da Antonio Iraci | Feb 13, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Dopo l’apertura frizzante con il film dei fratelli Coen, la seconda giornata della Berlinale 2016 si presenta sottotono, almeno a giudicare dalla perplessità manifestata dal pubblico in sala alla proiezione di ben 3 dei rimanenti 22 film in Concorso.
Hedi, il primo lungometraggio del tunisino Mohamed Ben Attia, nonostante la produzione di prestigio dei fratelli Dardenne, maestri in ambito cinematografico che non necessitano certo di presentazioni, sembra a chi scrive una pellicola pretenziosa che, nonostante le palesi intenzioni del regista, non riesce a centrare l’essenzialità di uno script molto realistico. Hedi, il protagonista, classico uomo rimasto bambino a causa di una madre che gli ha organizzato tutto nella vita, incluso il matrimonio con una donna che lui quasi non conosce, fortuitamente incontrerà la bella Rim che gli farà perdere letteralmente la testa, facendogli pregustare il sapore dell’indipendenza oltre che del vero amore. Ben presto tuttavia Hedi si renderà conto che la tanto agognata libertà ha un prezzo da onorare e che lui non è all’altezza della situazione. L’interpretazione di Majd Mastoura nel ruolo del protagonista non sempre risulta convincente, mentre più spontanea quella di Rym Ben Messaoud nella parte di Rim, anche se non sufficiente a sollevare le sorti di un film poco coinvolgente. E’ stata poi la volta di Boris sans Béatrice di Denis Côté, canadese di nascita ma di casa alla Berlinale, che ha presentato la storia di Boris Malinovsky (James Hyndman), un improbabile uomo di successo senza scrupoli morali, che si trova ad affrontare la depressione della moglie (Simone- Elise Girard), ministro nel governo canadese; quale conditio sine qua non affinché la moglie possa riacquistare la sua salute mentale, l’uomo si lascerà convincere da un personaggio misterioso a rivedere la sua vita dissoluta da Don Giovanni ed a prendersi seriamente cura della propria anima. L’introspezione che il protagonista pretende di affrontare, per rivedere se stesso e la propria esistenza, è decisamente poco chiara, così come l’osservanza di una sorta di dovere coniugale che gli farà guadagnare la salvezza della moglie, che lui dice di amare seriamente nonostante i continui tradimenti. E’ stato poi il turno di Midnight Special di Jeff Nichols, che ha fortunatamente contribuito in maniera decisiva a sollevare l’umore del folto pubblico accorso, forse anche per la presenza in sala della giuria e della splendida Meryl Streep in veste di Presidente. Protagonista un bambino di otto anni di nome Alton (Jaeden Lieberher), dotato di poteri paranormali che si materializzano in una luce accecante che promana dai propri occhi e mediante la quale comunica con entità di un altro mondo al quale lui stesso appartiene. I suoi genitori, normalissimi terrestri, cercheranno di proteggerlo dagli interessi di altri che lo vogliono avvicinare solo per carpire i segreti dei suoi poteri, ed utilizzarli per il proprio tornaconto. Ottima l’interpretazione del protagonista e soprattutto quella del padre Roy (Michael Shannon) che sono riusciti a dare credibilità ad una storia che, al contrario, ha il sapore dell’incredibile. Peccato che la storia di questa sorta di E.T. dei giorni nostri, non ci coinvolga e non ci emozioni come fece Steven Spielberg tanti anni fa…
data di pubblicazione:14/02/2016
da Rossano Giuppa | Feb 12, 2016
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 27 gennaio/14 febbraio 2016)
Continua la fortunata tournèe di “Some Girl(s)”, caustica e brillante commedia di Neil LaBute, portata in scena dal 2013 da Marcello Cotugno ed in programmazione ora al Teatro Piccolo Eliseo dal 27 gennaio al 14 febbraio. La storia di un quarantenne che poco prima del matrimonio decide di incontrare le sue ex storiche per chiarire episodi passati e mettere così a posto la propria coscienza. Quattro città, quattro diverse camere d’albergo e quattro donne che si alternano in un viaggio a ritroso nevrotico e a tratti psicotico: il primo amore adolescenziale, la donna sensuale e orgogliosamente indipendente, l’insegnante sedotta e abbandonata e la sua ultima fiamma. E Guy rampante giornalista e scrittore (il convincente Gabriele Russo), sfrontato e senza scrupoli, è alla ricerca di un nuovo scoop. Alla vigilia del suo matrimonio finirà per mettere a nudo non solo se stesso ma i sentimenti di quelle donne che hanno rappresentato un pezzo importante della sua vita.
