IF ONLY I WERE THAT WARRIOR

IF ONLY I WERE THAT WARRIOR

(Casa della Memoria – Roma, 11 Dicembre)
Con l’occhio dello storico ma la mano ferma e intraprendente del regista, il giovane regista romano scrive con la luce sulla pellicola cinematografica uno spaccato della storia dell’Italia: il periodo colonialista in Etiopia, che ha ancora effetti sul nostro suolo (v. Mausoleo dedicato al generale Graziani, tristemente noto per l’impiego di gas in terra africana).
L’approccio imparziale, che dà spazio a tutte le voci, rende il documentario convincente e avvalora il messaggio che vuole trasmettere: respice et prospice, non dimentichiamoci del passato per non commettere gli stessi errori in futuro.

data di pubblicazione 12/12/2015

THE PRIDE di Alexi Kaye Campbell, regia di Luca Zingaretti

THE PRIDE di Alexi Kaye Campbell, regia di Luca Zingaretti

Amore e destino, fedeltà e perdono. Londra 1958 e Londra 2015.
The Pride, recentissima opera del drammaturgo e attore americano d’origine greca Alexi Kaye Campbell racconta di due coppie e di due storie, una ambientata negli anni ’50 e una nel 2015. Siamo infatti nella stessa città, Londra, ma in due epoche diverse. Sylvia, una ex attrice appena uscita da un esaurimento nervoso, sta lavorando alle illustrazioni del libro di Oliver, uno scrittore per ragazzi. C’è molta empatia tra i due, la donna non vede l’ora di presentarlo al marito Philip e quella sera andranno tutti e tre a cena insieme. 57 anni dopo Philip, fotoreporter, ha da poco interrotto la propria relazione con Oliver, un giornalista con il quale ha avuto una storia di due anni, a causa dei continui tradimenti di lui. Sylvia, amica di entrambi, cercherà di indagare i motivi per cui Oliver sta cercando di rovinare una relazione importante come quella che ha con Philip.
Le vicende dei protagonisti si intersecano e si alternano nello sviluppo delle relative vicende. Nel tempo passato, si tratta di una coppia tradizionale, marito e moglie. Nel tempo presente, invece, di una coppia omosessuale in crisi. I nomi dei personaggi sono gli stessi, così gli attori.
The Pride pone la grande questione della identità e delle scelte e della difficoltà di trovare e percorrere il proprio sentiero. La pièce ha debuttato al Royal Court Theatre di Londra, vincendo il Critic’s Circle Award e l’Olivier Award e dopo essere stata in scena al Teatro Argentina dal 24 novembre al 6 dicembre, è ora in tournée fino alla fine di febbraio 2016.
Un’opera importante in cui le due vicende procedono a scene alterne. Le due storie sembrano non avere nulla in comune, a parte i nomi dei personaggi. Ma via via che ci si inoltra, si scoprono echi, rimandi, problematiche che invece hanno molto in comune. Nella prima, un uomo sposato affronta la sua omosessualità sapendo che è cosa da nascondere e tenere segreto. Così, quando Philip conosce Oliver il trasporto è tanto forte da trasformare un uomo che rifiuta la sua omosessualità in un uomo che invece la affronta. Ma i tempi e la società sono quelli che sono e l’essere gay è ancora considerato una malattia, così Philip lascia Oliver e si appresta a iniziare il suo percorso di guarigione. Ma cosa sarebbe successo se Philip e Oliver si fossero incontrati oggi? Su questa traccia il testo si muove nel continuo confronto tra due epoche e due società, sollevando interrogativi sulla nostra vita contemporanea, sulle scelte, indagando i destini di uomini e donne. In scena, accanto a Luca Zingaretti (nel ruolo di Philip) che è anche registra e produttore, Valeria Milillo (Sylvia), Maurizio Lombardi (Oliver) e Alex Cendron.
The Pride è un testo splendido, ma difficile, con due storie di coraggio. Pochi di noi vivono la vita che si sono scelti. Quattro interpreti semplicemente perfetti, straordinari e sorprendenti per la capacità di passare da un ruolo ad un altro. Uno spettacolo interessante, concreto e magistralmente diretto. Da vedere.

data di pubblicazione 12/12/2015


Il nostro voto:

