UNA MATTINA DI OTTOBRE di Virginia Baily – Nord, 2016

UNA MATTINA DI OTTOBRE di Virginia Baily – Nord, 2016

Interessante l’intento della Baily di rileggere in chiave positiva il tentativo, raccontato in 16 ottobre 1943 di Debenedetti, di una donna che cerca di salvare un bambino dalla deportazione nazista senza, ahimè, riuscirci.

È l’alba del 16 ottobre 1943, Chiara Ravello sta attraversando le strade del ghetto mentre i nazisti stanno rastrellando uomini, donne, bambini: la loro destinazione, sappiamo senza ritorno, sarà Auschwitz.

La donna alza gli occhi e incrocia lo sguardo di una donna ebrea sul camion; è una madre, ha tra le braccia una bimba piccina, un’altra è in braccio al marito, un bambino poco più grande si regge al vestito della madre. Le due donne si fissano, quella sul camion cerca di staccare da sé la mano del figlio, quella sulla strada grida “è mio nipote, quel bambino è mio nipote…” il tempo si ferma, il bambino, Daniele, viene fatto scendere dal camion, gli sguardi delle due donne non si incroceranno più. La prima resterà muta su quel camion che la porterà verso la morte consapevole di avere dato perlomeno una speranza al proprio figlio, la seconda stringe a sé il bambino e va via.

La struttura del romanzo è classica; i capitoli si alternano, uno via l’altro, tra presente e passato. I personaggi che incontriamo, l’amica Simone, la sorella Cecilia, il barista Gennaro, fanno da contorno alle vite di questa madre “adottiva” e del bambino che crescerà, alla loro vita insieme, ai segreti sottaciuti, alle ingerenze nella Storia, per non doverlo “riconsegnare” alla fine della guerra, le rivelazioni che stravolgeranno le loro vite… immagini che si rincorrono, che si inframmezzano, che si incrociano con le vicende degli altri attori.

Quindi dicevo che l’idea mi è sembrata decisamente originale, peccato che quel guizzo iniziale si perda, subito dopo, in pagine e pagine che sono poco più che descrizioni a malapena accennate di quello che è accaduto in seguito. Un argomento del genere, in una Roma assediata dai nazisti, in una Italia devastata dalle rappresaglie, avrebbe  potuto dare vita a un romanzo di una potenza, di una forza empatica inenarrabile, mentre quello che ho letto mi è sembrato un racconto a “vol d’oiseau”, si vede da lontano quello che sarebbe potuto essere e si passa oltre, senza mai approfondire…

Che dire, un vero peccato!

data di pubblicazione:11/05/2016

IL MESTIERE DELLE ARMI di Ermanno Olmi, 2001

IL MESTIERE DELLE ARMI di Ermanno Olmi, 2001

Presentato in concorso al 54° Festival di Cannes, dove ebbe solo una nomination per la Palma d’oro, il film ottenne in compenso tantissimi riconoscimenti in Italia e sicuramente si può considerare tra i film più riusciti di Olmi insieme a L’albero degli zoccoli del 1978.
Giovanni dalle Bande Nere, pseudonimo di Giovanni De’ Medici, accorre in difesa dello Stato Pontificio per fronteggiare l’armata dei Lanzichenecchi scesi in Italia, su ordine dell’imperatore Carlo V, con l’obiettivo di saccheggiare Roma.
Il duca di Ferrara Alfonso I d’Este, in cambio del matrimonio di suo figlio Ercole II con una principessa imperiale, dona al condottiero invasore quattro cannoni in grado di abbattere qualsiasi tipo di armatura tradizionale. Infatti durante un attacco alle truppe nemiche Giovanni De’ Medici viene colpito dalla nuova arma letale e, gravemente ferito ad una gamba, viene trasferito a Mantova presso il palazzo dei Gonzaga.
Nonostante le cure, la ferita si infetta e provoca una cancrena che costringe il medico di corte ad amputare l’arto. Con la morte del valoroso condottiero fiorentino i Lanzichenecchi avranno via libera per Roma che verrà selvaggiamente depredata nel maggio del 1527.
Il regista, famoso per la ricercatezza delle sue ambientazioni scenografiche, utilizza una fotografia dai toni scuri che rimanda ad uno studio approfondito dell’arte rinascimentale, con particolare riferimento alla pittura del Mantegna, attivo a Mantova presso i Gonzaga.
Il mestiere delle armi è un film di altissimo spessore anche per il suo valore storiografico in quanto ci spiega come, con l’introduzione delle armi da fuoco, si rivoluzionavano gli ideali bellici e cavallereschi che avevano sino a quel momento ispirato i grandi condottieri.
I duchi di Mantova ci ispirano questa torta sbrisolona, dolce tipico della zona.

