MISTRESS AMERICA di Noah Baumbach, 2016

MISTRESS AMERICA di Noah Baumbach, 2016

La matricola Tracy (Lola Kirke), approdata alla Grande Mela per studiare al College, non riesce a trovare la sua dimensione, accademica e umana, come aspirante scrittrice in una città e in un ambiente universitario che non sembrano ricambiare le sue aspettative e le sono ostili. Brooke (Greta Gerwig), trentenne tuttologa si occupa di tutto e di niente; è sempre al verde ma progetta, nell’ordine, di aprire un ristorante con all’interno tante altre attività, la propria vita di moglie e madre vestale del focolare (pur essendo single) e fa public relations su Twitter e Instagram.

In questa fase di comune difficoltà e smarrimento Tracy e Brooke si incontrano, complice l’imminente matrimonio tra i loro genitori fissato per il giorno del Ringraziamento. Le due protagoniste, prossime a divenire sorellastre, appartengono a due generazioni diverse, così come diverso è il loro modo di approcciare la vita, progettare e relazionarsi con il prossimo. Eppure, nella frenetica New York che si prepara al Thanksgiving Day, le due aspiranti sorelle entrano fin da subito in sintonia. Una sintonia dettata non dalla convenzione della futura (eventuale) parentela acquisita, ma dalla sensibilità con cui, sotto la maschera delle ragazze/donne determinate e sicure di sé che non si accontentano, si “riconoscono” nella massa avvertendo, inconsciamente, di poter contare l’una sull’altra e si sostengono seppur ciascuna con i propri limiti. 

Mistress America – che poi è anche il titolo del breve racconto scritto da Tracy ispirandosi a Brooke con cui l’“anonima” matricola sarà ammessa al circolo universitario dei letterati delle valigette – è un film divertente, ben articolato, dai dialoghi tanto spassosi quanto veri. Tra le luci colorate delle avenues newyorkesi e le irresistibili musiche elettroniche anni ’80 composte da Dean Wareham e Britta Phillips – quasi cucite addosso al look in perfetto stile “Sophie Marceau” di Tracy – il film pone l’accento sull’incomunicabilità e la competizione tra i giovani e sulla generale sensazione di disagio e inadeguatezza offerta dalla società moderna ai ventenni e ai trentenni che vogliono farcela da soli in America, come in ogni altra parte del globo, con la giusta leggerezza ed ironia. Tra dialoghi pungenti, battute geniali – sono quelli che non hanno niente da fare tutto il giorno che ti dicono di essere sempre impegnati e non avere un minuto di tempo per te – e qualche nota che strizza l’occhio alla lacrimuccia, Mistress America ribadisce un’amara verità: coloro che, come Tracy e Brooke, non si adeguano al “modello” di chi rinuncia a mettersi in gioco e a rischiare – spaventato/a dalla competizione anche all’interno di una relazione di coppia – in favore della tranquillità dell’“accontentarsi”, sono inevitabilmente destinati a rimanere isolati.

data di pubblicazione: 22/04/2016


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NEMICHE PER LA PELLE di Luca Lucini, 2016

NEMICHE PER LA PELLE di Luca Lucini, 2016

Luca Lucini (La donna della mia vita, Solo un padre, Oggi sposi, Amore,bugie & calcetto) confeziona con Nemiche per la pelle una commedia divertente, confermando la tendenza di questo 2016 inaugurato dall’esplosione del “fenomeno Zalone” ed ulteriormente consacrata in questi giorni con l’assegnazione del David di Donatello come migliore film a Perfetti sconosciuti, invertendo l’orientamento che storicamente voleva il genere commedia in perenne posizione secondaria.