TRADIMENTI di Pinter

TRADIMENTI di Pinter

(Teatro Eliseo – Roma, 1/20 dicembre 2015)
Di tutte le commedie di Harold Pinter Tradimenti, scritta nel 1977, è una delle più rappresentate, anche nel nostro Paese dove a tutt’oggi si contano una mezza dozzina di edizioni, tutte di pregio. Le ragioni di questa fortuna sono da attribuire alla miracolosa fusione dei temi e dello stile pinteriano, con una apparente “ veste “ di intelligente e piacevole teatro di conversazione che cela però amari e dolenti rapporti tra i protagonisti. In scena abbiamo tre personaggi, legati anche da interessi lavorativi editoriali, ma che soprattutto sono le classiche figure di un triangolo amoroso; lei-lui-l’altro Alla base una storia di adulterio durata sette anni, raccontata dalla sua conclusione fino allo scoccare della prima scintilla, perché, dice Pinter, spesso il meccanismo della memoria funziona all’incontrario, partendo dalla fine, andando a ritroso nel tempo.
Andando avanti o meglio all’indietro, lo spettatore scoprirà che non tutto è come sembra, che i segreti non sono sempre tali, che oltre ai personaggi in scena ce ne sono altri che non appariranno mai ma che sono determinanti e che la finzione e i tradimenti possono essere una costante dell’esistenza, e in definitiva che tutto può ricondursi al NULLA Pinteriano, a quella No Man’s land, (tanto per citare un altro significativo titolo del drammaturgo inglese) che è la vita.
L’allestimento di Michele Placido è vivace e allusivo, arricchito da proiezioni sul fondale, qualche musica e addirittura qualche effetto olfattivo. Si rimpiange un poco l’atmosfera di attesa, il silenzio pregnante di altri allestimenti, è come se tutto fosse “italianizzato”, in scena si urla, ci si appassiona, si mima un amplesso: ne fa le spese soprattutto il pur bravo Francesco Scianna, ben poco british.
Ambra è trepida, ipersensibile, sottilmente nevrotica, di certo la sua interpretazione teatrale più riuscita. Infine perfetto Francesco Biscione che dei tre è il più credibilmente pinteriano. Si replica Roma fino al 20 poi in tournèè nazionale.

data di pubblicazione 11/12/2015


Il nostro voto:

HEART OF THE SEA – LE ORIGINI DI MOBY DICK di Ron  Howard, 2015

HEART OF THE SEA – LE ORIGINI DI MOBY DICK di Ron Howard, 2015

Moby dick è un film del 1956 diretto da John Houston, tratto dal romanzo di Herman Melville, adattato per il cinema da Ray Bradbuy.
Heart of the Sea è un film del 2015 diretto da Ron Howard, tratto da una “storia ripescata” da Nathaniel Philbrick in Nel Cuore dell’Oceano – con il quale si aggiudicò il National Book Award per la saggistica nel 2000.
Dietro il racconto immaginario di Moby Dick si nasconde la vera storia del naufragio della baleniera Essex, una verità che nasconde tra le pieghe abomini ben peggiori di una colossale balena vendicativa.
Questa è la storia di due uomini mal maritati il capitano inesperto George Pollard (rampollo presuntuoso di nobile stirpe) e il primo ufficiale Owen Chase (uomo-cacciatore figlio di un marinaio campagnolo) e di una ciurma di marinai eterogenea, tra i quali cerca di sopravvivere il novellino Thomas Nickerson.
La paura di essere giudicato sta lacerando il tormentato Thomas (il suo tavolo di legno inciso dai suoi graffiti è la prova del suo animo ferito) egli, inizialmente controvoglia, narra della ricostruzione della tragedia realmente accaduta, l’uomo si solleverà svelando i segreti che porta con sé da troppo tempo.
Il giovane Melville smania di catturare la sua balena bianca, desidera fortemente scrivere il romanzo della sua vita.
L’olio delle balene è il principale combustibile utilizzato in quel periodo dalla società, solo cacciando e trucidando le balene (entrando attraverso le loro teste) si ottiene l’olio così prezioso per il commercio.
La nave da caccia Essex , ben armata e restaurata, salpa dal porto di Nantuchet nel 1820.
Lo spettatore rimane incollato allo schermo perché ogni singola sequenza esprime perfettamente le faticose ed energiche manovre dei marinai per governare la nave.
L’uso del piano inclinato e ravvicinato di alcune sequenze è molto poetico a dimostrare la cura del regista nei dettagli, partendo dalle spille di balene appuntate sui baveri delle giacche dei balenieri passando ai prodotti di pescato fresco nel mercato alla manovre fisse e correnti della nave.
Le riprese panoramiche del porto, della baia e della navigazione in mare aperto sono scene di vita emozionanti.
Dopo uno scarso bottino che li vede per mare per circa 14 mesi decidono di superare i limiti, di fare rotta verso i banchi estremi.
La cupidigia si è impossessata degli uomini, spingendoli verso l’ignoto.
L’equipaggio intraprende un viaggio senza tempo negli abissi dell’animo umano.
La tragedia coincide con una battuta di caccia finita male, per colpa di una balena bianca, un mostro leggendario di enormi dimensioni, intelligente e vendicativo che non si limiterà soltanto a mandare alla deriva i piani dell’equipaggio di cacciatori.
L’avidità divora l’anima dell’uomo come un veleno, così come le nostre follie, le nostre stupide ossessioni ecco perché sentiamo forte il bisogno di risolverci andando alla ricerca della nostra personale balena bianca.

