da Antonio Iraci | Giu 8, 2016
Vincent Garenq con quest’ultimo suo film ancora una volta ci racconta una storia vera, un caso di omicidio che per molti anni ha tenuto con il fiato sospeso l’opinione pubblica francese per tutta una vasta serie di implicazioni politiche e sociali, che questo fatto di cronaca aveva sollevato. L’intenzione del regista, infatti, non è stata tanto quella di esporre il trentennale iter giudiziario avviato da André Bamberski per l’uccisione della figlia Kalinka da parte del patrigno, il medico tedesco Dieter Krombach, quanto piuttosto di esplorare la personalità di un uomo che ha dovuto per buona parte della sua vita lottare al fine di ottenere finalmente giustizia.
Bamberski, commercialista di maniacale rigore, porta avanti la propria battaglia legale scontrandosi non solo con la sua ex moglie che, sin da principio, difende ad oltranza il nuovo compagno, ma anche con la burocrazia giudiziaria francese vistosamente in difficoltà a causa dell’ostruzionismo da parte della giustizia tedesca che, a tutela del proprio cittadino, tende a rallentare le indagini.
Bamberski è un ottimo Daniel Auteuil, interprete di spessore ed intensità, adatto a ricoprire il ruolo di un uomo in bilico tra l’ossessione nel portare avanti la propria battaglia legale ed il suo pudore che lo induce a chiudersi in un riserbo che si manifesta nella reticenza a parlare dei propri sentimenti, restando sempre coerente con sé stesso e limitandosi ad agire solo ed esclusivamente in memoria della figlia crudelmente stuprata ed uccisa.
A supportare Daniel Auteuil ci sono altri due bravi interpreti: Sebastian Koch nella parte di Dieter Krombach, uomo apparentemente per bene e molto rispettato dalla cittadinanza, e Marie-Josée Croze in quella di Dany, ex moglie di Bamberski, donna innamorata del suo uomo e disposta a tutto pur di non compromettere il suo amore.
In nome di mia figlia vanta una sceneggiatura molto rigorosa, curata in parte dallo stesso regista, che riesce a trasmettere intense emozioni grazie a scene toccanti ma equilibrate, in cui è assente qualsiasi forma di morboso voyeurismo. L’arco di tempo in cui si svolge l’intera vicenda ha la durata di trent’anni e Vincent Garenq, pur non potendo entrare nel dettaglio di tutti gli eventi realmente trascorsi, è riuscito a regalarci una pellicola essenziale e fluida nella sequenza delle situazioni, dividendo il film in capitoli temporali ben cadenzati che non hanno affatto appesantito la narrazione, ma che al contrario spingono lo spettatore alla disperata ricerca di un finale liberatorio.
data di pubblicazione:08/06/2016
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da Alessandro Rosi | Giu 3, 2016
(Teatro Sala Umberto – Roma, 1 Giugno 2016)
Una coltre di fumo inonda il palcoscenico fino ad avvolgere gli spettatori presenti in sala. Tra le nubi s’intravede una sagoma oscura, imponente, inquietante; nonostante la densità dell’aria, le sue parole fulminanti squarciano la nebbia: si chiama Aron ed è qui per raccontarci la sua storia.
La figura testé palesatasi non è altro che un sicario al libro paga di un’organizzazione criminale. La sua unica compagna è una Colt calibro 45, per il resto la solitudine lo divora, lo consuma. Mentre la sua arma fa fuoco verso le vittime designate, a far infuocare il suo cuore sarà Juliet, una splendida cantante incontrata in un night. La relazione che nascerà sconvolgerà la vita del criminale: spietato e cinico durante il lavoro, si dimostrerà un amante comprensivo e passionale ma, proprio per la sua inesperienza in campo amoroso, vivrà una profonda crisi d’identità e, pertanto, mediterà di lasciare il suo lavoro. La vita che Aron sogna di costruire, tuttavia, è puntellata da evanescenti illusioni e il suo progetto è destinato a crollare. La rottura con la splendida giovane aprirà una frattura indelebile e lo farà ripiombare nell’oscurità. Si addensano nuovamente le nubi intorno a lui, e prendono la forma dei suoi fantasmi, dei suoi demoni, pronti ad assalirlo di nuovo; perché non si possono rinnegare le proprie radici e Aron lo sa, lui è il professionista.