Il pregio principale del film di Lucini è soprattutto quello di aver portato alla ribalta una nuova coppia comica, tutta al femminile, che funziona veramente: Buy e Gerini non dimostrano di essere brave perché sarebbe pleonastico dirlo, ma di saper lavorare su piani paralleli prestandosi una a fare da spalla all’altra, cosa poi non così scontata e facile e che solo i veri attori sanno fare, conferendo al film una forza che altrimenti non avrebbe, vista la fragilità dello script. Lucia (Buy) è una sorta di veterinaria che si occupa più dell’aspetto psicologico dei suoi “pazienti”, tutta intenta in sedute psicoanalitiche per cani e gatti, vegana, ansiosa e problematica, con il classico abbigliamento di chi non segue affatto le mode e che non si cura di mortificare la propria femminilità; Fabiola (Gerini) gestisce un’agenzia di compravendita di immobili di lusso, aggressiva nei modi e nell’abbigliamento, aculturata ma intelligente, tutta dedita al lavoro che svolge con instancabile dedizione. Queste due donne, palesemente agli antipodi, saranno costrette a condividere l’educazione del figlio illegittimo del defunto Paolo, ex marito di Lucia ed attuale marito di Fabiola (ma a quanto pare non molto fedele), per seguire la sua volontà testamentaria espressa in un documento gelosamente custodito nelle mani di un fidato avvocato di famiglia (Paolo Calabresi).

Si ride e ci si diverte, i tempi comici ci sono ed il film tutto sommato è gradevole. La cosa più divertente è l’inadeguatezza di queste due donne verso questo bambino, non solo nell’educazione ma nel raffrontarsi con qualsiasi tipo di problematica legata all’infanzia, come se loro non ne avessero mai avuta una di infanzia. Brillante il personaggio dell’avvocato, meno quello del fidanzato della Buy impersonato da un impacciato Giampaolo Morelli, che abbiamo amato di più negli originali panni del cantante neomelodico Lollo Love in Song’e Napule dei Manetti Bros.

data di pubblicazione: 21/04/2016


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BUCHI NELLA SABBIA di Marco Malvaldi – Sellerio, 2015

BUCHI NELLA SABBIA di Marco Malvaldi – Sellerio, 2015

Sono una lettrice di parte. Amo i libri di Malvaldi  e seguo fedelmente e appassionatamente le vicissitudini di quella improbabile combriccola di vecchini toscani che si radunano al BarLume e che, con le loro osservazioni per lo più non richieste, riescono quasi sempre a trovare il bandolo della matassa nell’omicidio del momento.

Al di fuori delle avventure di Pineta avevo già letto Odore di chiuso con Pellegrino Artusi che si destreggia tra ricette e omicidi; questo nuovo libro non fa che confermare la mia stima indefessa per uno scrittore che riesce a incollare i lettori alle sue pagine, che siano esse di una nuova storia con personaggi già noti o di un racconto “a sé stante”.

Buchi nella sabbia si svolge interamente nel Teatro Nuovo di Pisa. Siamo nel 1901, Re Umberto I è stato appena ucciso, il figlio e nuovo Re, Vittorio Emanuele III sta per assistere alla Tosca di Giacomo Puccini; il rischio di attentato è molto alto, così come le misure di sicurezza prese dalla guardia regia. Pisa è terra di anarchici, il momento in cui Tosca assisterà alla fucilazione di Cavaradossi potrebbe essere utilizzato dai sovversivi per una protesta, o peggio, per un atto contro il nuovo re.

Nonostante i controlli, le misure di sicurezza, i carabinieri in sala di fianco agli individui più facinorosi, sul palco avviene un omicidio.

Le indagini vengono affidate al Tenente dei Carabinieri Gianfilippo Pellerey, quintessenza del motto dell’Arma “fedele nei secoli”, di animo cavalleresco e cervello fino e al suo diretto superiore Capitano Ulrico Dalmasso; i due verranno aiutati nelle indagini dalla loro nemesi: Ernesto Ragazzoni, poeta popolare rimatore di alto livello, redattore de La Stampa, personaggio anarchico e antimilitarista.

La descrizione delle indagini, degli interrogatori, delle conclusioni, sono di una maestria senza pari; Malvaldi tira fuori la sua ironia più sottile, dissacrante, comica; con la sua consueta abilità e senza alcuna condiscendenza riesce a farci avanzare nel romanzo con dettagli e particolari che rendono il mondo dell’Opera “noto” a tutti.

I personaggi e il periodo sono dipinti con una fedeltà veramente notevole e la penna di Malvaldi riesce a inserire alcune scene esilaranti anche in una storia criminale qual è quella del libro.

Malvaldi è veramente un maestro dei dialoghi, ricercati e spesso infarciti di lessico dialettale e battute ironiche, e delle situazioni spassose di cui arricchisce i suoi libri.