data di pubblicazione 9/12/2015


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ANNA di Niccolò Ammaniti – Einaudi, 2015

ANNA di Niccolò Ammaniti – Einaudi, 2015

Un romanzo forte, potente, coinvolgente sulla potenza della vita che, nonostante tutto, ci trascina avanti.
L’atmosfera è apocalittica, una descrizione distopica del nostro mondo devastato da un virus letale, “la Rossa”, partito dal Belgio e diffusosi ovunque uccidendo tutti gli adulti risparmiando solo i bambini ancora impuberi.
Siamo nella Sicilia nord occidentale devastata prima dal virus e poi da incendi ed esplosioni lo scenario che si apre ai nostri occhi è macabro, attori sono dei bambini malnutriti e terrorizzati che percorrono chilometri di strade desolate, dove fanno ancora bella mostra di sé cartelloni pubblicitari che incitano: “Scegli oggi il tuo futuro”, alla ricerca di cibo vagano saccheggiando ciò che resta nei supermercati, entrando nelle case devastate in cerca di cibo e vestiti scavalcando i cadaveri degli adulti ormai mummificati.
In questo scenario spettrale seguiamo la storia di Anna, una ragazzina di 13/14 anni che lotta con tutte le sue forze per salvarsi e salvare il fratello piccino; ha assistito alla morte dei suoi genitori “di fronte a quei resti la bambina intuì che la vita è un insieme di attese. A volte così brevi che nemmeno te ne rendi conto, a volte così lunghe da sembrare infinite, ma con o senza pazienza hanno tutte una fine.”. Attraverserà la Sicilia con un quaderno come guida il “Quaderno delle Cose Importanti” scritto dalla madre negli ultimi mesi di vita e lasciatole da consultare per non sbagliare, per non mettersi in pericolo, ma troppo presto scoprirà che “ le regole del passato non valgono più, dovrà intentarne di nuove.”, potrà contare solo su se stessa e sul suo istinto, non potrà mostrare debolezze, soprattutto quella di sperare. Il mondo che le si apre davanti è completamente diverso da quello che conosceva, l’unica certezza in questo nuovo scenario è che “la Rossa” porterà via con sé ogni essere che arriverà alla pubertà e non si deve cedere alla malattia della speranza perché “la vita non ci appartiene, ci attraversa”.
Eppure… eppure questi bambini, che non hanno tempo per la paura, per le lacrime, che sono cresciuti così in fretta e che sono così consapevoli della “fuggevolezza” della loro vita lottano, combattono, credono in un futuro cercano segni che indichino che possa cambiare e che, forse, la speranza non è poi una malattia così grave, che forse la speranza si può riporre anche in un semplice paio di scarpe…

ALBANIA CASA MIA scritto e interpretato da Aleksandros Memetaj, diretto da Giampiero Rappa

ALBANIA CASA MIA scritto e interpretato da Aleksandros Memetaj, diretto da Giampiero Rappa

