da Antonio Iraci | Gen 15, 2016
In un caldo ed assolato giorno di ferragosto romano Bruno (Vittorio Gassman), giovane disoccupato amante delle donne e delle auto sportive, conosce per caso Roberto (Jean-Louis Trintignant), studente di giurisprudenza rimasto a casa per preparare un esame universitario.
Dopo le prime resistenze, il timido Roberto acconsente di andare in giro con l’esuberante Bruno a bordo della sua spider, una Lancia Aurelia B24, lanciata a tutta velocità dal centro di Roma proprio sull’Aurelia in direzione della Toscana. Durante la folle corsa in auto i due giovani si fermeranno in diversi posti, a casa dei parenti di Roberto ed incontrano la bella figlia di Bruno, oramai separato dalla moglie, di nome Lilly (Catherine Spaak). Nel corso della giornata Roberto è più volte tentato di lasciar perdere l’invadente nuovo amico, ma in effetti ne è molto attratto perché rappresenta per lui un vero mito che lo potrà iniziare ad un tipo di vita spensierata, a lui completamente sconosciuta, che pian piano lo affascina e gli fa quasi disprezzare la sua esistenza incolore e piatta sinora condotta.
Il tutto si svolge con ritmi frenetici, intercalato da quel clacson assordante che farà storia, sino al tragico epilogo per l’ennesimo sorpasso spericolato: mentre Bruno miracolosamente si salverà rimbalzando dall’auto precipitata in un burrone, Roberto invece perderà la vita proprio nel momento in cui iniziava ad assaporarne la vera essenza.
Questo film, diventato un cult nel filone della commedia all’italiana, fu considerato il capolavoro assoluto del regista Risi perché ha rappresentato l’Italia degli anni sessanta, in pieno benessere economico e della facile ricchezza. La pellicola girata, nella parte finale, in Toscana, in provincia di Livorno, ci suggerisce questa ricetta di baccalà marinato, piatto tipico di quella zona.
INGREDIENTI: 1 kg di baccalà già dissalato – 500 grammi di passata di pomodoro – mezzo bicchiere di aceto – rosmarino, 1 spicchio d’aglio, 2 cipolle bianche – sale e pepe q.b..
PROCEDIMENTO: Tagliare a pezzi i filetti di baccalà, infarinarli e friggerli in olio d’oliva. Sistemare i pezzi già fritti in una terrina, quindi nell’olio della frittura aggiungere la cipolla a pezzetti, il rosmarino triturato, l’aglio a pezzetti e lasciare andare la cottura per un poco. Aggiungere infine la passata di pomodoro con un mezzo bicchiere di aceto, il sale ed il pepe. Una volta cotta la salsa, andrà sistemata calda sui pezzi di baccalà e dovrà rimanere così a marinare anche un giorno intero. Il giorno dopo il piatto va servito appena tiepido.
da Elena Mascioli | Gen 15, 2016
L’accortezza di cercare e fruire della versione originale dell’ennesima versione della tragedia di Shakespeare, Macbeth appunto, per la regia di Justin Kurzel, non ha garantito al film il raggiungimento del gradimento, o almeno non per colei che ne scrive. La scelta di virare verso il rosso, sia in senso letterale per quel che riguarda il colore che avvolge il finale e altre scene di battaglia, sia in senso metaforico per l’accento posto sulla crudezza dei combattimenti, dei ferimenti e delle uccisioni cruente, è sembrata didascalica, volutamente ad effetto, così come abbastanza vetusto è sembrato il rallenty usato nei combattimenti iniziali.
L’accento della riduzione è interamente virato sul personaggio interpretato da Fassbender, togliendo, a nostro parere, alla Lady Macbeth che qui ha il volto della Cotillard, quella centralità nell’innesco della vicenda e nella esplicitazione della bramosia di potere, che secondo noi appartiene e caratterizza la tragedia del Bardo.
