LES SOUVENIRS di Jean Paul Rouve, 2016

LES SOUVENIRS di Jean Paul Rouve, 2016

Jean Paul Rouve dirige una commedia lieve, graziosa, delicata, attraversata dal sottile filo della vita che scorre. Madeleine (Annie Cordi) una donna anziana rimasta sola dopo la morte del marito, viene portata dai suoi tre figli maschi in una casa di riposo contro il suo volere. L’unico che sembra capirla è suo nipote Romain (Mathieu Spinosi), figlio del suo primogenito Michel (Michel Blanc), con il quale l’anziana signora ha un’intesa particolare; anche sua nuora Nathalie (Chantal Lauby) sembra avere con lei maggiori affinità di Michel, uomo e marito noioso e prevedibile, privo di interessi e di cose da fare da quando è andato in pensione. Sarà proprio il carattere combattivo di Madeleine che riporterà un po’ di sale nelle loro vite, non appena la donna deciderà di scappare dalla casa di riposo facendo perdere le sue tracce e gettando i suoi figli nello sconforto totale. Ma Romain, con i suoi 23 anni ed il suo sogno di diventare uno scrittore, riuscirà grazie a quello speciale legame che li unisce, a mettersi sulle sue tracce, in un viaggio che gli farà comprendere il significato vero dei ricordi e quanto essi possano essere un balsamo rigenerante per rinvigorire il presente. Les souvenirs, appunto, parla di questo: di come non bisogna dimenticare ciò che si è stati, sforzandosi di apprezzare ogni stagione dell’esistenza per dare un significato a ciò che stiamo vivendo. La melanconia leggera ed il sorriso albergano in questo gioiellino francese, dall’andamento circolare che si apre e si chiude con la medesima scena e che ci fa assaporare il dolce scorrere della vita, in cui l’evento della morte le si contrappone, ma tuttavia ad essa si lega naturalmente. Bravissimi gli attori, meravigliosa l’intesa nonna-nipote che ci fa respirare l’importanza profonda di simili legami intergenerazionali. Michel Blanc conferma la sua già nota bravura e la frase con la quale conquista la sua Nathalie è un autentico capolavoro: signorina, lei è così bella che non voglio rivederla mai più! Il film invece è decisamente da vedere.

data di pubblicazione:1 maggio 2016


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ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

(Teatro Eliseo – Roma, 26 Aprile/15 Maggio 2016)

Meglio liberi di scegliere la malvagità o costretti a condurre una vita integerrima?

È questo l’interrogativo che attanaglia Alex DeLarge, l’arcinoto leader dei Drughi (banda di teppisti dediti all’ultra-violenza). Di fronte alla scelta tra sperimentare una cura rieducativa o scontare 14 anni di prigione per essersi macchiato di omicidio, opterà per la prima che, in realtà, si rivelerà essere una forma di punizione alternativa con le sembianze del contrappasso: obtorto collo dovrà guardare immagini violente fino a che non gli susciteranno il disgusto; persino la musica di Beethoven, da lui amata, per riflesso pavloviano gli provocherà dei dolori lancinanti che lo dissuaderanno dal compiere le azioni più efferate.

L’adattamento teatrale del romanzo scritto dallo stesso Anthony Burgess è tuttora di stringente attualità: sia per la recente recrudescenza degli episodi di bullismo — ne è la dimostrazione il “knockout game” (aggressioni improvvise da parte di adolescenti a ignari passanti) — sia per il tema di sovraffollamento carceri e le costanti questioni relative alla funzione della pena — da un punto di vista morfologico e preventivo.

Nello spettacolo messo in scena da Gabriele Russo ogni ingranaggio si muove alla perfezione: scenografia, luci, costumi, attori e musiche s’intersecano dando la possibilità agli spettatori di godere una succulenta arancia meccanica.

