice nella città, viene trattato un ben conosciuto tema: il contrasto estremo e ben evidente tra due mondi contrapposti in una rumorosa e trafficata Rio; tuttavia non riscontriamo una vera e propria originalità nel trattare questo argomento, che neanche lo sguardo impaurito, ma nello stesso tempo altero, dei due piccoli protagonisti riesce a trasmettere pienamente.
Il film infatti va avanti seguendo un registro piatto e stereotipato, con pochi significativi colpi di scena che non riscattano appieno la narrazione della storia che si sussegue lenta.
data di pubblicazione 19/10/2015
da T. Pica | Ott 19, 2015
La matricola Tracy (Lola Kirke), approdata alla Grande Mela per studiare al College, non riesce a trovare la sua dimensione, accademica e umana, come aspirante scrittrice in una città e in un ambiente universitario che non sembrano ricambiare le sue aspettative e le sono ostili. Brooke (Greta Gerwig), trentenne tuttologa si occupa di tutto e di niente; è sempre al verde ma progetta, nell’ordine, di aprire un ristorante con all’interno tante altre attività, la propria vita di moglie e madre vestale del focolare (pur essendo single) e fa public relations su Twitter e Instagram. In questa fase di comune difficoltà e smarrimento Tracy e Brooke si incontrano, complice l’imminente matrimonio tra i loro genitori fissato per il giorno del Ringraziamento. Le due protagoniste, prossime a divenire sorellastre, appartengono a due generazioni diverse, così come diverso è il loro modo di approcciare la vita, progettare e relazionarsi con il prossimo. Eppure, nella frenetica New York che si prepara al Thanksgiving Day, le due aspiranti sorelle entrano fin da subito in sintonia. Una sintonia dettata non dalla convenzione della futura (eventuale) parentela acquisita, ma dalla sensibilità con cui, sotto la maschera delle ragazze/donne determinate e sicure di sé che non si accontentano, si “riconoscono” nella massa avvertendo, inconsciamente, di poter contare l’una sull’altra e si sostengono seppur ciascuna con i propri limiti. Mistress America – che poi è anche il titolo del breve racconto scritto da Tracy ispirandosi a Brooke con cui l’“anonima” matricola sarà ammessa al circolo universitario dei letterati delle valigette – è un film divertente, ben articolato, dai dialoghi tanto spassosi quanto veri. Tra le luci colorate delle avenues newyorkesi e le irresistibili musiche elettroniche anni ’80 composte da Dean Wareham e Britta Phillips – quasi cucite addosso al look in perfetto stile “Sophie Marceau” di Tracy – il film pone l’accento sull’incomunicabilità e la competizione tra i giovani e sulla generale sensazione di disagio e inadeguatezza offerta dalla società moderna ai ventenni e ai trentenni che vogliono farcela da soli in America, come in ogni altra parte del globo, con la giusta leggerezza ed ironia. Tra dialoghi pungenti, battute geniali – sono quelli che non hanno niente da fare tutto il giorno che ti dicono di essere sempre impegnati e non avere un minuto di tempo per te – e qualche nota che strizza l’occhio alla lacrimuccia, Mistress America ribadisce un’amara verità: coloro che, come Tracy e Brooke, non si adeguano al “modello” di chi rinuncia a mettersi in gioco e a rischiare – spaventato/a dalla competizione anche all’interno di una relazione di coppia – in favore della tranquillità dell’“accontentarsi”, sono inevitabilmente destinati a rimanere isolati.
data di pubblicazione 19/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 19, 2015
È marcatamente ironico l’esordio di Paolo Sorrentino nel suo incontro con il pubblico dell’Auditorium di Roma. Per la chiacchierata-intervista con il Direttore Artistico Antonio Monda non ha scelto film di Fellini, visto la frequenza con cui si trova a dover parlare di quello che parrebbe uno dei Maestri meglio riconoscibili guardando attraverso la sua macchina da presa. Passano però solo pochi minuti prima che il più recente premio Oscar del cinema italiano individui in Antonioni, Fellini e Bertolucci i “mettitori in scena” per eccellenza, quelli dallo stile unico e inconfondibile.
Le riflessioni di Sorrentino corrono lungo il filo dell’equilibrato connubio tra il “bello” e il “vero”: la rappresentazione di ciò che reale o, meglio, verosimile (“il verosimile è il regno di chi inventa”), senza però la rinuncia alla cura estetica dell’operazione di messa in scena. Il connubio in questione, realizzato con convincente disinvoltura fino agli anni Novanta, sconta ora una certa diffidenza, che porta a svalutare o comunque a guardare con sospetto la ricerca più prettamente estetica.
La prima clip proiettata è tratta da Tempesta di ghiaccio di Ang Lee, non solo modello di sceneggiatura per compostezza e solidità, ma anche un film sulla famiglia, che, pur non essendo un tema prediletto dal Sorrentino regista, è invece uno dei preferiti dal Sorrentino spettatore. A ciò si aggiunge la stima per il talento di Ang Lee, che non ha smarrito la propria cifra artistica neppure quando ha lasciato la terra natia e che sa dirigere alla perfezione i suoi attori anche in contesti complessi: difficile pensare che sul set de La tigre e il dragone non ci fosse un “urlatore”, ma “un uomo da pantofola”.
Si prosegue con La notte di Antonioni, che, forse ancor meglio de La dolce vita, racconta in maniera tragica quanto sia disagevole stare al mondo e riesce nell’ardua impresa di coniugare in maniera convincente il cinema e la musica jazz. Anche se i primi film di cui Paolo Sorrentino abbia un distinto ricordo da spettatore restano pur sempre quelli di Bud Spencer e Terence Hill.
Road to perdition di Sam Mendes, già “citato” nell’incontro con Jude Law, diviene, attraverso la sequenza della morte di Paul Newman, la sintesi da manuale di come dovrebbe farsi cinema secondo Sorrentino: come si scrive, come si recita, come si usa il suono e soprattutto come si “crea un’epica”. Analogamente a quanto avvenuto nell’incontro con Jude Law, anche oggi si parla solo in pillole del nuovo film, in lavorazione, che vede l’attore britannico diretto dal regista napoletano: un “attore senza difetto” per interpretare un giovane Papa americano, che in nulla pare ispirato a Pontefici realmente esistiti.
Una storia vera riesce invece a calare in un’atmosfera immediatamente rassicurante gli elementi di inquietudine che sono tipici della cinematografia di Linch, a conferma della genialità del regista. È un film sulla “forza sottovalutata delle cose insensate”: così Sorrentino lo sintetizzerebbe a un ipotetico produttore per convincerlo ad acquistarlo.
Mars Attack di Tim Burton chiude l’incontro ravvicinato, con la “donna aliena” e la sua imperturbabilità che si fanno veicolo di un alto tasso di erotismo.
Sorrentino saluta il pubblico della Sala Sinopoli con un inedito: La fortuna, episodio del più ampio Rio, I love you. Alla sfida di girare in soli due giorni un cortometraggio legato al tema “Rio”, Paolo Sorrentino risponde con la storia di un uomo anziano e malato sposato con una donna giovane e bella, in cui però le logiche del luogo comune risultano curiosamente invertite.
data di pubblicazione 19/10/2015
da Rossano Giuppa | Ott 18, 2015
Un weekend di follia a Milano per uno scrittore licenziato dal posto di lavoro in preda a crisi depressive ed imbottito di psicofarmaci, vittima di un amico ladro e abbandonato dalla moglie. Una serie di disavventure tra bische clandestine, deliquenti, valigette piene di soldi e fughe per la città. Pur in presenza di tanto ritmo e colore e di un gruppo di bravi attori (Alessandro Roja, Francesca Inaudi, Marina Rocco, Matilde Gioli e Stefano Fresi su tutti), il film tuttavia non decolla e non convince, soprattutto per la storia poco coinvolgente, sfilacciata e non assolutamente folle. Un pizzico di nonsense e di vera ironia avrebbe dato certamente più brio ad un prodotto che scivola via senza emozioni.
data di pubblicazione 18/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 18, 2015
Gli spazi di Incontri ravvicinati rappresentano uno dei tratti più interessanti della rinnovata veste della Festa del Cinema di Roma.
La conversazione del Direttore artistico Antonio Monda con l’attore britannico Jude Law diviene un viaggio attraverso il cinema degli ultimi decenni, capace di rendere omaggio ad alcuni dei registi più rappresentativi (non solo) nell’immaginario del grande pubblico: lo spirito della “Festa”, in altri termini, ne esce restituito in tutta la sua sfaccettata complessità.
Si parte dal ricordo di Stanley Kubrick, ispiratore del progetto di A.I. – Intelligenza artificiale, ma morto prima di vederlo realizzato da Steven Spielberg. Jude Law ricorda con piacevole stupore la disponibilità di un regista come Spielberg a ricercare la continua collaborazione con i suoi attori, accettando per esempio i suggerimenti dello stesso Law nella definizione di alcuni dei dettagli più distintivi del personaggio di Gigolò Joe.
L’incontro prosegue con la proiezione di clip tratte dalle proficue collaborazioni con Anthony Minghella (Il talento di Mr. Ripley e Ritorno a Cold Mountain), per poi coinvolgere il pubblico della Sala Sinopoli nelle proteiformi atmosfere di Sherlock Holmes, Wilde, Sleuth, Road to perdition, Gattaca, Anna Karenina, Closer. Proprio l’eterogeneità dei ruoli interpretati offre a Jude Law l’occasione per una più ampia riflessione sul mestiere dell’attore. Si definisce un “ragazzo fortunato” che ha il privilegio di svolgere un lavoro affascinante, nel quale chi non riesce a divertirsi dovrebbe forse interrogarsi su come questo sia possibile. Se da adolescente l’istinto era indubbiamente la componente prevalente nel momento in cui si trattava di indossare le vesti le personaggio, la maturità professionale lo ha portato a confrontasi anche con il metodo della preparazione accurata del ruolo: per quanto, avverte Law, gli eccessivi approfondimenti relativi alla cornice in cui si inseriscono i personaggi (soprattutto quelli storici o letterari) rischiano a volte di risultare superflui o fuorvianti, trattandosi di un lavoro non sempre risolutivo per la buona riuscita del film. Ciò che importa, piuttosto, è il confronto con colleghi dello spessore di Michael Caine, Tom Hanks, Paul Newman: perché, come ricorda il Direttore Monda, il mestiere dell’attore è un po’ come quello del tennista, il cui talento si esalta al cospetto di altro campione.
La realizzazione di un film muta poi, nei modi e nello spirito, a seconda del budget di cui la produzione può disporre. Un budget limitato riesce a valorizzare la passione autentica, anche in ragione dei tempi contingentati che riducono significativamente tanto i tempi di lavorazione quanto il margine di errore.
La differenza reale passa però, sempre e comunque, attraverso la personalità del regista e la sua capacità di dirigere gli attori.
Non può mancare un riferimento al lavoro in corso con Paolo Sorrentino, che negli ultimi mesi ha portato Jude Law a soggiornare spesso nella Capitale. Non è concesso rivelare molto del nuovo film: solo che Law interpreterà un giovane Papa americano e che questo lo obbliga a indossare un tanto prezioso quanto ingombrante costume di scena, costringendolo a pose e posizioni goffe e complicate.
Il film che Jude Law sceglie per concludere l’incontro è La morte corre sul fiume, prima e unica regia di Charles Laughton, talento incompreso dalla logica degli Studios. Il cinema, secondo Law, è a volte talmente impegnato nella ricerca della verosimiglianza da dimenticare quanto alte possano essere le vette che attori e registi riescono a toccare affidandosi al propulsore della fantasia: un tocco di surreale e poetica teatralità può arricchire l’opera cinematografica della sfumatura in grado di fare la differenza.
data di pubblicazione 18/10/2015
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