TAXI TEHERAN di Jafar Panahi, 2015

TAXI TEHERAN di Jafar Panahi, 2015

Il pluripremiato regista iraniano Jafar Panahi non ama confezionare film “distribuibili”, rispettosi degli omologanti dettami imposti dal regime islamico. Jafar Panahi è un estimatore di quello che il potere politico definisce “sordido realismo”: una fotografia senza filtri della società in cui la macchina da presa è chiamata a immergersi, anche quando la messa a fuoco riveli impietosamente dettagli che la logica della propaganda e del consenso preferirebbe mantenere celati.

Contro la censura e il divieto di espatrio non resta quindi che un solo rimedio: mettersi alla guida di un taxi attraverso le strade di Teheran, senza itinerari prestabiliti e con una telecamera pronta a documentare il più “sordido” dei realismi.

Si parla di tutto nel taxi di Panahi. Si discute della funzione di prevenzione generale di una pena di morte che condanna all’impiccagione due scippatori; ci si chiede che faccia abbia un ladro, per arrivare a scoprire che ha una faccia “normale”, come quella di tutti gli altri; si ipotizza una missione culturale di chi vende DVD pirata garantendo in Iran la visione di film altrimenti vietati; ci si interroga sul senso della professione di avvocato, svolta da una donna che regala rose rosse e non smette di credere nella necessaria tutela dei diritti umani. E soprattutto, attraverso la strepitosa nipotina di Panahi, si riflette sul cinema e sulla censura, sull’arte e sulla libertà di manifestazione del pensiero.

Il risultato è quella che il regista Darren Aronofsky, Presidente di Giuria del 65˄ Festival di Berlino, ha definito “una lettera d’amore al cinema”, consegnando nelle mani virtuali del regista assente il prezioso vello dell’Orso d’oro.

Taxi Teheran coinvolge, stupisce e commuove, lasciando intatta la speranza che il cinema possa ancora funzionare da potente strumento di denuncia e di libertà/liberazione.

data di pubblicazione 14/09/2015


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L’IMPREVEDIBILE PIANO DELLA SCRITTRICE SENZA NOME di Alice Basso – Garzanti 2015

L’IMPREVEDIBILE PIANO DELLA SCRITTRICE SENZA NOME di Alice Basso – Garzanti 2015

Un altro libro sul mondo dell’editoria… Sì, ma questo è veramente divertente!

Alice Basso conosce le case editrici e si districa nella descrizione dei ruoli e dei personaggi come solo chi li conosce da vicino può farlo. Mettiamoci anche che è scritto molto bene, che è scorrevolissimo e che la protagonista, Silvana Sarca per noi Vani, è di una ironia magistrale… Cosa possiamo chiedere di più?

Nel libro c’è un po’ di tutto dal romanzo rosa alla spy story, il finale ci fa capire che ci sarà un seguito e la Basso ci ha già tranquillizzati ammettendo che il secondo capitolo è già stato scritto.

Vani Sarca è giovane, simpatica e ironica ha una capacità empatica fuori dal comune tanto da renderla perfetta per il ruolo che ricopre in casa editrice: la ghostwriter, gli autori le indicano le linee guida del volume, a volte le consegnano una serie di appunti, e Vani crea “l’Opera” con lo stesso stile che caratterizza ogni autore.

Le prime pagine del libro ci accompagnano a conoscere e apprezzare Vani. Poi compaiono tutti gli altri attori: Riccardo, autore che necessita di aiuto e che coprirà la ghostwriter di attenzioni e porterà il loro rapporto a un altro livello; Enrico,  direttore editoriale e superiore diretto di Vani spregiudicato e talmente venale da essere patetico e ricattabile; Morgana, alter ego adolescente di Vani e l’ispettore Braganza un Philip Marlowe nostrano.

Che dire, a me è molto piaciuto, l’ironia di Vani mi è mancata nel momento stesso in cui ho finito il libro e ho trovato geniale l’idea di scandagliare il mondo dell’editoria dal punto di vista di una ghostwriter; forse manca di originalità la parte “gialla” in cui la protagonista aiuta le forze dell’ordine a dirimere il caso della scrittrice scomparsa, ma è pur vero che è la prima ghostwriter a farlo e con uno stile tutto suo.