A differenza delle polemiche suscitate oltremanica dal realismo esasperato — portato in scena al Royal Opera House da Katie Mitchell (che ha causato persino svenimenti tra il pubblico) — in questo caso le scene di sesso e violenza sono rese efficacemente attraverso il ricorso a suoni, movimenti a rallentatore e alla mimica facciale. Sotto questo punto di vista, esaltante è la scena in cui Alex afferma la sua leadership nei confronti dei compagni: si dimena e scuote il suo corpo al ritmo della musica classica che risuona nella sua mente e, sullo sfondo, Dim e Georgie si contorcono dal dolore per i colpi (virtuali) ricevuti: come se un direttore d’orchestra iniziasse a trafiggere con la sua bacchetta delle bambole voodoo. Non è peraltro l’unica scena significativa, lo scenografo Roberto Crea riesce a stupire in quasi tutte le situazioni e, in particolare, nell’ambientazione della scena in cui i Drughi fanno irruzione nella casa dello scrittore abusando della moglie. Per ricreare questa situazione, lo sceneggiatore campano offre allo spettatore una visuale dall’alto della casa, attraverso un tetto trasparente che permette di vedere ciò che sta accadendo nelle quattro mura; e, mentre la violenza si compie al rallentatore, la casa si muove lentamente verso la platea, e le luci all’interno della stessa cambiano passando da un candido bianco a un rosso sangue: un effetto stupefacente, come quello provocato dalle droghe utilizzate dai protagonisti.

A rendere l’atmosfera dell’opera ancor più sconvolgente è il sapiente utilizzo delle luci da parte di Salvatore Palladino: l’illuminazione stroboscopica e psichedelica esalta lo stato d’animo intermittente e cangiante dei tre dissoluti ragazzi. Tra i diversi tipi di luce adoperati, degno di nota è il ricorso a un fascio di luci rotanti, ottenuto sfruttando il riflesso di una barra luminosa orizzontale sospesa sul palco, che rende adeguatamente l’algida atmosfera del penitenziario in cui è rinchiuso Alex.

Se nei diversi ambienti in cui si svolge lo spettacolo prevale la luce fredda, domina invece il giallo per i costumi curati da Chiara Aversano. Il giallo è il colore che contraddistingue tutti i personaggi: è presente nelle scarpe dei Drughi (a suggellare il loro temperamento bilioso), ma è anche il vestito della Ministra e la maglietta dello psichiatra hanno la stessa tonalità — quasi a voler dimostrare che l’indole malvagia è insita in ognuno di noi. Per dare un taglio più moderno all’opera, inoltre, la costumista romana veste Alex e i suoi compagni con degli eleganti smoking, abbinando ai completi delle pellicce per rivelare i loro istinti animali.

Trascinante e sconvolgente (verrebbe da scrivere animalesca) è l’interpretazione di Alex da parte di Daniele Russo, coadiuvato dalle performance di Sebastiano Gavasso (Dim) e Alessio Piazza (Georgie), abili nel supportare il carismatico attore napoletano in un ruolo intenso e provante; non da meno le prove attoriali degli altri elementi del cast messo a punto dalla Fondazione Teatro di Napoli.

Non può mancare un riferimento alla colonna portante del film, che non a caso è quella sonora. Il ritornello incalzante “che succederà” della suite di Morgan accompagna la rappresentazione e contribuisce ad acuire lo stato di trepidazione dello spettatore rispetto agli eventi. Con il proseguire della messinscena, il mélange di suoni elettronici con quelli del pianoforte sbiadisce i confini tra musica classica e contemporanea, rendendoli sempre più labili come quelli di un insieme frattale. Allo stesso modo il confine tra malvagio e benevolo finisce per svanire: Alex da carnefice viene dalla stessa società strumentalizzato per soddisfare i biechi scopi politici. E allora emergono con ancor più vigore le parole di Fëdor Dostoevskij riguardo alla dicotomia tra bene e male:

“Non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo”

data di pubblicazione: 28/04/2016


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ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

MINOTAURO – EL ALMA GRITA, regia e coreografia di Dario Carbonelli

(Teatro Vascello – Roma, 25 aprile)

Accompagnato da uno struggente lamento il Minotauro si trascina in catene per consumare in solitudine la sua condanna nel labirinto, un luogo pensato tutto per lui dove si entra per non uscire.

Con questo incipit Dario Carbonelli avvia uno spettacolo di danza dove il flamenco rappresenta al meglio l’idea del ritmo martellante di un’anima che grida dolore: i movimenti, fuori dalle comuni regole coreografiche, rimangono circoscritti in un antro buio, uno spazio solo per il sé e per la propria immagine riflessa.

Una voce narrante ci guida passo passo nel turbinio del dramma mitologico che da sempre ci appassiona e atterrisce nello stesso tempo: il Minotauro ha due facce, come la nostra natura umana, di cui una nascosta e mostruosa, impresentabile in società. Ma proprio questo lato oscuro di noi è quello che nella sostanza ci affascina perché ci attira morbosamente verso il proibito, verso il diverso.

Ecco allora che il flamenco risulta funzionale alla storia perché non rappresenta solo uno stile di ballo, attorno al quale ruota la musica e la poesia, ma diventa una vera e propria filosofia di vita, un’espressione di pura passione.