Quattro stanze tra loro simili e differenti, in cui si sono consumate le relazioni con quelle donne che incontra in sequenza, un universo femminile fatto di fragilità, nevrosi, desideri e speranze non ancora sopiti. La prima è Sam (Laura Graziosi), la donna sposata che ha ancora vivo in lei quell’amore lontano, forse l’unico che ha provato; è la volta poi di Tyler (una spumeggiante Bianca Nappi), apparentemente disinibita e superficiale, non bisognosa d’amore, uno specchio premonitore; ancora Lindsay (Roberta Spagnuolo), che sente addosso la macchia di essersi innamorata di quell’allievo che le ha sconvolto la vita e che cercherà inutilmente di umiliare. Infine Bobbi, emancipata ed intelligente, anch’essa all’apparenza distaccata (molto brava Martina Galletta) che scoprirà dopo una furiosa litigata, la pochezza di Guy, intento a registrare tutte le conversazioni delle su ex e pronto ad utilizzarle per un nuovo libro.
La scena è caratterizzata da una camera d’albergo che cambia morfologia ma non atmosfera, fredda e superficiale, come la carrellata del passato che Guy fa rivivere a quelle donne. Come ripetitiva è la modalità di dialogo e di approccio del protagonista che vuole analizzare il dolore lasciato nei cuori delle sue ex e non espiare le sue colpe, inducendole anzi a rinnovare quel dolore affinché continuino a dipendere dal suo ricordo.
Soltanto alla fine si comprenderà la vera natura di Guy, un uomo che non è cresciuto perché troppo animato da una ambizione che lo spinge manipolare le donne della sua vita. Inevitabilmente sconfitto su tutti i fronti, alla fine si rialza, senza pensarci troppo su.
Una bellissima colonna sonora ed una regia, quella di Marcello Cotugno, attenta e curata, narrativa, non esasperata, efficace nell’esplicitare le sfumature di quell’universo femminile e di quel piccolo uomo.
data di pubblicazione:12/02/2016
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 11, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Se il filosofo e sociologo tedesco Herbert Marcuse avesse visto con noi il film Ave, Cesare! presentato oggi in Concorso in apertura della Berlinale e firmato dai fratelli Coen, avrebbe sicuramente rivisto al meglio le proprie teorie sul capitalismo e sulla manipolazione delle masse da parte della cultura dell’intrattenimento.
Il film, ambientato nei famosi Studios hollywoodiani di celluloide degli anni cinquanta, dove contemporaneamente western, musical e polizieschi di ogni genere si mescolano tra di loro, sembra irridere a situazioni, a volte assai grottesche, che trovano sempre una soluzione pur di far andare avanti quanto previsto in copione, seppur nella confusione più totale.
Il risultato è una divertente satira socio/culturale del tempo, che solo la maestrìa dei fratelli Coen sa cogliere in pieno senza cadere nel banale o nella prevedibilità, e così Ave, Cesare! pur non atteggiandosi volutamente a divenire un classico d’autore, diventa invece un film autoriale grazie all’abilità di questi due registi che hanno saputo cogliere l’essenza del tema annunciato.
Di gran livello il cast, che va da Josh Brolin a George Clooney, da Alden Ehrenreich a Ralph Fiennes, e poi ancora Jonah Hill, Scarlett Johansson, Frances McDormand, Tilda Swinton, Channing Tatum, ed anche se alcuni di loro sono impegnati solo in piccoli camei, tutti insieme determinano una ottimo risultato finale.