INGREDIENTI: 200 grammi di farina bianca – 200 grammi di farina gialla – 2 tuorli d’ uovo – 200 grammi di mandorle tritate – 200 grammi di zucchero – 100 grammi di strutto – 100 grammi di burro.
PROCEDIMENTO: Mescolare i due tipi di farina, le mandorle, lo zucchero e i due tuorli d’uovo. Aggiungere lo strutto ed il burro senza fonderli, facendoli solo ammorbidire a temperatura ambiente. Amalgamare il tutto, impastando a piccoli grumi che dovranno essere sistemati disordinatamente nella teglia imburrata.
Infornare per circa 40 minuti ad una temperatura di 180 gradi, fino a quando la torta risulti ben dorata.

LA RAGAZZA CARLA di Alberto Saibene, 2016

LA RAGAZZA CARLA di Alberto Saibene, 2016

Il cinematografico – in quanto crea immagini durante la lettura – poema di Elio Pagliarani,  La ragazza Carla, edito nel 1960 da Mondadori, è ora un riuscito film a sua volta poetico.

In molti film si constata l’insita poesia, ma di veramente pochi si può dire che sono poesia;  come il poema cui fa riferimento è un romanzo per immagini, La ragazza Carla per la regia di Alberto Saibene è una poesia filmica.

Il compenetrarsi di generi, di arti diverse, è stato possibile proprio grazie alla commistione di più tecniche visive e alla collaborazione di più professionalità.

Curioso è anche lo specchiarsi dei nomi, come Carla, Carla Chiarelli che da molti anni gira i teatri recitando il poema del grande Elio Pagliarani, e che qui dà urgenza alla parola presentandosi vestita quasi da mimo, in modo tale da sparire e contemporaneamente essere ossa e carne della poesia.

La poesia è già una forma di immagine, come ci ricorda Alberto Saibene, e dunque misuratissima doveva essere nel film la visione rappresentata, per non sovrapporsi; le riuscite scelte del team sono state nella direzione della semplicità e della sottrazione.

Il coraggioso lavoro collettivo è arrivato a dare quell’impostazione che fa del film un’opera a sé, con una nuova forma raggiunta anche aggiungendo un elemento del tutto costruito, la lettura di un testo appositamente scritto da Renato Gabrielli per Elio – ecco il nome che si specchia nuovamente – Elio (de Le Storie Tese) che fa il commento ironico strappando più di una risata in sala e dando il senso ineluttabile del poema.

Il film riesce a dare il sapore dell’immediato e pur millimetrico linguaggio poetico; questa fucina di poetiche idee (i disegni della fumettista Gabriella Giandelli, le immagini dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio, gli esplicativi sunti a mò di didascalia di film muto, Milano in bianco e nero, la fotografia di Luca Bigazzi) messe insieme, nella loro forte differenza, che sarebbe dissonanza, compongono, invece, il poema nel suo spirito, danno forma alla sua essenza. Il puzzle di tecniche diverse diventa un fluire unico e rende percepibile, grazie all’accostamento di immagini, suoni, ricordi, disegni, città, automobili, fabbriche, uffici, macchine da scrivere, persone, volti la carne del poema.

Raramente si assiste a un simile miracolo di compiutezza.

Un bell’omaggio per far conoscere il Poeta – che compare declamante in pochi attimi nei titoli di coda – questo film da non perdere.

data di pubblicazione:09/05/2016

FESTIVAL DEL CINEMA SPAGNOLO- TERZA SERATA

FESTIVAL DEL CINEMA SPAGNOLO- TERZA SERATA

(Cinema Farnese Persol – Roma, 5/10 Maggio 2016)