Mentre all’inizio il Minotauro danza solo per la propria morte, successivamente, dopo l’incontro con la fanciulla destinata ad essere a lui sacrificata, la cadenza assordante dei suoi passi diventa lentamente un inno all’amore.

Tutto però ci riporta ben presto alla caducità della vita ed il filo di Arianna non introduce solo Teseo all’interno del labirinto, ma con sé porta la disperazione e la morte, la punizione e la condanna, il disorientamento e la presa di coscienza finale.

Dario Carbonelli, oramai da anni, orienta la propria attività di ballerino e coreografo esclusivamente verso il flamenco e nel 2015 ha creato un’associazione che promuove corsi e spettacoli per la diffusione in Italia  di questa peculiare forma di danza.

Alla chitarra classica i musicisti Marco Perona, Francesco De Vita e Riccardo Rubi Garcia che insieme alle percussioni di Paolo Monaldi ed al sax di Fabio Cimatti hanno formato un ensemble di grande effetto interpretando perfettamente le musiche di Marco Perona che non solo accompagnano il ballo dello stesso Carbonelli, ma anche predispongono la base sonora per le canzoni eseguite da David Palomar, Josè Salguero e Vicente Gelo, sincronizzando il tutto con il ritmo incalzante proprio del flamenco. Riccardo Polizzy Carbonelli ci ha guidato con la sua intensa recitazione in questo percorso di vita, amore e morte che però si può anche rivedere all’inverso, dal momento che il Minotauro passa, attraverso l’amore, dalla morte alla vita. Apparentemente fuori contesto il brano composto e cantato da Carlo Putelli che, con il suo particolare timbro vocale, riesce invece a creare quel giusto contrappunto alle musiche che hanno accompagnato lo spettacolo.

Molta partecipazione da parte del pubblico che si è lasciato trascinare dal vortice frenetico del ritmo andaluso in una atmosfera carica di emozione e tormento, tipica del mondo gitano.

data di pubblicazione: 27/04/2016


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PURITY di Jonathan Franzen – Einaudi, 2016

PURITY di Jonathan Franzen – Einaudi, 2016

Purity, Pip per gli amici, è una ragazza della California settentrionale la cui madre è fuggita, prima che lei nascesse, cambiando nome e cancellando ogni traccia del suo passato e che non le ha mai voluto rivelarle l’identità di suo padre. La vita di Pip non è facile; è povera e ha un grosso debito universitario da dover ripagare, vive in una casa occupata a Oakland e lavora ad un call center senza grandi speranze per il futuro.

Una sua coinquilina le procurerà l’occasione di trasferirsi in Bolivia ed entrare a far parte dell’organizzazione Sunlight Project di Andreas Wolf, una opportunità che Pip vuole sfruttare per riuscire a scoprire qualche cosa sul suo passato attraverso le tecnologie degli hacker dell’antagonista di Julian Assange. Il fascino di Wolf non lascerà indenne Pip alla quale il leader del Sunlight Project svelerà un segreto sconvolgente che la porterà fino a Denver alle dipendenze di Tom Aberant all’Indipendent.

Franzen articola il suo quinto romanzo in un gioco narrativo diviso in 4 parti e che ci porterà a conoscere ogni attore al quale dedica un “capitolo” che è un vero e proprio romanzo a se stante.

Di ognuno di questi attori, uniti dal desiderio di “purificare” il mondo, mondandolo dalle storture di cui è vittima, conosceremo i più reconditi segreti mostrandoli per quello che sono: esseri umani che sbagliano, loro per primi, attanagliati da sensi di colpa e ansia da prestazione, che spargono dolore senza rendersene conto, desiderosi di poter controllare, con la “loro verità”, le vite degli altri.

Il principale attore del romanzo non può che essere colei che dà il titolo al libro, Purity: nevrotica ragazza del nord della California, con i suoi problemi, le sue speranze, le sue difficoltà, il rapporto angosciante con la madre, mielosa e opprimente, che non vuole assolutamente rivelarle quale siano le sue origini.

Passeremo poi alle vite di Leila Helou, giornalista dell’Indipendent e compagna di Tom Aberant, musa di Pip e sua ignara complice nel piano che lei sta portando avanti per il fondatore del Sunlight Project, Andreas Wolf, del quale conosceremo ogni piccolo particolare della sua vita di geniale figlio di un alto funzionario della Stasi in una Berlino Est che sta sgretolandosi e Tom Aberant, l’unico che narrerà in prima persona la propria storia.