Ai continui sconvolgimenti tellurici dell’animo del protagonista, fa da pendant la scenografia realizzata da Fabrizio Bellaci e Davide Germano che, utilizzando del truciolato, forgiano gli elementi della scena in guisa che possano assumere varie forme, incastrandosi durante la messinscena come tessere di un mosaico.
Il conflitto interiore è reso adeguatamente con la personificazione del lato oscuro di Aron, interpretato efficacemente dall’adone Marco Rossetti, che realizza, in coppia con Maurizio Tesei, una delle scene più intense della rappresentazione.
La dark-comedy di Tommaso Agnese si rivela interessante e al contempo divertente, mercé il monologo esilarante di Antonino Iuorio (nei panni del rivale in amore di Aron) che consente di alleggerire la narrazione.
Lo spettacolo lanciato Fabrique du Cinéma, affiancato dalle mostre d’arte contemporanea, è un’idea innovativa che ha il merito di aver sperimentato e, soprattutto, di aver dato spazio ai giovani, rischiando dal punto di vista del risultato; d’altronde, come recita lo stesso protagonista durante la rappresentazione: “La vita è come un dado, non sai mai quale numero ti uscirà.”
data di pubblicazione: 03/06/2016
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da Antonio Iraci | Mag 31, 2016
(Teatro India – Roma, 29 maggio 2016)
Come l’arte concettuale va al di là delle forme espressive tradizionali, sovrapponendo al risultato estetico l’idea che ha inizialmente concepito l’opera stessa, così anche il teatro e la musica oggi vanno alla ricerca di nuove esperienze convergenti, sperimentando nella rappresentazione modalità singolari e significati insoliti. In Vie de Famille raffigurazione scenica e musica, voce e suono, si sovrappongono per dar vita ad uno spettacolo estremo in cui la parola risulta mantrica e trascende il testo, il suono si fonde in espressioni aritmiche che trovano tuttavia un punto di coesione in una definizione che solo un ossimoro può esprimere: una pura e semplice disarmonica armonia che accompagna le parole in un recitativo spesso ripetitivo.
L’Ensemble Aleph è un teatro musicale costituito da sei musicisti francesi che, sotto la regia di Louis Clément, sono riusciti a mettere in scena le proprie individualità ognuno con la scelta di uno scritto, in una performance accompagnata dalla musica del tutto sperimentale di Jean-Pierre Drouet: il risultato è una pièce teatrale del tutto singolare, un’opera inedita che si articola in diversi tempi, come capitoli di un racconto unico disarticolato, un concerto nel concerto che ha molto incuriosito e coinvolto gli spettatori in sala.
Lo spettacolo rientra in un progetto promosso dal Teatro dell’Opera di Roma insieme ad altre importanti istituzioni culturali romane quali l’Accademia di Santa Cecilia, il Teatro di Roma, la Fondazione Musica per Roma, l’Accademia di Francia. Con l’istituzione di questo primo Festival Internazionale di Teatro Musicale Contemporaneo, curato da Giorgio Battistelli, si è voluto portare all’attenzione del pubblico romano le nuove espressioni artistiche contemporanee, spaziando dalla musica al teatro, dalla danza alle arti visive digitali e portando le rappresentazioni stesse in vari punti della città con la peculiare intenzione di renderle quanto più fruibili da parte degli interessati.
Il Fast Forward Festival, iniziato il 27 maggio, proseguirà sino al 9 giugno.
data di pubblicazione:31/05/2016
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Mag 31, 2016
Vincitore del premio Strega giovani 2014
È la storia della vita di Samia Yusuf Omar. La sua vita a Bondere, un quartiere di Mogadiscio, la sua crescita tra le strade polverose e la sua passione per la corsa che la porterà a partecipare, a solo 17 anni con una preparazione autodidatta, alle Olimpiadi di Pechino del 2008.
