BELLA E PERDUTA di Pietro Marcello, 2015

BELLA E PERDUTA di Pietro Marcello, 2015

 “I sogni e le fiabe, anche se irreali, devono raccontare la verità”. La verità di Pietro Marcello si declina con il metro della poesia, come ben detto da Goffredo Fofi alla presentazione del film Bella e perduta in una sala romana. Poesia come scelta linguistica per raccontare una storia vera che sembra più una fiaba, il sogno e l’impegno dell’angelo di Carditello, Tommaso Cestrone, pastore campano che diventa custode, volontariamente e gratuitamente, di un’eredità che nessuno sembra volere: una bellissima e perduta residenza borbonica e un bufalo maschio, Sarchiapone, al cui pensiero presta la voce Elio Germano (con un effetto che risulta “barocco” e un po’ disturbante rispetto alla poeticità del resto del film). Un bufalo destinato, come la tenuta, all’oblio, all’eliminazione, perché non trasformabile immediatamente in profitto. Le immagini di una realtà fiabesca si innestano, senza apparente soluzione di continuità (grazie ad un prodigioso lavoro di ricerca e di scrittura, e successivamente del montaggio della brava Sara Fgaier) con quelle di un repertorio documentario da archivi, in un canovaccio in cui Pulcinella porta avanti, al guinzaglio, Sarchiapone, e con esso il sogno di Tommaso – morto durante le riprese del film- della bellezza, della poesia, del rapporto tra uomo e natura da salvare, preservare, conservare. Le immagini di chiusura del film sono quelle del provino di Tommaso, e la bellezza da salvare è la stessa incisa dalle rughe sul suo volto che sorride regalandoci il cielo dei suoi occhi intensi e interroganti.

data di pubblicazione 01/12/2015


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SATURNO CONTRO di Ferzan Özpetek, 2007

SATURNO CONTRO di Ferzan Özpetek, 2007

Secondo gli astrologi Saturno è il pianeta che quando è “contro” porta rotture, cambiamenti, nuovi incontri, dai quali inevitabilmente se ne esce cambiati. Saturno contro, famoso lungometraggio di Ferzan Özpetek, parla della storia d’amore tra Davide (Favino) e Lorenzo (Argentero), compagni nella vita che amano condividere la loro esistenza con un affiatato gruppo di amici “è questo il bello dell’amiciziacapire le esigenze dell’altro ed esaudirle prima ancora che te lo chieda.” Durante una delle tante cene nella bella cucina della loro abitazione romana, Lorenzo ha un malore: entra in coma e poi muore. Sulla panca dell’obitorio dell’ospedale, questa specie di “famiglia” che ruota attorno alla coppia, si ritroverà a fare i conti non solo con la perdita di una sorta di congiunto e con le difficoltà ad accettarla, ma soprattutto ognuno di loro imparerà ad affrontare le proprie paure e debolezze, fatta eccezione per la fragile Roberta (Angiolini): “nessuno vorrebbe essere come me. Neanche io”. In Saturno contro Ambra Angiolini, al suo debutto sul grande schermo, vince il David di Donatello come miglior attrice non protagonista, mentre Luca Argentero, già apparso in qualche fiction dopo aver preso parte alla terza edizione del Grande Fratello, pur avendo già debuttato al cinema l’anno prima, sarà grazie ad Özpetek che avrà il primo vero ruolo importante. Bellissima la colonna sonora, come sempre nei film di Özpetek, che vanta brani di Gabriella Ferri e Carmen Consoli, mentre è di Neffa il brano principale intitolato Passione. Parte del film è girato nell’appartamento del regista ed in particolare nella sua cucina; è proprio questo particolare che ci ispira la ricetta di un contorno di patate saporite, facile e veloce, da preparare per una cena tra amici mentre si chiacchiera amabilmente con loro. 