Probabilmente il film sconta gli inevitabili paragoni con un testo e le sue innumerevoli rappresentazioni teatrali e riduzioni cinematografiche e, proprio per questo motivo, risulta un po’ troppo ambiziosa (e per questo paradossale, per una tragedia che ha come protagonista la brama di potere) la scelta del regista di misurarsi, non avendo alle spalle una lunga esperienza e la preparazione e il talento di un Orson Welles, con un testo di tale portata.
data di pubblicazione 15/01/2016
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da Elena Mascioli | Gen 15, 2016
Tremano i polsi a scrivere di Francofonia, il film di Alexander Sokurov presentato in concorso alla Mostra di Venezia 2015. Un timore reverenziale dovuto alle vertiginose altezze raggiunte dal film e da tutta la produzione artistica del regista russo, e di cui, da spettatori estasiati, sentiamo di cogliere un frammento di luce, di godere della riflessione ma anche della pura visione, con la consapevolezza di non essere in grado, forse, di prendere a piene mani tutte le citazioni e sollecitazioni che l’opera vorrebbe suggerire. Ma il regista ci viene incontro, e in una conferenza stampa gremita spiega che il suo film mira ad aiutare tutti noi spettatori a sentire, capire, reagire, mira a creare un subbuglio nella testa, un subbuglio del cuore e nel cuore. Perché – continua Sokurov – la forza del cinema è quella di rivolgersi ai cuori, ma soprattutto alle vostre anime.
La ricerca del regista, per sua stessa affermazione, si è spostata dalla forma al significato, nel tentativo di trovare risposte ai quesiti con cui il nostro mondo si scontra. Le risposte semplici sono finite, le domande sono complesse e non hanno trovato risposta nei politici che non sono, o forse non sono mai stati in grado di fornire tali risposte. Non sono cambiati gli atteggiamenti, neanche da parte degli artisti, dei registi. Forse la scelta di mettere il proprio volto, la propria voce di narratore, da parte di Sokurov, all’interno del film, e non solo di far parlare l’opera artistica, è un segno di questa incessante volontà di impegno e ricerca in prima persona, con nuovi linguaggi, nuovi personaggi, come, in Francofonia, il Louvre. Sokurov, e i russi con lui, amano l’individualità delle culture diverse, dell’Italia, della Francia.
Francofonia è una dichiarazione d’amore per la Francia, la sua individualità, i suoi valori…ma qui Alexander esita ed aggiunge: ma forse non esistono più. L’arte quale strumento di conoscenza – la pittura ci permette di capire noi europei – l’arte che va salvata dal naufragio cui assistiamo nei primi momenti del film, anche se la scelta tra la vita dell’individuo e l’arte stessa rimane una scelta soggettiva ad una domanda cui sembra impossibile dare risposta. Non resta che immergersi nelle immagini di repertorio, nelle splendide circumnavigazioni dei piani sequenza intorno alle opere del Louvre, nei costumi impregnati di ironia del Napoleone di turno o nella immaginazione di cosa accadde al Louvre mentre Parigi era città aperta, per regalarci un subbuglio del cuore. Astenersi spettatori in cerca di trama.
data di pubblicazione 15/01/2016
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da Alessandro Rosi | Gen 14, 2016
Bosnia, 1995. Il conflitto che ha devastato per anni i Balcani volge ormai al termine. Una mano copre l’obiettivo della cinepresa e lentamente si solleva lasciando l’occhio dello spettatore esterrefatto dalla visione di un corpo esanime sospeso nel vuoto. Sullo sfondo di questa immagine raccapricciante s’intravede Mambrù (Benicio del Toro), operatore umanitario con il ruolo di responsabile della sicurezza, che sta tentando — insieme ai suoi collaboratori — di rimuovere dal pozzo il cadavere, affinché Sophie (Mélanie Thierry), responsabile delle risorse idriche, possa bonificare l’acqua — altrimenti contaminata e inservibile per gli abitanti del luogo. La corda con cui stanno issando il corpo (color livor mortis), però, non regge e si spezza; una rottura che cercherà di essere ricomposta per tutta la durata del film e che rievoca la frantumazione dell’equilibrio tra le diverse etnie bosniache, tuttora alla ricerca di un’armonia sociale. A questo punto il gruppo, seppur momentaneamente, si divide: i due operatori B (interpretato da Tim Robbins) e l’interprete de “Aid Across Borders” proseguono nella ricerca di un’altra corda, mentre Sophie e Mambrù si recano nella zona protetta, dove si apprestano a partecipare a una conferenza con i responsabili delle forze militari dell’ONU. Lì incontreranno l’affascinante Katya (Olga Kurylenko), analista di guerra inviata per una valutazione sullo stato del conflitto — nonché ex fiamma di Mambrù —, che li seguirà nella loro missione di ripristinare l’accesso all’acqua del pozzo.
