da Antonio Iraci | Feb 18, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Un interessante documentario apre la settima giornata dei film in Concorso a Berlino: si tratta di Zero Days del regista Alex Gibney (già premio Oscar nel 2007 con il docufilm Taxi to the Dark Side), un film che è riuscito a cogliere l’attenzione del pubblico pur trattando un argomento molto tecnico e poco conosciuto. Stuxnet è un virus che senza lasciare alcuna traccia di sé è entrato nel sistema informatico iraniano per distruggere i programmi dei generatori atomici e sabotare quindi il progetto nucleare di quel paese. Presumibilmente ideato da una équipe di hacker americani ed israeliani, il virus dall’Iran si è presto diffuso a macchia d’olio creando danni incommensurabili ai sistemi informatici di vari paesi. Il film ci fa comprendere in maniera molto minuziosa, attraverso immagini ed interviste attuali e di repertorio, come i sistemi di difesa segreti delle grandi potenze mondiali sono oramai concentrati sulla sperimentazione di queste nuove armi cibernetiche capaci di distruggere in pochi secondi l’economia e la stessa vita di interi continenti, visto che il mondo dipende oggi esclusivamente da programmi informatici sempre più sofisticati ma, al tempo stesso, sempre più vulnerabili.
Di tutt’altro genere è Kollektivet del regista danese Thomas Vinterberg, che ci porta nella casa di Erik, docente alla facoltà di architettura, dove la moglie Anna lo convince ad organizzare una comune di diverse persone per far fronte alla gestione, alquanto dispendiosa, di questa villa di grandi dimensioni ereditata dal padre. Tutto sembra filare liscio, nonostante la diversità dei coinquilini, che comunque riescono subito ad organizzare un ménage di pacifica convivenza; sino a quando Erik confesserà ad Anna di essersi innamorato di una studentessa della sua facoltà. Il dramma sentimentale, che di lì a poco coinvolgerà la donna e comprometterà seriamente l’intera struttura comunitaria, sarà il pretesto affinché ognuno possa interrogarsi sulla propria esistenza e soprattutto sul proprio futuro. Buona e convincente l’interpretazione dei due protagonisti Trine Dyrholm (Anna) e Ulrich Thomsen (Erik), che hanno reso la trama interessante e piacevole per il pubblico.
Terzo ed ultima pellicola in Concorso della giornata è stata una simpatica commedia del regista Dominik Moll, tedesco di nascita ma francese d’adozione, dal titolo News from planet Mars, che racconta la storia di Philippe Mars (Francois Damiens), un uomo che vuole essere buono e disponibile verso tutti, ma che però subisce la prepotenza di chiunque lo circondi, dai familiari ai colleghi d’ufficio. Film di stampo tipicamente francese in cui il regista ha mostrato grande disinvoltura a mescolare realtà e finzione, giocando sui sogni e sull’immaginazione del protagonista, la cui fantasia lo porterà a navigare da solo nello spazio alla ricerca di quella serenità interiore mancante. Il film ha molto divertito il pubblico ed è stata la giusta chiusura di una giornata molto variegata, caratteristica piacevolmente già riscontrata in questa Berlinale.