INGREDIENTI: 400 gr di patate novelle – pangrattato q.b. – qualche foglia di menta – salvia e rosmarino q.b.– qualche rametto di timo – un peperoncino secco piccante – olio extravergine di oliva q.b. – sale q.b. – 3 cucchiai di parmigiano reggiano

PROCEDIMENTO: 

Lavate bene le patate, meglio se novelle, e tagliatele a fette di 3 millimetri circa. Fate quindi un trito di erbe aromatiche con il pangrattato e mescolate il tutto con il parmigiano reggiano e il peperoncino frantumato. Mescolate le patate in una teglia insieme al trito, uno spicchio d’aglio, sale e abbondante olio extravergine di oliva. Adagiatele quindi in una leccarda foderata di carta da forno mettendo in superficie il trito che sarà rimasto sul fondo della teglia dove le avete fatte insaporire; quindi fatele cuocere in forno a 180° per circa 30/40 minuti e poi accendete il grill per altri 5 minuti, fino a quando le patate saranno ben dorate. Questo contorno è l’abbinamento ideale per un arrosto.

LA FELICITÁ È UN SISTEMA COMPLESSO di Gianni Zanasi, 2015

LA FELICITÁ È UN SISTEMA COMPLESSO di Gianni Zanasi, 2015

Nel mondo di oggi, industrializzato e globalizzato, fondato sulla concorrenza spietata per il perseguimento della logica del profitto e dove non esistono regole morali nè si rispettano i valori e la dignità dell’uomo in quanto tale, non è impresa facile incasellare il concetto di felicità, inteso come benessere proprio e degli altri. La felicità è un sistema complesso è un film in cui semplicità e complessità vanno a braccetto e non possono essere spiegate né raccontate, ma forse possono essere capite, fermandosi ad osservare.

Il film di Gianni Zanasi ci introduce lentamente in un labirinto di situazioni estreme, molto calzanti con la società di oggi, dove per il protagonista Enrico Giusti, un Valerio Mastrandrea in stato di grazia che si conferma uno dei migliori attori italiani del momento, non risulta facile venirne fuori a causa della complessità del sistema stesso che ruota attorno a lui e nel quale si trova suo malgrado invischiato. Con alla spalle un passato privo di affetti e di certezze, abbandonato da un padre fuggito in Canada a seguito di un crack finanziario ed un fratello minore balordo ed incapace di affrontare responsabilmente una posizione chiara verso la propria ragazza israeliana (Hadas Yaron), Enrico si ritaglia un ruolo che non è né da vittima né da carnefice, ma da arbitro, facendo coincidere la sua vita privata con la sua occupazione. In maniera assolutamente consapevole lavora accanto a gente senza scrupoli, veri e propri avvoltoi, che non esitano a piombare su rampolli viziati ed incapaci di gestire i patrimoni industriali ereditati, per acquisirne i pacchetti azionari a poco prezzo. Il suo ruolo è solo quello di indurre le cavallette, come li chiama lui, a fare esattamente ciò che da soli non hanno il coraggio di fare, aiutandoli a cadere nel vuoto delle proprie vite per lasciarsi alle spalle tutto ciò che i propri padri hanno costruito in una vita di lavoro.

Ma un bel giorno arriverà anche per Enrico la classica situazione spiazzante in cui questo gioco, così ben architettato, non funzionerà più allorquando Filippo e Camilla, due giovani rimasti improvvisamente orfani di entrambi i genitori, si mostrano contrari a voler facilmente cedere allo zio e ad altri speculatori la propria quota di maggioranza del gruppo industriale che hanno ereditato. E dunque la felicità che noi tutti cerchiamo è reazione? Oppure il sistema è veramente tanto complesso che ci è negato il raggiungimento della stessa? O basta un semplice improvviso atto di apparente follia per farci scoprire che la felicità sta proprio a portata di mano, nelle cose semplici e apparentemente insignificanti come preparare una torta di mele?