Anche questo è stato un libro piacevolissimo da leggere così come lo sono sempre stati quelli del BarLume e come, prima di questo, lo è stato Odore di chiuso.

data di pubblicazione: 19/04/2016

VITA AGLI ARRESTI DI AUNG SAN SUU KYI di Marco Martinelli

VITA AGLI ARRESTI DI AUNG SAN SUU KYI di Marco Martinelli

(Teatro Argentina – Roma, 13/17 aprile 2016)

Approda al teatro Argentina dal 13 al 17 aprile nel corso di  una lunga tournèe italiana Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, il bellissimo lavoro del Teatro delle Albe, con la drammaturgia e la regia di Marco Martinelli e l’interpretazione di Ermanna Montanari, dedicato a Aung San Suu Kyi simbolo della resistenza birmana, già premio Nobel per la pace.

Una figura forte e mistica, una donna rivoluzionaria e moderna, così legata alla propria gente da decidere di trascorrere vent’anni agli arresti domiciliari nel suo paese, vittima del regime militare. Una vita dedicata a costruire la pace, rinunciando ai propri figli, all’ultimo saluto all’amato marito, sacrificando la propria esistenza a favore di una rivoluzione spirituale, un impegno quotidiano fatto di meditazione, di lettura, di studio, approcciato con disciplina mentale per non cadere nella depressione, una rivoluzione eroica fatta di gesti e di parole, non cruenta, ma efficace, lenta e solida, vincente.

Una foto con il suo volto accattivante e mistico, una strana somiglianza con Ermanna Montanari, una distanza e nello stesso tempo una vicinanza emotiva con la Birmania, portano Marco Martinelli e la stessa Ermanna all’ennesima sfida: portare sul palcoscenico l’essenza di questa donna, declinandola secondo le modalità e le sfumature proprie del Teatro delle Albe.

Una sfida difficile, dedicata ad un’eroina di cui si è detto e scritto tutto. Un ritratto intimo, fatto di quotidianità, associato ad una ricostruzione puntuale documentaristica della storia, fatta a sua volta di immagini di repertorio, di interviste, discorsi. Una scenografia fatta di essenzialità e simboli associata ad un telegrafico percorso di didascalie luminose che scorrono sullo sfondo e che scandiscono le tappe del percorso di questa donna, regalando concretezza e spiritualità nello stesso tempo.

Un doppio binario di rappresentazione sostenuto dalla straordinaria capacità narrativa della protagonista, veramente unica nel modulare e trasmettere emozioni ed immagini, associata alla forte gestualità ritmica del coro, alle immagini fotografiche dei personaggi reali, ai suoni mistici e densi, che catturano e trasportano in un contesto molto più vicino ed universale.

data di pubblicazione:17/04/2016


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SENZA LASCIARE TRACCIA di Gianclaudio Cappai, 2016

SENZA LASCIARE TRACCIA di Gianclaudio Cappai, 2016

Senza lasciare traccia, primo lungometraggio di Gianclaudio Cappai, presentato in anteprima all’ultima edizione del Bari International Film Festival, solleva con orgoglio il vessillo del cinema indipendente che, nonostante tutto, riesce ad approdare in sala.

Bruno (Michele Riondino) ed Elena (Valentina Cervi). Una coppia come tante: una casa, due cani, i problemi di lavoro, i problemi di salute. Bruno è malato: nel suo corpo alberga “un intruso” invadente e rumoroso, che non concede tregua né alla sue membra né alla sua anima.

Elena deve partire per restaurare un vecchio dipinto e quando Bruno viene a sapere che la meta è lo stesso posto dove lui ha vissuto da bambino decide di accompagnarla.

Mentre Elena leva via con delicatezza la patina del tempo dalle figure così cupe e sofferenti che rappresentano il mito di Deucalione e Pirra, Bruno prova a restaurare la sua vita, irrompendo fragorosamente in una tenuta che ospita un padre (Vitaliano Trevisan) e sua figlia (Elena Radonicich) alle prese con problemi finanziari, stanchi guardiani di una fornace ormai dismessa.

La storia, inizialmente frammentata, si ricompone gradualmente davanti agli occhi dello spettatore. La fornace, enfatizzata visivamente dalla fotografia satura, diviene il luogo metaforico dell’Infermo e del peccato, ma anche del fuoco in grado di distruggere e purificare il senso di una colpa più soffocante dei fumi del carbone.