Il variopinto menu del festival spagnolo si è arricchito, nella proiezione di sabato pomeriggio, del colore e del sapore di un thriller. El desconocido di Dani della Torre, presentato alle Giornate degli autori di Venezia 2015, ha tenuto incollati gli spettatori per tutta la sua durata. La tragedia personale di un uomo, seduto, insieme con i suoi figli, su una bomba, diventa la tragedia collettiva di una società ormai al collasso, esplosa sotto il fuoco incrociato della crisi economica, delle banche, di un sistema che alla fine coinvolge tutti, indistintamente, con la stessa ferocia. Il senso di impotenza che attanaglia il protagonista nello svolgersi della vicenda è lo stesso che imprigiona tutti coloro che, impotenti, si vedono sottratta ogni possibilità di vita: il lavoro, i soldi, la famiglia, la possibilità di scegliere. Il ritmo incalzante della scrittura si unisce a quello della regia, regalando un thriller-action movie con qualche tocco retorico ma nel complesso con un buon risultato. Soprattutto, magnifica e determinante la scelta dell’intenso volto di Luis Tosar nel ruolo del protagonista. Tutt’altro il clima del film successivo, Isla bonita, che ha registrato il tutto esaurito e la solita, splendida coda fino ai piedi di Giordano Bruno. Ad accompagnare il film il regista e protagonista del film, Fernando Colomo, che ha allietato la sala raccontando della lavorazione sul set. Nessun guión, non un copione scritto, ma il racconto, leggero e divertito, dell’incontro di tipi umani nel contesto di una Isla bonita. Tutti, fondamentalmente, alle prese con gli stessi problemi di sempre: le relazioni umane, l’amore. Un tocco di freschezza, un protagonista un po’ spaesato e buffo nel suo raccontarsi anche attraverso spezzoni di suoi film precedenti, inseriti ad hoc nel contesto della storia, un misterioso ragazzo svizzero dal nome Tim che non parla una parola di spagnolo, una scultrice e sua figlia, un vecchio amico alle prese con un discorso sulla regina e il contorno di una splendida isola ad illuminare il tutto. Prossima destinazione: Minorca.

data di pubblicazione:09/05/2016








DONNA NON RIEDUCABILE di Stefano Massini, un progetto di e con Elena Arvigo

DONNA NON RIEDUCABILE di Stefano Massini, un progetto di e con Elena Arvigo

(Teatro Argot – Roma, 3/15 Maggio 2016)

Vivere per non morire o morire per poter vivere?

Anna Politkovskaja non aveva paura della morte; lei la sfidava ogni giorno. La giornalista russa aveva la presunzione di scrivere la verità e, in particolare, di raccontare le angherie e i soprusi subiti dalla popolazione cecena; per questo motivo, la morte pendeva sulla sua testa come una spada di Damocle, che inesorabile si è abbattuta su di lei mentre tornava nel suo appartamento, in una fredda sera dell’Ottobre del 2006. Ed è proprio attraverso la sua morte che i suoi racconti e la sua storia sono vissuti, e hanno avuto un’eco internazionale.

Elena Arvigo la racconta con una performance struggente; danzando sul palco del Teatro Argot con lo stipite di una porta, trasporta lo spettatore in tutti quei luoghi in cui la giornalista russa è vissuta, rendendo tutti testimoni di quanto accaduto.

 

Donna non rieducabile è il titolo del vostro spettacolo; la Vostra rappresentazione, invece, si prefigge di educare, sensibilizzare il pubblico. Qual è il messaggio che vuole lanciare?

Non c’è un messaggio segreto, mi piacerebbe offrire al pubblico il viaggio che ho percorso per realizzare lo spettacolo. Perché — prima di mettere in scena Donna non rieducabile — pensavo di conoscere Anna Politkovskaja e invece mi sono resa conto che sapevo poco: la mia informazione era superficiale. La sensazione di sapere tutto ciò che accade è sempre più frequente oggigiorno, perché siamo invasi di notizie di tutti i tipi, di tutti paesi — mentre una volta la gente non sapeva nulla (come ad esempio riguardo ai gulag). Noi pensiamo di essere onniscienti ma, in realtà, abbiamo solo una visione superficiale.

Il messaggio, quindi, è quello di “sospendere il giudizio” su ciò di cui non si è adeguatamente informati, invece di essere costretti ad avere delle opinioni, a prendere posizione.

Anna Politkovskaja, invece, era tacciata di essere faziosa, nonostante si limitasse a narrare i fatti cui assisteva senza schierarsi per i terroristi o per l’esercito. Prendere posizione, per Voi, è intelligente?