Dopo Non pensarci Zanasi si conferma un regista non convenzionale che sa raccontare storie-non storie, piene di “torte di noi”, e ri-trova in Valerio Mastrandrea il suo attore feticcio in grado di esprimere sentimenti attraverso non solo le parole ma anche nell’ironia dello sguardo e in una mimica molto romana, regalandoci un personaggio camaleontico, da amare.

data di pubblicazione  29/11/2015


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CHIRÙ di Michela Murgia – Einaudi

CHIRÙ di Michela Murgia – Einaudi

Sei anni fa con Accabadora, Michela Murgia raccontava un legame molto particolare in cui venivano trasmessi saperi antichi, da Tzia Bonaria a Maria, e che rendeva quest’ultima capace di sostituire la prima nel gesto ultimo da portare a chi soffre permettendogli di lasciare la vita con meno strazio. Saperi profondi e arcaici che possono essere “insegnati” solo in una dimensione maieutica in cui l’allievo riconosce la statura e l’importanza dell’altro, scegliendolo come proprio maestro.

Anche in Chirù della stessa autrice, appena uscito per Einaudi, si stabilisce un legame, una iniziazione che è il cardine della storia come lo era nel romanzo precedente.

Chirù, un diciotenne dalla chioma folta e gli occhi neri come onici, è un giovane violinista; individuata in Eleonora la sua maestra, si presenta a lei con l’irruenza e la determinazione della giovinezza. Eleonora è un’affermata attrice di teatro e non è la prima volta che ha un allievo, ci sono già stati Alessandro, Teo e Nin; ma mentre i primi due hanno trovato la loro strada con successo, Nin ha lasciato a Eleonora un ricordo doloroso e un rimorso. Per questo ora Eleonora è cauta e timorosa di fronte alla richiesta di Chirù, tanto da volare a Roma da Fabrizio, uno dei suoi amori più importanti, per confrontarsi con lui su quest’arte difficile che anche lui ha esercitato in passato, e scoprire se è davvero pronta ad assumere di nuovo il ruolo che Chirù le chiede. Ma i timori di Eleonora, vengono prepotentemente scalzati da un sentimento di appartenenza – Lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio.– che le fa affiorare negli intensi mesi della loro relazione, schegge di ricordi. Un’infanzia con un padre violento che la costringe ad un apprendistato precoce sull’arte del fingere; gli amori e i primi successi come attrice in una Roma che la vede ancora impacciata; una solitudine abituata “all’autarchia del cuore” che comincia a incrinarsi. E proprio i ricordi ripresi e rimasticati le permetteranno di giungere a una nuova fioritura, a sbocciare e ad aprirsi a un nuovo e importante amore.

Chirù è arrivato nella sua vita come vengono i legni alla spiaggia, levigato e ritorto, scarto superstite di una lunga deriva; ed è questo riconoscersi reciprocamente come pezzi fallati, al di là dei vent’anni che li separano, a permettere questa trasformazione, tanto da non sapere più chi sta conducendo e chi è condotto.

L’apprendistato di Chirù, quello che lo dovrebbe condurre senza fallire al successo o comunque a saper riconoscere le opportunità che la vita saprà offrirgli, è un cammino puntellato di libri consigliati, di tessuti pregiati da riconoscere, ma soprattutto è un addestramento ad andare al di là delle apparenze e delle spiegazioni banali, perché gli esseri umani intessono solo relazioni complesse nelle quali bisogna sapersi muovere. E un’artista, per poter diventare tale, deve temprare e misurare il proprio talento anche su questa capacità sociale. I loro appuntamenti, nei tre mesi dopo il primo incontro, nei bar, nei caffè, sulla spiaggia del Poetto battuta dal maestrale, sono interrotti dalla tournée teatrale di Eleonora che apre il romanzo ad altri luoghi: Stoccolma, Praga, Firenze; come se fossero differenti stati d’animo di un cuore che va progressivamente sciogliendosi dal ghiaccio e dai colori lividi del freddo nordico, per approdare nella Roma dell’epilogo, calda, accogliente e primaverile.