(Teatro Argot – Roma, 1/13 Dicembre 2015)
Una sagoma bianca frastagliata, raffigurante i confini dell’Albania, segna una pedana nera che occupa il palco del Teatro Argot — come quelle dei corpi inermi tracciate con il gesso sull’asfalto a seguito degli incidenti stradali — e circonda la figura di Aleksandros Memetaj, delimitando lo spazio in cui si esibirà.
La ferita mortale è stata inferta all’animo dell’attore dall’insulto che titola lo spettacolo: Albania casa mia. L’ingiuria sta presumibilmente a indicare che i padroni del territorio albanese e dei loro abitanti sono gli italiani, e che gli stessi possono disporne come se fossero una loro proprietà. La frase è espressione di una xenofobia ipocrita e dimentica del massiccio fenomeno emigratorio che coinvolse i nostri compatrioti, i quali (soprattutto nel XIX secolo) cercarono fortuna altrove perché nel Belpaese “non si riusciva neanche a vivere del proprio lavoro” (come disse un emigrante in partenza ad un ministro italiano).
Gli stessi motivi hanno spinto migliaia di albanesi (27.000) a fuggire dalla propria terra natia nel 1991, atteso che la dittatura comunista — centellinando ogni bene — aveva impoverito il paese, stracciando ogni possibilità di futuro. Opportunità di cui sono in cerca i genitori dell’attore in Italia, per garantire al figlio quella possibilità che a loro è stata negata.
Il talentuoso attore albanese racconta con questo spettacolo la sua storia, dal viaggio per approdare al porto di Brindisi alle innumerevoli angherie subite durante la sua crescita, smorzando con momenti d’ironia una narrazione che potrebbe apparire difficile da digerire.
La sceneggiatura di ottima fattura, impreziosita da metafore che consentono allo spettatore di viaggiare insieme all’attore mentre ripercorre i tratti salienti della sua vita, permette di assistere a uno spettacolo che scivola via scorrevole — ancorché la numerosa presenza delle figure retoriche rischi talvolta di far apparire la recitazione più una lettura di un libro che una vera e propria performance attoriale.

data di pubblicazione 05/12/2015


Il nostro voto:

DIO ESISTE E VIVE A BRUXELLES di Jaco Van Dormael, 2015

DIO ESISTE E VIVE A BRUXELLES di Jaco Van Dormael, 2015

Sin da piccoli Dio ci veniva descritto come un vecchio burbero, ma buono, che dall’alto dei cieli, tra nuvole rosate circondato da folte schiere di angeli, cherubini e serafini elargiva la sua misericordiosa benevolenza a noi poveri mortali, disgraziatamente condannati alla privazione di qualsiasi cosa che potesse arrecare un piacere peccaminoso.
Il regista belga Van Dormael ci ha dato invece un’immagine tanto diversa quanto spiazzante, che ci lascia sicuramente sorpresi con una rappresentazione che noi tutti in fondo accarezziamo quasi con una punta di sordida soddisfazione, senza però aver il coraggio di manifestarla, sia agli altri che a noi stessi, per puro timore di essere accusati di blasfemia.
Questo dio (Benoît Poelvoorde) vive a Bruxelles in un modesto e triste appartamentino, che condivide con una sciatta e semidemente moglie (Yolande Moreau) ed una figlia adolescente, di nome Ea (Pili Groyne), furba e ribelle non più disposta a sopportare le angherie di questo padre annoiato e dispettoso, che passa tutto il tempo nel suo studio, sempre in ciabatte e in vestaglia davanti al pc, per inventarsi ogni giorno leggi fastidiose volte ad importunare sadicamente l’umanità da lui stesso creata.
La ragazzina, dopo aver chiesto consiglio al fratello maggiore JC (che sta per Jesus Christus) fugge dalla famiglia in cerca di altri sei apostoli, scelti a caso dagli archivi paterni, per cercare di ristabilire un poco di ordine e soprattutto di felicità tra gli uomini resi disgraziati e tristi dal padre tiranno.
Il film, tra l’onirico ed il demenziale, potrebbe apparire a volte eccessivo e caricato di situazioni al limite dell’accettazione, dove il sorriso potrebbe facilmente generare l’amara considerazione della infelicità di cui risulta sovraccaricata l’intera umanità. Come Ea suole dire ai nuovi apostoli, riuniti per ri-scrivere insieme il “Nuovo Testamento”, ognuno di noi ha una propria musica che nasce dal cuore e solo ascoltando questa musica interiore saremo capaci di capovolgere il nostro destino, impiegando la forza dell’amore, unica leva capace di invertire il senso negativo delle cose.
Van Dormael ci suggerisce quindi una formula da seguire, una sorta di percorso che ci indirizzi verso una via di salvezza da un dio così poco padre ma molto despota, ma che una volta sulla terra, verrà preso a pugni e calci ed esiliato in Uzbekistan a lavorare in una catena di montaggio: una sorte da inferno dantesco dove a lui sarà precluso tutto, compresa la facoltà di fare miracoli.
Buone le trovate, come quella escogitata da Ea di inviare via sms a tutti gli uomini la data della propria morte accompagnate da originali effetti speciali; mentre ci ispira un poco di tenerezza la (ex) bella per eccellenza, Catherine Deneuve, scelta tra i nuovi apostoli e che trova finalmente la propria felicità tra le braccia pelose di un gorilla, riscattato al circo.
In effetti una buona lezione per imparare che la felicità è a portata di mano per ciascuno di noi, basta giocare d’astuzia scambiando ad esempio il nome dei giorni con quello dei mesi e vivere dilatando la concezione del tempo.
Una nota di merito va al regista Jaco Van Dormael, classe 1957, che nasce come clown da circo per poi seguire gli studi di cinematografia a Parigi che lo porteranno a dirigere importanti lavori, in particolare per il teatro ed il cinema rivolto ai bambini. Nel 1991 vince a Cannes il premio per la miglior opera prima con il film “Toto le héros”, mentre riceve riconoscimenti alla 66ma Mostra del Cinema di Venezia con Mr. Nobody, diventato un vero e proprio film cult.