Anche questo libro, come già accaduto per Le correzioni e per Libertà, mi ha lasciata in apnea fino alla fine. Perché è questa la scrittura di Franzen, la cura nella descrizione dell’interiorità di ogni personaggio che ti lega al libro, alla storia, al desiderio di sapere cosa farà dopo, la sua maestria nel calarsi in ognuno dei personaggi, nel far loro raccontare di sé.

data di pubblicazione:25/04/2016

LE CONFESSIONI di Roberto Andò, 2016

LE CONFESSIONI di Roberto Andò, 2016

Cosa accade quando durante il G8 i Ministri dell’Economia delle nazioni più potenti del mondo si riuniscono al cospetto del direttore del Fondo Monetario Internazionale per adottare una delibera che potrebbe sconvolgere la vita di milioni di famiglie e persone per interminabili decenni? Una risposta prova a darla Roberto Andò attraverso una visione intimista, decisamente algida e patinata, del consesso calcolatore e glaciale di Economi, che lascia sullo sfondo i numeri e i tecnicismi propri della finanza internazionale.

Il direttore del FMI, Daniel Rochè (Daniel Auteuil) convoca nel lussuoso hotel di Heilingendamm – in Germania – anche tre personaggi estranei alla sfera politica e al mondo della finanza: Claire Seth (Connie Nielsen) una scrittrice di bestsellers per bambini, la rock star Michael Wintzl (Johan Heldenbergh) e Roberto Salus un monaco certosino italiano (Toni Servillo). I tre “forestieri” dovrebbero conferire al G8 quella sensibilità, quella umanità in grado di rendere i “distanti” Ministri, adagiati nel loro Olimpo, più vicini ai diffidenti “occhi” dei vari substrati della società contemporanea e alle problematiche “terrene”. Fin da subito, però, si intuisce che il monaco enigmatico e sibillino, Roberto Salus, sarà l’elemento disturbante della rigida perfezione che permea il sofisticato albergo e il programma del G8. Il monaco certosino votato al silenzio è stato infatti invitato dal direttore Rochè per un’urgenza personale ben precisa: confessarsi con il monaco perché non è abituato a perdere tempo e guarda sempre al futuro per anticipare il tempi.

Subito dopo la confessione l’inaspettata morte del direttore del FMI innesca la silenziosa “scalata” del monaco al tavolo del G8 ma, soprattutto, al cuore e alle coscienze dei Ministri che si sono piegati all’approvazione unanime della delibera del G8. Riuscirà Salus a rendere davvero collegiale e condivisa la manovra finanziaria scuotendo e mutando i programmi del tavolo di élite in cui spaesato – ma contenutisticamente non del tutto “estraneo” – si è suo malgrado seduto? Il Certosino, nella sua soffice, e “pesante”, candida veste si muove tra i corridoi, le sale, i giardini del grand hotel, ascolta i Ministri indispettiti forte di un libro che stringe sotto il braccio: la favola The wise child della scrittrice Claire, come lui impegnata ad osservare i ministri e le loro dinamiche più intime cogliendone le frastagliate fragilità. Roberto Salus si confronta, scontra con i potenti del mondo economico internazionale, e raccoglie anche la segreta confessione del Ministro italiano (Pierfrancesco Favino, già noto ai panni del Ministro debole e corrotto di Suburra), sbattendogli in faccia la copertina di una favola – The wise child appunto – che forse, come quelle di Esopo e Fedro, potrebbe aiutarli a ritrovare le proprie radici, l’onestà e il coraggio perduti.

Con questo film Roberto Andò e il suo “mattatore” prediletto, Toni Servillo, abbandonano i toni ironici e dinamici che avevano caratterizzato Viva la libertà per soffermarsi su una sceneggiatura decisamente più statica. Evidenti le analogie con le inquadrature e le dimensioni lussuose e algide di Youth, e non solo, di Paolo Sorrentino dettate, oltre che dalla natura del paesaggio teutonico circostante, anche dall’interiorità di personaggi posta in primo piano. Il summit del G8 e l’indagine sulla morte del direttore del FMI rimane in una dimensione metafisica, inafferrabile. La storia, dal simbolismo che omaggia anche la filmografia di Alfred Hitchcock, è molto lenta e, pur assumendo in modo via via più evidente, i toni del noir e del thriller, rimane priva del ritmo incalzante che dovrebbe accompagnare la tensione in ascesa.