Michela Murgia possiede il “mestiere” della scrittura, inteso come il pregio assoluto del saper scrivere. La capacità che racchiude il talento e l’ufficio, il mestiere appunto, esercitato come un bulino dall’orefice. Come la sua Eleonora, la Murgia è capace di scandagliare i sentimenti fino a sminuzzarli per il lettore, trovando sempre la parola giusta, quella più incisiva e suggerente, e questo rende le sue pagine preziose ed asciutte, perfino sontuose nelle descrizioni di profumi e paesaggi, ma in questo romanzo i sentimenti restano pensieri, acuti, articolati, ma pensieri. Chirù è un musicista ma sceglie un’attrice come sua mentore; mi direte non è importante perché il loro è un colloquio d’anime – anche se il corpo fa il suo gioco silente – che si stabilisce molto al di là delle categorie rigide che siamo abituati a maneggiare sia riguardo ai rapporti d’amore che alle arti. Ma è questa sorta di “divina predestinazione”a non convincere, e non perché sia impossibile riconoscere un “simile”, ma perché questa scelta viene consegnata al lettore come assodata. Non veniamo a saperne di più leggendo, anche se apprendiamo che lo stato di “orfanità” li riguarda entrambi, perché entrambi si sono dovuti prendere cura da soli della propria educazione, al margine di quella dei genitori biologici.

Chirù non ha esitazioni, in mezzo a tante persone si presenta a lei con un’esigenza chiara. Sa che lei e lei soltanto potrà insegnarli un modo adulto di proporsi, di proporre il proprio talento che per vincere ha bisogno di appoggiarsi ad un sapere articolato, non riducibile a una sola maestria, come quella del violino nel suo caso.

Le arti di Eleonora e Chirù, restano però una pagina sfocata, un’occasione che entra nel meccanismo narrativo per far girare la narrazione e spingerla verso altri luoghi. Certo le città della tournée offrono colori e temperature che rispondono a un paesaggio e a un cambiamento di passo interiore, ma non ci si addentra mai nello specifico di ciascun mestiere, di ciascun linguaggio, come se non fosse determinante la condizione artistica che li lega. Il basso tuba di tutto il romanzo è il potere, o meglio, l’amore che si misura con il potere. Il potere e le sue declinazioni sono la grammatica di ogni amore, questo sembra dirci la Murgia, ed è il territorio che l’autrice voleva dichiaratamente esplorare, ma la storia non decolla, ha un passo corto e slabbrato seppur servito da una scrittura cesellata e acuta.

Questi due personaggi sono stretti in un passo a due che non produce suono e non coinvolge; più belle e vere le pagine dei ricordi personali e familiari di Eleonora. Loro restano un “esercizio” l’uno per l’altra, un tentativo di fare luce sulle strette maglie che reggono insieme il potere e l’amore, tentativo continuamente rimandato, fino a che giunti alla fine, scopriamo di non aver trovato una cifra diversa da quella dichiarata sin dall’inizio dove due “legni marci” si erano attratti come dice la stessa Eleonora: Io vorrei poter dire che fra di noi c’è stata un’affinità elettiva, ma la verità è che questo ragazzo aveva delle cose marce dentro e io le ho riconosciute, perché sono le stesse che ho io.

Un’attrazione che si tramuta in affrancamento, ma restiamo spettatori di questa trasformazione, in nessun momento ne veniamo emotivamente contagiati o intellettualmente coinvolti, come se la compressione della storia ci lasciasse vedere la trama della stoffa, ma non il suo spessore. I modi, la consistenza di questo “travaso”, di questo apprendistato mutuo ci sfuggono, come se quell’immediato riconoscersi escludesse la possibilità di essere raccontato; come se il loro passo a due (e non perché il ballo debba essere perfetto, al contrario la vita è colma di passi falsi, di cadute) fosse tutto ballato all’inizio e non avesse senso spostare ancora la coppia nella sala. Arriva repentina la fine, una fine narrativamente semplice, che lascia il lettore a misurarsi con delle sentenze che hanno promesso senza sbocciare, come se ci fossero tutte le premesse per un grande romanzo, tutte le voci e le possibili complicazioni, ma sono appena sfiorate, suggerite e si passa ad altro.