Impareremo ad amare questa ragazza con la sua determinazione e le sue sofferenze, in un paese dilaniato da una guerra intestina in cui perderà amici e familiari, che la spingeranno a pretendere sempre di più dall’unica cosa che pensa potrà metterla in grado di fare qualche cosa di utile per il suo paese: vincere alle Olimpiadi di Londra del 2012 e ottenere le attenzioni sufficienti per poter dare voce alle donne della Somalia, ai problemi del suo paese, alle sue difficoltà e alla sua sofferenza, per poter chiedere aiuto.
Ma benché il comitato olimpico della Somalia la aiuti nella sua scalata verso il “successo”, Samia si rende perfettamente conto che non sarà mai in grado di poter competere con le campionesse degli altri continenti; l’unica sua possibilità per poter vincere, perché sa che nelle sue gambe c’è la potenza che può portarla sul grandino più alto del podio, è di arrivare in Europa e allenarsi con le altre atlete. Percorrere la strada che ha già fatto sua sorella prima di lei e, se fortunata, raggiungere il suo idolo Mo Farah che da Mogadiscio è arrivato a Londra e ora gareggia sotto la bandiera inglese.
A questo punto inizia il viaggio di Samia per arrivare in Europa, il dramma di un viaggio della speranza, descritto nei minimi particolari in modo crudo e duro, che la porterà a solcare il Mar Mediterraneo nella speranza di raggiungere le coste di Lampedusa.
Di una drammatica attualità, è un libro che dovremmo leggere tutti, perché nessuno di noi è in grado di immaginare neanche lontanamente cosa affrontano queste persone pur di passare il Mediterraneo.
data di pubblicazione: 31/05/2016
da Maria Letizia Panerai | Mag 29, 2016
Almodòvar con il suo nuovo film è riuscito a dare una forma, un colore e un viso al dolore. Si rimane ipnotizzati dal modo con cui descrive il terribile vuoto nella vita di Julieta generato dall’assenza di sua figlia Antìa: “la tua assenza riempie totalmente la mia vita e la distrugge. Esisti solo tu”. Il dolore per Pedro Almodòvar ha la forma della mela che addenta la sua protagonista, ha il colore rosso fuoco, vivo e pulsante, del cuore tatuato sul braccio dell’amato Xoan, ha l’apparente peso di un sipario di velluto che poi diviene palpitante come un leggero vestito estivo che copre il corpo ancora giovane della sua Julieta, ha il viso di lei che cambia in un batter di ciglia mentre attende che ritorni la serenità perduta. Julieta è un film misurato, “contenuto” come dice lo stesso regista, che riesce a descrivere il tentativo di continuare a vivere dimenticando lo strappo lacerante di un distacco o di una perdita, per poi interrogarsi se è davvero possibile cancellare dalla propria memoria chi si ama profondamente, quando per un puro capriccio del fato riaffiorano ingombranti vecchi sensi di colpa che si pensava sopiti.
Per la protagonista della storia i sensi di colpa iniziano ad affacciarsi molti anni addietro durante l’inverno, nel vagone di un treno, in cui fortuitamente incontra un uomo triste e misterioso. Il treno si ferma bruscamente perché un cervo ha (forse) attraversato i binari. È notte, c’è la neve e fuori fa molto freddo; tra gli uomini che accorrono dopo la brusca frenata c’è Xoan, l’uomo della sua vita. In quella stessa notte e su quel treno verrà concepita Antìa, che per molti anni riempirà le vite di Julieta e Xoan, sino a quando la vita non metterà alla prova tanta felicità.