Il messaggio che ci arriva è quello che le cose semplici, paradossalmente, sembrano essere quelle più sbagliate e che invece proprio dal caos nasce l’ordine e la felicità, dove anche la luna piena che si rispecchia nell’acqua può così all’improvviso dileguarsi, basta semplicemente… tuffarvisi dentro.
data di pubblicazione:11/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 10, 2016
(Berlino, 11/21 Febbraio 2016)
Al nastro di partenza questa attesissima 66esima edizione della Berlinale che, sotto la direzione di Dieter Kosslick, presenta un programma molto vasto, ricco per numero e provenienza di film di ogni genere. Verranno mostrati al pubblico circa quattrocento film, di cui 23 in Concorso.
A contendersi l’Orso 2016 saranno:
Ave, Cesare! di Ethan e Joel Coen, USA 2016
Chi-Raq di Spike Lee, USA 2015
Midnight Special di Jeff Nichols, USA 2015
Zero Days di Alex Gibney, USA 2016
Genius di Michael Grandage, USA 2016
24 Weeks di Anne Zohra Berrached, Germania 2016
Alone in Berlin di Vincent Perez, Germania 2015
News from Planet Mars di Dominik Moll, Francia 2016
L’avenir di Mia Hansen-Løve, Francia 2016
Being 17 di André Téchiné, Francia 2016
Hedi di Mohammed Ben Attia, Tunisia, Belgio, Francia 2016
Fuocoammare di Gianfranco Rosi, Italia, Francia 2016
Death in Sarajevo di Danis Tanovic, Francia, Bosnia-Herzegovina 2016
Soy Nero di Rafi Pitts, Germania, Francia, Messico 2015
Saint Amour di Benoît Delépine, Belgio 2016
Crosscurrent di Yang Chao, Cina 2016
Boris Without Béatrice di Denis Côté, Canada 2016
The Patriarch di Lee Tamahori, Nuova Zelanda 2016
Letters From War di Ivo M. Ferreira, Portogallo 2016
A Dragon Arrives! Di Mani Haghighi, Iran 2016
The Commune di Thomas Vinterberg, Danimarca 2016
United States of Love di Tomasz Wasilewski, Polonia, Svezia 2016
A Lullaby To The Sorrowful Mystery di Lav Diaz, Filippine, Singapore 2016
La giuria sarà presieduta dal premio Oscar Meryl Streep, già Orso d’oro alla carriera nel 2012; ad affiancarla nel giudizio ci saranno gli attori Alba Rohrwacher, Clive Owen e Lars Eidinger, la regista polacca Małgorzata Szumowska, la fotografa francese Brigitte Lacombe ed il critico Nick James.
Oltre ai film in Concorso altre 8 sezioni arricchiranno questa maratona berlinese: la Berlinale Shorts che comprende corti principalmente a tematica in controtendenza; Panorama con documentari di produzioni indipendenti “Made in USA”; soggetti di avanguardie cinematografiche e film a tematica sociale di rottura nella sezione Forum; la rassegna Generation di film dedicati ai giovani; sfilata di film di talenti tedeschi, in parte esordienti nell’ambito della sezione Prospettive Cinema Tedesco; Special che include produzioni straordinarie in omaggio alle grandi personalità del cinema; una sezione Omaggio, oltre ad una intitolata Retrospettive relative solo a film delle due Germanie nell’anno 1966.
Uno spazio della Berlinale verrà dedicato a tre importanti figure dello spettacolo, recentemente scomparse, che verranno celebrate dalla proiezione di tre famosi lungometraggi: L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg per omaggiare David Bowie, Ragione e Sentimento di Ang Lee per ricordarel’attore britannicoAlan Rickmane Ballando Ballando del 1983 del nostro indimenticabile Ettore Scola.
Oltre alle Sezioni speciali, il Festival berlinese vedrà anche delle rassegne particolari quali Teddy30, per commemorare i trenta anni della Sezione Speciale Teddy Award dedicata ai film con soggetto gay; Culinary Cinema con la proiezione di film riguardanti il rapporto tra cibo-politica-cinema; Berlinale goes Kiez, programma per la diffusione dei film della Berlinale nei vari cinema periferici della città e Native, viaggio attraverso gli indigeni dell’Oceania, Australia e Nord America, mediante una serie di interessanti documentari.