Chirù ha una particolarità: diversamente dai personaggi letterari che abbiamo conosciuto sino ad ora, non ha vissuto e vive solo nelle pagine del libro della sua autrice, ma nelle settimane che hanno preceduto l’uscita in libreria del romanzo è stato un profilo Facebook, tutt’ora attivo. La pagina di Chirù Casti (il cognome è solo sul profilo) è raggiunta da circa seimila persone al giorno che leggono i suoi post, guardano le foto pubblicate e si commuovono sulle parole scritte ad esempio, per commentare i fatti di Parigi. Che sia questo d’ora in avanti il modo in cui i personaggi amati o odiati di una storia continueranno a essere presenti nella nostra vita? Forse il libro passerà, nelle librerie, come accade ormai di consueto, tra poco sarà difficile trovarlo, ma forse Chirù Casti continuerà il suo dialogo con il popolo della rete che, forse, il libro non lo ha neppure letto.

A BIGGER SPLASH di Luca Guadagnino, 2015

A BIGGER SPLASH di Luca Guadagnino, 2015

La magnificenza ancestrale dell’isola di Pantelleria è lo scenario della storia narrata da Luca Guadagnino con A bigger splash, nel remake del film francese La Piscina di Jacques Deary (1969. Quattro personaggi si ritrovano su un’isola selvaggia al confine tra l’Europa e l’Africa e gli equilibri iniziano a vacillare dal loro primo incontro. Da un lato, Marianne e Paul, fidanzati in vacanza nel tipico dammuso, dall’altro Harry e Penelope, padre e figlia a conoscenza del loro legame biologico da appena un anno. In questo quadretto con piscina, però, c’è (ancora) una coppia unita da una forza dirompente: quella di Harry (un bravissimo Ralph Fiennes) e Marianne (eterea Tilda Swinton), ex amanti uniti da una storia d’amore lunga sei anni durante e dopo la quale Harry è stato anche il produttore discografico della rockstar Marianne. L’affetto e la complicità viscerale che unisce Harry e Marianne e l’incapacità del primo di mettere la parola “fine” all’amore ancora forte per la “sua” artista sono parte del “fuoco distruttivo” alimentato dal vento caldo e polveroso dell’isola. Guadagnino, con una sapiente regia matura, forte e sicura, vuole raccontare la complessità dello stato delle politiche del desiderio fra persone mature e per farlo si avvale della quinta protagonista: Pantelleria. Un’isola che induce i quattro personaggi a far a cazzotti; un’isola che, anche fisicamente, non gli consente di scappare dai loro desideri costringendoli ad affrontarsi senza scampo anche con la realtà brutale degli abitanti dell’isola, tra i quali ci sono i rifugiati di guerra approdati miracolosamente con i barconi della disperazione. Fondamentale la scelta, suggerita dall’eterea Tilda Swinton al regista, di rendere muto per un fittizio problema di corde vocali il personaggio della rockstar Marianne così da creare un perfetto equilibrio con il logorroico Harry che con la sua instancabile chiacchiera, e nella sua fisicità (tra cui il suo meraviglioso momento dance), esercita una costante pressione psicologica sulla fragile coppia innamorata Paul-Marianne e, inconsapevolmente, sulla figlia. L’attenta osservatrice Penelope (Dakota Johnson), infatti, percependo in Marianne la sua “nemica”, colei che ha rubato il cuore e l’anima a un padre prima sconosciuto e ora emotivamente impreparato, inizia a tessere una tela di piccole provocazioni: con alcune vuole costringere Marianne a parlare, per strapparla al confortevole “rifugio” del suo finto mutismo, con altre, invece, tenterà di ferirla “rubandole” per qualche ora l’amore dell’introspettivo Paul (un immersivo Matthias Schoenaerts). Nel ristretto spazio del dammuso e della sua piscina cristallina – perché nell’acqua si rivela la vera natura dell’uomo finalmente libero – si compie l’implosione dei desideri delle due coppie fino all’apice della tragedia (velatamente e ironicamente anticipata dal gesto giocoso delle mani di Paul intorno al collo di Harry durante la prima cena del quartetto) che il regista, ispirandosi al Falstaff di Giuseppe Verdi, capovolge nel finale con le note dell’opera buffa. Per farlo si avvale del poliedrico Corrado Guzzanti nel ruolo del maresciallo dei carabinieri di Pantelleria perché in questa storia l’elemento umano doveva prelevare sulla legalità e pertanto la legge segue il sentire della massa, del pubblico dei fandella rockstar in luogo dei codici penali. Nonostante il passaggio del film verso i toni finali della burla lasci smarriti e spiazzati e la macchietta del carabiniere sia stata sicuramente stridente, A bigger splash è ben costruito e tutto il cast, avvolto nelle note dei The Rolling Stones, rende la storia ritmata e appassionante anche grazie alla fisicità dei loro gesti e dei loro nudi che li rendono credibili, così come credibile appare la complessità dei loro sentimenti, dei desideri, dei conflitti interiori e della complicità che li lega. Tra passione e sprazzi di humor un film che intrigante!