data di pubblicazione:18/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 17, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Michael Grandage, famoso regista e produttore teatrale inglese, ha presentato alla Berlinale il suo film Genius, tratto dal romanzo di A. Scott Berg sulla biografia di Max Perkins, uomo di eccezionale talento editoriale per aver scoperto e reso famosi nomi del calibro di F. Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Thomas Wolfe. Il film si focalizza in particolare sul rapporto tra Wolfe e Perkins, un rapporto esclusivamente professionale tra uno scrittore ed il suo editore, che tuttavia diviene talmente intenso e totalizzante da arrivare ad urtare la sensibilità delle rispettive famiglie trascurate ed annullate da tanto reciproco impegno. La valanga di parole che escono dalla mano di Wolfe vengono ridimensionate dall’esperto editore, che sa come muoversi sul mercato letterario newyorkese, riuscendo in tal modo a creare dal nulla un caso letterario inimmaginabile anche per lo stesso Wolfe. Il ruolo dei due protagonisti è assegnato a Jude Law (Wolfe) ed a Colin Firth (Perkins), che con eccezionale bravura sanno reggere il ritmo, a volte congestionato, della narrazione; ad interpretare le mogli sono Laura Linney nella parte della signora Perkins, e Nicole Kidman come moglie di Wolfe, ruolo quest’ultimo alquanto stereotipato e non sempre all’altezza. Film comunque destinato alla distribuzione nelle sale italiane e che qui a Berlino ha avuto un buon consenso tra il pubblico.
Degno di attenzione anche il secondo film in Concorso di questa sesta giornata, Soy Nero del regista di origine iraniana Rafi Pitts, già altre volte presente al Festival. Il film tratta della ben nota fuga dei giovani dal Messico verso gli Stati Uniti, per potersi creare una nuova vita e ottenere un maggior benessere economico; Nero è uno di questi che riesce a varcare clandestinamente il confine per raggiungere il fratello, che già vive a Los Angeles come domestico presso una famiglia molto benestante. Ma lo scopo di Nero è quello di arruolarsi nell’esercito e difendere la causa americana in Medio Oriente, ottenendo così la tanto agognata cittadinanza statunitense. Ben strutturato e con una storia credibile, il film vanta una buona performance dell’attore protagonista Johnny Ortiz (Nero).
L’ultimo film in Concorso per oggi è Chi-Raq del regista/attore/produttore/sceneggiatore statunitense Spike Lee, che ci ha regalato un film dal sapore Hip-Hop Music Show, molto divertente ma poco convincente. Chi-Rag è come viene chiamata Chicago per l’eccezionale numero di morti ogni anno, vittime della criminalità organizzata da bande locali. Il film potremmo definirlo un comico remake ambientato ai nostri tempi della commedia Lisistrata di Aristofane dove le due bande rivali, Troiani e Spartani, si fronteggiano ogni giorno lasciando per le strade morti. Geniale fu in Lisistrata l’idea dello sciopero del sesso che costringerà i poveri uomini, rimasti a lungo a bocca asciutta, alla resa deponendo definitivamente le armi per vivere finalmente in pace. Ottima la metafora suggerita dalla voce di un colorato io narrante, che rimanda al famoso motto pacifista: Make Love, Not War. Poco convincente John Cusack, peraltro unico nome emergente del folto cast ingaggiato.
data di pubblicazione:17/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 16, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Questa quinta giornata della Berlinale ci ha regalato un piccolo capolavoro cinematografico firmato dall’attore e regista svizzero Vincent Pérez: Alone in Berlin. Tratto dall’ultimo romanzo scritto nell’autunno del 1946 da Hans Fallada (tradotto in italiano in Ognuno muore solo), il film narra dei coniugi Anna (Emma Thompson) e Otto Quangel (Brendan Gleeson), che vivono in una Berlino euforica dopo il successo dell’occupazione della Francia da parte delle truppe naziste. Dopo aver ricevuto la notizia che il loro unico figlio è morto al