L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA di Luigi Pirandello, regia di Alberto di Stasio

L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA di Luigi Pirandello, regia di Alberto di Stasio

(Teatro dei Conciatori – Roma, 5/17 Aprile 2016)

Ancora una volta il grande Pirandello con il suo atto unico L’uomo dal Fiore in Bocca del 1922 ci suggerisce una profonda riflessione sul valore della vita e della morte: in scena un dialogo casuale tra due persone in una piccola e deserta stazione di periferia, di notte, nel buio e nella solitudine più cupa.

Il protagonista con il fiore in bocca, cioè toccato dal tumore, cerca di spiegare alla donna che ha appena perso il treno, l’essenza della vita che si ama paradossalmente proprio nel momento in cui si ha certezza di perderla. Ecco allora che necessariamente siamo costretti a rivalutare tutto ciò che ci circonda e che fino allora ci aveva fatto vivere nella banalità del vivere quotidiano, senza grandi entusiasmi, quasi annoiati dell’esistenza stessa che si trascina giorno dopo giorno in una esasperante monotonia.

La morte oramai prossima ci rende invece ben predisposti e persino la parola epitelioma ci suona bene, il pronunciarla diventa un dolce suono, più dolce di una caramella.

Il monologo a questo punto prende il sopravvento sul dialogo, il protagonista oramai prossimo al crollo non vuole rassegnarsi alla malattia, lotta e resiste e soprattutto si fa beffa delle inutili preoccupazioni che affliggono l’altra, oramai sopraffatta dalla disperazione più totale: il malato dà forza al sano e gli suggerisce come apprezzare ogni istante di questa illusione che è la vita.

Sicuramente d’effetto l’interpretazione di Alberto di Stasio, che oltre ad impostare una rigorosa regia riesce ad equilibrare bene i diversi registri richiesti dal testo pirandelliano, mentre risulta un poco sopra le righe Veronica Zucchi giocando un ruolo a volte esageratamente in contrapposizione al protagonista, che ci lascia perplessi e disorientati, sotto l’inesorabile battere del tempo come l’assordante frinire dei grilli.

data di pubblicazione:10/04/2016


Il nostro voto:

BLUETOOTH di Gianni Clementi, regia Claudio Boccaccini

BLUETOOTH di Gianni Clementi, regia Claudio Boccaccini

(Teatro della Cometa – Roma, 7/10 Aprile 2016)

Dente blu; così era soprannominato Re Aroldo I di Norvegia, il quale attorno all’anno mille unificò i diversi popoli danesi.

Bluetooth, invece, è il termine utilizzato oggi per individuare il sistema che permette di unire differenti dispositivi elettronici.

Se da un lato la recente scoperta tecnologica consente di legare virtualmente tra loro più dispositivi, dall’altro finisce per spezzare il contatto umano diretto: con frequenza crescente, infatti, capita d’imbattersi in persone intente a comunicare attraverso gli auricolari, che — a prima vista — sembrano squilibrati colti nell’atto di parlare da soli.

Antesignano di questa bizzarra forma di comunicazione — ancorché lui non avesse alcun interlocutore — fu il pittoresco Don Chisciotte, che vagava e vaneggiava per le lande spagnole accompagnato dal fido Sancho Panza. Ed è proprio l’antieroe del libro di Miguel de Cervantes, impersonato da un poliedrico — e irresistibilmente divertente — Francesco Pannofino, che narrerà allo spettatore la fantasiosa storia della sua vita: da fedele servitore del nobile cavaliere a statua vivente di se stesso per le strade della città eterna.