data di pubblicazione 05/12/2015


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CHIAMATEMI FRANCESCO di Daniele Luchetti, 2015

CHIAMATEMI FRANCESCO di Daniele Luchetti, 2015

Finalmente nelle sale l’attesissimo film di Luchetti su Jorge Bergoglio, alias Papa Francesco.
Impresa non semplice per il regista dal momento che ha inteso parlare della vita di un papa vivo e vegeto e pertanto difficile da portare sul grande schermo senza cadere in una compiacente adulazione, proprio in un delicato momento della storia di Santa Romana Chiesa.
In verità non si ha l’impressione che si esalti la santità di un uomo, semmai con obiettività si narra di una parte lunga e significativa della vita di un gesuita, nel periodo drammatico che passò l’Argentina sotto la dittatura di Videla, un uomo Jorge che seppe impegnarsi a difendere i diritti dei poveri e dei perseguitati dal regime.
Il film pertanto inquadra un periodo ben definito della storia di quel paese, ricostruendo sapientemente i gravi crimini del potere anche con l’aiuto di qualche sequenze storica, ma senza mai eccedere al ricorso di lunghe immagini di repertorio.
Narrazione ed ambientazione quindi molto credibili anche per la scelta degli interpreti, quasi tutti rigorosamente argentini, a partire dal protagonista Rodrigo De La Serna, che interpreta alla perfezione Bergoglio per tutto il film, tranne alcune scene che riguardano i momenti immediatamente antecedenti al conclave, queste interpretate da Sergio Hernàndez.
L’interpretazione del giovane Jorge colpisce particolarmente per il suo sguardo intenso e preoccupato, quello proprio di un uomo che ha dovuto convivere con i desaparecidos e le madri di Plaza de Mayo e che comunque non sembrò esente da momenti di connivenza con il regime, scendendo a compromessi pur di non compromettere la vita di altri.
Penso che il film induca a predisporsi, anche per i non credenti, a credere in chi crede. Questa la chiave di lettura suggerita dal regista che senza soffermarsi, per fortuna, su immagini mielose ci porta a conoscere aspetti poco noti di un personaggio della storia di oggi, a prescindere o meno che si tratti del papa.
Bravo quindi Daniele Luchetti, coadiuvato nella sceneggiatura da Martin Salinas, che si è confermato all’altezza dei precedenti impegni cinematografici, molti dei quali hanno già ottenuto importanti riconoscimenti. Prodotto da Taoduefilm (Gruppo Mediaset) e distribuito da Medusa, e già venduto in più di quaranta paesi, il film verrà presentato il prossimo anno anche sul piccolo schermo in versione integrale di quattro puntate, quindi, anche per pura curiosità, andrebbe visto!

data di pubblicazione 02/12/2015


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DESTINATI della pittrice Michela Moretti