Il viaggio verso il passato è l’unica via che si apre a Bruno per proiettare finalmente la sua vita verso il futuro. Azzerare tutto, senza lasciare traccia, si mostra al protagonista come l’unica possibilità di rinascita e (quindi) di salvezza: proprio come il diluvio universale con il quale Zeus distrugge il genere umano, mettendo in salvo solo Deucalione e Pirra e affidando loro il compito di “ripartire da zero”. La vendetta di Bruno non ha mai la pretesa di ergersi a giustizia, ma il solo obiettivo di curare una sofferenza male che nessuna medicina è in grado di alleviare. Difficile dire se la terapia sarà davvero efficace o si rivelerà solo un blando ed effimero palliativo.

Il film di Cappai sconta forse un avvio eccessivamente macchinoso, recuperando invece nella seconda parte il pathos, soprattutto interiore, che individua l’autentica cifra narrativa della storia. La valenza simbolica della malattia di Bruno e del suo viaggio risulta a tratti eccessivamente esibita, perdendo nel finale l’occasione del guizzo capace di andare la metafora.

Senza lasciare traccia resta però un esordio convincente, sostenuto da un cast artistico e tecnico che non delude le aspettative.

data di pubblicazione: 15/04/2016


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LEI È RICCA, LA SPOSO E L’AMMAZZO di Mario Scaletta, regia di Patrick Rossi Gastaldi

LEI È RICCA, LA SPOSO E L’AMMAZZO di Mario Scaletta, regia di Patrick Rossi Gastaldi

(Teatro Quirino – Roma, 12/24 aprile 2016)

Orazio (Gianfranco Jannuzzo) vive attingendo al ricco patrimonio di famiglia, ma le rendite di cui dispone non riescono più a sostenere il ritmo delle sue pretese. Il prestito di centomila euro che ottiene dal mafioso Lucky Bonanno (Cosimo Coltraro) è solo un provvisorio palliativo. L’unica soluzione, come suggerito dalla fedele governante Nunziatina (Antonella Piccolo), è quella di sposare in fretta una donna molto ricca: Orazio dovrà rinunciare alla sua libertà di convinto scapolo, ma potrà arginare la piena dei suoi sempre più numerosi creditori.

La sposa-vittima designata è Albertina (Debora Caprioglio), presentata a Orazio dalla comune amica Floriana (Claudia Bazzano). Albertina è un’entomologa ingenua e goffa, più a suo agio con gli insetti che con gli esseri umani, che dispone però di un patrimonio capace di restituire a Orazio l’agio perduto. Il matrimonio, del resto, potrebbe durare molto poco: basta un grammo di veleno per diventare un vedovo e ricco erede.

La storia, liberamente tratta dal film È ricca, la sposo e l’ammazzo (1971) di Elaine May, protagonista insieme a Walter Matthau, valorizza più la componente comica che quella romantica, senza indulgere al sentimentalismo proprio del genere. Le battute incalzanti, anche se non sempre travolgenti, possono contare sulla convincente maestria dei due attori protagonisti Gianfranco Jannuzzo e Debora Caprioglio: cinico lui, indifesa lei, ma entrambi accomunati da un’inesperienza nei confronti della vita che li rende più simili di quanto possa sembrare. La “morale della favola” è intuitiva: gli opposti possono non attrarsi immediatamente, ma finiscono per scoprirsi inevitabilmente complementari.

I cambi di scena sono essenziali e frequenti, sostenendo con apprezzabile solidità il ritmo narrativo. Meno convincenti le “inserzioni video” cui il regista ricorre per sottolineare alcuni snodi del racconto (a partire dal matrimonio), ma che non sempre si inseriscono in maniera armonica nel contesto scenico.