SUDAMERICA LAGUNARE  (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

SUDAMERICA LAGUNARE (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

Finite le proiezioni, assegnati i premi, resta il tempo delle analisi e dei bilanci, per la 75^ Mostra di Venezia. Se parlassimo di un campionato di calcio, diremmo che la compagine sudamericana si è aggiudicata il trofeo, ma parlare di film in termini di provenienza, pur essendo un dato di fatto che appartiene ad ogni titolo, può diventare pretestuoso. Un film dovrebbe essere ritenuto valido per le scelte formali e contenutistiche, la capacità di raccontare attraverso le immagini. Non ci piace pertanto pensare che la presenza di Alfonso Cuaron quale presidente di giuria abbia potuto indirizzare la scelta del Leone d’oro e d’argento verso i lidi sudamericani di Desde allà di Lorenzo Vigas ed El clan di Pablo Trapero, rispettivamente. Ma rimane il dubbio, vista l’incredibile esclusione da qualsiasi riconoscimento a film del livello di 11 minuti di Skolimowski e Francofonia di Sokurov, che a nostro parere sorpassano di gran lunga, sotto ogni profilo,  i due premiati. Gioia condivisa per il premio assegnato a Fabrice Luchini per l’interpretazione maschile ne L’Hermine di Christian Vincent così come al premio per la miglior sceneggiatura che lo stesso  film si porta a casa. Un vero gioiello da gustare non appena uscirà in sala. Coppa Volpi per l’interpretazione femminile a Valeria Golino, protagonista del film di Gaudino Per amore vostro, mentre il Gran Premio della Giuria va ad Anomalisa, film d’animazione diretto dal regista e sceneggiatore americano Charlie Kaufman assieme al giovane animatore Duke Johnson. La lista completa di tutti i premi, compresi quelle delle altre sezioni del festival sono consultabili alla pagina http://www.labiennale.org/it/cinema/news/12-09.html?back=true. Premi a parte, ciò che ci sembra importante portare a casa, alla fine di questa edizione della Mostra, è la capacità del ruolo del cinema nel raccontare non solo le storie dei protagonisti, ma anche la Storia, quella di posti lontani o vicini, quella prossima o remota, e con la Storia le culture, l’arte, le persone, l’umanità, l’incontro con l’altro: il vicino di poltrona nella proiezione, il manifestante di Kiev in un documentario, Napoleone che scorrazza dentro il Louvre o una marionetta in computer grafica. Un incontro che il team di Accreditati ha vissuto e ha condiviso con voi. Al prossimo anno.

data di pubblicazione 13/09/2015

SUDAMERICA LAGUNARE  (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

11 MINUTI di Jerry Skolimowski – POLONIA (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Concorso)

Morte di un pixel. Questo potrebbe essere il sottotitolo del film 11 Minuti del regista polacco Jerry Skolimowski,  in concorso alla Mostra di Venezia 2015. Una folgorazione, un film che farà saltare di entusiasmo,  sulla poltrona del cinema, chiunque abbia passione per il linguaggio cinematografico. Un ingranaggio perfetto, una manopola di una cassaforte da girare per trovare la combinazione che apra su un’altra cassaforte,  con movimenti all’ indietro che poi ci catapultato di nuovo avanti, un’immersione totale e straniante come in un’opera di Escher, un film la cui riflessione non può non riportare alla mente, con le debite diversità nello stile nel tempo,  Destino Cieco di Kieslowski. Che Dio la benedica”, dice un gruppo di suorine al venditore di Hot Dog. “Dio non mi deve nulla, avete pagato il conto”.  Un conto che si paga senza poter tornare indietro. Il tempo che passa,  senza poter tornare indietro,  quegli undici minuti a partire dalla cinque che diventano l’appuntamento col finale, strepitoso, del film. Piani sequenza, la soggettiva di un cane, aerei che fanno da tendina, fari che spengono la musica, un ritmo che tiene incatenati allo schermo nel tentativo di decifrare l’intreccio, di capire se sullo schermo vi sia una mosca morta,  se quella macchia nera sul disegno sia una svista, e soprattutto cosa accadrà alle 17 e 11 a partire dalla stanza 1111 dell’ undicesimo piano di un hotel. Una riflessione gigantesca sulla piccolezza dei nostri destini, formato pixel, di una dimensione ulteriore che rimane schermo grigio e indistinto a chi cerchi di osservarla ad occhio nudo, ma per cui vale la pena di continuare ad interrogarsi attraverso lo sguardo di un regista come Skolimowski.