Questo è un aspetto interessante. A mio parere, “non prendere posizione” è intelligente. Ciò non vuol dire che non bisogna informarsi; però, se decidi di parlare, di esprimere delle opinioni (e, quindi, di avere influenza anche sugli altri), allora è necessario documentarsi. Perché altrimenti si crea molta confusione, si rischia di educare male i più giovani, si crea disinformazione (che può sfociare, ad esempio, nel razzismo). Al contrario, se uno non fosse interessato a capire, allora dovrebbe astenersi dal dare giudizi. Per questo motivo ho voluto associare allo spettacolo una serie di eventi, dibattiti e letture sul tema.

Un coinvolgimento, pertanto, a 360° del pubblico: sia durante lo spettacolo sia dopo. È questo il suo intento?

Sì, il mio intento è di incuriosire lo spettatore attraverso il racconto della storia di Anna Politkovskaja, condividere la sua esperienza senza appropriarmene. Perché la Politkovskaja non era un’eroina ma una donna comune, che faceva semplicemente il suo lavoro e rischiava la vita ogni giorno, come tanti altri giornalisti, tra cui c’era anche Giulio Regeni. Per questo motivo ci siamo associati ad Amnesty International, in modo da dare il nostro supporto per far luce sulla vicenda del giornalista triestino.

Sia della Politkovskaja che di Regeni hanno detto che se la sono andata a cercare…

Ma se la storia di questa gente massacrata, abusata non l’avessero raccontata loro, nessuno l’avrebbe fatto; quindi “non rimarrebbe la memoria” (tuttora i turchi negano il genocidio armeno).

La giornalista russa diceva che l’unico dovere di una giornalista è scrivere quello che vede. Qual è il dovere di un attore?

È quello di adempiere il proprio mestiere con coscienza e responsabilità, così non ci sarebbe bisogno di eroi.

Indipendentemente dal lavoro che uno svolge, se lo facesse con coscienza e responsabilità (e ci fosse più senso civico), non sarebbe necessaria la presenza di persone che salvino il nostro pianeta.

“L’eroismo quotidiano è quello che salva il mondo, quello che permette di rendere il posto in cui vivi migliore”.

data di pubblicazione:09/05/2016


Il nostro voto:

LO STATO CONTRO FRITZ BAUER di Lars Kraume, 2016

LO STATO CONTRO FRITZ BAUER di Lars Kraume, 2016

Lo Stato contro Fritz Bauer esce nelle sale solo pochi mesi dopo Il labirinto del silenzio. Se il film di Ricciarelli rendeva un omaggio discreto al procuratore generale Fritz Bauer, il quale infonde nel giovane Johann Radmann il coraggio di istruire il primo processo tedesco per i fatti di Auschwitz, il racconto di Lars Kraume tratteggia l’affresco eroico di Bauer, funzionando quasi da prequel del film di Ricciarelli.

Nell’immediato secondo dopoguerra il governo Adenauer persegue la politica della riconciliazione, con l’Europa e all’interno della Germania occidentale. In uno Stato in cui i vertici dell’amministrazione e delle istituzioni sono ancora intrise di infiltrazioni nazifasciste, “riconciliare” vuol dire però (anche) “cancellare” i crimini del Terzo Reich, a partire dalle deportazioni di massa e dagli stermini nei campi di concentramento.

Fritz Bauer assume l’incarico di procuratore generale a Francoforte. È ebreo, omosessuale ed ex socialista: una triade indubbiamente complessa da reggere per le spalle di un solo uomo. Dopo essersi salvato dalla persecuzione nazista non è disposto a lasciar cadere la cortina del silenzio sui crimini consumatisi in un Paese che è la patria di Beethoven e Goethe, ma anche quella di Hitler e di Eichmann. Proprio Eichmann, l’ideatore della “soluzione finale”, offre al procuratore l’occasione di avviare quel “processo” di revisione storica, di affermazione della giustizia e di consapevolezza socio-culturale che ha visto impegnata la Germania dopo la traumatica conclusione del Secolo breve.