Tra video proiezioni emozionanti (come quella a volo d’uccello sulla capitale), canzoni e poesie, il protagonista di questo racconto dolceamaro ci guiderà in un viaggio introspettivo, smorzato dall’irresistibile ironia dell’attore ligure. Un testo, quello di Gianni Clementi, breve ma efficace; dove è predominante la figura dell’antieroe moderno — incapace di comunicare poiché travolto dal profluvio di frasi derivanti dalla messaggistica istantanea —, posta in contrapposizione con gli eroi del passato (M.L. King, Moro, J.F. Kennedy), abili — al contrario — nel trasmettere in poche parole messaggi pregni di significato. Senza dimenticare, tuttavia, il monito brechtiano: “Sventurata è la terra bisognosa di eroi”. 

data di pubblicazione:09/04/2016


Il nostro voto:

VELOCE COME IL VENTO di Matteo Rovere, 2016

VELOCE COME IL VENTO di Matteo Rovere, 2016

“Se hai tutto sotto controllo, significa che non stai andando abbastanza veloce.” La frase del pilota di Formula 1 Mario Andretti è il secco start che dà il via al film di Matteo Rovere Veloce come il vento, fornendo da subito spunti inaspettati su quello che nella vita di ognuno è il contrasto tra desiderio di velocità e necessità di controllo.

La storia di Veloce come il vento è una storia di una speranza e di una lotta per una vita diversa; è una storia di corse automobilistiche e di un dramma familiare, raccontata con misura, a tratti commovente, storia di un ricongiungimento tra anime perse.

Giulia De Martino è una diciassettenne che partecipa, spronata dal padre, al campionato italiano GT. Purtroppo durante una gara il padre di Giulia muore a causa di un infarto e al funerale compare Loris, il fratello maggiore, che si era allontanato dalla famiglia perché oramai tossicodipendente. Loris è un ex-pilota, soprannominato “ballerino” e pur di non perdere la casa, ereditata dal padre, comincia a fare da trainer a Giulia. Nel rapporto sempre più stretto che si instaura tra maestro e allieva, tra fratello maggiore e sorella minore, c’è soprattutto l’invito ad assumersi quei rischi necessari per emergere e a costo di tagliare il cordolo anche se la curva è pericolosa, perché solo ai temerari è destinata la vittoria.

Lei, piena di grinta e più matura della sua età, e lui, che ha sperperato il suo talento con le droghe pesanti, non potrebbero essere più distanti, ma trovano un terreno comune in quella passione per l’alta velocità che è nel DNA di famiglia.

Veloce come il vento, ispirato alla storia del pilota Carlo Capone, star delle corse negli anni ’80 oggi in cura per gravi problemi psichiatrici è anche molto altro: ha a riferimento i modelli hollywoodiani di genere, riadattati però con misura a contesti e contenuti prettamente italiani, ha la spettacolarità carica d’adrenalina delle corse, in pista come per strada; la storia del riscatto perlomeno parziale di Loris, inclusi gli accenni agli aspetti più drammatici della droga, esaspera lo scontro tra responsabilità e irresponsabilità, tra rischio e controllo.

Ottima la scelta dei protagonisti, con da un lato la giovane esordiente Matilda De Angelis, personaggio femminile raccontato in un contesto tipicamente maschile, capace di dare il giusto carattere a Giulia; dall’altra quella di uno Stefano Accorsi perfetto nel ruolo di tossico e disperato, fratello dimenticato, ma progressivamente sempre più interessato a far funzionare le cose per opportunismo ma anche per un affetto che progressivamente scopre.

Il film di Rovere appassiona e coinvolge e non annoia, imperfetto ma vero, coraggioso, assolutamente e finalmente innovativo per il cinema italiano; un motor movie all’emiliana, con tanto di slang romagnolo, di corse e di scontri, di sorpassi e di frenate, di curve tagliate e di cordoli, sui circuiti di Monza, Imola e Vallelunga e sulle strade cittadine di Matera, con al volante piloti sprezzanti del pericolo e disperati, che si giocano il tutto per tutto per superare i propri limiti e sopravvivere.

data di pubblicazione: 8/4/2016


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L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA di Luigi Pirandello, regia di Alberto di Stasio

DANCING PARTNERS – Coreografie di: Mauro Astolfi, Mats Ek, Katrìn Hall, Anthony Missen, Thomas Noone

(Teatro Vascello – Roma, 5/6 Aprile – Rieti, 8 Aprile 2016)

Al Teatro Vascello è stato presentato un progetto internazionale per la promozione della danza contemporanea e che vede riuniti in un unico spettacolo ben quattro coreografie di diversi paesi: Thomas Noone Dance (Spagna), Norrdans (Svezia), Company Chameleon (Inghilterra) e Spellbound Contemporany Ballet (Italia).