fronte in una imboscata, avvenimento che cambierà completamente le loro vite, la coppia inizierà un’accanita resistenza impegnandosi nella distribuzione, in luoghi pubblici e privati, di cartoline scritte a mano da loro stessi contenenti messaggi di propaganda opposta al regime. Il film, tratto da una storia vera, è da considerarsi un vero e proprio omaggio alla memoria dei coniugi Otto e Elise Hampel, che in effetti pagarono con la vita il loro coraggio di opporsi al fanatismo dilagante in una atmosfera di sospetto e di violenza. Una segnalazione particolare va alla splendida ambientazione in una Berlino del 1940, quando ancora serpeggiava per strada la convinzione di aver vinto la guerra, e non vi era il benché minimo sospetto dell’imminente catastrofe che, di lì a pochi anni, avrebbe portato alla disastrosa capitolazione della Germania. Divina nella parte di Anna è Emma Thomson, che ha sicuramente affascinato la giuria presente in sala e coinvolto l’intero pubblico. Non ci sarebbe da stupirsi se il film fosse in lizza per essere premiato con l’Orso. Da segnalare nella stessa giornata di oggi Morte a Sarajevo del regista bosniaco Danis Tanovic, Oscar 2002 per No Man’s Land. Il film è ambientato in un Hotel di Sarajevo in occasione di una cerimonia ufficiale a livello europeo per ricordare i cento anni dall’attentato, compiuto dal serbo-bosniaco Gavrilo Princip in cui morirono l’Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, che diede l’avvio alla prima guerra mondiale. Dal percettibile sapore politico, Morte a Sarajevo è quasi una satira verso una Europa che ancora oggi, dopo anni, non sa prendere il giusto avvio dibattendosi tra verità e bugie ancora irrisolte. Ultimo film in Concorso per oggi è stato Crosscurrent, del regista cinese Yang Chao, che narra di un viaggio intrapreso dal giovane capitano Gao Chun per risalire controcorrente, a bordo della sua barca mercantile, il grande fiume Yangtze sino alla sua sorgente. Questa spedizione, oltre ad avere una finalità commerciale dagli aspetti poco chiari, rappresenta per il giovane una sorta di missione spirituale per aiutare la trasmigrazione dell’anima del padre, appena morto, oltre che per ricercare la compagna della propria vita. Il racconto è accompagnato dalla recitazione di poesie di vari autori cinesi che, di tanto in tanto, ci danno esempi di grande saggezza, senza tuttavia risparmiarci qualche involontario sbadiglio…
data di pubblicazione:16/02/2016
da Alessandro Pesce | Feb 15, 2016
(Teatro Parioli Peppino De Filippo – Roma, 11/21 febbraio 2016 e in tour)
Un divertissement dalle note cupe, uno scherzo di quattro animali da palcoscenico che giocano a parodiare un grande classico del teatro del novecento. Sin dal titolo è chiara l’intenzione irrisoria: “finale-di-partita” diventa Dipartita finale, sberleffo atroce, forse, verso il più grande dei misteri.
Anche qui, come nel capolavoro parafrasato, abbiamo dei personaggi anziani e menomati: un vecchio attore cieco, il suo amico (un ex aiutante servo di scena ?) che non riesce a dormire e che ha visioni molto strambe, e ancora un truculento- in senso plautino- romanaccio che dovrebbe completare l’invenzione di una storia un po’ fantascientifica ma che invece si sfoga sbraitando volgarmente sui temi più alti della Vita alternando sprazzi di lucidità e profondità a grevi citazioni. I tre sono situati in una stanza vicino al fiume, fatiscente e abitata da topi e da un misterioso uovo la cui comparsa dà il “la“ a interrogativi esistenziali. Sembra che siano immortali, superstiti di chissà quale catastrofe e condannati, come i protagonisti di Fin de partie a giorni tutti uguali. Ma alla fine un estremo sberleffo: sono solo dei barboni poeti che non vogliono abbandonare la baracca e invece arriva la scavatrice che li spazzerà via, come nei Giganti di Strehler la ruspa rompeva il carretto di Ilse.
Ma neppure, questa potrebbe essere la verità. Lo spettatore dovrà contentarsi della verità del teatro. Hai detto niente!