data di pubblicazione 10/09/2015








SUDAMERICA LAGUNARE  (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

LA PRIMA LUCE di Vincenzo Marra – IT (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Giornate degli autori)

Riccardo Scamarcio e Daniela Ramirez interpretano in modo molto intenso i ruoli di Marco e Martina, genitori in crisi del piccolo Mateo, nel lungometraggio di Vincenzo Marra che ha inaugurato le Giornate degli autori a Venezia. Il film ha alla base una storia semplice ma profondamente radicata nel tessuto contemporaneo. Martina, di origini cilene e grafico pubblicitario, sceglie di trasferirsi a Bari per seguire Marco che lavora come avvocato; ma dopo la nascita del figlio inizia a sentire, anno dopo anno, il bisogno sempre più forte di “tornare a casa”, desiderio che diviene incalzante allorquando alla crisi personale con Marco si aggiunge anche quella economica del paese che la ospita, che paradossalmente le offre ora minori possibilità del suo paese d’origine: Marco, qui non c’è futuro. Martina, il futuro ce lo facciamo noi, giorno per giorno. Ma tra di loro c’è Mateo che diviene, da figlio profondamente amato da entrambi, il figlio conteso, un bambino figlio della globalizzazione come lo definisce il regista.

Marra, se da un lato cuce addosso ai protagonisti una storia personale che a tratti cattura lo spettatore, dall’altro lato ne distoglie l’attenzione operando una scollatura alquanto inverosimile tra il percorso interiore dei protagonisti ed i loro ruoli nel tessuto sociale in cui si muovono: Marco ad esempio sembrerebbe non conoscere la città natale della compagna con cui convive da otto anni né alcun familiare di lei, né sembra troppo preoccuparsi di alcun aspetto legale circa la tutela di minori da parte di genitori non coniugati, anzi, pur essendo un avvocato ambizioso ed intraprendente, sembra essere completamente digiuno di tutte le implicazioni legali che possano scaturire da una separazione da Martina. È dunque palese che il regista voglia concentrarsi esclusivamente sulla psicologia di questo padre a cui viene sottratto il figlio, sulla sua vita che si ferma all’improvviso, scavando nel suo dolore e nella sua incredulità, non spiegando troppe cose e lasciandone alcune in sospeso, allo scopo proprio di catturare l’attimo dello sconcerto e del disorientamento.

data di pubblicazione 10/09/2015








NON ESSERE CATTIVO di Claudio Caligari – IT  (72^  Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 –  Fuori Concorso)

NON ESSERE CATTIVO di Claudio Caligari – IT (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Fuori Concorso)

Non essere cattivo è un racconto che si declina attraverso gli occhi.  Splendidi, intensi, azzurri come azzurro non è il mare di Ostia, dove la vicenda è  ambientata, nel 1995, gli occhi dei due protagonisti,  Vittorio e Cesare, interpretati magnificamente da Alessandro Borghi e Luca Marinelli.  Iniettati di sangue nei momenti delle risse, delle aggressioni, delle droghe sintetiche. Sbarrati durante le allucinazioni che riempiono la strada,  di gente da salvare,  da non mettere sotto. Vittorio frena  bruscamente la macchina e, in quel momento,  anche la folle corsa verso la distruzione della sua vita,  ma Cesare non vede l’autobus, la gente, e può solo assecondare l’amico,  guidare con cautela per un breve tratto, sempre accanto a Vittorio, ma quella allucinazione, quel freno,  quella decisione di fermarsi, di provare a trovare un’altra strada, un’altra vita, non gli appartengono a pieno,  non lo investono, non sono una sua elaborazione, e dunque rappresentano solo una pausa. Gli occhi sono quelli spenti della nipotina di Cesare, malata di AIDS come lo era sua mamma, morta della stessa malattia. Gli occhi supplicanti e  marroni di Viviana, che provano a guardare Cesare con amore, e quelli di Linda, l’unica che osi, nel primo momento in cui entra in scena, guardare verso il mare, verso l’orizzonte, forse in cerca di una nuova prospettiva,  da condividere, abbracciandolo in questo nuovo sguardo, con Vittorio. Ma soprattutto la visione, lo sguardo, l’occhio, è quello di Claudio Caligari, il regista di questo film è di Amore tossico e L’odore della notte, scomparso subito dopo la fine del montaggio dello splendido affresco popolare che è Non essere cattivo. Prodotto da Valerio Mastrandrea che è anche stato, in questa occasione, aiuto regista ed amico di Caligari, il film è fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, ma ha già vinto la battaglia per lasciare in vita, sullo schermo, senza retorica ma solo attraverso la potenza espressiva delle immagini, l’intenso primo piano dello sguardo di Caligari.

data di pubblicazione 09/09/2015








SUDAMERICA LAGUNARE  (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

SANGUE DEL MIO SANGUE di Marco Bellocchio – IT (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Concorso)

Il Conte Basta, il Dottor Quantunque e Federico Mai. Questi i nomi delle maschere che popolano la parte contemporanea del film di Bellocchio, caratterizzata da un registro un po’ surreale, ironico, sardonico, maschiettistico, in assoluta contrapposizione alla sezione storica del film, ambientata nel ‘600. Sfondo comune delle vicende le prigioni del convento di San Colombano a Bobbio, cittadina ormai noto luogo d’origine e residenza di Marco Bellocchio che l’ha reso anche sede della sua scuola di cinema e di un festival. La scoperta della prigione abbandonata è stata la scintilla per decidere di ambientarvi la vicenda storica della monaca murata viva, ma Bellocchio, come da sua dichiarazione in conferenza stampa, sentiva la necessità di portare la storia anche nel presente, e da questa esigenza nasce il personaggio dell’ultimo vampiro,  di quel conte Basta con gli occhi e la voce di Roberto Herlitzka che afferma: “Io non esisto”. Una storia allusiva ad un vampirismo ambientale e paesano che è un po’ l’approdo dell’Italia, continua il regista, che ammette di non essersi preoccupato di un’architettura drammaturgica perfetta,  ma di aver solo creato allusioni tra passato e presente piuttosto che precisi riferimenti. La mancanza di un’architettura si sente tutta, a nostro parere, così come la autoreferenzialità di discorsi già troppo lungamente ribaditi e un po’ sviliti dalla scelta dei toni e dei tempi, ma con certezza è già sceso in campo il partito di coloro che attribuiscono a Bellocchio, vista la sua autorevolezza e carriera,  la libertà di una scelta artistica che faccia a meno di un’architettura.  Noi speriamo che la stessa libertà possa essere garantita allo spettatore e alla scrivente nel crearsi un’ opinione in controtendenza sul film, libertà che Bellocchio stesso evoca nella figura di Benedetta, nel suo uscire bella ed intatta dalla prigione,  a simboleggiare l’immagine di una libertà che non vuole arrendersi.

data di pubblicazione 09/09/2015







SUDAMERICA LAGUNARE  (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

A BIGGER SPALSH di Luca Guadagnino – IT (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Venezia 72)