Vita e morte si mescolano come sempre nei film di Almodòvar e le donne ne sono il fulcro. Julieta racconta ciò che la vita può riservarci e lo fa in modo asciutto e crudele, senza troppi giri di parole. L’assenza, il distacco, il dolore sordo si percepiscono in questo film anche nell’essenzialità degli arredi, nelle vecchie carte da parati di appartamenti in affitto, negli oggetti e nei libri che ad un certo punto vengono impacchettati per essere portati in un nuovo appartamento, dove andranno parzialmente a riempirne spazi precedentemente abitati da altri, ma dove tuttavia, come una fiammella, alberga il desiderio di reagire, testimoniato dall’unione dei brandelli di una vecchia foto e da una scultura in bronzo ricoperta di argilla dall’aspetto compatto, che il vento non fa cadere…
Il regista spagnolo, passando attraverso il melodramma della sua precedente filmografia, si misura con il dramma, in cui la vita della protagonista ci viene descritta come in un thriller “le cose accadevano senza che io vi prendessi parte: una anticipava l’altra…”, mantenendo tuttavia quello stile di intrecci e colpi di scena che rendono Julieta inconfondibilmente sua, in cui le azioni/reazioni di questa donna indirizzano l’intera vicenda verso un epilogo che, come in ogni film di Almodòvar e nella vita, non risulta mai essere scontato.
data di pubblicazione:29/05/2016
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da Antonio Iraci | Mag 26, 2016
Durante una gita in barca alle isole Eolie, Anna (Lea Massari) scompare nel nulla. Il suo compagno, l’architetto Sandro (Gabriele Ferzetti) e la sua amica Claudia (Monica Vitti), nonostante la mobilitazione generale, decidono di continuare le ricerche da soli seguendo degli indizi che presto però si riveleranno poco attendibili non portando ad alcun risultato concreto.
Con il passare dei giorni tra Sandro e Claudia nasce una reciproca attrazione per cui, da una semplice avventura iniziale, il loro rapporto si trasformerà in una vera e propria relazione sentimentale che, per quanto indecifrabile, verrà presto accettata dall’intera compagnia. Sandro tuttavia non smentisce la sua vera natura di don Giovanni e subito si concede una distrazione con la bella scrittrice Gloria (Dorothy De Poliolo) gettando Claudia in una cupa costernazione visto che proverà gli stessi sentimenti frustranti che avevano fatto tanto soffrire l’amica scomparsa. In questo film Antonioni rimarca le tematiche a lui ben note e che hanno caratterizzato molti dei suoi lavori: la fragilità dei rapporti interpersonali in quel tipo di società borghese e annoiata degli anni sessanta dove vengono sempre messi in discussione i principi base di una morale sociale oramai anacronistica.
L’Avventura rese famoso il regista a livello internazionale ed ebbe un clamoroso successo a Cannes anche se non vinse la Palma d’Oro ma solo il premio speciale della giuria. In Italia il film fece grande scalpore e indusse la censura a far sequestrare la pellicola per oscenità visto che il comportamento dei protagonisti poteva essere interpretato come sconvolgente e amorale.
Girato tra Noto e Taormina il film ci suggerisce questa ricetta ideata da Andrea, siculo doc, che consiste in una versione di pollo arrosto con patate: ricetta semplice e allo stesso tempo ricca dei sapori forti della Sicilia.
INGREDIENTI: 1 pollo grande – 150 grammi di pomidoro secchi sott’olio – 500 grammi di patate – rosmarino e uno spicchio d’aglio – 2 cipolle bianche – un peperone – 100 grammi di olive nere al forno – 100 grammi di olive bianche – pepe qb.
PROCEDIMENTO: Tagliare in pezzi il pollo e metterlo in una teglia oleata insieme alle patate, alle cipolle ed al peperone, tutto tagliato nella grandezza desiderata. Aggiungere un poco di rosmarino, le olive ed i pomidori secchi sott’olio che verranno precedentemente triturati in pezzetti molto piccoli, dunque mescolare con le mani tutti gli ingredienti. Cospargere il tutto con un poco di pepe, evitando di aggiungere sale perché i pomidori secchi risultano già abbastanza saporiti. Infornare per circa 40 minuti (ed oltre se necessario) ad una temperatura di 200 gradi. Il pollo va servito caldo.