I giovani artisti impegnati in questo tour europeo sbarcano quindi a Roma per portarci i loro balletti, frutto di un lavoro sicuramente di grande spessore e nel quale non è stato difficile riscontrare un significativo talento. I differenti gruppi appaiono legati tra di loro da un impercettibile fil rouge che mette in evidenza sulla scena, cupa ed uniforme nella sua essenzialità, la tensione costante dei loro corpi, impegnati in uno scontro frontale carico di aggressività e, paradossalmente, di assoluto abbandono fisico. I diversi lavori presentati sono stati studiati per mettere in risalto una perfetta reciprocità tra luce ed ombra, tra suono ed azione, tra elaborazione mentale e movimento scenico e dove ognuno possa impegnarsi ad improvvisare, ad inventarsi un proprio spazio creativo, a ricercare un suo personale linguaggio espressivo. Il folto pubblico in sala ha mostrato di apprezzare molto le varie performances, creando involontariamente una sorta di interazione con gli artisti in scena, tutti giovanissimi e pieni di entusiasmo.

Sicuramente un ensemble di grande effetto, senza tuttavia quel tocco di assoluta originalità che avrebbe regalato al pubblico in sala il desiderio di lasciare il teatro con la voglia di volare, come loro, sulle punte dei piedi.

In replica il giorno 8 aprile al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti.

data di pubblicazione:07/04/2016


Il nostro voto:

 

PREAMLETO di Michele Santeramo, regia di Veronica Cruciani

PREAMLETO di Michele Santeramo, regia di Veronica Cruciani

(Teatro Argentina – Roma, 30 marzo/10 aprile 2016)

Preamleto, ovvero il dramma prima del dramma.

Il vecchio Re Amleto ha l’alzheimer. Non ricorda niente, né sua moglie Gertrude, né il figlio Amleto e il fratello Claudio. Non ha ricordi ma ha ancora il potere, è vivo, siede in poltrona, da solo, in un bunker di cemento armato. Quel grigio e solido contenitore lo protegge da nemici e dagli occhi impietosi di chi non lo rispetterebbe più come capo.

Intorno a lui, nel giorno del suo compleanno, si compone il quadretto familiare: il fratello Claudio, avido di potere ma incapace di spodestare l’anziano capo; la moglie Gertrude, donna complessa, non materna, amante del cognato, dilaniata dal desiderio del comando e insofferente al ruolo di badante del marito; il consigliere del Re, Polonio, indeciso, comico e viscido al tempo stesso; e infine il giovane e impulsivo Amleto, che pensa di essere in grado di difendere la memoria e l’onore del padre, incentrando su di sé il comando.

Peccato che predomini  su tutti l’incapacità… di essere madre di Gertrude, di essere in grado di governare di Claudio, di vendicare il padre da parte di Amleto, di essere fedele da parte di Polonio. Gruppo di famiglia in un interno. Solo il vecchio re, sereno e distaccato grazie alla malattia, riesce a fornire la chiave per sfuggire alla materialità ed alla schiavitù del potere.

Intrecci e motivazioni che nel testo shakespeariano sono lasciati alla libera fantasia dello spettatore trovano qui un prologo riflessivo e spiazzante. Se cambiassero i presupposti, la vicenda di Amleto sarebbe la tragedia annunciata? E quali sono le reazioni che si innestano nello stretto gruppo familiare costretto a confrontarsi con il potere?

“Il potere a questo serve: a continuare a comandare” dice Gertrude al Re per convincerlo a prendere l’unica decisione che le pare giusta.