Bauer è un uomo di legge, ma si rende conto ben presto che il rispetto delle regole non riuscirà ad avere la meglio sulla ragion di Stato. Quando viene a sapere che Eichmann si rifugia in Argentina, decide di rivolgersi al Mossad (i servizi segreti israeliani) per assicurare la sua cattura. Il rischio è quello di un’accusa per alto tradimento, ma il rischio ancor più elevato è di non giocare la sola mossa in grado di superare la condizione di stallo. Il giovane procuratore Karl Angermann (Ronald Zehrfeld), suo alter ego professionale e umano, decide di sedere dalla stessa parte del tavolo di Bauer in una partita tanto cruciale.

L’epilogo è una storia nota: Eichmann viene catturato e il processo non si terrà a Francoforte, come Bauer auspicava, ma in Israele. Quello stesso processo raccontato di recente nell’interessante The Eichmann show – Il processo del secolo, prodotto televisivo rimasto in sala pochi giorni in occasione della giornata della memoria.

Anche Lars Kraume, come Giulio Ricciarelli è italiano di nascita. E anche Kraume, come Ricciarelli, si confronta con un intreccio che va oltre il genere legal. Diritto e Giustizia, tradimento dello Stato nel disperato tentativo di salvare una Nazione: sono questi i temi che si trovano a comporre il mosaico di una storia ancora troppo recente per poter essere definitivamente archiviata.

Il racconto risente a volte del prevalere di schemi più televisivi che cinematografici (Kraume lavora molto anche per la televisione), ma riesce complessivamente a coniugare il racconto più strettamente investigativo con quello biografico, affidando al rapporto tra Bauer e Angermann il compito di lasciar emergere, fuor da ogni scontato idealismo, l’uomo che si cela dietro i fascicoli e la toga.

Lo Stato contro Frizt Bauer, Il Labirinto del silenzio, The Eichmann show: un’incisiva trilogia di riflessioni cinematografiche che, tra il 2015 e il 2016, hanno acceso i riflettori su una storia che, a quanto pare, ha ancora molto da raccontare.

data di pubblicazione: 8/5/2016


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LA MEMORIA DELL’ACQUA di Patricio Guzmàn, 2016

LA MEMORIA DELL’ACQUA di Patricio Guzmàn, 2016

Tutto è composto sostanzialmente d’acqua: noi siamo acqua, le pietre sono acqua, le stelle sono acqua. E poiché l’acqua ha una memoria propria, cioè ha insita in sé la capacità di mantenere nel tempo il ricordo delle cose e delle circostanze con le quali nei secoli è venuta a contatto, se mai arriverà il giorno in cui riusciremo a decifrare tale fenomeno, allora potremo leggere come in un libro tutta la storia dell’umanità e dell’universo intero.

Patricio Guzmàn è un regista, sceneggiatore, attore, scrittore e fotografo cileno già molto conosciuto a livello internazionale per aver raccontato, nei suoi innumerevoli documentari, la storia del suo paese, con le sue lotte e rivolte, arrivando ai fatti riguardanti le tristi vicende politiche che hanno attraversato il Cile e di cui lui stesso ne rimase vittima ai tempi della dittatura di Pinochet.

La memoria dell’acqua, Orso d’argento alla Berlinale 2015 per la miglior sceneggiatura, non è un documentario che ci parla solo dell’acqua e della sua innegabile memoria, ma è anche un punto di avvio che Guzmàn sceglie per narrare ancora una volta la storia del suo paese martoriato, nel corso dei secoli, da eccidi di massa, partendo da quelli che hanno portato alla quasi radicale estinzione delle prime popolazioni aborigene che abitavano le regioni della Patagonia da millenni.

Attraverso la testimonianza dei pochissimi sopravvissuti al massacro perpetuato dai primi coloni europei, veniamo pertanto a conoscenza della vita primordiale di questi antichissimi popoli che vivevano sostanzialmente da nomadi spostandosi su rudimentali canoe lungo le frastagliatissime coste cilene, un enorme arcipelago che emerge dalle immense acque dell’oceano Pacifico. Da questi racconti il regista passa lentamente a frammenti di storia più recenti, quando migliaia di uomini e donne vennero trucidati solo perché ritenuti oppositori al regime di Pinochet: molte furono le vittime che furono fatte sparire gettando, i loro corpi torturati, direttamente nell’oceano, legati a porzioni di binari della ferrovia affinché essi venissero definitivamente inghiottiti dall’acqua, facendone disperdere le tracce, i così detti desaparecidos.