Frase cult: le battute sono il sale della vita, sempre che non si abbia la pressione alta.

data di pubblicazione: 15/04/2016


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ABBIAMO VISTO Fa’ afafine …

ABBIAMO VISTO Fa’ afafine …

Nella lingua di Samoa esiste una parola, fa’ afafine, che definisce quei bambini e adulti poi, che non amano identificarsi in un sesso o nell’altro, una sorta di terzo sesso a cui la società samoana non impone una scelta. E Samoa è l’isola in cui Alex, il protagonista dello spettacolo teatrale Fa’ Afafine, mi chiamo Alex e sono un dinosauro, vuole andare a vivere insieme a Elliot il compagno di scuola di cui si è innamorato. Giuliano Scarpinato, palermitano, vincitore del Premio Scenario Infanzia 2014, non si è lasciato intimorire né dalle polemiche, né dalla censura che la sua città ha rivolto allo spettacolo, seppur prodotto dal Teatro Biondo, e ha continuato a spiegare a chi voleva incastrarlo in una categoria, che in realtà la “visione è più ampia: s’interroga sulla specificità di ciascuno di noi, oltre le categorie e gli stereotipi.”

Alex è uno di quei bambini che in America stanno tenendo sulle spine psicologi e sociologi, perché non riescono a scegliere un genere a cui appartenere e fanno la spola tra l’essere maschio e vestirsi come tale, e l’essere femmina e indossare un bel vestito azzurro da principessa come fa Alex sul palco.

È mattina e fuori dalla porta della camera di Alex i genitori, come in ogni casa del mondo, non fanno che incalzarlo: è tardi bisogna prepararsi e uscire di corsa per andare a scuola e loro al lavoro, ma Alex non riesce a decidere tra il decolté rosso di mamma con tacco e gli scarpini da calcio e a poco a poco dalla fessura della porta racconterà tutto ai due nervosi genitori. Lui vuole andarsene con Elliot a Samoa e non dover più decidere cosa è meglio essere. La stanza diventa una navicella spaziale per il viaggio, e le pareti mare, ricche di pesci colorati. Lui viaggia felice con i suoi amici inseparabili: una indossatrice nuda che ha abbandonato la carriera (una barbie), un maialino e un cane di gomma e quella stanza non ha più confini, è tutto il mondo, perfino la luna e il sole possono starci allo stesso tempo.

Nella bella regia di Scarpinato che interpreta il padre di Alex, (la madre è Gioia Salvatori) i genitori sono solo in video, visti attraverso la toppa della porta. I visi deformati quando gridano ad Alex di sbrigarsi o rifiutano la sua limpida indecisione, poi sorridenti quando finalmente trovano la chiave per comunicare con lui. Si travestiranno anche loro, invertendo i ruoli e coinvolgendo Alex in una coreografia divertente che li porterà a scuola insieme a dimostrare a tutti che nella loro famiglia non è poi così importante come ci si veste. I bambini in sala (lo abbiamo visto all’India a Roma) si sono molto divertiti, ma anche noi adulti perché è bello ricordare come eravamo quando acquattati nelle nostre stanze-fortezze cercavamo di essere qualcosa e qualcuno, al margine dell’educazione che genitori più o meno severi cercavano di imporre. Vederli e sentirli all’altro lato della porta, è una bella intuizione scenica che restituisce ai piccoli e ai più grandi, il senso della cesura generazionale e il divario che c’è, tra lasciare che l’altro sia come è e come vuole essere, o imporgli dei modelli che non riesce e non vuole assimilare. Questo spettacolo è la prova che il teatro cosiddetto “per ragazzi” è spesso un mondo teatrale poco esplorato al di là degli stereotipi, spesso zuccherosissimi, che non riescono a proporsi come esperienza estetica oltre che educativa per chi vi partecipa. Fa’ afafine invece vince la scommessa proponendo una regia raffinata e vicina alla sensibilità delle nuove generazioni, facendo del video una parte irrinunciabile e integrata della narrazione scenica