Michele Santeramo scrive un testo che, se da un lato racconta l’antefatto della tragedia, prima della morte del re Amleto padre, prima che diventi lo spirito inquieto e lugubre che si aggira sulle torri del castello di Elsinore, dall’altro proietta storia e personaggi della tragedia shakespeariana in una realtà contemporanea, in un claustrofobico rifugio di cemento armato in cui il Re, seppur malato, è più libero e meno terreno di tutti.

Potere, egoismi, lussuria, soprusi, in un contesto nel quale la vita e la morte si invertono, vero e falso si mescolano. Il vecchio Re suggerisce allora una via d’uscita alla spirale di violenza a cui i personaggi sembrano destinati invitando saggiamente moglie e fratello a inscenare la sua morte e a far credere al figlio che sia stato vittima di un vile omicidio; si mostrerà poi al giovane Amleto come fosse un fantasma con Claudio, Gertrude e Polonio che reggeranno il gioco e fingeranno di non vederlo. Il figlio convinto di delirare e in preda ai sensi di colpa abbandona ogni velleità di comando e Claudio e Gertrude saranno i nuovi capi obbligati alla «peggiore delle condanne: ovvero vivere comandando» mentre Amleto potrà «buttar via la parte peggiore di sé e vivere più puro con l’altra metà» non vendicando la morte del padre.

 Uno spettacolo intelligente e profondo quello proposto dalla regista Veronica Cruciani in scena al Teatro Argentina dal 30 marzo al 10 aprile 2016 e poi ancora in tournée in Italia.

Un cast convincente guidato dagli eccellenti Massimo Foschi (Re Amleto) e Manuela Mandracchia (Gertrude), in cui molto incisivi risultano anche Michele Sinisi (Claudio), Gianni D’Addario (Polonio) e Matteo Sintucci (Amleto figlio).

Le scelte registiche si rivelano efficaci nel confezionare una pièce equilibrata in ogni suo aspetto, dalle scene ai costumi, alle luci ed alla musica, nella quale spiccano sicuramente la forza e la immediatezza dei messaggi, la contemporaneità dei personaggi, il confronto tra la materialità e la schiavitù del potere e la leggerezza e la purezza del distacco.

 data di pubblicazione: 06/04/2016


Il nostro voto:

AMORE E MORTE NEL GIARDINO DEGLI DEI di Sauro Scavolini, 1972

AMORE E MORTE NEL GIARDINO DEGLI DEI di Sauro Scavolini, 1972

Un professore si trasferisce in una splendida villa isolata nei pressi di Spoleto, all’interno di un grande parco, per poter in tranquillità seguire i suoi studi di ornitologia. Un giorno, durante una sua passeggiata nel bosco, trova per caso dei nastri magnetici ed incuriosito inizia ad ascoltarli. Dalle registrazioni, eseguite durante delle sedute psicoanalitiche, viene a conoscenza della vita turbolenta di una certa Azzurra (Erika Blank) e del suo rapporto incestuoso con il fratello Manfredi (Peter Lee Lawrence) dove chiaramente emerge anche la furiosa gelosia che investe i due protagonisti non appena iniziano dei seri rapporti sentimentali, rispettivamente con Timothy (Rosario Borelli) e con Viola (Orchidea De Santis).
Dopo qualche tempo al professore viene recapitato nella villa, da un misterioso intruso, un altro nastro in cui è inciso il tragico epilogo dell’intera faccenda.
Il film ebbe a suo tempo una scarsa risonanza tra il pubblico e fu decisamente stroncato dalla critica che lo giudicò di poca sostanza in cui la morbosità e la violenza della storia alla fine risultano di scarso effetto e senza alcun substrato psicologico degno di rilievo.
Il film, ambientato nelle campagne umbre, ci suggerisce questa tipica ricetta regionale molto diffusa nel periodo pasquale: torta al formaggio.