DESTINATI della pittrice Michela Moretti

(Galleria Art G.A.P. – Roma, 5/10 dicembre 2015)
Quando ti trovi di fronte ad un pittore che cerca di spiegarti perché fa quello che fa, la cosa si fa complicata! Nata a Roma nel ’56, anno della famosa nevicata, Michela Moretti, moglie di un musicista e madre di un figlio, si forma artisticamente presso il liceo artistico e poi all’Accademia delle belle Arti; ma, dopo aver frequentato il corso di scultura di Periple Fazzini, decide di abbandonare l’attività artistica per un lungo periodo. Apre dopo qualche tempo un locale in Trastevere e comincia a decorarlo con dei pannelli in legno dipinti: è la scintilla, da allora non smetterà più di dipingere. Lo farà in maniera continuativa dal 1995 partecipando a varie collettive, perché proponendosi allo sguardo degli altri, la pittura trasforma magicamente il pensiero in oggetto. Le sue opere vengono definite “elogio ed armonia dell’imperfezione” ed hanno in sé la forza di farci vedere oltre lo spazio visibile. Attratta in particolar modo da Picasso e dalla pittura figurativa italiana del primo novecento, Michela Moretti vive la propria pittura come sfogo mentale. I corpi sono grossi, le gambe deformi, gli sguardi attoniti e le figure non hanno una precisa collocazione ma si trovano sovente in spazi angusti: sembrano uomini, ma soprattutto donne, non risolti, come lo sono io; certo è che quando io mostro i miei quadri mi sento scoperta, come fossi nuda; le spose sono state abbandonate e i grandi volti strabordano dal quadro. In essi lo spazio che circonda le figure è assolutamente funzionale: è uno spazio che impacchetta il corpo, quasi più importante della figura stessa, studiato tanto quanto lo è il corpo.
Dopo il successo della sua prima personale dal titolo Segrete Prigioni, sabato 5 dicembre a Trastevere in Via San Francesco a Ripa 105/A, presso la Galleria Art G.A.P., si inaugura la mostra Destinati in cui sino al 10 dicembre saranno esposte alcune delle sue ultime opere: esse, oltre alla tela, presentano parti in legno che hanno lo scopo di ampliare gli spazi, uscendo fuori per appropriarsi di ciò che va oltre, in un gioco tra pittura e scultura che l’artista propone sia nella sua produzione consueta di “figure umane”, ma anche nella produzione collaterale dei suoi “alberi”.
Il suo stile pittorico, che potremmo definire “figurativo-astratto” in quanto, pur proponendo immagini umane, le rielabora nella loro anatomia, è volutamente ricercato, ed i mondi in cui si muovono i suoi personaggi ne completano il messaggio. Essi aiutano l’artista a metabolizzare il senso di inadeguatezza dell’uomo, sino ad elevare le loro deformazioni fisiche a simbolo estetico.

data di pubblicazione 5/12/2015

MON ROI di Maïwenn Le Besco

MON ROI di Maïwenn Le Besco

Maïwenn Le Besco ci aveva già convinti col suo precedente film Polisse del 2001.
La sua regia ha le stesse caratteristiche di riuscire a rendere tridimensionali i personaggi. In quest’ultimo film ciò è palesemente più evidente perché la storia è molto passionale. Ha poi scelto con cura due interpreti il cui fisico, di una carnalità palpabile, sfonda lo schermo.
Qui non si tratta di assecondare le fan dell’ex marito della Bellucci, Vincent Cassel ha già dato prova di essere apprezzato attore. Anch’egli poteva ambire al premio per la categoria maschile, come giustamente è accaduto a Cannes per la sua degna partner, prix d’interprétation féminine, Emmanuelle Bercot (della quale, come regista è in sala A testa alta).
Per la Bercot bisognerebbe aprire un capitolo a parte, tanto è intensa la sua recitazione, vivida la sua rappresentazione di questo martirio autoinflitto.
Perché vuoi che io sia come vuoi tu, quando sei venuta da me perché sono esattamente come sono? dice Georgio alla sua compagna ormai sfinita dai suoi tergiversare.
Il gioco è quello antico del “Toccami Ciccio, mamma Ciccio mi tocca” al quale tutti abbiamo giocato da piccoli e dunque resta nella memoria atavica del DNA di tutte le femmine che non riescono a liberarsi del maschio seduttore. Poi se questo maschio è uno che ancora “accudisce” la femmina precedente, ritenendola bisognosa di cure, la vischiosità dei rapporti è certa e la difficoltà a liberarsene ancora più ardua. La crocerossina a sua volta curata è il massimo per una donna intelligente e magari pure non troppo avvenente.
Un film necessario, denso e viscerale: è un gran bene per l’umanità che il cinema più volte abbia dato voce al male di coppia, certamente più significativo e penetrante di un giorno per la violenza contro le donne.
Una curiosità: nella pellicola recita anche la sorella della regista, Isild Le Besco che è la terza dei cinque figli di Catherine Belkhodja, l’attrice e giornalista franco-algerina di origine cabila e turco-mongole. Il loro padre, nato in Gran Bretagna, è di origine vietnamita, mentre loro fratelli sono il documentarista Jowan Le Besco, e l’attore Kolia Litscher: una famiglia dedita con successo alla quarta arte, dunque.

data di pubblicazione 02/12/2015


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