Rendendosi conto dell’angoscia del testo la regia dell’autore stesso, Franco Branciaroli, spinge molto sull’allegria, sui vezzi dei commedianti, sui capricci e i ricordi dei musical dell’attore cieco (Pagliai), sullo smarrimento del fedele amico (Gianrico Tedeschi), sulla grinta di Maurizio Donadoni e sull’evocazione di Toto’, che Branciaroli regala alla Morte. E il pubblico sembra conquistato dagli attori ma perplessi dal resto.
data di pubblicazione:15/02/2016
Il nostro voto:
da Flaminia De Rossi | Feb 15, 2016
(SET – Spazio Eventi Tirso – Roma, prorogata fino al 3 aprile 2016)
“I sogni si realizzano un mattoncino alla volta” di Nathan Sawaja. Chi scrive si è divertita tantissimo e …credo fosse la mission dell’artista.
La mostra The art of the brick presenta le opere di Nathan Sawaja, ex avvocato che esprime la sua creatività con i mattoncini LEGO e che mai avrebbe pensato che “quei mattoncini” lo potessero portare in giro per il mondo.
Se pensi ai mattoncini LEGO sei felice: la loro magia è proprio quella di renderti felice, l’hanno fatto in passato e lo fanno ancora!
Sento ancora il rumore della cascata dei mattoncini quando giravo il sacco che li conteneva per dare inizio ai giochi, per essere veloci nella ricerca dei pezzi che servivano alla realizzazione di qualcosa di unico: così ogni volta che penso ai LEGO mi si illuminano gli occhi. Ognuno di noi porta dentro di sè un ricordo legato a loro e difficilmente negli anni lo si abbandona.
La mostra di Sawaja è un’esperienza unica attraverso le opere d’arte realizzate con i LEGO e rappresentanti le ricostruzioni, le reinterpretazioni di capolavori d’arte e le creazioni dell’artista.
Questo percorso a tema e colore (blu, giallo, rosso e verde) molto snello mette in luce ogni opera d’arte in modo molto raffinato: si passa dalla TALL PENCIL (9.800 mattoncini) alla VENERE DI MILO (18.483 mattoncini) per procedere attraverso il ritratto di COURTNEY BLACK AND GOLD (1.032 mattoncini), e poi verso LA GRANDE ONDA DI KANAGAWA (2.877 mattoncini), poi la SWIMMER (10.980 MATTONCINI) ed il DINOSAUR SKELETON (80.020 mattoncini!). Le opere d’arte sono realizzate posando di taglio e di punta i LEGO.
E’ Impossibile resistere, è necessario sedersi e iniziare a giocare e a costruire!
Non si può spiegare cosa ci sia di magico in essi, nel gioco del costruire: così come nei puzzle, c’è qualcosa che ti rende soddisfatto e felice!
data di pubblicazione:15/02/2016
da Alessandro Rosi | Feb 15, 2016
(Teatro Argot – Roma, 5/21 Febbraio 2016)
Si può riuscire a vivere isolati recidendo qualsiasi legame con il resto del mondo? Come riuscire a colmare il vuoto generato dalla solitudine? Quali segreti si annidano dietro una scelta di tal fatta?
Mario Capaldini (Giampiero Rappa) è uno scrittore di successo; chiamato a salire sul palco per ricevere un premio letterario, dopo un’invettiva contro lo stato in cui versa la società, lo rifiuta e decide di rinchiudersi in una remota baita montana.
Dopo tre anni di lungo silenzio, rompe il digiuno permettendo a un giornale di intervistarlo; ma l’affascinante inviata (Valentina Cenni), cui è affidato il servizio, non riesce a ottenere alcuna confessione dal misantropo scrittore e rimane con un pugno di mosche. Nonostante la delusione, la giornalista non prende immediatamente la via del ritorno, ma indugia nella baita, avvinta dalla personalità ieratica e dal fascino dell’uomo solitario (in cui si rispecchia).
Una volta congedatasi, un incontro inaspettato attende lo scrittore: il nipote Ronny (Giuseppe Tantillo) è venuto a fargli visita. Neanche il calore e la vivacità del giovane, tuttavia, riusciranno a scaldare il gelido Capaldini, che si rivelerà spietato e cinico anche nei confronti del familiare.