Il finale rimane sospeso e irrisolto, lasciandoci in un limbo tra onirico e realtà sugellato dall’immagine francescana del monaco Salus che riparte con il cane rottweiler che si è ribellato ed ha abbandonato il padrone, il ministro della finanza tedesca. Che sia anche questo un velato messaggio? Ad ogni spettatore la sua chiave di lettura.

Ottima come sempre l’interpretazione di Toni Servillo che ipnotizzando lo spettatore lo aiuta a non perdersi nelle silenziose digressioni del film.

data di pubblicazione: 25/04/2016


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ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

A PORTE CHIUSE di Jean-Paul Sartre, regia Michele Suozzo

(Teatro dei Conciatori – Roma, 19/24 Aprile 2016)

Pali, graticole, imbuti di cuoio per la tortura della goccia cinese, sono solo alcuni degli strumenti diabolici che ci si aspetterebbero di trovare nell’Ade. Ma nessuno di questi è presente nell’inferno riservato a Inès, Estelle e Garcin; la loro condanna consiste invece nell’essere rinchiusi in una stanza: invisibili agli occhi del mondo, ma sotto il costante sguardo giudicante degli altri due per l’eternità.

Il giudizio altrui: questo è il supplizio cui sono destinati i tre personaggi. Garcin (Luciano Roffi) è un brasiliano di un’eleganza irreprensibile, che durante il suo lavoro (direttore di un giornale) è stato freddato con dodici colpi di pistola; Inès (Fulvia de Thierry) è un’impiegata di un ufficio postale dai gusti omosessuali, rimasta coinvolta nell’esplosione di una palazzina dovuta a una fuga di gas; da ultimo, Estelle (Elisa Pagin) è una donna dell’alta società, deceduta per colpa di una polmonite. Benché in apparenza ai tre condannati non sembri potersi muovere alcun appunto per la loro vita terrena, i dialoghi e le reciproche domande sveleranno i loro misfatti. E allora si romperà il vaso di pandora contenente i diversi segreti di ognuno di loro e si scoprirà che il direttore del giornale è in realtà noto per la sua vigliaccheria: tradiva i colleghi e — ripetutamente — la moglie; Inès, invece, è un’abile manipolatrice che ha sedotto la moglie del cugino strappandola a quest’ultimo, il quale — per disperazione — si è ucciso; infine, la candida Estelle si rivelerà essere un’infanticida: ha ucciso il figlio avuto da una relazione fedifraga. Le loro azioni li perseguitano anche dopo la morte e, una volta rivelata la loro natura, saranno vincolati l’uno all’altro: Garcin desidera che Inès, la quale ha smascherato la sua indole vile, lo consideri invece coraggioso per le sue azioni; Inès, a sua volta, è innamorata di Estelle, ma lei non ricambia il suo amore; ed Estelle anela a essere amata da Garcin, il quale non la considera. I sentimenti, i pensieri e le impressioni degli altri sono le catene che li inchioderanno nella stanza — nonostante si accorgano che, in realtà, la porta per uscire sia aperta; ma la libertà che cercano non è fisica ma spirituale: è la libertà dagli altri.

La Chambre Magique propone una lettura armoniosa della celebre opera dell’autore francese, mercé la scelta di inserire le composizioni musicali di Leandro Piccioni (eseguite da Elena Centurione: violino; Lorenzo Massotti: viola; Alessandra Leardini: violoncello) durante la rappresentazione dell’opera; in guisa da permettere alla musica di mescolarsi alle parole, in un intreccio di dialoghi e note che esaltano le sofferenze, le paure e le ansie dei diversi personaggi.

Contribuiscono a esaltare la pièce le interpretazioni degli attori. La prova attoriale di Lucino Roffi è intensa e vigorosa; la sua voce è assolutamente peculiare, unica (la sua brillante carriera da doppiatore ne è la dimostrazione), e il suo timbro vocale poderoso si attaglia perfettamente al ruolo che ricopre. Così com’è perfetta la scelta di Elisa Pagin per il ruolo di Estelle: la sua venustà abbacinante cattura gli sguardi del pubblico, e la leggiadria con cui si muove sul palco rappresentano appieno l’animo civettuolo del personaggio che interpreta (a suo sfavore, tuttavia, vi è da dire che in alcuni casi affretta i tempi delle battute). Magistrale la performance di Fulvia de Thierry, capace di emozionare il pubblico.