Accreditati sarà presente durante questo Festival a Berlino e vi informerà, giorno per giorno, sui principali avvenimenti, raccontando le proprie impressioni sui film in concorso visionati.
data di pubblicazione:10/02/2016
da Elena Mascioli | Feb 8, 2016
(Teatro Vascello – Roma, 4/7 Febbraio 2016)
Ubu Roi. Ovvero del futuro prossimo. Così Roberto Latini, che ne ha curato l’adattamento e la regia, parla del testo di Alfred Jarry, riproposto a quattro anni di distanza dalla sua rappresentazione al teatro India nel 2012. Fino allo scorso 7 Febbraio è stato possibile rivederlo in scena al Teatro Vascello, con un grande successo di pubblico, nella produzione di Fortebraccio in collaborazione con Teatro Metastasio Stabile della Toscana. Ubu Roi, e soprattutto l’adattamento e la regia di Latini, sono Teatro e non letteratura, non rappresentazione, ma “una condivisione, un’aspirazione”, il luogo d’incontro “della relazione possibile e non della convenzione stabilita”. Ubu Roi supera la palude della vuota distinzione tra sperimentazione e tradizione, e diventa, per precisa ammissione e dichiarazione dei Latini, la sua presa di responsabilità di una proposta, di un teatro che concede, ad ogni scena, libertà creativa, che rende dunque possibile la relazione tra Padre e Madre Ubu (memorabile l’interpretazione di Ciro Masella) e la catena al collo di Carmelo Bene/Pinocchio (interpretato dallo stesso Roberto Latini), di un microfono che dà voce allo sfrigolio delle salsicce come ai versi di Shakespeare dalla Tempesta “Seppure voleste colpire, le vostre spade sono ora troppo pesanti per le vostre forze. Non potreste nemmeno sollevarle”. Ma ancora, visivamente, nella resa scenica di quello che è un testo che ha aperto la strada al Teatro del Novecento, ci è parso di ravvedere, accanto agli attori, un attraversamento nel cinema di Kubrick. Sempre Latini: “Gli Ubu sono un’alterazione e una capacità insieme. Dalla loro comparsa sulla scena si può stabilire un punto di non ritorno. E quindi anche di appartenenza, o partenza nuova.” Dopo aver visto questo Ubu Roi, siamo pronti a dichiarare la nostra appartenenza ad un teatro che si fa responsabilità, che diventa partenza nuova, sotto la guida di uno degli attori e registi più interessanti della scena contemporanea.
data di pubblicazione:08/02/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Feb 7, 2016
(Teatro dei Conciatori – Roma, 2/7 febbraio 2016)
Nella cornice del Teatro dei Conciatori, la tela che fa da sfondo al palcoscenico si anima: al chiaro di luna, sulle note della canzone di Debussy, un’ombra scura si staglia sullo sfondo e si muove dando vita a immagini mostruose. Da questa atmosfera orfica, fa il suo ingresso sulla scena l’attrice Monica Menchi, avvolta da una veste bianca ma con un viso cupo – contrapposizione tra bianco e nero che agisce come presagio degli accesi contrasti cui si assisterà nel corso della rappresentazione.
La candida figura è Rebecca, una bambina nata orba (ancorché il trucco somigli più a una benda oculare che a una malformazione), che, per il suo aspetto sgradevole, sarà emarginata dalla società. Prima ancora che la comunità, saranno i genitori — interpretati dalla stessa attrice (unica sul palco), che dimostra una versatilità straordinaria — a non riuscire ad accettare la natura della loro figlia e, pertanto, la costringeranno a vivere reclusa in casa (come accadde alla poetessa Emily Dickens: solo che nel caso della scrittrice inglese la reclusione non è forzata, bensì voluta). L’inadeguatezza della fanciulla alla vita cela, in realtà, una profonda e radicata incapacità dei genitori: il padre, appena può, scappa dai suoi doveri e si dedica unicamente al lavoro; mentre la madre, affetta da depressione, non riesce a condividere le sue emozioni con i suoi familiari, e ciò la porta a racchiudere i suoi pensieri in un diario segreto. Sopperisce all’assenza dei genitori la zia, che scoprirà il talento innato di Rebecca: la piccola si dimostrerà essere un prodigio del pianoforte. Ciò nondimeno, tale sua capacità non le permetterà di evitare di essere oggetto di scherno da parte dei compagni di scuola per la maschera spaventosa che la natura le ha incollato sul volto; tant’è che, in un momento di disperazione, arriverà a esprimere il desiderio di “evaporare come la nebbia sul fiume”.
