da Alessandro Rosi | Giu 29, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 28/30 Giugno 2016)
“Quando ero in Ghana non ho mai recitato, mentre qui ho avuto l’opportunità di entrare nel gruppo teatrale; e sono molto emozionato di poter recitare in teatro, mai l’avrei pensato quando ero nel mio paese.” (Mubarak Rabin Bawa)
Ogni anno un milione di persone attraversa la sconfinata e traslucida distesa azzurra del Mediterraneo per trovare rifugio nella terra del tramonto. Di queste anime liquide, 3900 non riusciranno a portare a termine il viaggio, e il mare “spolperà le loro ossa in sussurri”. Mubarak Rabin Bawa è tra coloro che sono scampati al mare e fuggiti dai telegiornali; insieme con altri richiedenti asilo del C.A.R.A. — Centro Accoglienza Richiedenti Asilo — di Castelnuovo di Porto (RM) ha rinunciato a raggranellare qualche soldo durante la sua permanenza per investire otto mesi del suo tempo libero nel teatro, incontrando altri uomini e altre donne sulla “spiaggia del palcoscenico”.
Respiro è il secondo spettacolo della trilogia del Teatro del Deserto e segue l’acclamato Sabbia. Respiro come l’atto quotidiano, automatico, incondizionato; ma anche ciò che ci distingue da chi non è più vivo. Il regista, tuttavia, ci avverte che non è un’opera di teatro sociale ma una composizione poetica di scene tra teatro, danza e musica. Non c’è nessuna idea da comunicare, nessun messaggio; non c’è alcuna recita drammatica, né personaggi dove ogni attore fa finta di fare qualcun altro: una forma di teatro che contrasta con la tradizione scenica del realismo discorsivo. Al posto del recitato vi è un intreccio di parole di lingue diverse, musiche di differenti etnie, danze coreografiche eterogenê (nel ballo si distingue per la sua forza dirompente Eva Grieco, che fende il palco con movimenti estemporanei ma ben calibrati). Un pot-pourri senza intento pedagogico; diversamente dal teatro che illustra e giudica, l’azione scenica qui si presenta come semplice evento.
Tavoli, sedie, materassi costituiscono la scena, che rimembra i centri di accoglienza che ospitano gli attori: non luoghi dove i rifugiati attendono una pronuncia sulla richiesta di asilo e che sono spesso teatro di rivolte, ma anche posti di convivialità.
Una rappresentazione allegra, vivace, variopinta in cui il pubblico rimane “ferito a morte dalla vitalità” e che scatena un maremoto di emozioni alla vista della reazione degli attori all’acclamazione del pubblico: inebriati dalla gragnuola di applausi, c’è chi improvvisa uno stage diving; chi invece si guarda spaesato intorno, realizzando solo in quel momento di trovarsi in un teatro così ricco di storia come l’Argentina; e, infine, chi si stropiccia gli occhi perché non crede a ciò che vede.
Non tutti i sorrisi sono uguali, quelli che si disegnano sui loro volti a fine spettacolo sono speciali.
La loro gioia è la speranza che si può migliorare, che l’uomo possa apprendere l’uno dall’altro; e che le morti infauste e premature di qualcuno possano fungere da monito per il futuro. Pensiero condensato alla perfezione nella seguente poesia di T.S. Eliot:
La morte per acqua
Fleba il fenicio, morto da quindici giorni
dimenticò il grido dei gabbiani, e il gorgo profondo
del mare
e il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
spolpò le sue ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava
attraversò gli stadi della maturità e della gioventù
sprofondando nel vortice.
Gentile o giudeo, tu che volgi la ruota
e guardi nella direzione del vento, pensa a Fleba
che un tempo era bello e alto al pari di te.
— T. S. Eliot
Prezzo dei biglietti:
– Intero: 8€
– Ridotto: 5€
data di pubblicazione: 29/06/2016
Il nostro voto:
da Gabriella Ricciardi | Giu 28, 2016
Nel mondo del cinema, il mondo che amiamo e frequentiamo, ci sono molti mestieri di cui a volte, non conosciamo esattamente la cifra. Per questo abbiamo pensato di chiedere a un giovane (ha 26 anni) Direttore della Fotografia, Stefano Ferrari, qualcosa in più sul suo lavoro e sul perché, per farlo, è in America da cinque anni, dove ha partecipato a oltre a 40 progetti, tra lungometraggi, corti, video musicali e pubblicità.