da Antonio Iraci | Mag 24, 2016
Daphne e Josh, colpevoli di fronte alla legge per aver compiuto dei piccoli furti, devono scontare la pena in un carcere minorile. Pur essendo detenuti in sezioni separate, trovano il modo di incrociare i propri sguardi e, nonostante il divieto assoluto di comunicare tra di loro, iniziano una intensa e passionale storia d’amore che al momento, tra le mura e le grate che li separano, si limiterà ad uno scambio furtivo di bigliettini e di brevissimi contatti fatti di semplici e innocenti gesti. E così il loro vissuto, le loro colpe e le frustrazioni causate da un affetto a loro negato, sembrano improvvisamente svanire per lasciare il posto allo sbocciare di “un fiore” che i due adolescenti riescono a custodire e ad alimentare con l’amore che, come sempre, non conosce ostacoli perché capace di andare oltre le sbarre dell’incomprensione e delle sterili convenzioni sociali.
Ben presto imparano, sulla propria pelle, che in carcere la privazione della libertà investe soprattutto la sfera dei sentimenti e che per correre insieme verso un futuro che sta lì ad aspettarli, oltre le mura penitenziali, bisogna necessariamente infrangere quelle barriere.
Dopo il successo di Alì ha gli occhi azzuri, che ha ottenuto nel 2012 il premio speciale della giuria al Festival Internazionale del Film di Roma, ancora una volta il regista romano Claudio Giovannesi ci racconta una storia vera di adolescenti veri.
I protagonisti, interpretati rispettivamente da Daphne Scoccia e Joshua Algeri, alla loro prima esperienza cinematografica rappresentano sé stessi, riuscendo a trasmettere quel giusto pathos emotivo richiesto dall’intenso script e rendendo la narrazione assolutamente perfetta grazie alla loro spontaneità, con imprevisti e colpi di scena che non risultano per niente banali o scontati.
A questi due giovani interpreti si affianca, come padre di Daphne, Valerio Mastandrea che con brevi apparizioni riesce a comunicarci quella giusta dose di sentimento paterno, intenso ma impacciato, grazie a quella collaudata naturalezza che ben conosciamo.
Questa bella pellicola sicuramente riceverà dal pubblico in sala lo stesso calore con cui è stato accolto a Cannes, dove il film è stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.
data di pubblicazione:24/05/2016
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da Alessandro Rosi | Mag 24, 2016
(Museo Carlo Bilotti – Roma, 21 Maggio 2016)
Non appena varchiamo la soglia del Museo Bilotti, una figura minuta, scheletrica, deforme si dirige minacciosamente verso di noi. Il suo volto è coperto da una maschera demoniaca — che rievoca quella di Hannibal Lecter —, mentre il suo corpo si contorce, si dimena, si rotola per liberarsi dalla tela nera in cui è intrappolato, simbolo delle sue paure e angosce. Ai suoi lamenti inumani, si contrappone la melodia incantevole di un violino, che scandisce il frenetico alternarsi delle sue emozioni.
L’essere animalesco non è altro che Calibano (nome che, con tutta probabilità, deriva da cannibale), personaggio de La tempesta di Shakespeare; e noi siamo entrati nel suo mondo incontaminato — nella sera in cui le Muse permettono di visitare il loro tempio anche in notturna — disturbando la quiete imperante nella sua dimora. Con una danza sincopata e inquietante, ci inseguirà per le stanze del museo per riconquistare la supremazia perduta.
Ma nell’ultima sala del palazzo, l’essere mostruoso si dilegua e da dietro un quadro appare un’altra maschera: stavolta è quella dell’ebreo Shylock, o meglio, di un attore che racconterà di essere rimasto intrappolato nel personaggio e che gli unici momenti in cui gli è concesso togliersi la maschera sono determinati dalla musica di un violino. Ed è proprio trasportato dalle onde sonore dello strumento a corde che ripercorrerà la storia del Mercante di Venezia, evidenziando la misera condizione del suo personaggio: avido di denaro, perde ogni suo avere per aver chiesto illegittimamente, ancorché in virtù di un accordo, una libbra del cuore del cristiano Antonio. Nonostante la sua richiesta appaia a prima vista turpe, il suo intento era di rendere più umano il suo antagonista, togliendo dal suo cuore quella parte malvagia che lo portava a macchiare con la sua saliva le vesti del cupido giudeo.