Fiume che si porterà via la madre: incapace di sopportare la vita, si getterà nell’acqua per annegare i suoi dolori e farsi trascinare via dalla corrente – come accade all’Ofelia shakespeariana. Moto dell’acqua che scandisce altresì i tempi della messinscena: a volte impetuosa (nei momenti delle sofferenze subite da Rebecca), a volte calma e placida (quando alla protagonista è permesso esprimersi con la musica del pianoforte).
La vita per Rebecca, nonostante tutte le esperienze negative che ha dovuto patire, continua; e lo scorrere del tempo le permetterà di far emergere (e vedersi riconosciuto) il suo talento musicale: un riscatto finale della bellezza interiore sulla ripugnanza esteriore.
Non conosciamo mai la nostra altezza
Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c’incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.
Emily Dickinson
data di pubblicazione:07/02/2016
Il nostro voto:
da Antonella D’Ambrosio | Feb 7, 2016
Grazie alla Lucky Red martedì 9 e mercoledì 10 febbraio sarà in sala La ricompensa del gatto diretto da Hiroyuki Morita nel lontano 2002. A vederlo sembra proprio che il famoso Studio Ghibli, che lo ha prodotto, abbia voluto consapevolmente rendere un tributo non solo ai cartoni animati, ma a molto dell’immaginario favolistico dell’occidente.
Immediatamente chiara è la citazione di Alice nel paese delle meraviglie, già dall’immagine dei titoli: un personaggio di spalle con un cappello a cilindro; poi scopriremo essere il nobile gatto Baron già presente, come personaggio minore, ne I sospiri del mio cuore, a sua volta ispirato al manga Sussurri del Cuore. Alice è citata anche quando Haru, la nostra eroina giapponese, diventerà più piccola come dimensioni e si potrà infilare nell’Ufficio del Gatto. “Come sei diventato grande”– dice al gattone bianco Muta- e ci ricorda il “Che bocca grande hai nonna” di Cappuccetto Rosso– e lo scorbutico gatto, che però sarà uno dei suoi salvatori, le risponde: “No, sei tu che sei rimpicciolita”.
O perfino il riferimento alla fiaba di Hans Christian Andersen Il Re nudo: il Re dei gatti, simbolo del potere vessatorio che sceglie in base al proprio tornaconto, vuole costringere Haru a sposare suo figlio, il Principe dei gatti, da lei malauguratamente salvato, ma il cattivo resterà alla fine privo del pelo; diverrà chiaro a tutti, così, che il suo “terzo occhio”, sbriciolatosi, è solo posticcio.
L’anima è sicuramente un percorso di crescita dalla spensieratezza e dalla sbadataggine dell’adolescenza: la protagonista Haru diventerà più consapevole di se stessa dopo aver affrontato numerose vicissitudini. Quello su cui punta, però, lo spirito orientale, e che viene più volte ripetuto, è il rapporto col tempo, tanto è vero che all’inizio della storia la ragazza non riesce ad arrivare puntuale a scuola, pur puntando la sveglia (“non basta puntare la sveglia” le ricorda la mamma).
“Sii consapevole del tuo tempo”è il messaggio di questa opera come sempre elegante e dal tratto visivamente accattivante, come tutti i film di animazione prodotti dal giapponese Studio Ghibli: questo messaggio, tutt’altro che subliminale, non è rivolto anche ad un pubblico già adulto che si affanna nel tentativo di incastrare i vari impegni in giornate considerate troppo corte?