data di pubblicazione:14/04/2016

MISTER CHOCOLAT di Roschdy Zem, 2016

MISTER CHOCOLAT di Roschdy Zem, 2016

Non convince la storia di Mister Chocolat, il primo artista circense nero che conobbe fama e danaro tra la fine dell’800 ed inizi 900 in Francia, in un periodo inevitabilmente carico di pregiudizi e discriminazioni. Rafael Padilla, in arte Chocolat per il colore della sua pelle, dopo aver fatto i mestieri più disparati, riesce in maniera fortuita a lavorare clandestinamente in un piccolo circo di provincia alle dipendenze del Signor Delvaux. Inizialmente si esibisce impersonando lo stereotipo del selvaggio che viene dal continente africano, seminudo con tanto di pelle maculata addosso, emettendo incomprensibili versi gutturali con il precipuo compito di terrorizzare donne e bambini presenti tra il pubblico, facendosi accompagnare in scena da una scimmia. Finché un giorno il clown Footit, un vero professionista che tuttavia non riusciva più ad accontentare il suo pubblico, nota Rafael e ravvisa in lui un potenziale comico oltre a notevoli doti di cascatore. L’inusuale duo comico Footit-Chocolat ottiene da subito un notevole successo e ben presto, notati da un impresario parigino, lasceranno il circo Delvaux alla volta di Parigi. Fama, danaro, donne e gioco d’azzardo saranno la “droga” con cui Mister Chocolat si stordirà nella Parigi della Bella Epoque, sino ad arrivare a nutrire ambizioni teatrali.

Omar Sy, nel ruolo di Rafael Padilla, non riesce ad eguagliare le precedenti interpretazioni: la disinvoltura a volte esagerata con cui si muove nei panni di Rafael Padilla in un ambiente di bianchi alquanto chiuso, colonialista ed inevitabilmente razzista, conferisce al suo personaggio scarsa credibilità, non riuscendo a farci dimenticare la carica di umanità di Driss in Quasi amici, né la profonda intensità di Samba nel film omonimo, accanto alla sempre brava Charlotte Gainsbourg.  

In Mister Chocolat è sicuramente da apprezzare la ricostruzione scenografica dell’epoca, come molto belli sono i costumi, ma la storia, seppur attinga dal vero, non emoziona né commuove, e nel complesso la pellicola non ha quello spessore che la bizzarra vicenda di quest’uomo realmente esistito avrebbe fatto sperare.

data di pubblicazione:13/04/2016


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ADESSO di Chiara Gamberale – Feltrinelli, 2016

ADESSO di Chiara Gamberale – Feltrinelli, 2016

Dopo essere stata piacevolmente intrattenuta dalla lettura di Avrò cura di te, è stato naturale prendere in mano il nuovo libro della Gamberale, Adesso. Purtroppo l’impressione che ne ho avuto non è assolutamente la medesima del precedente.

L’“Adesso” di cui ci parla l’autrice è il momento in cui, per ognuno di noi, nulla sarà più come prima, è il momento in cui ci si innamora e tutto cambia.

La storia è quella di Lidia, separata senza figli, con una carriera di conduttrice televisiva ben avviata, e di Pietro, separato, con una bambina per la quale sta combattendo una battaglia legale per l’affidamento con la ex moglie in odore di convento.

Sono accomunati dalla paura di sbagliare nuovamente, di confessare l’uno a all’altra di essere stati travolti nuovamente dall’amore, dalla paura di obbligare in qualche modo l’altro a costruire qualcosa contro la propria volontà.

La storia va avanti così tra continue riflessioni su cosa è stato, cosa sarebbe potuto essere, cosa sarebbe dovuto essere… in modo devo dire, piuttosto scontato e banale.

Attori del libro sono anche gli amici di Lidia, quelli “dell’Arca senza Noè”, con il comune denominatore del fallimento in amore.

Fin qui l’idea mi sembrava ottima. Poi, tuttavia, si entra troppo nell’introspezione che a tratti è forse esageratamente forzata.

L’apoteosi si ha nel finale, quando ormai Lidia e Pietro, dopo un tentativo di vita in comune si sono separati, e gli amici dell’Arca senza Noè si trovano tutti in vacanza insieme su un’isola greca… Le riflessioni che si alternano, i consigli che si danno l’un l’altro sono la sublimazione di ciò che è accaduto fino ad allora… una riunione di psicoterapia espressiva in piena regola.

Innegabilmente la terapia funziona, grazie ai feedback che si danno tra di loro, tutti gli amici dell’Arca riescono a prendere consapevolezza dei propri errori, delle dinamiche contorte che hanno influenzato i loro comportamenti e, con la velocità del fulmine, riescono a comprendere cosa devono cambiare per creare un rapporto duraturo e felice con il proprio partner… a questo punto ci starebbe benissimo un “…e quello per questo è un sogno” delle due mitiche sorelle che giocano al lotto in Così parlò Bellavista.