La fotografia di Guzmàn, assieme ad una voce fuori campo, ci narrano la vera storia del Cile in un modo diretto ed essenziale, senza falsa retorica, coinvolgendoci emotivamente in un vissuto forse a noi lontano ma che in qualche modo ci riguarda in quanto uomini.

Ecco quindi che questo documentario, come già abbiamo avuto modo di riscontrare in Fuocoammare di Rosi, diventa un documento prezioso, una testimonianza di qualcosa di accaduto che ci induce a riflettere su atrocità fine a se stesse, una sorta di atroce capriccio del potere di pochi a danno di molti, un segreto che l’acqua stessa ha mantenuto e che ora ci rivela restituendocene la memoria perché siamo tutti ruscelli di una stessa acqua.

data di pubblicazione:08/05/2016


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FESTIVAL DEL CINEMA SPAGNOLO- TERZA SERATA

FESTIVAL DEL CINEMA SPAGNOLO – SECONDA SERATA

(Cinema Farnese Persol – Roma, 5/10 Maggio 2016)

La fila che sul far del tramonto si snoda dal Cinema Farnese fino alla statua di Giordano Bruno, a Campo de’ Fiori, è ormai un rito consolidato delle serate del Festival del cinema spagnolo. Il pubblico è in attesa di vedere Magical Girl (vincitore come miglior film e miglior regia al Festival di San Sebastian), opera seconda di Carlos Vermut che, come ci spiega Federico Sartori, uno degli organizzatori del festival, trae ispirazione dalle atmosfere dei Manga e dell’anime giapponese. Un film, come da lui annunciato, che divide, che si fa amare od odiare. Ed infatti, alla fine della proiezione, ci si guarda con gli altri spettatori alla ricerca di un confronto, quasi a chiedere: tu da quale parte stai? La fotografia del film è essa stessa veicolo della storia: algida, dona un’atmosfera rarefatta, spegne ogni colore, apparentemente ogni emozione, il vissuto stesso dei protagonisti, anche l’abito colorato di Magical Girl che Alicia sogna di indossare. Ma Alicia ha anche un altro sogno: vivere fino all’età di 13 anni. Le vicende dei vari protagonisti si intrecciano e si incastrano nel puzzle che il regista costruisce insieme ad uno dei personaggi: un puzzle che, per tutti, sembra avviarsi verso la composizione finale e a cui, tragicamente, nel momento in cui si pregusta la soddisfazione del compiuto, manca un ultimo, apparentemente insignificante e piccolissimo pezzetto. Un film spiazzante, inquietante, straniante che ci lascia in mano una sola verità: che due più due farà sempre quattro, a prescindere da ciò che accada alla Storia e alle storie degli uomini.  Da puro festival. Imperdibile.

data di pubblicazione:07/05/2016








CALDERÓN di Pier Paolo Pasolini, regia Federico Tiezzi

CALDERÓN di Pier Paolo Pasolini, regia Federico Tiezzi

(Teatro Argentina – Roma, 20 aprile/8 maggio 2016)

L’anniversario di Pasolini è stata una buona occasione, per i registi,  di rileggere diversi testi teatrali del poeta friulano. Negli ultimi mesi abbiamo visto, infatti, Il vantone e due versioni differenti di Porcile e attualmente abbiamo  a Roma in  scena un Pilade al Vascello e all’Argentina l’ambizioso Calderón.

Quest’ultimo è uno dei drammi più enigmatici ma anche più affascinanti di Pasolini, intriso com’è del suo pensiero e di molte sue suggestioni e topoi ricorrenti.

Un dramma corposo, dalla struttura non  lineare, con evidenti problemi per la messinscena, che tuttavia è stato già in passato rappresentato con buoni risultati, prima da Luca Ronconi nel travagliato e memorabile laboratorio di Prato del 1979 e poi da Giorgio Pressburger, qualche anno dopo, più tradizionalmente.

Adesso, nella sua produzione più importante dell’anno, è il Teatro di Roma ad occuparsene,  con la regia di Federico Tiezzi.

L’ispirazione sorge dal capolavoro La vita è un sogno di Calderón de la Barca, di cui prende peraltro soltanto lo spunto drammaturgico. L’ambientazione è negli ultimi anni della Spagna franchista e la trama presenta tre sogni successivi, in tre ambienti diversi: aristocratico, proletario, medio borghese. Abbiamo dei personaggi che al risveglio non riconoscono la propria vita, la fuga possibile è il sogno (o il teatro ?), perché la vita reale mette nel loro destino ostacoli insormontabili. Cosa impedisce la felicità? Quasi sempre il conflitto tra individuo e potere.