Al di là della storia narrata, piena di avventure, le immagini, come la processione dei gatti in notturna, che vengono a cercare Haru per ringraziarla camminando in piedi su due zampe, quasi fossero sonnambuli, saranno indimenticabili per adulti e bambini e imperdibili per i numerosi amanti dei felini.
data di pubblicazione:07/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 6, 2016
Finn (Campino) è un famoso fotografo tedesco con una vita molto frenetica, ascolta musica a tutto volume ed è ossessionato da incubi che disturbano i suoi brevissimi sonni.
Una sera, alla guida della sua auto, rischia letteralmente la morte ed il mancato incidente cambia radicalmente la sua esistenza in quanto si renderà conto della inutilità della propria vita. Decide pertanto di lasciare la Germania e di trasferirsi a Palermo, con il pretesto di effettuare un servizio fotografico.
L’assillo per la morte sembra inseguirlo anche dopo l’incontro con Flavia (Giovanna Mezzogiorno), restauratrice casualmente impegnata su un affresco raffigurante proprio il trionfo della morte, che comunque lo aiuterà a riconsiderare in meglio il proprio atteggiamento verso se stesso e verso gli altri.
Il film non sembra aver ottenuto il riconoscimento dovuto ad un grande regista come Wim Wenders, forse per un troppo palese riferimento autobiografico, che ne ha sicuramente compromesso il buon esito, ed è stato accolto freddamente dalla critica e dal pubblico.
La storia ambientata principalmente tra i vicoli maleodoranti di una Palermo decadente ci suggerisce questo primo piatto dal sapore squisitamente palermitano: la paste con le sarde.
INGREDIENTI: 500 grammi di sarde fresche deliscate – 600 grammi di finocchietto fresco – 50 grammi di uvetta di Corinto – 30 grammi di pinoli – 2 cipolle bianche – 500 grammi di bucatini – una bustina di zafferano – olio, sale e pepe q.b.
PROCEDIMENTO: lessare il finocchietto in acqua abbondante e salata. Preparare un soffritto con le cipolle in abbondante olio d’oliva, versare il finocchietto già lessato e tagliato a pezzetti, quindi continuare la cottura per una ventina di minuti. Aggiungere l’uvetta ed i pinoli ed alle fine le sarde fresche ben pulite, private delle lische, ed aggiungere una grattata di pepe a piacere. Lasciare cuocere per altri cinque minuti. Cuocere i bucatini nell’acqua dove precedentemente è stato lessato il finocchietto dopo aver aggiunto anche lo zafferano. Finita la cottura, riversare la pasta nel condimento e lasciare riposare. La pasta così insaporita va servita tiepida.
da Antonietta DelMastro | Feb 6, 2016
Con Canale Mussolini Antonio Pennacchi vince il premio Strega 2010.
Purtroppo i sequel non sono mai all’altezza del libro che li ha preceduti e, a mio avviso, è così anche in questo caso.
Uno dei meriti indiscutibili di Antonio Pennacchi è quello di narrare gli avvenimenti storici del periodo trattato con estrema obiettività, riconoscendo meriti e demeriti, ad amici e nemici, senza fare sconti a nessuno e senza curarsi della loro appartenenza politica, ma di questo ne potevamo stare certi conoscendo il profilo “fasciocomunista” dell’autore.
Innegabilmente esilaranti alcune pagine nelle quali quando fa parlare Hitler in dialetto veneto, originale accostare ogni data citata nel testo al Santo del giorno e, quasi sempre, al proverbio del giorno: una sorta di calendario di frate Indovino ante litteram.
Però …
Però quando ho iniziato il libro mi aspettavo di continuare a leggere della saga dei Peruzzi mentre, questa volta, lo loro vicenda è incidentale rispetto alla storia che ci viene narrata, che è la Storia vera, quella della linea Gustav, dello sbarco di Anzio, dell’adesione al piano Marshall di De Gasperi.
Al contrario questa volta i personaggi non sono più così ben delineati e caratterizzati come nel precedente capitolo, la narrazione è troppo frammentata tra la descrizione dei fatti storici e di quelli romanzati e pende eccessivamente verso i primi.
Le vicissitudini di zio Adelchi, di zia Santapace, del nipote Diomede passano in secondo piano, la descrizione dei luoghi in cui si svolge la vicenda è ridondante tanto che è stato difficile anche per me, che frequento l’Agro Pontino e una città di “fondazione” da circa 25 anni, tenere dietro alla descrizione della toponomastica di Littoria e alla descrizione dei Borghi della zona: immagino quindi che un lettore che non abbia mai messo piede a Sabaudia, Borgo Grappa o Borgo Piave si trovi totalmente spaesato.
Non è il libro che mi aspettavo, non pensavo di trovarmi davanti a un romanzo storico, didascalico.
Sono rimasta interdetta anche per la fine del libro: la fine del precedente era “compiuta”, chiaramente speravo in una continuazione perché ero ormai parte della famiglia dei Peruzzi e volevo sapere cosa sarebbe successo loro.
Questa volta Pericle ci lascia con un “ma il resto…. glielo racconto un’altra volta” sono rimasta sconcertata, un occhio un po’ troppo commerciale come chiusa…
da Elena Mascioli | Feb 5, 2016
8 protagonisti, ottavo film di Tarantino, 888 presunti posti nella sala allestita nel Teatro 5 di Cinecittà. La sveglia presto di sabato mattina per assistere alla proiezione in 70mm e lingua originale (per tutto il mese di Febbraio, accorrete gente!), dopo breve momento “selfie” davanti alle sagome dei protagonisti o alla ricostruzione di un ipotetico scenario del film, con tanto di finta neve a terra, e bancone da saloon con macchine pop-corn al posto del whisky. Il popolo di Tarantino affolla il teatro, i Tarantiniani, in media molto giovani, conoscono le battute dei suoi film a memoria e lo reputerebbero un genio anche se si filmasse mentre fa colazione. Ci sono poi quelli che per mostrare simbiosi col regista e le sue scelte decidono di vestirsi a tema, in pieno stile western, con tanto di cappello, e forse, nascosto dietro le pieghe della giacca, un lazo. E poi i cinefili, gli appassionati, i curiosi. Immagino chi sta leggendo questa recensione: dai! Parlaci del film! Che ci importa del pubblico e di queste informazioni di contorno! Ma il pubblico è fondamentale, perché è il destinatario del racconto, è quell’auditorio di cui Tarantino ha bisogno, per collocarlo davanti al fuoco che scalda il rifugio in cui si svolge la maggior parte del film, e davanti a cui, sapientemente, Quentin sistema due poltrone. Non è un caso che una delle due poltrone venga occupata dall’anziano Generale Gen. Sanford Smithers, il volto di Bruce Dern, un personaggio che, come saprà chi ha visto il film, in fondo in fondo è più estraneo alla vicenda rispetto gli altri, è uno che passava di là, la rappresentazione sullo schermo di colui che assiste ed ascolta. Per l’altro auditorio, quello che è in sala, Tarantino sfodera tutte le sue armi (mai termine più appropriato!): dipana una narrazione perfetta, si fa re dello storytelling, per usare un termine molto in voga, e lo fa attraverso una scrittura magistrale sotto tutti i punti di vista, in cui il racconto avviene per immagini (basterebbe vedere l’apertura del film, in sequenza, per una decina di volte, per essere già abbondantemente conquistati), ma anche attraverso i dialoghi (quel “Now my Nubian friend” pronunciato da Tim Roth/Oswaldo with a crisp British accent merita da solo l’Oscar!), la musica splendidamente congegnata da Morricone per dare risalto a ciò che la narrazione sta mettendo in campo e dei volti che sembrano nati solamente per poter incarnare un Magg. Marquis Warren (Samuel L. Jackson). L’intervallo interrompe la visione dopo due ore volate come due minuti, e dopo la pausa il narratore riprende le fila del racconto, ammicca al pubblico con la sua voce fuori campo, lancia un flashback e ci aiuta ad immergerci nuovamente in una storia che forse sappiamo già come andrà a finire. Ma non importa, perché alla fine saremo in grado di recitare a memoria una lettera scritta da Lincoln…ma questa è un’altra storia!
data di pubblicazione:5/02/2016
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