– L’America, una scelta professionale o una scelta obbligata per poter lavorare?
“Ho deciso di venire a New York perché volevo confrontarmi con il mondo e mettermi in gioco. Volevo capire se la passione che stavo coltivando in Italia, nata osservando il lavoro di mio padre, anche lui Direttore della Fotografia, e poi lavorando come elettricista nel cinema, fosse veramente la strada da seguire. A 20 anni si vuol fare tutto e niente e io volevo vedere quanto fosse solida la mia passione.”
-Cosa hai fatto appena sbarcato in America?
“Durante il mio primo anno newyorkese ho frequentato il corso di cinematografia alla New York Film Academy. Una scuola che mi ha insegnato molto tecnicamente e che mi ha aperto le porte del mondo del cinema indipendente, mettendomi in contatto con persone di ogni parte del mondo. Ma è solo quando è finita l’accademia che ho conosciuto la vera faccia di NY. Una “giungla di cemento”, come dice Alicia Keys in una delle sue canzoni. Una giungla dove solo i migliori “sopravvivono”.
-E tu cosa hai fatto per sopravvivere?
“I primi lavori erano piccoli progetti. La maggior parte delle volte riuscivo solo a mangiare. Fare un po’ di esperienza e, se fortunato, un paio di buone conoscenze, era tutto il salario giornaliero che riuscivo a mettere insieme. Era un periodo di pura sperimentazione, alla continua ricerca di un’identità artistica. Tra questi progetti ricordo SIX, un corto che ha avuto un inaspettato successo nel circuito mondiale dei festival e mi ha garantito la mia prima nomination per la migliore fotografia. Oggi, i tempi di SIX sono passati e la mia carriera mi porta a lavorare in giro per il mondo e a confrontarmi con diversi mercati tra cui quello europeo. New York non è più una giungla, ma una città di cui amo i ritmi e le possibilità che offre. È la mia casa.”
-Hai un agente?
“No, ho avuto diverse proposte da parte di agenzie, ma ho preferito essere indipendente. I produttori mi contattano attraverso il mio sito o con la mail personale. Ormai il mio nome gira fra i colleghi. Funziona il passa parola e la meritocrazia.
-Cosa fa un Direttore della fotografia?
“Trasforma le parole della sceneggiatura in immagini. Insieme al regista crea il linguaggio visivo del film attraverso luci, colori e inquadrature.”
-Come e quando comincia un nuovo lavoro?
“La prima cosa è capire quale sia l’idea e l’obiettivo finale del progetto, poi leggo la sceneggiatura. Subito dopo cerco informazioni sulle persone coinvolte, soprattutto regista e produttori. È sempre importante capire con chi si ha a che fare. Quando ho deciso, mi piace avere un incontro informale con le persone coinvolte, di solito davanti a un buon caffè. Non mi piace prendermi troppo sul serio. Odio le riunioni fiume, non hanno un gran senso, soprattutto quando le uniche cose da discutere sono di carattere logistico. Al contrario, mi piace subito capire che tipo di energia ci sarà sul set. Con un po’ di esperienza, ci vuole poco a prevedere come un determinato team si comporterà durante la produzione.
I primi step di una pre-produzione sono fatti di ascolto. È fondamentale farmi un idea di quello che il regista ha in mente. Una storia la si può interpretare in molti modi e di conseguenza girarla in molti modi diversi. Il primo passo, il più importante, è trovare un linguaggio cinematografico univoco capace di tradurre la mia immaginazione, quella del regista e del resto dei collaboratori artistici, in immagine.
-Che differenze ci sono tra il mercato europeo e quello americano?
“La risposta è sempre una: le opportunità. In America il mondo dello spettacolo è visto prettamente come un business e in Europa forse, più come un’ arte, e questa interpretazione porta a qualche svantaggio, ma anche al grande vantaggio della meritocrazia. Chi lo merita va avanti, chi no, viene stritolato dai meccanismi di un sistema estremamente competitivo.
Detto questo, ho avuto invece l’opportunità di lavorare recentemente in Italia in un film con Francesco Pannofino, La Partita, una storia che racconta in chiave tragicomica diverse situazioni personali in cui le due religioni italiane, quella cattolica e quella calcistica, creano l’ambientazione della storia. Un tipica domenica italiana nella periferia romana. È un progetto che mi sta a cuore e che spero trovi la giusta distribuzione.
-Documentari?
“Ho lavorato al documentario di Marco Amenta, Magic Island, anche questo in Italia. Una bella esperienza in cui ho apprezzato la grande professionalità dei protagonisti e della troupe.
Mi piacerebbe lavorare più spesso in Italia, perché noi italiani abbiamo un bagaglio di cultura cinematografica molto ampio, ottime idee e una professionalità tangibile sul set.
-America e Italia, due modi diversi di lavorare?
“Non ho trovato grandi differenze, è più una differenza culturale e ambientale che professionale. I termini tecnici cambiano ma la sostanza rimane la stessa. In Russia invece si lavora in modo molto diverso: grande professionalità, ma altri metodi.
-Che progetti hai per il futuro?
“In agenda ho 3 documentari, uno sulla discriminazione delle donne a Hollywood, prodotto da Geena Davis; uno girato sull’isola greca di Kastellorizo sulla crisi dei rifugiati siriani e uno sulla figura di Dean Martin. Poi c’è anche un film, la storia di due ragazze tra amore, avventure e sanità mentale.
Lavori che fino ad ora, mi hanno fatto scoprire storie affascinanti, conoscere persone incredibilmente talentuose e viaggiare per il mondo.
data di pubblicazione: 28/06/2016
da Antonella D’Ambrosio | Giu 27, 2016
Le Vie Del Cinema da Cannes a Roma, organizzata dall’8 al 12 giugno da Anec Lazio in collaborazione con la Regione Lazio, CityFest – Fondazione Cinema per Roma ed il patrocinio di Roma Capitale nelle sale romane Eden, Fiamma e Quattro Fontane, grazie alla ricca e apprezzata selezione dei film dal Festival di Cannes, ha avuto un notevole incremento di pubblico nonostante il giorno in meno di programmazione.
La XX edizione della ormai storica e consolidata rassegna cinematografica, molto amata dai cinefili, si è svolta quest’anno anche in alcune sale del territorio regionale, il multisala Oxer di Latina, il multisala Rio di Terracina ed il cinema Palma di Trevignano: 17 film più 1 cortometraggio, 38 proiezioni in 6 sale, hanno fatto registrare un incremento delle presenze del 22% rispetto al 2015.
Il tutto esaurito ha fatto registrare la Palma d’Oro I, Daniel Blake del grande Ken Loach.
Con i modi limpidi che gli sono propri, Loach racconta in maniera semplice e diretta la sofferenza di un uomo onesto che ha sempre pagato le tasse: il dolore di perdere il rispetto dello Stato e quello della comunità dopo la malattia che lo ha colpito e la mancanza di leggi che tutelino i più deboli, ma fa capire anche come tra le persone più semplici si possa trovare comprensione e aiuto.
Ha visto le sale pieneovviamente anche Juste la fine du monde di Xavier Dolan (Gran premio della giuria e Premio ecumenico).Il sesto film del ventisettenne giovane genio canadese ha stregato il pubblico con primi piani che confermano il suo grande talento: Dolan sa perfettamente quello che vuole dagli attori; prende una storia (la piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce) e la fa sua, anzi nostra.
In Bacalaureat del rumeno Cristian Mungiu, il regista si interroga sulla rettitudine morale e sui compromessi. In una cittadina della Romania di oggi sono indagate le aspettative di un onesto medico d’ospedale alle prese con la licenza di sua figlia. La ragazza è un’ottima alunna, ma perché rischiare di far saltare la programmazione di spiccare il volo all’estero per un incidente della vita? L’ottimismo è tutto rivolto verso i giovani, invecchieranno anch’essi?