Inizia così il viaggio delle due macchine degli aiuti umanitari (in terre dove rimane poco di umano) che si inerpicheranno attraverso le strade tortuose del territorio bosniaco, che viste dall’alto appaiono un groviglio inestricabile al pari delle situazioni in cui saranno coinvolti i protagonisti.
Il road movie del regista spagnolo, per il territorio in cui si svolge e per i topoi che involge, lascerebbe presagire la visione di un film che lascia un magone difficile da digerire. Stupisce invece l’approccio “leggero” — ma non superficiale — e vivace (grazie anche alla colonna sonora) con cui sono affrontati temi particolarmente delicati. Senso di leggerezza derivante anche dalle numerose boutades che condiscono il viaggio, tra cui spiccano quelle di B — la scelta di Tim Robbins per questo ruolo si rivela vincente —, il cui umorismo incessante stempera l’atmosfera opprimente generata dalla vista della devastazione e desolazione causata dal conflitto. Da contraltare alla leggerezza che pervade il film è la profonda caratterizzazione psicologica dei personaggi, al pari della sapiente ricerca del regista del ricorso del cambio di fuoco nelle inquadrature tra personaggi sovrapposti, artifizio che conferisce la sensazione di straniamento e di confusione pari a quella provata dalle persone coinvolte in un conflitto.
L’estenuante ricerca di una semplice corda diventa simbolo di uno scopo più grande, ovvero quello di una soluzione che ponga fine ad un conflitto che consenta alle popolazioni di tornare alle loro vite: soluzione che spesso è di fronte ai nostri occhi e che non vediamo, ma che il naturale corso degli eventi può portare.
data di pubblicazione 14/01/2016
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da Antonio Iraci | Gen 14, 2016
(Teatro dell’Orologio – Roma, 13 e 16 gennaio 2016)
Se per fare teatro basta sovvertire le normali regole dell’analisi logica e grammaticale, aggiungere qualche allitterazione, scomponendo il “sense per il non-sense”, diciamo allora che lo spettacolo gU.F.O. di Luca Ruocco e Ivan Talarico (produzione DoppioSenso Unico) ha raggiunto e colpito al cuore il pubblico, tra il divertito e il disorientato, ieri sera al Teatro dell’Orologio.
I due alieni sbarcano con astronavi di carta su questa terra per incontrare e catturare benevolmente i terrestri e cercare di alienarli ancora di più dalle loro convinzioni (errate) che li hanno condizionati da sempre. Marx, Newton, Freud e persino Gesù Cristo non sanno più cosa fare in quanto le loro idee, o invenzioni, risultano infondate o sovvertite; persino Dio non sembra esentato da questo scombussolamento generale in quanto addirittura il suo operato creativo viene messo in discussione: ma l’uomo è stato generato da lui o dalle scimmie? Non si sa più che pensare.
Il Gufo Luigino è pure lui un Ufo, con la g davanti, o un essere parlante chiuso nella sua casa con la compagna Marisa e lo spettro di Gianni Barba in attesa di eventi che non si sa quali saranno? Ecco che l’assurdo si materializza in sketch senza soluzione di continuità, quasi a ricordare quella tragicomicità televisiva stile anni settanta volta ad alienare le nostre menti dai problemi reali per farci sorridere un poco e gustare in pieno, senza vergognarci, quella demenzialità divenuta quasi naturale.