Lo spettacolo è sensazionale sia per le prestazioni degli attori — Vittorio Pavoncello si esalta nell’interpretare i diversi personaggi del Mercante di Venezia; mentre spaventevole e intensa è l’abilità mimica di Ro’ Rocchi — sia per il luogo in cui si svolge: nella sala dedicata a De Chirico anche i capolavori del pittore assistono alla messinscena, contribuendo a realizzare un’atmosfera magica, dove le raffigurazioni dei quadri si fondono con i personaggi dello spettacolo. Anche i manichini dei suoi dipinti — invero —, poiché possiedono a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ancorché siano privi di vita, fanno paura e irritano come Calibano e Shylock. In questo mélange tra ambiente e attori, prende vigore il messaggio veicolato dallo spettacolo per una società capace di accettare le peculiarità di ognuno senza discriminazioni, perché: più ci sono diversità e meno sono le differenze.
data di pubblicazione:24/05/2016
da Rossano Giuppa | Mag 23, 2016
(Teatro India – Roma e in tournée)
Siamo alla fine degli anni ’30 nella provincia americana, ma potremmo essere alla fine degli anni sessanta in Italia. I disagi e le difficoltà sono gli stessi, un piccolo mondo pervaso di speranze soppresse e segnato dalla costante fatica di vivere. Siamo di fronte a Lo zoo di vetro, il capolavoro del drammaturgo americano Tennessee Williams in scena al Teatro India di Roma dal 18 al 22 maggio nella versione di Arturo Cirillo, a cavallo di una lunga tournée nei principali teatri italiani.
Amanda, ancorata al ricordo di una giovinezza da tempo sfiorita, ha cresciuto i suoi due figli da sola, dopo che suo marito li ha abbandonati. Tenera e ossessiva al tempo stesso, la donna si preoccupa del futuro della figlia Laura, resa zoppa da una malattia, introversa e chiusa nel suo mondo fatto di illusioni e di animaletti di vetro. L’altro figlio Tom lavora in una fabbrica di scarpe per mantenere madre e sorella, ma la vita noiosa e banale che è costretto a condurre lo rende irascibile e lo porta a fuggire dalla madre e dalla casa ogni sera per cercare nel cinema e nei film il senso della propria esistenza. La madre prega Tom di trovare un corteggiatore per la sorella che le possa garantire un futuro ed una sopravvivenza. Per liberarsi dalle pressioni di sua madre, Tom invita così Jim, un amico di vecchia data che ora lavora con lui alla fabbrica. Mentre Amanda si dedica completamente all’allestimento della cena, Laura scopre che Jim è il ragazzo che ai tempi del liceo le piaceva moltissimo ma sopraffatta dalla sua stessa timidezza e non riesce nemmeno a sedersi con gli altri a tavola. Durante la cena, improvvisamente la luce va via. I due ragazzi si trovano così a parlare a lume di candela. Per un attimo l’arrivo di Jim dal mondo esterno sembra gettare un raggio di luce sull’intima disperazione di tre vite ormai cristallizzate nei propri dolori, ma è una speranza vana. Mentre i due ragazzi si trovano a danzare insieme, con un brusco movimento Jim fa cadere un unicorno di vetro che fa parte della collezione di Laura, spezzandogli il corno. Subito dopo la bacia, ma le confessa di essere già promesso sposo a un’altra donna e fugge via. La madre si infuria con Tom e lo caccia di casa. Tom nel soliloquio finale spiega come dopo quella sera lui avesse abbandonato Amanda e Laura non tornando più da loro, anche se il loro ricordo lo aveva tormentato per tutta la vita.
Il ricordo pervade il teatro: lo spettacolo è attraversato da una malinconia nostalgica, evocata dalle canzoni di Tenco, dal rimpianto del passato, dall’album di vecchie fotografie, dal delicato e sospeso alternarsi di passato e presente.