Dopo questa vacanza catartica c’è una prolessi, in cui siamo liberi di immaginare tutto quello che vogliamo, e il romanzo si conclude alla Vigilia di Natale con gli amici dell’Arca senza Noè e l’ex marito di Lidia che stanno andando a darle supporto per il primo incontro con “Colibrì”,  la figlia di Pietro.

La musica sfuma…

data di pubblicazione: 12/04/2016

GLI INNAMORATI di Carlo Goldoni, regia Andrée Ruth Shammah

GLI INNAMORATI di Carlo Goldoni, regia Andrée Ruth Shammah

(Teatro Vascello – Roma, 7/17 Aprile 2016)

Eugenia e Fulgenzio. Due pianeti diversi. Lui sanguigno e iracondo, rappresentante della ricca classe borghese. Lei passionale e volubile, appartenente alla nobiltà decaduta. Per via dei loro caratteri si ritrovano il più delle volte su posizioni divergenti e le loro superfici si scontrano provocando faville; ma quando si allineano, le scintille si tramutano in fuochi d’artificio e il magnetismo del loro amore dà vita a uno spettacolo meraviglioso. Su di loro, come dirà Flaminia (sorella di Eugenia), si potrebbe scrivere la commedia più bella del mondo.

Lo spettacolo è incentrato sulla relazione tormentata dei due giovani. Ostacolo alla loro felicità è l’orgoglio e la gelosia che l’uno prova nei confronti dell’altro. Eugenia, da un lato, pensa che Fulgenzio sia troppo servile con la cognata (affidatagli dal fratello mentre questi è altrove per affari); l’aitante giovane, dall’altro lato, è infastidito dalle attenzioni che il conte Roberto d’Otricoli — presentato a Eugenia dallo zio Fabrizio — riserva alla fanciulla. I due amanti, per gran parte dell’opera, si perdono in quisquilie e qui pro quo, ma infine,esausti dopo tutte le schermaglie, si lasciano andare e si riconciliano (“all’amore bisognerebbe abbandonarsi, ma è più facile a dirsi che a farsi!”).

Le prove attoriali sono energiche ed emozionanti: Marina Rocco danza delicatamente sul filo dell’equilibrio instabile della fragile Eugenia; Matteo De Blasio è elegante nella sua interpretazione di Fulgenzio; Roberto Laureri ed Elena Lietti sono estremamente abili nel cambiare in corso d’opera ruolo (il primo veste sia i panni di Tognino, servitore di Fulgenzio, sia delconte Roberto d’Otricoli; la seconda recita come Lisetta, cameriera in casa di Fabrizio, e come Clorinda,cognata di Fulgenzio); sembra cucita su misura la parte dello zio Fabrizioper Marco Balbi, che trasmette costantemente gioia durante la recitazione; Alberto Mancioppi interpreta con invidiabile aplomb la parte di Ridolfo, avvocato legato alla figura di Fabrizio, e di Goldoni; Silvia Giulia Mendola è impeccabile nel ruolo della saggia sorella Flaminia; Andrea Soffiantini, infine,è incredibilmente ilare nella parte del flemmatico “Succianespole”, vecchio servitore di Fabrizio.

Le scene e costumi sono scelti con cura da Gian Maurizio Fercioni, attento a ogni dettaglio: i personaggi, infatti, indossano paia di scarpe diverse, che simboleggiano le differenti personalità (divertente la scelta di un paio di geta — tipici sandali giapponesi — per lo stravagante zio Fabrizio).

La reinterpretazione in chiave moderna di Andrée Ruth Shammah del testo goldoniano è convincente e coinvolgente. L’opera del maestro veneto si dimostra adatta a tutte le stagioni, ma la regista milanese riesce a svilupparla in modo atipico, rendendola ancor più amena e spogliandola di tutti i manierismi che appesantiscono la narrazione, permettendo una commedia leggera, che vola via velocemente — come il tempo durante lo spettacolo. Leggiadria conferita anche dalla finzione dichiarata: gli attori interagiscono a più riprese con il pubblico, come se si stesse assistendo alle prove della messinscena. Spettatori che, alla fine della commedia, esplodono in una salva di applausi e complimenti: i veri innamorati sono loro.

data di pubblicazione: 11/04/2016


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