Lo spettacolo avanza nell’improvvisazione totale, tra gag intercalate da brevi secondi di buio, con il coinvolgimento diretto del pubblico sulla scena a siparietto e dove ognuno gioca la sua parte, divertito, senza sapere dove si andrà a parare perché qui non c’è copione da seguire o regole di recitazione da osservare: tutto nasce e si esaurisce nel mentre in cui gli stessi gufi non sanno più cosa fare e rimangono ingabbiati nel loro spazio domestico.
gU.F.O. è il primo spettacolo della Trilogia Niente di nuovo sotto il suolo, di cui non si conosce il senso di partenza né l’improbabile filo conduttore che lega le tre diverse situazioni, ma risulta sicuramente interessante questo tipo di comicità surreale che Luca e Ivan portano sul palcoscenico, essenziale nelle scene di Fiammetta Mandich insieme alle maschere dei gufi di Tiziana Tassinari e agli oggetti vari di scena di Stefania Onofrio.
Seguiremo gli altri due lavori in sequenza (illogica) e ne vedremo delle belle…
data di pubblicazione 14/01/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Gen 12, 2016
(Teatro Vascello – Roma, 11 Gennaio 2016)
Lungo la corda tesa del 41° parallelo (che dà il nome all’orchestra) danzano le equilibriste dell’ensemble musicale: un gruppo composto da sole donne — eccezion fatta per il direttore—, che con la loro musica incantevole accompagnano il pubblico alla scoperta dei paesi che si incontrano su questa linea orizzontale del globo terrestre.
Il giro del mondo musicale inizia in India con un canto baul (parola che deriva dal sanscrito “vento”); la voce di Camilla Dell’Agnola ci solleva da terra, come una forza sottile e spirituale, e ci sospinge verso nuove terre.
Arriviamo in Bulgaria, dove l’orchestra esplode in una danza popolare tratta dal folklore contadino, che, seppur arrangiata secondo il gusto contemporaneo, mantiene integro lo schema asimmetrico della tradizione. Continuiamo a ballare in Grecia, con un sirtaki per allontanare la crisi economica: la musica diventa strumento per raccontare storie di marginalità e di disagio sociale, che nella stessa trovano sfogo e consolazione.
Dopo aver a lungo ballato, un carillon riporta la calma e introduce l’Albanian Lullaby, cantata dalla voce soave di Gabriella Aiello. E si prosegue con il malinconico fado portoghese, simbolo della saudade, capace di toccare le più intime corde dell’animo umano.
L’atmosfera mesta viene spazzata via dalla suite di brani della tradizione sarda, titolata Il bacio della medusa; nome che trae origine da un episodio ironico occorso al direttore d’orchestra (Stefano Scatozza): durante una nuotata in una tournée a Stintino, un invertebrato marino decise di abbracciare il suo viso con i tentacoli urticanti. Dalla Sardegna facciamo rotta verso la Spagna, dove siamo ospitati dal popolo sefardita; il ritmo caliente delle loro canzoni infiamma il pubblico, che è invitato a partecipare: un unione che sprigiona un turbinio di suoni ed emozioni.
Abbandoniamo il vecchio continente per atterrare a New York; nella capitale americana ci perdiamo nel labirinto di suoni della metropoli, attraverso il sax contralto di Valentina Franchini che ci riporta nello scenario cittadino.
Il biglietto di ritorno ha come destinazione Roma, ultima tappa del concerto, dove con la canzone Viaggio Orizzontale — accompagnata dalla voce di Agnese Valle — viene raccontato lo scopo di questa orchestra e l’amicizia musicale (e umana) che lega i componenti.
Lo spettacolo musicale offerto da L’orchestra del 41° parallelo non solo colpisce per lo spessore dei musicisti che ne fanno parte, ma anche per l’approccio innovativo: permette, infatti, di sentire canti e ballate della tradizione di diverse culture europee (e non), viaggiando aggrappati alle note musicali emesse dai loro strumenti, alla scoperta di altri popoli e alla ricerca di se stessi.
data di pubblicazione 12/01/2016
Il nostro voto:
da Antonella Massaro | Gen 10, 2016
99 Homes aveva raccontato la crisi dei mutui subprime descrivendo gli effetti disastrosi derivanti dall’esplosione/implosione della bolla immobiliare e collocandosi dalla prospettiva delle vittime “ignare”, sorprese e travolte dallo tsunami finanziario. La grande scommessa descrive invece il momento immediatamente precedente alla deflagrazione del sisma, inquadrando la catastrofe dall’ottica degli addetti ai lavori: operatori finanziari outsider che, spacchettando la complessa architettura delle obbligazioni immobiliari e prevedendo l’incombere del default su molte banche americane, decidono di “vendere allo scoperto”, di scommettere contro titoli di cui si ipotizza il futuro ribasso. Il vaso di Pandora scoperchiato dalle analisi di chi si troverà suo malgrado a svolgere il ruolo di inascoltata Cassandra, rivela una trama fraudolenta che tiene insieme il sistema bancario, la FED (Banca centrale americana) e le agenzie di rating, mostrando una diffusività epidemica capace di contagiare l’economia mondiale.
Adam McKay, noto per il suo registro leggero, si confronta con il libro di Michael Lewis The Big Short – Il grande scoperto e riesce nella non scontata impresa di individuare il giusto equilibrio tra i toni della commedia amara e quelli più propriamente drammatici, restituendo un film in effetti refrattario all’inquadramento di genere.
Il cast è quello delle grandi occasioni. Il superbo Christian Bale nel ruolo di Michael Burry, incompreso gestore di fondi di investimento che cammina a piedi nudi in ufficio ascoltando heavy metal; Ryan Gosling-Jared Vennett, cinica voce narrante del film; Steve Carell, cui è affidato il personaggio di Mark Baum, perennemente sospeso tra le ragioni del profitto e quelle della morale. E infine c’è Brad Pitt, anche produttore del film, protagonista indiscusso del lancio pubblicitario: Ben Rickert, “lupo di Wall Street” in pensione, sia pur centellinato nelle sue apparizioni, restituisce forse il senso autentico della storia.
La sceneggiatura è necessariamente intrisa di tecnicismi economico-finanziari, tanto evidenti da suggerire al regista curiose (e riuscite) parentesi didascaliche, affidate per esempio a Selena Gomez e Margot Robbie, che, immerse in vasca da bagno sorseggiando champagne o sedute al tavolo da gioco, “traducono” per lo spettatore medio e sprovvisto di conoscenze specialistiche il linguaggio (volutamente) oscuro della finanza.
Proprio la scelta di strumenti di narrazione non convenzionali si rivela il tratto davvero vincente di un film corale complessivamente riuscito. La grande scommessa sconta tuttavia dei tempi eccessivamente dilatati, durante i quali il racconto filmico non mantiene sempre la dovuta incisività e che, quando i siparietti didascalici sono conclusi, lasciano un senso di smarrimento, anche nel più volenteroso “spettatore medio”, probabilmente eccessivo.
data di pubblicazione 10/01/2016
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da Antonietta DelMastro | Gen 8, 2016
Romanzo familiare, pochi i personaggi e quasi tutti senza nome, li conosceremo come il Padre, la Madre, lo Zio, la Sposa giovane, l’unico ad avere un nome è il maggiordomo: Modesto.
Inizialmente il continuo passaggio tra la prima e la terza persona narrante, tra il narratore e uno qualsiasi dei personaggi, senza soluzione di continuità può destabilizzare il lettore ma, una volta afferrato il meccanismo, lo trovo assolutamente piacevole e ideale per questo libro. “Il fatto è che alcuni scrivono libri altri li leggono: sa Dio chi è nella posizione migliore di capirci qualcosa” come non essere assolutamente, interamente, totalmente d’accordo con l’autore?
È un romanzo che celebra l’attesa, a cavallo tra la verisimiglianza e l’onirico.