data di pubblicazione 29/11/2015


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HAI APPENA APPLAUDITO UN CRIMINALE di e con Daniela Marazita, regia di Alessandro Minati

HAI APPENA APPLAUDITO UN CRIMINALE di e con Daniela Marazita, regia di Alessandro Minati

(Teatro Vascello – Roma, 19/29 novembre 2015)

Le porte si chiudono; le luci si spengono; l’oscurità pervade la Sala studio del Teatro Vascello. Lo spettacolo tuttavia non accenna a iniziare, e nel nostro stato d’animo s’instilla man mano un sentimento d’angoscia e irrequietudine.

All’improvviso luci intermittenti abbacinano il pubblico e la testa dell’attrice (Daniela Marazita) si staglia nell’ombra. A quel punto s’intuisce che il buio circostante non rappresenta altro che le tenebre della mente dell’artista e che le luci sono gli impulsi elettrici erranti nella sua materia grigia. Attraverso la sua voce flautata ci condurrà nel dedalo dei suoi pensieri più reconditi, foschi e inconfessabili, che cercano una via di fuga dal suo personale inestricabile labirinto del Minotauro (qual è la mente umana).

Lo stream of consciousness accompagna l’intera rappresentazione Hai appena applaudito un criminale in cui l’attrice snocciola le esperienze avute con i detenuti, permettendo allo spettatore di rivivere gli episodi salienti dell’attività di volontariato — prevista dall’art. 17 ord. penit. — finalizzata alla messinscena nelle case circondariali: luoghi d’isolamento per antonomasia, nei quali “si è soli e la solitudine di ciascun detenuto fa compagnia all’altro”. La presenza di una compagnia teatrale, pertanto, appare momento indispensabile di unione e aggregazione, utile al recupero sociale del detenuto; ciò non toglie che per perseguire il risultato voluto si dovranno superare fasi inevitabili di sofferenza e frustrazione, ma è dal dolore che nasce la bellezza (estrinsecantesi nell’opera teatrale) e —come scriveva Dostoevskij — “la bellezza salverà il mondo”.

L’intensa recitazione mantiene costantemente viva l’attenzione e impedisce di distogliere lo sguardo. (Peccato solo per l’inizio dello spettacolo: eccessivamente cervellotico e claudicante, può risultare difficile da seguire).

Soggiungo un’ingenua considerazione: la mia utopia è di poter applaudire un giorno un “criminale” in un teatro comune, solo allora si avrebbe un concreto tentativo di reintegrazione sociale.

data di pubblicazione 29/11/2015


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SONGBIRTH di Simona Irrera, 2015

SONGBIRTH di Simona Irrera, 2015

La giovane videomaker Simona Irrera nel suo ultimo documentario Songbirth, (un corto di un’ora scarsa già presentato a Roma all’Isola tiberina e poi a Washington e alla Casa del cinema) si propone di indagare sul momento creativo dell’arte e sceglie di farlo attraverso la più immediata e la più popolare delle arti, la canzone. La regista intervista un gran numero di musicisti e autori e chiede loro di parlare dei motivi di ispirazione, dello spirito con cui affrontano la composizione, parlando delle loro emozioni e dei loro stili.

Ne esce un variopinto ritratto a volte anche spiritoso e sorprendente, o comunque interessante. Simona Irrera ha una formazione scientifica, ha alle spalle studi e lavori relativi alla chimica e questo approccio si riflette anche sullo stile della regia, la videocamera  della Irrera analizza e, scruta (lo si vedeva anche dal suo primo lavoro, intorno al viaggio di una goccia) non dimenticando l’aspetto spettacolare e con una bella sensibilità.

Da non perdere al Detour di Roma il 4 dicembre, in concorso de il festival del cinema indipendente

data di pubblicazione 27/11/2015

DOBBIAMO PARLARE di Sergio Rubini, 2015

DOBBIAMO PARLARE di Sergio Rubini, 2015

Il film di Sergio Rubini si presenta come una pièce teatrale e di fatto lo è visto che nasce proprio in teatro ed è interpretato dagli stessi attori che vediamo sul grande schermo: Fabrizio Bentivoglio, Maria Pia Calzone, Isabella Ragonese e Sergio Rubini stesso.

Dobbiamo parlare ci pone davanti al quesito: ma è sempre proprio necessario parlare? Non sarebbe talvolta meglio lasciare le cose come stanno e continuare la propria vita di coppia senza scendere in profondità o addentrarsi in confidenze scomode? In un salotto bene al centro di Roma, due coppie di amici sembrano sfidarsi in un duello senza esclusione di colpi e la verità che ne emerge farà saltare quel sano equilibrio che fino a quel momento aveva regolato i loro rapporti interpersonali.

Il film, presentato in ottobre durante la decima edizione della Festa del cinema di Roma in uno scenario di pellicole con tematiche spesso dure ed impegnate, è una commedia piena di parole che si incrociano, divertente e senza pretese, che ci fa sorridere e nello stesso tempo riflettere sulle dinamiche di coppia non sempre improntate da un corretto comportamento e forse spesso troppo intaccate da interessi materiali o opportunistici. Ci si chiede se la parola in questo caso sia opportuna, visto che anche il pesce nell’acquario avrebbe qualcosa da ridire.

Tra i temi toccati dal film c’è la fragilità della donna contrapposta a quella, non meno tangibile, degli uomini, dove gli obiettivi sembrano spesso raggiunti ma mai centrati, in uno sforzo di apparire quello che non si è.

Buona la recitazione (teatrale) dei protagonisti che catturano sin dall’inizio l’attenzione del pubblico senza però emulare l’atmosfera claustrofobica del film Carnage di Polansky, al quale sembra veramente inopportuno fare qualsiasi riferimento.

data di pubblicazione 27/11/2015


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DUE PARTITE di Cristina Comencini, regia di Paola Rota

DUE PARTITE di Cristina Comencini, regia di Paola Rota

(Teatro Ambra Jovinelli – Roma, 12/ 29 novembre 2015)

Erano i mitici anni ’60. Quattro donne, molto amiche tra loro, giocano a carte e parlano in un salotto. Ogni giovedì, da molti anni, si riuniscono per fare una partita, chiacchierare, passare il pomeriggio. Portano con sé le loro bambine che giocano nella stanza accanto. Nessuna di loro lavora: fanno le madri, le mogli, si conoscono da molto tempo. Una di loro è incinta. Nella stanza accanto le loro figlie giocano alle signore, si ritrovano anche loro ogni volta che si incontrano le loro madri. Quarantacinque anni dopo  le quattro bambine, ormai delle donne, si rivedono nella stessa casa e continuano quel dialogo mai interrotto, sul ruolo della donna, sui figli, sulla vita coniugale, sulla morte. Un confronto forte e immediato tra l’universo femminile dell’Italia degli anni ‘60 e quello di oggi, raccontato da quattro attrici che diventano otto donne. Le prime mogli e madri, dipendenti economicamente e senza un lavoro e hanno incentrato le proprie vite sulla dipendenza dal ruolo di madri e casalinghe. Nel secondo atto, invece le quattro bambine ormai cresciute si raccontano in un presente più agitato e frenetico,  in cui l’indipendenza da casa lavoro, famiglia ha comportato il ridisegno e di ruoli e responsabilità.