Scritto nel 1967, alla vigilia dei moti sessantottini, quasi contemporaneo del suo film Teorema, l’opera ha umori solo apparentemente discordanti, più spesso lo spettatore attuale si sorprenderà per la vis profetica di molti passaggi.

Lo spettacolo di Tiezzi è visivamente stupendo e opportunamente allusivo sebbene si notino  momenti  di impaccio specie nei cambi di scena.

Il cast è tutto eccellente, oltre a naturalmente Sandro Lombardi segnaliamo almeno Lucrezia Guidone, Sabrina Scuccimarra e Graziano Piazza. Attento e catturato il pubblico nelle due ore senza intervallo.

data di pubblicazione:07/05/2016


Il nostro voto:

FESTIVAL DEL CINEMA SPAGNOLO- TERZA SERATA

FESTIVAL DEL CINEMA SPAGNOLO-PRIMA SERATA

(Cinema Farnese Persol – Roma, 5/10 Maggio 2016)

Quale sarà La flor de mi secreto del Festival del Cinema Spagnolo, giunto alla sua nona edizione, al Cinema Farnese Persol a Campo de’ Fiori, e in programma successivamente a Milano (27-29 Maggio) e Triste (30-31 Maggio)? Probabilmente la grande varietà di sapori e colori spagnoli, il giallo de La Nueva Ola, il verde degli eventi, il rosso Spagna, composti in un programma che stuzzica ogni palato cinematografico. Il fucsia degli omaggi, partendo appunto dal titolo già citato di Almodovar (La flor de mi secreto, 1995) con la splendida protagonista Marisa Paredes, ospite del festival la prossima sera del 10 Maggio, alla proiezione del film El Espinazo del diablo. “Dovrebbero proibire la realtà” dice ad un certo punto uno dei personaggi del film di Almodovar, e il regista gioca con il pubblico, facendolo ridere e sorridere pur raccontando il dramma e la beffa di una scrittrice di romanzi rosa che ormai tinge la sua penna di nero a causa di un matrimonio in fallimento. Amanda Gris ormai sta stretta negli stivaletti in cui ha vissuto finora e ha bisogno dell’aiuto dei personaggi che la contornano per uscirne: letteralmente dalle scarpe e dalla precedente vita. I personaggi recitano le proprie vite, diventano Rick e Ilsa di Casablanca, bevono, ballano (troviamo anche Joaquín Cortés nel cast), si odiano, si amano, insomma: vivono. Una delizia d’annata. A seguire, terzo film della prima serata, A cambio de nada, esordio alla regia di Daniel Guzmán. Già noto come attore in Spagna, ospite a Roma e fresco vincitore di 2 Premi Goya 2016 (Miglior Regista esordiente e Miglior Attore Rivelazione per Miguel Herrán), Guzmán ha raccontato la lunga vicenda produttiva del film, che lo ha visto impegnarsi e combattere, come faceva un tempo sul ring nei suoi esordi di boxer, per ben 10 anni prima di riuscire a realizzare la sua opera prima. L’intento? Innanzitutto quello di fare un film con la sua abuela, sua nonna, strepitosa novantunenne che affianca egregiamente tutti gli attori del film, tra cui spicca Luis Tosar, oltre al giovane e premiato protagonista Miguel Herrán. Un film autobiografico di cui non vogliamo raccontarvi la trama, invitandovi a non perderlo nella replica di sabato pomeriggio, ma che potremmo sintetizzare con le parole del regista stesso alla domanda del pubblico sul perché del titolo: A cambio de nada (Nulla in cambio il titolo italiano, distribuito nelle sale italiane da EXIT Media) per me significa “amistad”, amicizia. L’amicizia, il contatto, il bisogno di un rapporto umano, di qualcuno con cui parlare, con cui vivere, fare una festa, per non sentirsi soli. Un bisogno che appartiene, trasversalmente, a tutte le età, a tutti i protagonisti del film e certamente, se riuniti in un sala insieme ad altre 300 persone, davanti ad un bel film, anche a tutto il pubblico presente ieri sera a questo primo intenso momento di cinema e umanità.

data di pubblicazione 06/05/2016