La magnificenza ancestrale dell’isola di Pantelleria è lo scenario della storia narrata da Luca Guadagnino con A bigger splash, nel remake del film francese La Piscina di Jacques Deary (1969). Quattro personaggi si ritrovano su un’isola selvaggia al confine tra l’Europa e l’Africa e gli equilibri iniziano a vacillare dal loro primo incontro. Da un lato, Marianne e Paul, fidanzati in vacanza nel tipico dammuso, dall’altro Harry e Penelope, padre e figlia a conoscenza del loro legame biologico da appena un anno. In questo quadretto con piscina, però, c’è (ancora) una coppia unita da una forza dirompente: quella di Harry (un bravissimo Ralph Fiennes) e Marianne (eterea Tilda Swinton), ex amanti uniti da una storia d’amore lunga sei anni durante e dopo la quale Harry è stato anche il produttore discografico della rockstar Marianne. L’affetto e la complicità viscerale che unisce Harry e Marianne e l’incapacità del primo di mettere la parola “fine” all’amore ancora forte per la “sua” artista sono parte del “fuoco distruttivo” alimentato dal vento caldo e polveroso dell’isola. Guadagnino, con una sapiente regia matura, forte e sicura, vuole raccontare la complessità dello stato delle politiche del desiderio fra persone mature e per farlo si avvale della quinta protagonista: Pantelleria. Un’isola che induce i quattro personaggi a far a cazzotti; un’isola che, anche fisicamente, non gli consente di scappare dai loro desideri costringendoli ad affrontarsi senza scampo anche con la realtà brutale degli abitanti dell’isola, tra i quali ci sono i rifugiati di guerra approdati miracolosamente con i barconi della disperazione. Fondamentale la scelta, suggerita dall’eterea Tilda Swinton al regista, di rendere muto per un fittizio problema di corde vocali il personaggio della rockstar Marianne così da creare un perfetto equilibrio con il logorroico Harry che con la sua instancabile chiacchiera, e nella sua fisicità (tra cui il suo meraviglioso momento dance), esercita una costante pressione psicologica sulla fragile coppia innamorata Paul-Marianne e, inconsapevolmente, sulla figlia. L’attenta osservatrice Penelope (Dakota Johnson), infatti, percependo in Marianne la sua “nemica”, colei che ha rubato il cuore e l’anima a un padre prima sconosciuto e ora emotivamente impreparato, inizia a tessere una tela di piccole provocazioni: con alcune vuole costringere Marianne a parlare, per strapparla al confortevole “rifugio” del suo finto mutismo, con altre, invece, tenterà di ferirla “rubandole” per qualche ora l’amore dell’introspettivo Paul (un immersivo Matthias Schoenaerts). Nel ristretto spazio del dammuso e della sua piscina cristallina – perché nell’acqua si rivela la vera natura dell’uomo finalmente libero – si compie l’implosione dei desideri delle due coppie fino all’apice della tragedia (velatamente e ironicamente anticipata dal gesto giocoso delle mani di Paul intorno al collo di Harry durante la prima cena del quartetto) che il regista, ispirandosi al Falstaff di Giuseppe Verdi, capovolge nel finale con le note dell’opera buffa. Per farlo si avvale del poliedrico Corrado Guzzanti nel ruolo del maresciallo dei carabinieri di Pantelleria perché in questa storia l’elemento umano doveva prelevare sulla legalità e pertanto la legge segue il sentire della massa, del pubblico dei fan della rockstar in luogo dei codici penali. Nonostante il passaggio del film verso i toni finali della burla lasci smarriti e spiazzati e la macchietta del carabiniere sia stata sicuramente stridente, A bigger splash è ben costruito e tutto il cast, avvolto nelle note dei The Rolling Stones, rende la storia ritmata e appassionante anche grazie alla fisicità dei loro gesti e dei loro nudi che li rendono credibili, così come credibile appare la complessità dei loro sentimenti, dei desideri, dei conflitti interiori e della complicità che li lega. Un film che diverte e rapisce da non perdere nell’autunno 2015!

data di pubblicazione 08/09/2015








VOTO: CI HA CONVINTO

SUDAMERICA LAGUNARE  (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

L’HERMINE di Christian Vincent (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Venezia 72)

Un raffinato gioiello francese illumina di una luce tanto discreta quanto avvolgente la selezione della 72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Xavier Racine (Fabrice Luchini, immancabilmente perfetto) è un intransigente Presidente di Corte d’Assise, che amministra la Giustizia in quel Nord della Francia divenuto ormai un autentico topos cinematografico. Durante il processo relativo alla morte di una bambina, all’interno del quale rischiano di insinuarsi il pregiudizio e/o la noncuranza relativi alla condizione di emarginazione sociale che fa da sfondo alla commissione del delitto, lo sguardo del “Presidente”, come ci tiene a essere chiamato Racine, incontra quello della giurata Birgit Lorensen-Coteret (un’impeccabile Sidse Babett Knudsen): non si tratta di uno degli anonimi nominativi estratti a sorte per la composizione della Giuria, ma degli occhi che in passato hanno acceso nel cuore di Racine il bagliore di un amore mai sopito.