INGREDIENTI: 1 kg di farina – 5 uova – 200 grammi di pecorino romano grattugiato – 100 grammi di pecorino toscano a dadini – 100 grammi di gruviera a dadini – 100 grammi di strutto – 100 grammi di lievito di birra – un cucchiaino di sale.
PROCEDIMENTO: Sciogliere lo strutto in un poco di acqua calda ed incominciare a lavorare la farina insieme al lievito di birra. Sbattere le uova insieme al pecorino grattugiato ed aggiungere alla farina in modo da ottenere un impasto di consistenza mediamente fluida. Aggiungere il sale ed i due formaggi a cubetti. Impostare in una teglia molto alta, dopo averla precedentemente imburrata, ed infornare per circa 50 minuti ad una temperatura di 180 gradi. Fare raffreddare e servire come antipasto insieme a degli affettati.

FONTAMARA di Carlo Lizzani, 1980

FONTAMARA di Carlo Lizzani, 1980

Basato sull’omonimo romanzo di Ignazio Silone, il film è ambientato nel paese di Pescina, nella Marsica abruzzese, dove la popolazione, ribelle agli ideali fascisti, è sottoposta a continui soprusi da parte del governo di Mussolini. Il giovane Berardo Viola (Michele Placido), facendo parte attiva della resistenza comunista, viene perseguitato per le sue idee anarchiche ed è costretto a lasciare il paese e a rifugiarsi a Roma dove conoscerà un altro giovane, suo coetaneo della Marsica, anche lui in opposizione al regime.
I fascisti, dopo aver deviato per punizione un fiume provocando gravi danni ai contadini della zona, si vendicheranno ulteriormente perpetuando violenza alla famiglia di Berardo, alla sua compagna e a lui stesso torturandolo a morte. Il film ottenne grandi riconoscimenti da parte della critica e diverse nomination per il David di Donatello, mentre a Ida Di Benedetto fu assegnato il Nastro d’argento come migliore attrice non protagonista. Questo film, i cui dialoghi si svolgono per la maggior parte in dialetto marsicano, ci suggerisce questa ricetta abruzzese molto gustosa e d’effetto: spaghetti con melanzane e pancetta alla marsicana.

INGREDIENTI: 500 grammi di spaghetti – 2 melanzane – 120 grammi di pancetta tritata – 400 grammi di pomidoro pelati – 2 uova – 150 grammi di mozzarella – 2 spicchi d’aglio – 1 peperoncino rosso fresco – sale e pepe q.b..
PROCEDIMENTO: Tagliare le melanzane a cubetti e friggerle in abbondante olio d’oliva. Nello stesso olio della frittura fare rosolare la pancetta e l’aglio tagliato a piccoli pezzetti, aggiungere quindi il pomodoro pelato, il peperoncino fresco triturato, sale e pepe e lasciare cuocere per circa 30 minuti. Bollire le uova sode e tagliarle poi a pezzetti. A parte tagliare a cubetti la mozzarella. Una volta cotti sufficientemente al dente gli spaghetti, farli saltare nella padella con la salsa, aggiungere la mozzarella ed infine sistemare il tutto in un piatto di portata aggiungendo sopra le melanzane e le uova sode a pezzetti. Condire con abbondante pecorino.

IL BAMBINO IN CIMA ALLA MONTAGNA di John Boyne – Rizzoli, 2016

IL BAMBINO IN CIMA ALLA MONTAGNA di John Boyne – Rizzoli, 2016

È stato pubblicato come un romanzo per ragazzi e francamente, dopo aver letto Il bambino con il pigiama a righe e aver poi visto il film diretto da Mark Herman, non potevo non prendere in mano il nuovo libro di John Boyne.

La storia è quella Pierrot, un bambino francese di padre tedesco che, rimasto orfano, lascia Parigi per andare a vivere con la zia paterna in una splendida villa sulle Alpi bavaresi.

Siamo nel 1935 e la casa che accoglierà Pierrot è il Berghof di Adolf Hitler. Contro ogni possibile immaginazione Pierrot risulterà simpatico al Führer che lo prenderà sotto la sua ala protettrice e irretirà il piccolo che rimarrà affascinato dal potere che irradia quell’ometto.