Lo spettacolo è stato ripagato da un caloroso e duraturo applauso, che ha permesso agli attori di liberarsi dal desidero di apprezzamento e di successo: la stessa trappola in cui erano caduti i loro personaggi. Perché, per chi fa teatro, l’inferno può essere il pubblico.

data di pubblicazione: 25/04/2016


Il nostro voto:

ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

PILADE di Pier Paolo Pasolini, regia di Daniele Salvo

(Teatro Vascello –  Roma 21 aprile/1° maggio 2016)

Daniele Salvo, regista ed attore emiliano diplomato al “Teatro Stabile di Torino” e allievo di Luca Ronconi con il quale ha collaborato per diversi anni, dopo il successo ottenuto con Dionysus ci propone, sempre al Teatro Vascello, Pilade tratto da un testo che Pier Paolo Pasolini scrisse e rimaneggiò più volte alla fine degli anni settanta.

Pasolini riprende la corposa trilogia di Eschilo, l’Orestea, conclusasi con la definitiva assoluzione di Oreste per l’intervento decisivo di Atena, dea della Ragione. Oreste era stato processato per l’uccisione della madre Clitemnestra, che a sua volta aveva ucciso il marito Agamennone, re della città di Argo.

Lo scritto pasoliniano parte dall’ascesa al potere di Oreste, in quanto erede naturale del tiranno Agamennone, che, una volta liberatosi dalla persecuzione delle Eumenidi, può finalmente regnare introducendo nella polis i principi di democrazia, illuminato dalla stessa Atena che gli suggerisce di rinnegare il passato per proiettarsi verso un futuro di sovranità popolare,  in cui potrà prosperare solo il benessere e il progresso della collettività.

Ma Oreste, pur animato da buoni propositi, finisce ben presto col rinnegare i propri valori per ricadere invece nella tirannide e, pur di conservare il dominio, non esita ad allearsi con la sorella Elettra, fino a quel momento isolata a causa delle sue idee reazionarie.

Pasolini non perde l’occasione di attualizzare il testo al contesto politico sociale del suo tempo dove, sotto falsi ideali di democrazia, si nascondeva l’arroganza dei partiti politici, sinistra inclusa, che pur di mantenere il potere non esitavano a sacrificare le proprie idee a vantaggio di una società neocapitalistica e borghese.

A questo punto della narrazione interviene Pilade per cercare di distogliere Oreste dalla sua insana  brama di comando e cercare di convincerlo che l’unica soluzione valida è quella di fondare la vita sul passato, ciò che realmente conosciamo e che quindi possiamo sinceramente amare e apprezzare.

Presentato come un diverso, si pone in contrapposizione all’autorità in difesa dei deboli e degli emarginati, fautore di una rivoluzione armata contro la supremazia, per dare giustizia alle masse umiliate e derise proprio da quelli che dovevano difenderli.

Pasolini palesemente si identifica con Pilade, anche lui considerato un diverso per le proprie scelte ideologiche e di vita, rifiutato dalla società borghese, sottoposto a un continuo processo e allontanato dal contesto politico per il quale aveva sacrificato le proprie energie.

Fallisce quindi la sua rivoluzione, forse anche lui tentato dalla bramosia di potenza, come falliva in quegli anni la rivolta del proletariato in Italia, un’utopia destinata a soccombere di fronte a una realtà politica rimasta immutata nella sostanza, una forma di assolutismo capace di annientare qualsiasi idea sovversiva e renderla parte del sistema.

La tragedia di Pilade, solo e nudo sulla scena, ci riporta inevitabilmente al dramma vissuto da Pasolini, sacrificato e ucciso da coloro che vedevano minacciati i centri di potere, in difesa di una falsa Ragion di Stato.

Forse nelle intenzioni doveva essere un messaggio concreto e diretto volto alle masse, ma il testo teatrale pasoliniano non risulta di così facile accesso, decisamente privo di quella essenzialità che era un punto fermo almeno nell’idea del suo autore.

Ottima la regia di Daniele Salvo, più che collaudato nella trasposizioni dei classici per aver più volte rappresentato le tragedie al Teatro Greco di Siracusa, e di ottimo livello tutto il folto cast impegnato sulla scena con particolare riferimento a Elio D’Alessandro nel ruolo di Pilade e Marco Imparato in quello di Oreste, che hanno saputo trasmettere al pubblico il pathos peculiare della narrazione, una recitazione perfetta che ha rivelato una preparazione di altissimo grado drammaturgico.