La dimensione teatrale del processo, un po’ troppo didascalicamente enfatizzata nel corso del film e quasi ingenuamente richiamata dal regista Christian Vincent in conferenza stampa, non è certo un mistero. Il processo, soprattutto quello penale, è al tempo stesso “rito” e spettacolo, con tanto di palcoscenico, scenografia, costumi, attori e copione.  Così come non è un mistero che il courtdrama sia un genere tipicamente targato USA, il quale, rafforzato dalla strutturale spettacolarità del processo di common law e dall’effetto trascinatore del botteghino americano, fatica a trovare corrispondenti altrettanto convincenti nella cinematografia del Vecchio continente: è significativo che in L’Hermine uno dei personaggi si veda affidato il compito di “illustrare”, anzitutto allo spettatore, la composizione dell’aula e, quindi, l’allestimento dello spettacolo che sta per iniziare. Il lavoro di Vincent si caratterizza però per una scrittura consapevole e non approssimativa, con quei giurati seduti attorno a un tavolo in cui è pressoché inevitabile intravedere gli eredi dei 12 Angry Men (titolo originale di La parola ai giurati, sebbene il regista smentisca esplicitamente qualsiasi influenza del cult di Sidney Lumet). Rinunciando alla pomposa maestosità dello stereotipo del “processo da grande schermo”, il film riporta il tribunale e gli uomini di legge a una dimensione forse più prosaica, ma indubbiamente familiare a chi è abituato a frequentare i luoghi della Giustizia.

Il personaggio interpretato da Fabrice Luchini riproduce proprio il dualismo tra la dimensione solennemente pubblica e quella romanticamente privata attorno al quale si sviluppa l’intero racconto. L’Ermellino (non a caso sottolineato dal titolo originale) e la sciarpa rossa, il Giudice che conduce con sicurezza il dibattimento e l’uomo che non sostiene il pressante interrogatorio della figlia adolescente di Birgit: due anime efficacemente distinte dalla recitazione di Luchini, pronte a ricomporsi in armonica unità nel finale.

La commedia “romantico-giudiziaria” tratteggiata da L’Hermine è anche la nitida fotografia di uno spaccato sociale sul quale richiamano a lungo l’attenzione, in conferenza stampa, tanto il regista quanto il protagonista, nel corso di un irresistibile show di Luchini che spazia dalla riflessione politica alla lezione sul mestiere dell’attore.

data di pubblicazione 08/09/2015








SUDAMERICA LAGUNARE  (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Premi)

VIVA LA SPOSA di Ascanio Celestini (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Giornate degli Autori)

Il viaggio di nozze di un’americana sposa bionda, equamente diviso tra il fascino monumentale del Bel Paese e le rovine del terremoto dell’Aquila, diviene la sognante boccata d’ossigeno di una porzione di umanità delimitata dal perimetro del Quadraro, quartiere romano non segnalato sulle guide turistiche.

Nicola (Ascanio Celestini), quando non smarrisce il suo travolgente eloquio sul fondo del bicchiere, è un cantastorie che ha ricevuto il dono di un’innocenza generosa e incontaminata. Si offre di aiutare la famiglia di un truffatore delle assicurazioni finito per sventura sotto le ruote del suo furgone, si prende cura del figlio di una prostituta mentre la mamma è al lavoro, è disposto a rinunciare alla Sambuca per regalarsi l’illusione di un bagliore d’amore con Sofia (Alba Rohrwacher, Coppa Volpi lo scorso anno per Hungry Hearts e alla Mostra del cinema anche con Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio), non ha paura di dire “lo conosco” quando un amico è in difficoltà.

Viva la sposa è un film corale nel complesso ben riuscito, che raggiunge i punti più alti grazie alla scrittura straniante e al talento di teatrante del mattatore Celestini, restituendo la disillusa fotografia di un “popolo” che vive ai margini della “grande bellezza da cartolina” e che finisce per avere come indirizzo di casa quello del rassicurante bar di quartiere. Non mancano gli spunti di accorata denuncia politico-sociale, che, per quanto ben amalgamati nel tessuto narrativo (al contrario di quanto avviene in A Bigger Splash di Luca Guadagnino, in concorso a Venezia 72), sono esplicitati con una schiettezza talmente esibita da lambire a tratti il rischio della banalizzante semplificazione.

Resta la sensazione di un’ironia impietosamente dolceamara, oscillante tra il cinismo impotente e la

speranza che non cede alla rassegnazione: basta in fondo un velo bianco e uno strato di rossetto per tornare a gridare “Viva la sposa!” e per trovare un appiglio in grado di sorreggere i naviganti a fronte dell’impetuosa corrente dell’esistenza.

data di pubblicazione 07/09/2015