L’isolamento forzato dello scrittore di successo è solo la punta dell’iceberg: egli nasconde dentro di sé le motivazioni di siffatta scelta. La giornalista prima e il nipote poi, scioglieranno il ghiaccio che avvolge il suo animo, e solo alla fine, in uno sfogo virulento e catartico, emergeranno le ragioni che l’hanno portato a una scelta così radicale.
La rappresentazione è un’indagine accurata sul logorante tormento interiore e sulla difficoltà dei rapporti umani. Una pièce costruita a regola d’arte, dove dialoghi veementi e accesi alterchi si saldano a pause introspettive e lunghi silenzi (che si rivelano più violenti delle parole); ciò soprattutto grazie all’intensa recitazione dei tre attori sul palcoscenico (specialmente quella del giovane Giuseppe Tantillo, la cui interpretazione vibrante fa suonare le corde più intime dell’animo degli spettatori).
Lo spettacolo è altresì un monito nei confronti di chi cerca di scappare: per quanto lontano uno possa andare, lo scontro con se stessi è ineludibile; le ansie, le paure, le inquietudini sono pronte a bussare alla porta, per loro nessun luogo è lontano.
data di pubblicazione:15/02/2016
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 14, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Con la presentazione del film in Concorso Cartas da Guerra del regista portoghese Ivo M. Ferreira è iniziata la quarta giornata della Berlinale. Il film è un epistolario tra il medico militare Antonio, inviato in Angola a combattere una guerra per conto del proprio paese, e la sua amata moglie, incinta al momento del distacco e rimasta ovviamente ad attenderlo in Portogallo. La fotografia in bianco e nero, curata da João Ribeiro, è di grande effetto, mentre la continua lettura fuori campo della corrispondenza quotidianamente inviata è forse l’unica vera pecca del film che, se da un lato potrebbe risultare lirica, dall’altro finisce con il tediare lo spettatore distogliendolo dalla giusta concentrazione che le sue straordinarie immagini richiederebbe. Il protagonista Antonio (Miguel Nunes) e gli altri “commilitoni” riescono a delineare un’idea chiara dell’atrocità di quel conflitto, che ha trasformato gli uomini in insetti che lottano per la sopravvivenza.
A seguire è stata la volta di 24 Weeks, per la regia della tedesca Anne Zohra Berrached che nel 2013 aveva partecipato alla Berlinale con il film Zwei Mütter (Due Madri) segnalato dalla critica internazionale per l’intensità del tema trattato, che anche con questa nuova pellicola affronta una tematica tutta al femminile. Astrid, cabarettista molto apprezzata dal pubblico, rimasta incinta di un bambino che risulterà affetto dalla sindrome di Down, dovrà affrontare da sola il conflitto morale legato alla scelta se abortire nella ultime settimane di gestazione. La protagonista Julia Jentsch ci offre un’ottima performance perché riesce a trasmettere tutta la sofferenza interiore di una donna che si rende conto quanto dalla sua decisione dipenda non solo la vita del bambino che sente già in grembo, ma anche la propria esistenza e quella delle persone che la circondano.
Ultimo film in Concorso per questa quarta giornata è stato Being 17 del regista francese André Téchiné che porta sul grande schermo le turbolenze affettive di due adolescenti, Damien e Thomas, entrambi diciassettenni, che sono compagni di classe e si odiano a morte, cercando ogni minimo pretesto per prendersi seriamente a pugni. Per una serie di circostanze, complice la madre di Damien che cercherà in tutti i modi di far nascere un’amicizia sincera tra i due, questi affronteranno presto i turbamenti tipici dell’età e finiranno con il seppellire l’ascia di guerra e trasformare il loro rapporto in qualcosa di più profondo. Molto convincente la performance dei due ragazzi, interpretati da Kacey Mottet Klein (Damien) e Corentin Fila (Thomas), che hanno saputo dare una giusta attendibilità al racconto senza cadere in un’inutile retorica, ma portando invece la loro storia in un contesto di assoluta normalità, abbattendo quei pregiudizi di diversità che molti oggi ancora non riescono a fare.
data di pubblicazione:15/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 14, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
In questo terzo giorno di proiezioni, è bastato il film italiano di apertura per rimettere su una buona carreggiata l’andamento delle pellicole in Concorso alla Berlinale. Il regista Gianfranco Rosi, con il suo documentario Fuocoammare, ha puntato direttamente al cuore del pubblico che, a fine spettacolo, ha manifestato il proprio assenso con un prolungato applauso. L’isola di Lampedusa, più vicina alle coste libiche che a quelle siciliane, rappresenta metaforicamente per i migranti africani il punto di arrivo, ma anche quello di partenza, per iniziare una nuova vita e guadagnarsi la dignità di uomini. Tutto viene visto attraverso l’occhio attento di Samuele, un isolano di dodici anni, poco avvezzo ai libri scolastici ma molto svelto ad usare la fionda perché, come lui stesso con grande saggezza afferma, solo con passione si possono affrontare le grandi e piccole cose della vita. Il pubblico non può che lasciarsi affascinare dalla delicatezza del film e nello stesso tempo non può che sentirsi un poco in colpa per aver forse evitato, con inconsapevole determinazione, di prendere coscienza della più grande tragedia umana che si sta perpetuando. Ecco dunque che questo nuovo documentario di Rosi, dopo il grande successo di Sacro Gra premiato a Venezia nel 2013 con il Leone d’Oro, diventa un messaggio politico verso coloro che ignorano il problema o, peggio ancora, verso chi preferisce che siano gli altri ad affrontarlo, scrollandosi di dosso ogni tipo di responsabilità. Ottima la fotografia curata dallo stesso regista che ci ha fatto entrare concretamente nella realtà dell’isola: qui non c’è finzione, ma ogni cosa è vera ed il linguaggio cinematografico usato è di altissimo livello. Non ci sarebbe da stupirsi se il film riuscirà ad ottenere dalla giuria quel riconoscimento che senza ombra di dubbio merita.
Secondo della giornata L’avenir della regista francese Mia Hansen-Løve. La pellicola tratta dei problemi generazionali che Nathalie (Isabelle Huppert), professoressa di filosofia in un liceo parigino, deve affrontare con gli studenti e le persone a lei care: nel film sembra che il mondo, che ruota attorno alla protagonista, non scalfisca minimamente le sue convinzioni piccolo borghesi ed alquanto intellettualoidi, che la portano ad evitare il confronto con una realtà che certamente le risulta scomoda. A conferire all’intera narrazione una buona dose di credibilità è l’interpretazione della bravissima Isabelle Huppert.
Terzo ed ultimo film in Concorso è stato Mahana (The Patriarch), del regista neozelandese Lee Tamahori, che tratta della disputa tra due famiglie maori rivali, e del rigido ed inoppugnabile potere di comando che il capostipite esercita su tutti i componenti del nucleo familiare. Solo il nipote quattordicenne Simeon, grazie ad una ferma convinzione per ciò che egli ritiene giusto, avrà la forza di fronteggiare il nonno sgretolando pian piano quella gerarchia patriarcale oramai obsoleta. Buona l’ambientazione così come il cast per la maggior parte costituito da attori maori, che ci traghettano in una realtà a molti di noi sconosciuta, dove la tradizione e la coesione domestica sembrano costituire le fondamenta dell’organizzazione sociale di un intero popolo.
data di pubblicazione:14/02/2016
da Rossano Giuppa | Feb 13, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 2/14 febbraio 2016)
Un vecchio cinema, una fila di sedie di legno ed una donna che percorre a lunghi passi, per tutta la sua lunghezza, il palcoscenico chiedendo aiuto, mentre alle sue spalle le poltrone vengono a poco a poco popolate da scimmioni albini, che hanno a loro volta alle spalle uno schermo che proietta immagini ombre di Fassbinder e di Sybille Schmitz.