Boyne descrive i rapporti psicologici che si creano tra i vari personaggi e che porteranno allo stravolgimento dei sentimenti e della comprensione del Bene e del Male di un piccolo innocente di 10 anni, sottolineando magistralmente il potere seduttivo che ha avuto l’ideologia nazista.

Il cambiamento di comportamento degli adulti nei confronti di Pierrot, il rispetto che scaturisce dal suo essere protetto di Hitler, deforma la percezione che il bambino ha di sé e delle azioni degli altri, cancellando completamente la sua innocenza e portandolo a commettere azioni ignominiose senza averne la benché minima percezione.

Il romanzo è duro, come non potrebbe essere altrimenti, la scrittura è semplice, visto il pubblico a cui è destinato.

Mi ha emozionata il finale del libro; la presa di coscienza da parte di Pierrot di quello che realmente è accaduto e che lui, affascinato dall’idea della superiorità della Germania nazista, non aveva voluto vedere; solo una volta fuori dal Berghof, a contatto con la “realtà” è riuscito a comprenderne l’orrore e la reale portata, riuscendo infine a capire e a pentirsi della sua trasformazione.

data di pubblicazione: 04/04/2016

 

UN BACIO di Ivan Cotroneo, 2016

UN BACIO di Ivan Cotroneo, 2016

Ivan Cotroneo racconta una storia di amicizia e di disagio attraverso la vita, i gesti e le parole di tre sedicenni, ambientandola in quella provincia dItalia incapace di evolvere verso il nuovo e di integrare, con una scuola che spesso poco insegna e pochi valori trasmette, generando stereotipi e convenzioni a cui ci si lega per non rimanere da soli. Ecco allora che tre adolescenti, già segnati da profonde ferite e dalla complessità dei loro anni, scelgono di comune accordo la via dell’emarginazione per sopravvivere, convinti che la loro amicizia li salverà.

Cotroneo li racconta a modo suo, volando sulle storie di Antonio, Blu e Lorenzo con leggerezza e con ali di colorata fantasia, rimanendo tuttavia radicato nella realtà che vivono questi ragazzi nati nel terzo millennio. Blu, scrittrice in erba schietta e dura, scrive a se stessa proiettata nel futuro “per non dimenticare” il presente, in cui i suoi coetanei la etichettano sui muri di scuola con appellativi squalificanti; Lorenzo si rifugia costantemente in un mondo immaginario, sfoggiando in modo tronfio una forza che non ha, per cercare sicurezza e trovare quell’ammirazione dei suoi coetanei che apparentemente disprezza; l’introverso Antonio sfoga tutte le sue frustrazioni nello sport, unico campo in cui eccelle ed in cui può essere sé stesso, senza l’ombra ingombrante di un fratello maggiore scomparso prematuramente. Può dunque un semplice bacio cambiare le loro vite? Secondo il regista sì, se dietro di esso ci sono i sogni, le speranze, le gioie e i dolori, le relazioni familiari e scolastiche degli adolescenti di oggi che viaggiano in rete, ma che hanno dei genitori ed insegnanti spiazzati dall’amplificazione che queste nuove tecnologie riescono a generare sulle vite dei loro figli, rendendo molto complesso (e non sempre colpevole) il loro ruolo di educatori.

Un bacio è una riflessione sulle fragilità e sulla difficoltà dell’essere adolescenti oggi, sulla solitudine che troppo spesso sconfina nella disperazione e sulla necessità di interrogarsi come, in questa folle corsa del quotidiano, rendere vivi e presenti i valori veri.

Il film usa un linguaggio spiazzante che può risultare inizialmente superficiale, perché pur muovendosi tra violenza, bullismo ed omofobia ci distoglie costantemente da essi nell’intenzione di sorprenderci, proprio come gli adolescenti sanno fare con le loro vite in bilico tra il tutto ed il suo contrario, con quell’impellente e costante bisogno di bruciare le tappe piuttosto che darsi tempo.