Due partite, il testo di Cristina Comencini, torna in scena  al Teatro Ambra Jovinelli di Roma fino al 29 novembre 2015, a 10 anni di distanza con un nuovo grande cast al femminile. Se nella prima messa in scena c’erano Margherita Buy, Isabella Ferrari, Valeria Milillo e Marina Massironi, a giocare nel doppio ruolo di mogli-madri-amanti negli anni ’60 e delle figlie 40 anni dopo, oggi ci sono attrici altrettanto brave e di successo: Giulia Michelini, Paola Minaccioni, Caterina Guzzanti e Giulia Bevilacqua, dirette dall’esordiente Paola Rota.

 I fili che tengono unite queste donne sono i capisaldi dell’esistenza: la nascita e la morte. I dialoghi si inframmezzano di tragico e comico al tempo stesso in un flusso di pensieri e parole in cui madri e figlie si confondono e si riflettono in una continua dinamica di fusione e opposizione.

Un testo interessante e coinvolgente, non banale, su due epoche allo specchio, su due modi diversi di essere donne, alla ricerca di differenze e similitudini, nel tentativo di definire, oggi come ieri, la stessa identità femminile.

Molto brave le attrici, in grado di esaltare il lato sentimentale, frivolo, anche ridicolo delle madri a fronte di quello più agguerrito, impegnato e frustrato delle figlie, in un gioco di insieme che esalta l’ecletticità e lo spirito di squadra soprattutto di Paola Minaccioni, Giulia Bevilacqua e Giulia Michelini, mentre rimane un po’ più distaccata e legata ai suoi personaggi la Guzzanti.

data di pubblicazione 26/11/2015


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ANTIGONE di Sofocle, regia Filippo Gili

ANTIGONE di Sofocle, regia Filippo Gili

(Teatro dell’Orologio- Roma, 24 novembre/6 dicembre 2015) 

L’Antigone diretta e interpretata da Filippo Gili riporta il pubblico in una dimensione ancestrale e conduce lo spettatore nel ventre di Antigone (Vanessa Scalera), nelle viscere della Terra tra i vivi e i defunti. Antigone, ancora oggi, è la voce della spiritualità, del coraggio, della ribellione di chi per poter vivere deve inevitabilmente fare un passo indietro per ritrovare la propria essenza. Emblema di una femminilità impetuosa, sovversiva di quelle che Creonte (Filippo Gili) definisce “non regole, ma…re-go-le”, Antigone riflette la primordialità del tragico, la latente e difficile ricerca di autenticità che è dentro ciascun uomo e si oppone alla titubante sorella Ismene (Barbara Ronchi) che rassegnata afferma “siamo donne, dobbiamo piegarci con dolcezza”. Ogni parola razionale, ponderata, dura e schietta, “fissa”, frutto dei celebrali ragionamenti, dei presunti insegnamenti e dei divieti di Creonte, ogni consiglio e giudizio del “coro”, nulla possono di fronte alla spiritualità e alla forza del Dio che arde nel ventre di Antigone, la quale, mossa e dilaniata da un’irrefrenabile sete di giustizia e da un indomito senso tragico, finirà per compromettere per sempre la sua vita di donna, di promessa sposa di Emone (Piergiorgio Bellocchio) e la sua libertà. Come prevedibile la tragedia greca messa in scena al Teatro dell’Orologio da Filippo Gili catalizza chiunque vi si imbatta grazie alla bravura irruente e indiscussa dell’intera Compagnia di attori. Ennesima conferma di Vanessa Scalera – già nei giorni scorsi acclamata protagonista del Roma Fiction Fest con Lea di Marco Tullio Giordana – quale autentica “mattatrice” del palcoscenico italiano. Precisa e impeccabile anche la prova del duo degli “artigiani della qualità”, Omar Sandrini e Alessandro Federico, che danno voce ai tebani con un pizzico di leggerezza irresistibile.

 

data di pubblicazione 25/11/2015

 


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