Un inizio straziante e dissonante: la voce dell’attrice contrapposta al coro ritmico e marziale di scimmioni che poi, spogliandosi a poco a poco della loro veste bestiale e rimanendo letteralmente in mutande si trasformeranno in tanti altri personaggi dell’universo fassinderiano.
Latella reincontra un regista che gli è caro, cioè quel Fassbinder da cui già era nato, nel 2006, Le lacrime amare di Petra von Kant e mette in scena Veronika Voss, protagonista del film omonimo, in Ti regalo la mia morte, Veronika: e lo fa cercando una fedeltà che coniughi le caratteristiche estetiche e narrative del film alla sua personale e potente visione teatrale.
Ci troviamo di fronte ad un teatro complesso, austero, difficile, che richiede massima concentrazione, ma raffinato e simbolico.
Veronika Voss è il personaggio che Fassbinder creò ispirandosi a Sybille Schmitz, attrice tedesca molto nota ai tempi del Terzo Reich.
Con le luci di sala ancora accese, Veronika si presenta con il corpo e la voce di Monica Piseddu, con addosso solo un vestito sgualcito e una giacca rossa.
Un inizio pirandelliano dai diversi piani narrativi per una storia costruita da Rainer Werner Fassbinder attorno a un’attrice famosa negli anni Trenta, stella cinematografica del Reich, caduta in disgrazia dopo la caduta del potere hitleriano.
Comincia così la discesa allucinata nel suo passato, da cui emergono immagini di dolore e vergogna, come il suo legame con Goebbels e con il credo nazista.
Gli scimmioni sono il coro di una storia che viene a sua volta ripresa da una macchina che percorre anch’essa per tutta la lunghezza il palcoscenico avanti e indietro e che idealmente la trasmette e ne immortala i fotogrammi.
Voce fuori campo Robert Krohn, che come nel film di Fassbinder è un giornalista sportivo che si presenta al pubblico con le sue telecronache delle corse di cavalli e che è innamorato dall’ex diva: cerca di salvarla dal progressivo abbandono alla morfina, che le viene somministrata in dosi abbondanti da una clinica compiacente e da una neurologa intenzionata ad arricchirsi grazie alla sua dipendenza; vorrebbe salvarla sostenendola nel momento in cui viene scritturata per una piccola parte che potrebbe essere per lei una rinascita e, invece, è un fallimento, la sua fine definitiva.
Un viaggio nella mente devastata di Veronika, diva sul viale del tramonto, dove i ricordi e i personaggi rievocati diventano immagini sfocate in bianco e nero.
Un percorso che però ci instrada anche verso le altre donne del cinema fassbinderiano (Maria Braun, Martha, Emma Küsters, la trans Elvira di Un anno con tredici lune), alla fine riunite in un paradiso pagano, in un giardino in cui troneggia un ciliegio calato dall’alto un mondo parallelo a metà tra le atmosfere di Cechov e la “Colazione sull’erba” di Manet.
Spettacolo non semplice ma affascinante, in scena al Teatro Argentina di Roma dal 2 al 14 febbraio, Ti regalo la mia morte Veronika è interpretato da un gruppo affiatato di attori (Valentina Acca, Candida Nieri, Caterina Carpio, Nicole Kehrberger, Fabio Pasquini, Maurizio Rippa) mentre Massimo Albarello, Sebastiano Di Bella, Fabio Belillo sono le ombre. Veronika Voss come già detto, è interpretata da una bravissima Monica Piseddu, mentre Annibale Pavone è Robert, l’unico uomo al quale è permesso, dopo la morte, di entrare nel magico giardino dei ciliegi e dei passi perduti.