Vivi e profondi tutti e quattro gli interpreti in grado di dare anima a differenti drammi di solitudine e sconfitta; c’è Tom (Arturo Cirillo anche regista delle piece) il figlio-narratore che si rifugia ogni notte in un mondo di cinema ed alcol; Laura (Monica Piseddu) sua sorella, donna fragilissima che trova senso nell’accudire una collezione di animaletti miniaturizzati in vetro e poi Amanda (Milvia Marigliano) motore di ogni patologie ma anche vittima di un abbandono e, soprattutto, di sé stessa. La flebile possibilità di ingentilire il futuro arrivata insieme a Tom (Edoardo Ribatto), giovinotto bello ma impegnato è destinata ben presto a tramutarsi nell’ennesima cocente delusione.
Il regista Cirillo, particolarmente sensibile al tema della memoria e del ricordo riesce a dare unicità e contemporaneità all’opera di Williams attraverso una veste asciutta e realistica, essenziale, efficace grazie anche alla trasposizione temporale di fine anni ’60 nella provincia italiana. Un piccolo capolavoro emotivo, straziante, assoluto fatto di pochi elementi che inchiodano il dramma, la disperata solitudine di un gruppo di anime deboli, lo scontro e la sconfitta nei confronti della propria quotidianità, banale e avvilente, logorante, deprimente.
data di pubblicazione:22/05/2016
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da Elena Mascioli | Mag 23, 2016
(Teatro Vascello – Roma, 18/22 Maggio 2016)
“Ho scelto di lavorare su Metamorfosi di Ovidio per l’evidente impossibilità a farlo”. Su questo assunto si sviluppa l’adattamento e la regia che Roberto Latini fa di quel “materiale vasto, ricco e traboccante, dal sapore del non finito, del non finibile” che le Metamorfosi di Ovidio rappresentano. Come detto nel breve scambio di parole avuto con l’artista dopo la rappresentazione, la Metamorfosi del testo di partenza diventa essa stessa forma, in mutamento (“come aveva detto di farlo, Roberto?”), in uno spettacolo che nei primi due giorni si presenta, per singolo episodio, ad uno spettatore per volta e poi, nelle sere successive, si declina in undici episodi, raccolti in tre tempi. La metamorfosi che attraversa gli episodi e gli attori che, di volta in volta, tra gli altri, sono Ecuba, Narciso, gli Argonauti, Teseo, il Minotauro e soprattutto lo splendido Orfeo, non interessa invece i costumi e il trucco: una teoria di clown, dalle improbabili pance finte e parrucche, dalle lunghe e colorate scarpe e, soprattutto, con un finto naso rosso che diventa propaggine dell’alluce, anello, gioco di scambio con il pubblico nelle incursioni in sala che gli attori fanno, a mo’ di tendina cinematografica, tra un episodio e l’altro. Latini conferma la sua scelta di un teatro “della relazione possibile e non della convenzione stabilita”, come aveva affermato a proposito del suo Ubu Roi, e qui, nelle note di regia dello spettacolo, parla infatti di “attrazione”, quale punto di partenza, e non di “astrazione”. La stessa attrazione che il pubblico fedele a Latini sente per il suo teatro, mai convenzionale ma neanche convenzionalmente off, un teatro che attiva cuore e cervello, che scardina, costringe a sentire e a pensare e in cui, tuttavia, c’è sempre un ritorno a casa reso da quei segni ormai distintivi e imprescindibili della messinscena di Latini, il microfono, fedele amplificatore della sua voce possente, la corsa con cui il regista circoscrive i suoi attori e la sua scelta di regia, il corpo, i corpi, i corpi nuovi in cui sono mutate le forme, in questo e in tutti gli spettacoli che mette in scena. E poi c’è Orfeo, ad accompagnarci nel viaggio poetico della vita e nell’Ade:“Non bagnatevi nel buio e nel sangue. È facile. Noi crediamo ancora nell’amore. Siamo ancora capaci di provare pietà”. Gli spettatori de le Metamorfosi hanno deciso di seguire Orfeo/ Roberto Latini ogni volta che salirà su un palco, per bagnarsi di teatro, d’arte, di bellezza e di emozioni pure e intellettive.
data di pubblicazione:22/05/2016
Il nostro voto:
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