Molto curata la colonna sonora ed il cast è di tutto rispetto; a Luca Tomassini sono state affidate le coreografie di spassosissimi intermezzi danzanti, mentre la produzione vede il ritorno della gloriosa Titanus in una singolare fusione con Lucky Red ed Indigo. 

data di pubblicazione:03/04/2016


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L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA di Luigi Pirandello, regia di Alberto di Stasio

YERMA di Federico Garcìa Lorca, adattamento di Roberto Scarpetti e regia di Gianluca Merolli

(Teatro Vascello – Roma, 29 marzo/3 aprile 2016)

Stabat mater dolorosa…, con questo lamento liturgico inizia Yerma, uno dei tre drammi che costituiscono la trilogia lorchiana insieme a La Casa di Bernarda Alba e Bodas de Sangre, tutti incentrati sui temi oscuri della passione e della morte.

Per comprendere meglio lo spirito di questa tragedia che Federico Garcìa Lorca scrisse nel 1934 bisogna entrare, lavorando di immaginazione, in ciò che poteva meglio rappresentare la Spagna in quel periodo cupo immediatamente antecedente alla guerra civile ed alla definitiva affermazione della dittatura franchista. Gli ideali nazionalistici si fondavano essenzialmente sui valori della famiglia e sulla posizione della donna la cui missione primaria era  quella di procreare un numero indeterminato di figli e di rimanere fedele al marito fino alla morte. Yerma è una eccezione: il suo nome significa terra arida, qualcosa di sterile che non produce, che è incapace di generare un figlio, una donna che non potrà mai essere una vera donna, completa come le altre, un essere carico di passione non ricambiata, una ossessione non sedata da alcun momento di vera consolazione, un fuoco che non arde, un’acqua che non disseta, una terra che non dà frutti, un’aria che non crea vita.

Accanto a Yerma troviamo Juan, marito impostole dalla famiglia e che lei non ama pur rimanendole devota, un uomo che le nega la gioia di un figlio, distratto dal suo lavoro nei campi e che presumibilmente sterile fa ricadere sulla moglie la colpa di non potere o sapere generare. Il secondo protagonista maschile è Victor, vecchio amico pieno di desiderio e sensualità la cui presenza accende subito le pulsioni assopite della donna, i suoi istinti sessuali che però dovranno essere repressi per non infrangere gli obblighi di fedeltà coniugale. Invano la donna cercherà con ogni mezzo di rimanere incinta, ricorrendo pure a sortilegi e riti magici, ed alla fine non le rimarrà altro che uccidere il marito autoaccusandosi nelle ultime battute:  Non avvicinatevi, perché ho ucciso mio figlio. Io… l’ho ucciso io! In effetti con la morte del marito lei per sempre si negherà la gioia della maternità, perché lei non si concederà ad altri uomini, rimanendo salda sui suoi ideali di donna sottomessa ed ubbidiente.

L’ambientazione scenica di Alessandro Di Cola ci immerge in una atmosfera sospesa, quasi metafisica in cui i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco si fondono in una massa amniotica rarefatta e dove la sabbia cade dal cielo senza soluzione di continuità, come dentro una eterna clessidra, un ammonimento del tempo che scorre inesorabile per coprire tutto, uomini e cose.

Il regista Gianluca Merolli ha voluto in maniera esplicita, quasi forzata, attualizzare e contestualizzare il dramma di Yerma con le attuali turbolenze legislative italiane in materia di procreazione assistita, ma forse il suo intervento potrebbe risultare troppo ovvio e quasi inopportuno.

Bravi gli attori in scena: Elena Arvigo, Enzo Curcurù, Fabrizio Ferracane, Giulia Maulucci e Maurizio Rippa, quest’ultimo con funzione di basso continuo nell’introduzione lamentosa, come di un coro ad una voce.

Anche se Yerma, che nasce dalla sabbia e prende una forma giunonica in Elena Arvigo, ha un timbro espressivo uniforme e ripetitivo, tuttavia il lavoro risulta nel suo insieme ben strutturato. Buone le luci di Pietro Sperduti e ben curata la musica da Luca Longobardi.

data di pubblicazione:31/03/2016


Il nostro voto: