da Gabriella Ricciardi | Ott 23, 2015
The Price of Salt è il secondo romanzo di Patricia Highsmith che dopo il fortunato esordio con Strangers on a Train, adattato da Hitchcock (successivamente Delitto per delitto), non trovò un editore a causa della storia omosessuale che vi si narrava. Fu pubblicato con uno pseudonimo ed ebbe un grande successo; eppure fu rieditato solo negli anni 80 con il nome della sua autrice e con il titolo con cui oggi lo porta sugli schermi Todd Haynes, Carol, presentato a Cannes 2015 dove Rooney Mara ha vinto il premio come miglior attrice.
Haynes, che più volte nel suo cinema ha reinventato il genere del melò in chiave moderna, anche in questo caso trascina emotivamente fin da subito lo spettatore in una appassionata storia d’amore ammorbidita dal velluto, dai colori tabacco, dalle risposte appena accennate e spesso dai silenzi, in un esercizio magistrale di equilibri tra la forza tellurica della passione al suo manifestarsi e l’impreparazione, la reticenza, di chi la sente e non può o non riesce ad abbandonarcisi. Haynes ha dichiarato che ciò che lo aveva colpito della Highsmith era l’essere riuscita a stabilire “un’analogia tra la patologia della mente criminale che racconta nel resto della sua opera, e la patologia della mente amorosa, imponendo la stessa visione ansiogena a entrambi gli stati.”
New York, 1952, a pochi giorni dal Natale Carol, una meravigliosa Cate Blanchett, si aggira nel reparto giocattoli di un grande magazzino sotto gli occhi rapiti e incuriositi della commessa Therese Belivet (Rooney Mara). I guanti lasciati sul bancone dalla elegantissima signora, proprio come in un romanzo cavalleresco, saranno il mezzo attraverso il quale le due donne si rivedranno. Therese è molto più giovane dell’altra che dal suo matrimonio con Harge ha avuto, cinque anni prima, una bambina amatissima. Carol vive in una villa fuori città, una prigione dorata dove è obbligata a rispettare le convenzioni di un mondo alto borghese per poter stare accanto a sua figlia. Ma il matrimonio è alla fine, provato da una precedente unione di Carol con Abby e dall’incomprensione del marito che come i genitori, pensa di poter “riparare” i desideri omosessuali della moglie con la psicoterapia e ricondurla alla ragione. Therese è innamorata dell’obbiettivo della macchina fotografica con la quale scopre il mondo, e respinge timidamente il suo fidanzato che vuole sposarla, perché nel fondo sente di non potergli corrispondere. Non ha ancora i mezzi, a parte l’obbiettivo, per conoscere se stessa, ma non esita a seguire Carol.
La loro storia d’amore, raccontata in lungo flashback, racchiude il percorso di trasformazione che le due donne compiono nel loro viaggio verso Ovest. La timida Therese tra le braccia di Carol scopre se stessa e la sua determinazione, e al ritorno non sarà più una commessa ma una fotografa del “Times”. Carol proverà ancora, negando se stessa, a essere una moglie irreprensibile per poter restare accanto a sua figlia; ma l’amore per Therese la cambia per sempre, spingendola a rinunciare perfino alla custodia della piccola pur di vivere con lei.
Un film che racconta passioni forti, ma Haynes ha scelto la strada della sottrazione, seppur attraverso una raffinatissima eleganza, evidente sia negli ambienti che nei costumi, smorzandola, filtrandola, in modo da spingere lo spettatore a sentire l’urgenza di cambiare le cose, a forzare quella quiete che le case e i panni ripropongono. Un film girato a basso budget e che invece mantiene l’eleganza vellutata del genere cinematografico che reinventa, quello della bellezza melò di Douglas Sirk de La magnifica ossessione, o della perfezione registica di Howard Hawks de Il grande sonno, tanto da rendere Carol un’emanazione luminosa di Lauren Bacall. La pelle diafana sotto la quale vibra il desiderio per Therese, quella stessa raffinata eleganza che muta impercettibilmente a seconda di dov’è e di chi la guarda. Se sono gli occhi di Therese o il suo obbiettivo si rivela anche fragile, fragilità che invece socialmente si trasforma in sicurezza, e la Blanchett passa da uno stato all’altro con la morbidezza e la naturalezza della grande attrice. Corrono verso l’Ovest, ma sanno che la loro vera battaglia andrà condotta in città. È in quel teatro del mondo che devono trovare la loro dimensione sociale, quella del lavoro, quindi politica sembra dire Haynes, per poter essere se stesse e vivere il loro amore. Gli uomini di questa storia sembrano non avere alcun mezzo per comprendere cosa accade alle donne in generale e alle loro in particolare. Sono increduli e si affidano al controllo, alle minacce, e perdono, annunciando l’inizio di una rivoluzione sociale che cambierà per sempre i rapporti tra i sessi. Mentre Therese cerca dentro di sé una risposta alla richiesta amorosa di Carol, dietro un vetro offuscato dalla pioggia dove scorre la storia del loro amore e il film che stiamo vedendo, si alternano i sentimenti declinati in colori, la complessità e l’ambivalenza di ogni storia d’amore.
Come in Lontano dal paradiso, Haynes, per raccontare le trasformazioni e le contraddizioni sociali, sceglie un’America sulla soglia del cambiamento, gli anni 50, con uno stile cinematografico capace di assorbire la lezione dei grandi film di quegli anni e restituirlo arricchito della complessità sociale ed emozionale del presente. Come se anche noi e non solo Therese, stessimo guardando attraverso un vetro a quel laboratorio così sorprendente che è la vita, da una distanza ovattata e morbida, proprio come il serico bianco e nero de Il grande sonno, ancora chiusi dentro una macchina appannata dall’acqua, ma ormai a solo un passo dal futuro.
data di pubblicazione 23/10/2015
da Alessandro Rosi | Ott 23, 2015
(Teatro Palladium – Roma, 20/25 ottobre 2015)
Entrati nel teatro la maschera ci accompagna dietro le quinte. Avanziamo con cautela, domandandoci se stiamo seguendo la persona giusta. L’addetta ci invita a proseguire e ci indica di superare il sipario.
Col cuore in gola, ci tuffiamo sul palcoscenico dove sedie collocate a semicerchio e un candido letto bianco ci aspettano: stasera saremo protagonisti del delirio cosciente di una psicotica.
Le luci si abbassano, nel teatro si fa buio, una voce rauca, tenebrosa recita la seguente frase: che cosa offri ai tuoi amici per renderli così disponibili?
La domanda sibillina apre il monologo scritto da Sarah Kane 4.48 Psychosis (orario in cui si ritiene che la spinta al suicidio sia più forte), interpretato da una straziante (nel senso buono del termine, dato che si tratta di un dramma) Micaela Esdra, la quale riesce a trasmettere il disagio vissuto dall’autrice della pièce teatrale.
L’attrice si esalta specialmente nel momento della spersonalizzazione, in cui trasmette in modo penetrante la perdita di contatto con la realtà; meno nel dialogo interiore con se stessa, dove non si percepisce appieno la lotta intestina (quasi al limite del bipolarismo) del soggetto con il suo alter ego.
La mise en scène è essenziale ma efficace; azzeccato il cambiamento del colore delle luci a seconda dei vari stati d’animo che attraversa la protagonista.
L’esperienza che si vive durante il monologo è surreale: si è spettatori-attori immobili e impotenti di fronte alla tragedia che si sta per consumare, come spesso accade nelle realtà.
È uno spettacolo unico e che merita di esser visto, se non altro per provare l’esperienza di essere sul palcoscenico, tête à tête con l’attice.
Volete essere anche voi attori per una sera? Non perdetevi la rappresentazione finale al Teatro Palladium di Roma!
data di pubblicazione 23/10/2015
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Ott 23, 2015
James Ponsoldt, regista e sceneggiatore americano già conosciuto al pubblico italiano per il film Spectacular Now, con questo suo ultimo film ci narra indirettamente la storia del famoso scrittore americano David Foster Wallace, morto suicida nel 2008, prendendo spunto dal romanzo Come diventare se stessi di David Lipsky.
Nel film David Lipsky, a quel tempo ancora poco conosciuto pur essendo autore di alcuni libri, riesce a convincere il proprio capo redattore della celebre rivista Rolling Stones presso la quale lavora, ad inviarlo ad intervistare il famoso scrittore e professore universitario David Foster Wallace, in occasione della pubblicazione del suo ultimo e voluminoso romanzo Infinitive Jest. I due scrittori si incontrano e proseguono insieme verso l’ultima destinazione del tour di presentazione del libro.
Durante questi giorni di convivenza poco a poco si scioglierà tra i due quel muro di diffidenza reciproca che si era instaurato all’inizio, dal momento che alla pacata riservatezza e ritrosia del primo si contrappone l’invadenza e l’arrivismo dell’altro, in un susseguirsi di domande e risposte dove non si distingue più chi è l’intervistatore e chi l’intervistato.
Le due personalità che emergono risultano a volte ambigue, non percependo appieno dove si possa discernere una base di assoluta sincerità, personalità che a volte sembrano attrarsi più che per curiosità che per reciproca stima.
Inoltre il successo letterario già raggiunto da Wallace sembra aver turbato la sua vita per cui lo stesso manifesta ora una certa insofferenza verso i lettori che lo acclamano e si rifugia volentieri nella solitudine della sua casa, in compagnia dei suoi cani, ed adottando un look molto trasandato quasi a fuggire da un mondo che non è quello di sua appartenenza e che sembra subire con una malcelata rassegnazione.
Buone le performances dei due attori protagonisti Jason Segel e Jesse Eisenberg rispettivamente nei panni di Wallace e Lipsky, che hanno dato una immagine credibile alla figura dei due scrittori sui quali, a questo punto, viene voglia di fare una ricerca in libreria per un quanto mai doveroso approfondimento letterario.
data di pubblicazione 23/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 23, 2015
Full contact è l’ultimo film del giovane regista olandese David Verbeek che, dopo gli studi in cinematografia nel suo paese d’origine, si è successivamente trasferito New York per dedicarsi alla filosofia e fotografia.
Il film parla di Ivan, militare in servizio presso una base americana nel deserto del Nevada, impiegato per colpire a distanza le basi terroristiche situate nello Yemen utilizzando, con una precisione infallibile, i famosi drone, aerei telecomandati a distanza.
L’aver eseguito l’ordine di colpire, pur avendo fatto giustamente notare le sue perplessità in merito all’obiettivo da bombardare, lo porterà a sbagliare il bersaglio prefissato per cui, invece di attaccare una base terroristica, annienterà una scuola uccidendo delle vittime innocenti.
Tutto ciò metterà in crisi la sua vita, già solitaria: l’uomo a questo punto abbandonerà la propria missione militare per avventurarsi in percorsi alternativi, dove tuttavia l’idea fissa di annientare il nemico non lo abbandonerà mai, finendo con il vivere, tra realtà e finzione, una vita violenta come punizione per aver commesso un così imperdonabile errore.
Il film non risulta tecnicamente ben costruito, non è rilevante l’interpretazione degli attori protagonisti Grégoire Colin e Lizzie Brocheré ed inoltre l’impianto della sceneggiatura ci presenta una narrazione carente, con un piano d’azione frammentario e poco conseguente.
data di pubblicazione 23/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 23, 2015
Il film di Sergio Rubini si presenta come una pièce teatrale e di fatto lo è visto che nasce proprio in teatro, ed è interpretato dagli stessi attori che poi vedremo sul grande schermo: Fabrizio Bentivoglio, Maria Pia Calzone, Isabella Ragonese e Sergio Rubini stesso.
Ma Dobbiamo parlare ci pone davanti al quesito: ma è sempre proprio necessario parlare? Non sarebbe talvolta meglio lasciare le cose come stanno e continuare la propria vita di coppia senza scendere in profondità o addentrarsi in confidenze scomode?
E’ un film pieno di parole che si incrociano, in un salotto bene al centro di Roma dove le due coppie di amici sembrano sfidarsi in un duello senza esclusione di colpi e dove la verità che emerge farà saltare quel sano equilibrio che fino a quel momento aveva regolato i loro rapporti interpersonali.
Una commedia divertente, senza pretese, che ci fa sorridere e nello stesso tempo riflettere sulle dinamiche di coppia, non sempre improntate da un corretto comportamento e forse spesso troppo intaccato da interessi materiali o opportunistici.
Ci si chiede se la parola in questo caso sia opportuna, visto che anche il pesce nell’acquario avrebbe anche lui qualcosa da ridire.
Tra i temi toccati dal film c’è la fragilità della donna contrapposta a quella, non meno tangibile, degli uomini, dove gli obiettivi sembrano spesso raggiunti ma mai centrati, in uno sforzo di apparire quello che non si è.
Buona la recitazione (teatrale) dei protagonisti che ci hanno regalato una piacevole parentesi in una rassegna che ci ha coinvolti in tematiche spesso dure ed impegnate, e che in alcun modo vuole emulare l’atmosfera claustrofobica del film Carnage di Polansky, al quale sembra veramente inopportuno fare qualsiasi riferimento.
data di pubblicazione 23/10/2015
da Rossano Giuppa | Ott 22, 2015
Complimenti vivissimi al giovane regista Stephen Dunn, alla sua prima opera, intensa e profonda. Grande capacità di raccontare, attraverso l’utilizzo di un linguaggio proprio, innovativo e coinvolgente. Straordinaria la colonna sonora e assolutamente contemporanea la sceneggiatura, nel giusto mezzo tra il credibile ed il surreale.
Oscar (Connor Jessup) è un adolescente serio e determinato, con una passione per gli effetti speciali ed i trucchi cinematografici. Condizionato da un’infanzia complicata tra un padre infantile e rissoso, incapace di gestire i propri affetti ed una madre fin troppo egoista che li abbandona subito, è cresciuto in compagnia di un criceto versione grillo parlante accanto ai suoi incubi, che ogni tanto riaffiorano in maniera violenta. Il presente, il sogno di andare a studiare a New York e le sperimentazioni artistiche con la sua amica del cuore si intrecciano con un passato mai superato, fatto di ricordi violenti di un bambino che non ha avuto accanto nessuno che lo proteggesse dai mostri.
La sua grande immaginazione e la sua romantica inquietudine, la sua euforia composta e la scoperta difficile della sua omosessualità, lo aiuteranno ad elaborare ed a superare demoni e paure, riposti nel suo armadio e ad intravedere il sentiero accidentato che deve percorrere per raggiungere il suo sogno.
data di pubblicazione 22/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 21, 2015
Maggio 1945: la Germania dichiara la sua resa incondizionata e si pone fine al secondo conflitto mondiale.
Le truppe alleate consegnano alla Danimarca migliaia di prigionieri di guerra tedeschi, la maggior parte giovani tra i 15 e i 18 anni, per essere utilizzati a disinnescare, senza alcuna esperienza al riguardo, più di due milioni di mine collocate dalle truppe naziste sulle spiagge nord occidentali del paese.
Lo spietato sergente danese Rasmussen si trova a coordinare l’operazione ed in particolare, con un gruppo di dodici prigionieri, deve ripulire in breve tempo un pezzo di quella costa, adottando sui giovani una spietata disciplina militare, tenendo ben presente ciò che i nazisti avevano perpetuato durante l’occupazione.
Il regista danese Martin Zandvliet porta sul grande schermo un pezzo di storia che la stessa Danimarca non vuole ricordare, né tantomeno raccontare, dal momento che in questa maniera morirono migliaia di prigionieri tedeschi per delle colpe che erano più grandi di loro stessi.
Lo spettatore, nel seguire l’azione scenica in ogni suo istante, non può che rimanere affascinato dallo sguardo sperduto di quei ragazzi chiamati anzitempo a svolgere il ruolo di uomini, in un conflitto che li trovò coinvolti impreparati e senza un perché, lontano dalle loro famiglie e dai loro affetti più cari, in una logica a loro totalmente sconosciuta.
Un film quindi sulle atrocità della guerra e, quel che è peggio, sugli orrori del dopo guerra che ci porta solo per poco ad indugiare sul sentimento di perdono per guardare invece oltre.
Ottima l’interpretazione di Roland Møller, nuovo talento del cinema danese, che interpreta la parte del sergente Rasmussen e soprattutto quella dei giovani soldati, tutti ragazzi alle prime esperienze cinematografiche ma che si muovono sulla scena già con la bravura interpretativa e con il talento dei grandi attori.
data di pubblicazione 21/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 21, 2015
Frieda riunisce le sue amiche più care nella sua bellissima casa di Goa per annunciare loro che sta per sposarsi. Da qui inizia una settimana di sfrenata convivenza tra donne: tutte bellissime, vestite alla moda, realizzate ed indipendenti perché impegnate in lavori più o meno manageriali, che seguono una vita libera e spregiudicata dove l’uomo rappresenta un vago contorno, un semplice oggetto di passeggero desiderio.
In realtà il regista indiano Pan Nalin in questo “minestrone patinato”, dove risulta perfetta anche la vacca sacra che irrompe in casa (ma forse in effetti è un toro), è come se volesse presentarci un’immagine dell’India di oggi che rinnega il suo millenario passato allo scopo di apparire come un paese super moderno dove è ammesso il matrimonio gay, dove la donna con il marito omosessuale ha il coraggio di chiedere il divorzio e dove di fronte ad un atto di violenza le donne assumono il diritto di farsi giustizia da sé.
Ci auguriamo che tutto questo sia possibile, ma nel complesso suona un poco falso; anche la scelta degli attori, tutti eccessivamente belli ed eleganti, oltre che la narrazione della storia, sembrano voler forzatamente trattare e risolvere tutti i possibili temi sociali di oggi, dando luogo ad un potpourri inconcludente e poco credibile.
data di pubblicazione 21/10/2015
da Antonio Iraci | Ott 21, 2015
Finalmente in distribuzione nelle sale cinematografiche italiane l’ultimo film di Jacques Audiard, uno tra i migliori sceneggiatori e registi francesi contemporanei, vincitore, con l’attesissimo Dheepan, della Palma d’oro all’ultima edizione del Festival di Cannes.
Audiard non ha bisogno di grandi presentazioni essendo già ben conosciuto al pubblico internazionale per i suoi film, a partire da quello di esordio Regarde les hommes tomber con Mathieu Kassovits e Jean-Louis Trintignant, vincitore di un César come miglior film nel 1994, sino agli ultimi due quali Il profeta, che ha ottenuto nel 2009 il Gran Premio della Giuria a Cannes nonché candidato all’Oscar come miglior film straniero, e Un sapore di ruggine e ossa del 2012, con diverse nomination tra cui una come miglior film straniero e una per l’ottima interpretazione della protagonista Marion Cotillard.
Dheepan è un guerrigliero delle tigri Tamil che ha perso tutto, ideali e famiglia, nella guerra civile del suo paese, lo Sri Lanka, e che decide di fuggire con una moglie, che moglie non è, e con una figlia, che figlia non è, per crearsi una nuova vita in Francia, paese che li accoglie come rifugiati e offre loro assistenza, istruzione ed un lavoro.
Pur cercando con ogni possibile sforzo di integrarsi nella nuova realtà, i protagonisti si trovano, loro malgrado, a dover fronteggiare una nuova guerra, questa volta combattuta da bande di criminali rivali in una anonima periferia francese, ma non per questo meno violenta e meno spietata rispetto a quella dalla quale erano fuggiti.
Il film si base su una ottima sceneggiatura di Noé Debré e Thomas Bidegain, oltre che dello stesso regista, la quale sembra appositamente scritta e calibrata per presentarci non solo la realtà della guerra, comunque la si concepisca, ma per sottolineare le difficoltà proprie di quei rifugiati che oltre al problema della comunicazione verbale, si trovano a fronteggiare le incognite proprie di riadattamento delle loro originarie abitudini di vita a quelle sconosciute della nuova realtà che li accoglie.
Sapiente la fotografia di Audiard che riesce a cogliere lo sguardo intenso del protagonista Jesuthasan Antonythasan, attore e scrittore naturalizzato francese ma che da giovane faceva anche lui il combattente per le tigri Tamil nel suo paese, sguardo che riesce ad andare oltre lo schermo per osservarci, noi spettatori, con un atteggiamento carico di sfida, ma anche di accettazione, senza mai sfiorare l’abnegazione, nel rispetto della propria dignità di uomo.
Il film non pretende di proporci una morale, ma ci fa comprendere come, al di là delle apparenze, dietro lo sguardo di ognuno di noi c’è dentro spesso una sofferenza ed una storia non sempre facile da condividere, ma è proprio questo che il cinema sembra talvolta aver la pretesa di raccontare, non fosse altro che per suscitare una emozione, un sogno.
data di pubblicazione 21/10/2015
Scopri con un click il nostro voto:
da T. Pica | Ott 20, 2015
Durante le torride giornate estive che si susseguono identiche a tante altre a Casteljaloux, nel Sud Ovest della Francia, la tranquillità del piccolo borgo, e in particolare quella di Chantal (Céline Sallette) e del suo nuovo compagno Jacky (Eric Cantona), viene interrotta dal ritorno di Jeannot (un bravissimo Sergi López). L’uomo, logorroicamente alticcio a tutte le ore, ha scontato tre anni di prigione ed è tornato per riprendersi ciò che “gli appartiene”, ovvero l’“amata” Chantal. Il dramma della gelosia e della possessività dell’amore malato palpitano all’unisono in una vera e propria tragedia greca moderna. Alla semplicità e alla bellezza struggente dei paesaggi e degli scorci della campagna francese – le distese di girasoli raggianti, i notturni di luna sul lago – e ai ritmi pacati e sereni della vita del paesino bucolico si contrappone un costante pathos, carico di una latente violenza prossima all’esplosione, dettato dall’ossessione di Jeannot per Chantal e per chiunque altro osi chiamarla Chantal. A far da contorno alla storia il personaggio del giovane Romain (Victorien Cacioppo) che frequenta il corso di teatro di Chantal per preparare un provino decisivo. L’esordio alla regia di lungometraggi dell’attore Laurent Laffargue, seppur con qualche perplessità proprio sulla storia in secondo piano del giovane Romain e dei suoi compagni di corso – dove si inserisce il cameo come attore di Laffargue -, convince e risente inevitabilmente dell’esperienza teatrale del regista. Les Rois Du Monde è indubbiamente ben interpretato da tutti gli attori e la dolorosa storia di Chantal, purtroppo sempre attuale, angoscia anche lo spettatore tra pochi ed istantanei momenti di humor, tipicamente d’oltralpe, e i toni della tragedia che culminano nell’epilogo omerico di Achille che trascina il corpo di Ettore.
data di pubblicazione 20/10/2015
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