Come concordato la Sposa giovane arriva per unirsi in matrimonio con il Figlio ma lui non c’è, è in Inghilterra per “affari”. Così comincia l’attesa della Sposa, una attesa durante la quale impara a conoscere le abitudini e i segreti di questa famiglia immobile nella sua routine sempre identica che non ammette sorprese, perché questi ritmi ripetitivi danno la sicurezza di un giorno uguale all’altro in quella che sembra essere una eternità fatta di un solo giorno. In questo immobilismo la Sposa giovane viene edotta alla bellezza, alla sensualità, alla seduzione e a un certo punto “tutto le parve sbagliato, o orribile. Squinternata la Famiglia, ………, velleitaria qualsiasi sua frase pronunciata a schiena dritta, stucchevole Modesto, pazzo il Padre, malata la Madre, ignobili quei posti….” Ma, come spesso succede nei libri di Baricco, quando tutto sembra ormai precipitare un finale a sorpresa ci darà modo di capire, di apprezzare, di amare quanto scritto fino a ora.
da Gabriella Ricciardi | Gen 7, 2016
New York, 1952, a pochi giorni dal Natale, Carol, una meravigliosa Cate Blanchett, si aggira nel reparto giocattoli di un grande magazzino sotto gli occhi rapiti di Therese Belivet (Rooney Mara) che lì lavora come commessa. I guanti dimenticati sul bancone dalla elegantissima signora, saranno la scusa per rivedersi. Therese è molto più giovane di Carol che dal suo matrimonio ha avuto, cinque anni prima, una bambina molto amata con la quale vive in una villa fuori città; una prigione dorata dove è obbligata a rispettare le convenzioni alto borghesi per poter rimanere accanto a sua figlia. Ma il matrimonio è alla fine, segnato da una precedente unione di Carol con Abby e dall’ostinazione del marito che pensa di poter “riparare” i desideri omosessuali della moglie con la psicoterapia e forzarla ad amarlo. Therese è una ragazza ancora insicura, ma non esita a seguire Carol in un viaggio attraverso gli Stati Uniti che sarà anche il loro percorso di trasformazione. La timida Therese tra le braccia di Carol scopre se stessa e la sua determinazione, e al ritorno diventerà una fotografa al “Times”. Carol proverà ancora a essere una moglie irreprensibile; ma l’amore per Therese l’ha cambiata per sempre, spingendola a rinunciare perfino alla custodia della piccola pur di vivere con lei.
Una appassionata storia d’amore, morbida, dai colori tabacco, dalle risposte appena accennate o dai silenzi, in un esercizio magistrale di equilibri tra la forza tellurica della passione e il coraggio che ci vuole per viverla.
Un film che racconta l’impossibilità di negare se stessi, la forza dei propri sentimenti, ma Todd Haynes lo fa scegliendo la strada della sottrazione, in modo da spingere anche lo spettatore a sentire l’urgenza di non sprecare nessuna occasione. Girato a basso budget e che invece mantiene l’eleganza vellutata del genere a cui si ispira, il melò di Douglas Sirk de La magnifica ossessione, o alla regia perfetta di Howard Hawks de Il grande sonno, tanto da rendere Carol un’emanazione luminosa di Lauren Bacall. La loro storia d’amore, raccontata in un lungo flashback, sarà il tempo in cui Therese cercherà dentro di sé una risposta alla richiesta di Carol che è tornata a cercarla, come se anche noi stessimo guardando dentro noi stessi, valutando il rischio di essere felici. Eleganza, e una bellezza che ha il pregio di non restare solo formale ma di essere la sostanza stessa del film, intensità che le commediole nostrane nemmeno sfiorano.
data di pubblicazione 07/01/2016
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Estratto da: INCONTRI RAVVICINATI – Todd Haynes (Festa Cinema Roma 2015) -23 Ottobre 2015
https://www.accreditati.it/incontri-ravvicinati-todd-haynes-festa-cinema-di-roma-2015
da T. Pica | Gen 7, 2016
L’esecuzione dell’Assolo di Laura Morante – alla sua seconda opera come regista dopo il debutto alla cinepresa con Ciliegine nel 2012 – è in realtà un’opera corale nella quale la protagonista Flavia (Laura Morante) non riesce ad emergere e condurre alcun assolo.