D’effetto le luci di Valerio Geroldi e i costumi di Nika Campisi che riescono ad attualizzare i contenuti peculiari della mitologia greca nella realtà odierna in cui, ancora una volta, il pensiero di Pasolini ci appare quanto mai attuale, un chiaro riferimento alla lotta per l’egemonia e alla palese mistificazione degli ideali di democrazia e di salute sociale.

data di pubblicazione: 24/04/2016


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TRIUMPH AND LAMENTS di William Kentridge

TRIUMPH AND LAMENTS di William Kentridge

Per troppo tempo le sponde del Tevere sono rimaste ai margini del cuore pulsante della città “capoccia” del mondo, sommerse da una noncurante trascuratezza capace di offuscare il fascino abbagliante di una delle più originali prospettive dalle quali inquadrare Roma.

Del tutto meritoria l’iniziativa della Onlus TEVERETERNO, che nasce da un’intuizione tanto semplice quanto geniale: ripulire il travertino del tratto di muraglioni di Piazza Tevere (da Ponte Sisto a Ponte Mazzini), ma lasciare che a occuparsene fosse William Kentridge e che l’arte contemporanea levasse via la patina del tempo per riportare alla luce gli antichi splendori.

550 metri di disegni dai quali traspare l’inconfondibile tratto di Kentridge. 54 fotogrammi che raffigurano un trionfo, un lamento o un momento in cui la vita e la morte si fondono fino a far perdere di vista i contorni reciproci. Dalla lupa capitolina (anche in versione scheletrica) all’arrivo di migranti a Lampedusa, da Apollo e Daphne alla deportazione degli ebrei, da San Pietro crocefisso a “La dolce vita” di Fellini, da Anita Garibaldi a “Roma città aperta” di Rossellini: sono solo alcuni dei fregi chiamati a raccontare una storia eterna, fatta di corsi e ricorsi, di cadute e di resurrezioni.

Uno spirito che sembra efficacemente sintetizzato dal cofano della Renault 4 da cui fa capolino il corpo di Aldo Moro e che si fonde in una composizione unica con l’estasi di Santa Teresa di Bernini e i Romani che uccidono i barbari.

Così come si resta ipnotizzati di fronte alla creatura dalla testa d’asino e dal corpo di donna, che sarebbe stato portato a riva dall’inondazione del Tevere del 1495 e che divenne ben presto l’emblema dell’Anticristo papale, ritratto mentre versa del caffè, rigorosamente con Moka Bialetti, a una vecchia e sofferente mendicante: si tratta di “Roma vedova”, spogliata ormai dei fasti che l’avevano resa gloriosa.

Ma Roma, si sa, è capace ogni tanto di uno scatto di orgoglio. Così l’opera di Kentridge è stata presentata al pubblico con un raffinato e visionario spettacolo di luci e ombre: performance ideata dallo stesso artista, con musiche originali del compositore Philip Miller e dal compositore aggiunto Thuthuka Sibisi.

Il 21 aprile, data certamente non casuale, e il giorno successivo centinaia di spettatori hanno affollato Ponte Sisto e le sponde del Tevere. Anche noi Accreditati ci siano seduti sulle banchine del nostro Fiume, lasciando che i rumori del traffico si dissolvessero in lontananza e godendo di una poesia capace di emozionare, con la speranza che l’effimera opera di Kentridge possa rendere duraturo questo meraviglioso spettacolo.

ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

EX ANTIGONE SULLA FELICITÀ di Maurizio Panici

(Teatro Argot – Roma, 21/24 aprile 2016)

Quando si spengono le luci su uno schermo viene proiettato un testo di Sarah Kane, disperato e definitivo come tutti i testi di quest’autrice. Un testo sui desideri e sull’impossibilità di provarne e realizzarli. E attorno al desiderio ragiona lo spettacolo, in questi giorni in scena all’Argot (fino al 24), Ex Antigone sulla felicità, con l’adattamento e la regia di Maurizio Panici, Creonte sulla scena che divide con Valentina Carli. L’adattamento è dal testo di Jean Anouihl che nel 42, in una Francia occupata, in parte resistente e in parte collaborazionista, vede in Antigone un’adolescente nervosa e irruente, una figura di resistente. Antigone vuole tutto, non si accontenta di una piccola felicità borghese, e per questo sfida il potere di Creonte, arroccato nella strenua difesa della necessità della mediazione.

Il mito ha questa capacità significante, quella di parlare direttamente al pubblico, di arrivare alla radice delle emozioni e farci sentire impossibilitati a decidere in maniera netta ciò che è bene e ciò che è male.

L’uomo è per sua natura e condizione un problema esistenziale ben al di là delle sue scelte etiche, non riducibile a schemi ideologici chiari. In questo schema di simmetrie continuamente smentite, l’adattamento di Panici esaspera giustamente questo fronteggiarsi dialettico, in uno scambio serratissimo tra i due protagonisti. Voce e presenza scenica molto convincente quella di Panici, un Creonte attraversato da mille dubbi espressi con una voce che viene direttamente dallo stomaco e capace di far affiorare la malinconia che gli mina l’autoritarismo. Meno convincente la giovane Valentina Carli che “dice” il testo ma non riusce a nutrirlo di emozioni. Forse anche perché meno curata la regia dei suoi movimenti scenici, risultati troppo moderni e poco “mitici”; più vera e diretta nel monologo dedicato al suo promesso sposo Emone, amore a cui dovrà rinunciare per non scendere a patti con il principio di realtà che schiaccia tutto e riduce anche l’amore ad abitudine.

Ridurre il testo allo scontro tra il potere e il suo esercizio e chi lo contesta, è riduttivo. Antigone vuole “tutto e subito – e che sia tutto intero – altrimenti rifiuto!” Non vuole essere modesta e vuole la bellezza. Con il suo grido questa Antigone vuole dirci di non accontentarci, di non trovare un bello consolatorio, ma di essere esigenti come quando eravamo ribelli. E Panici sembra proprio indicarci questa lettura, vista la scelta di far scorrere sullo schermo, dopo le parole della Kane, le immagini delle manifestazioni potenti e massive nell’America degli anni ’60. E mentre ce ne stiamo “borghesemente” seduti al buio, Panici ci ricorda che ribellarsi è giusto; e così la poltrona diventa un po’ meno rassicurante.

data di pubblicazione: 24/04/2016


Il nostro voto:

MI HANNO RIMASTO SOLO…10 ANNI DOPO di e con Michele La Ginestra

MI HANNO RIMASTO SOLO…10 ANNI DOPO di e con Michele La Ginestra

(Teatro della Cometa – Roma, 21 aprile/8 maggio 2016)

Un palcoscenico che diviene un tutt’uno con il suo “dietro alle quinte”, qualche scala, una manciata di sedie e un pianoforte ben accordato: non serve nient’altro per l’omaggio che Michele La Ginestra sceglie di donare al suo Teatro.

Il sogno dell’attore, che da “uno” si fa in “centomila” per evitare di restare “nessuno”, è quello di prestare l’anima e il corpo ogni sera a un personaggio diverso: non per la gratificazione dell’applauso del pubblico, ma come atto d’amore nei confronti di se stesso, godendo della linfa vitale che solo il Teatro è in rado di infondere nelle vene dell’artista.

Non resta allora che “fare il mestiere dell’attore”, regalando risate sincere e momenti di commozione a chi, almeno per una notte, è disposto a condividere quel sogno.

Dall’iniziale omaggio a Ettore Petrolini all’intimo monologo finale dedicato al padre scomparso, la carrellata di personaggi che si avvicendano sul palco è nutrita e variegata: il cinicamente realista Don Michele, conosciuto anche dal pubblico televisivo di Zelig; il tragicomico Menicacci, promessa non mantenuta del calcio italiano che ha “giocato” nel Bari di Mazinga (non il cartone animato, il giocatore nero); un esilarante e incompreso Leonardo da Vinci; Pollicino, Pinocchio e Cappuccetto Rosso, spogliati di ogni perbenismo della morale fiabesca.

I raccordi tra le singole tessere del mosaico che compongono lo spettacolo sono affidate all’accompagnamento musicale del Maestro Paolo Tagliapietra, supportato dalle voci di Alessia Lineri, Irene Morelli e Alessandra Fineo. La rassicurante tradizione degli stornelli romani o del celebre motivetto che faceva da in introduzione alla fiabe sonore, uniti alla familiare riconoscibilità di Un bacio a mezzanotte o Minuetto, restituiscono sul piano musicale l’eterogeneità dei frammenti di Mi hanno lasciato solo.

Il titolo dello spettacolo riporta direttamente alle sue origini: dieci anni fa un improvviso vuoto nel programma del Teatro Sette rappresenta l’occasione per assemblare quattro monologhi già scritti da Michele La Ginestra, che, pur rimasto solo, trova il modo di riempire quel vuoto.

I testi si sono progressivamente affinati e arricchiti, ma resta intatta l’indubbia capacità di Michele Le Ginestra di fondersi e confondersi con il palco, con irresistibili spunti di improvvisazione, tanto durante lo spettacolo quanto in occasione dei saluti finali, che mostrano l’istintiva maestria di chi nel Teatro è rimasto “imprigionato”.

data di pubblicazione: 23/04/2016


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