Difficile, complesso, volutamente intricato, visionario.
data di pubblicazione:13/02/2016
Il nostro voto:
da T. Pica | Feb 13, 2016
Dopo i trentottenni di Immaturi e Immaturi il viaggio, Paolo Genovese ci regala un’altra fotografia generazionale tremendamente vera e attuale: quella dei quarantenni smartphone dipendenti.
Per Perfetti sconosciuti il regista strizza l’occhio alla dimensione della pièce teatrale che nell’ultimo anno ha già caratterizzato pellicole italiane argute e profonde come Il nome del figlio di Francesca Archibugi e Dobbiamo parlare di Sergio Rubini: un salotto e una tavola imbandita alla quale siede un gruppo di persone unite da legami affettivi di lunga data. In una serata come tante Eva e Rocco (Kasia Smutniak e Marco Giallini), coppia ovviamente in crisi, organizzano una cena per assistere all’eclissi totale di luna insieme ai loro amici di sempre: i neo sposini Cosimo (Edoardo Leo) e Bianca (Alba Rohrwacher), Lele (Valerio Mastrandrea) e Carlotta (Anna Foglietta) e Peppe (Giuseppe Battiston) che anche questa volta si presenterà in versione single senza la sua Lucia. Dopo i saluti di benvenuto e le prime scaramucce scherzose – presagio di una tensione latente tra mariti e mogli e tra le stesse coppie – Eva, in concomitanza con l’inizio dell’eclisse, propone un gioco: tutti i commensali dovrebbero lasciare per l’intera durata della serata il proprio cellulare sul tavolo per condividere con tutti gli altri i messaggi (sms e whatsapp) e le chiamate in viva voce. I telefonini sono le scatole nere della nostra vita pubblica privata e segreta. E quale momento migliore se non durante il silenzioso avanzare del “dark side of the moon” per mettere tutti i telefonini con i loro segreti sul “piatto” della vita e dei sentimenti che primeggia sulla tavola imbandita con gnocchi e polpettine? I sette protagonisti accetteranno il gioco perverso che inevitabilmente rivelerebbe (o rivelerà) tante piccole e grandi verità scomode e talvolta fatali? Non solo tradimenti fisici, ma pregiudizi, riti – come la partita del calcetto – e “patti di sangue” tra amici, affermazione professionale, rapporti con i figli, identità sessuale, insicurezze e molto altro travolgerà i sette amici e il pubblico in un’inevitabile osmosi tra vita reale e grande schermo, ottenuta anche grazie alla complicità dell’effetto Sliding doors, a un paio di colpi di scena e alla maturità dei sette attori, ognuno perfetto nel proprio ruolo. Al termine della proiezione il film di Genovese – che dopo i primi 20 minuti un pò spenti si riprende ed è accolto con l’applauso unanime di una sala gremita – costringe con il sorriso a guardare dentro noi stessi: con quale lato della nostra identità personale e della nostra vita di coppia – apparenza o verità (spesso il lato oscuro) – vogliamo davvero convivere? Vogliamo gettare la maschera e guadare gli occhi della persona che abbiamo accanto senza il “filtro” di un comodo paio di occhiali da sole, oppure proseguire incuranti delle verità che intuiamo o ignoriamo preferendo non sapere? Che si voglia vivere in un modo o nell’altro non a caso il leitmotiv musicale del film è proprio I will survive di Gloria Gaynor. Infatti, posto che tutti noi dovremmo imparare a lasciarci nella vita, due sole sono le strade: quella un po’ più caotica di chi sopravvivrà all’interno di rapporti – affettivi e di coppia – trascinati e di facciata e quella meno affollata di chi, una volta preso il coraggio di lasciarsi, sopravvivrà al dolore per poi tuffarsi in una vita nuova al posto delle tante finte vite parallele intrecciate nelle schede sim. In ogni caso l’imperativo sarà I will survive!
data di pubblicazione:13/02/2016
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