Sebbene la regista abbia dichiarato che il film è un invito alla rivoluzione femminile in termini di maggiore valorizzazione e ricerca di un rapporto sereno delle donne con se stesse, l’intera storia è un susseguirsi di episodi e scelte di donne in cui tutti i traguardi raggiunti nei decenni di rivoluzioni femminili sono stati gettati al vento. Flavia, dopo due matrimoni falliti e due figli, vive una condizione di donna precaria e insoddisfacente sotto ogni profilo: a lavoro, nel condominio, durante il corso settimanale di tango, durante i pranzi con i due ex mariti e le rispettive seconde mogli Flavia è insicura, infelice, spenta. Una donna, come la definisce la stessa Morante, “candida”, troppo candida, priva di qualsiasi tipo di malizia, generosa e buona con tutti anche con coloro che la feriscono e umiliano, fin dall’infanzia. In questa condizione di eterna ingenua estremamente composta Flavia non è percorsa, né scossa dalla vita – condizione che si riflette sui suoi abiti sempre neri e dai toni cupi – della quale non riesce a riprendere il comando. E così, come Flavia è incapace di prendere decisioni, avere maggior cura e stima di se stessa per se stessa (e non in funzione delle volontà o dei gusti di un uomo), così Flavia da oltre 20 anni non riesce a superare l’esame di guida per prendere la patente. In questo costante parallelismo interviene senza successi la psicanalista dott.ssa Grunewald (Piera Degli Esposti) la quale non riesce a destare l’anima e la femminilità sopita e fanciullesca della sua paziente, facendo forse meglio di lei il cagnolino Kira. Flavia non riesce ad eseguire alcun assolo, nelle relazioni come a scuola guida e a scuola di tango, perché preferisce vivere rinchiusa dietro la “finestra” del proprio acuto spirito di osservazione che concentra unicamente sugli altri: ex mariti, figli, ex fidanzati, la fidanzata del figlio, le amiche, le mogli dei due ex mariti, la cameriera del primo ex marito, la sua psicoanalista finendo così con il perdersi. Il finale, contraddistinto solo dal tripudio dei colori del nuovo look di Flavia alla guida (finalmente) di un vecchio spider Duetto rosso fiammante, non convince come rinascita della protagonista la quale alla fine si apre ad uomo silente, ma belloccio, che prima aveva rifuggito riconoscendovi il prototipo dell’uomo “che così fa con tutte”. La trama stuzzicante e la regia a tratti sperimentale dei momenti onirici che spezzano la delicatezza delle scene di vita reale non colmano a sufficienza le lacune della resa finale della storia. La sempre brava e affascinante Laura Morante, infatti, non è credibile nel ruolo della donna cinquantenne coacervo di tutte le sfortune, insicurezze, ansie e ingenuità dell’universo femminile di cui la protagonista è portatrice prossima all’autoflagellazione. Anche il cast che si muove intorno alla protagonista non convince. Solo la “canaglia” di Marco Giallini, nel ruolo del collega piacione che infarcisce un maldestro corteggiamento opportunista con perle di “profonda saggezza popolare” – Una mano lava l’altra…. E due lavano il viso; Aiutati Flavia che Dio ti aiuta – che si conclude con il suo Posso? al quale la passiva Flavia replica Fai pure (che tuona come uno scivolone devastante e distruttivo di ogni forma di amor proprio e partecipazione alla vita), la sempre impeccabile Piera Degli Esposti e il personaggio marginale di Angela Finocchiaro – che urla Vecchio porco! – riescono a far sorridere con intelligenza. Inconfondibile e perfetta la colonna sonora di Nicola Piovani…forse il vero Assolo dell’intera pellicola.
data di pubblicazione:07/01/2016
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