The Salesman di Asghar Farhadi (Premio miglior sceneggiatura, Premio miglior attore a Shahab Hosseini), Iran/Francia: la vita ci pone costantemente davanti a scelte e cambiamenti di programmi inverosimili, così anche i matrimoni riusciti possono essere messi a dura prova da imprevedibili accadimenti esterni che diventano macigni interiori e certo all’affiatata coppia non basterà saper recitare: ora la vita diventa una recita e la tragedia terribilmente vera.
Sieranevada di Cristi Puiu, Romania: Lary, un medico sulla quarantina, tre giorni dopo l’attacco terroristico contro gli uffici del settimanale parigino Charlie Hebdo e quaranta giorni dopo la morte del padre, si trova a dover affrontare i propri fantasmi. Il film, di una maestria indiscutibile, mette a dura prova lo spettatore, specialmente all’inizio, con lunghe scene girate in tempo reale. La durata di quasi tre ore è riccamente ricompensata dalla padronanza registica: blocchi di piani sequenza con presa diretta sulla vita. Il corridoio su cui si aprono e chiudono le varie porte dell’appartamento ci porta a pensare ai cunicoli della mente dove tutto il vissuto si deposita. I rapporti tra familiari, indagati così in diretta, ci rendono partecipi della storia e esploratori del nostro subconscio.
Ma vie de Courgette di Claude Barras grazie alla Teodora film sarà distribuito anche in Italia. Zucchina è il nome con cui la distratta madre chiama il protagonista di questa tenera storia. La sceneggiatrice Céline Sciamma (Tomboy) si è basata sul romanzo Autobiografia d’una zucchina di Gilles Paris: la vita del bambino in orfanotrofio dopo la morte della madre. L’originalità della storia sta nel capovolgere i luoghi comuni: dalla parte dei buoni troviamo la direttrice e le assistenti dell’ orfanotrofio e il poliziotto che ce lo conduce col quale farà amicizia. Realizzato in stop motion cioè in animazione a passo uno, quest’opera delicata e tutt’altro che banale sarà seguita con interesse e partecipazione da adulti e bambini; coinvolgerà nella risata qualsiasi età.
L’effet aquatique di Sólveig Anspach (Premio SACD Société des Auteurs e Compositeurs Dramatiques), ultimo lungometraggio della spiritosa regista islandese scomparsa a cinquantaquattro anni, lo scorso agosto, a causa di un cancro. Probabilmente si deve alla sua origine plurilingue – madre islandese, padre austriaco, scuole in Francia – l’acuto spirito di osservazione e la capacità di spaziare tra più culture. Il risultato è una deliziosa commedia cosmopolita dal tocco leggerissimo, impreziosita dalla felice presenza di Florence Loiret-Caille e Samir Guesmi eccellenti interpreti.
data di pubblicazione: 27/06/2016
da Rossano Giuppa | Giu 24, 2016
(Teatro India – Roma, 20/28 Giugno 2016)
Dal 20 al 28 giugnoil Teatro India propone la rassegna di spettacoli Il teatro che danza vetrina della coreografia contemporanea e della creatività, delle nuove forme della performance di oggi e delle tendenze del teatrodanza e del teatro fisico.
Primi due spettacoli in scena il 20 ed il 21 giugno Impression d’Afrique, composizione d’ensemble di Michele Di Stefano ed Ossidiana di Fabrizio Favale, con la sua compagnia Le Supplici.
Da una parte le Impression d’Afrique di MK proiettate nei colori, nei suoni e negli odori del continente nero e dall’altra Ossidiana, un’opera che parla di natura, di scontri energetici, di reazioni chimiche e di dinamismi spazio-temporali.
MK, realtà di punta nel panorama della danza contemporanea e del teatro danza in Italia, si occupa da sempre di performance e ricerca sonora. Il suo coreografo, Michele di Stefano, è una delle personalità più importanti della scena italiana nonchè vincitore del Leone d’argento alla Biennale di danza del 2014.
Impression d’Afrique si sviluppa con la dirompente ironia che caratterizza la celebre compagnia romana, sempre pronta a destrutturare i costrutti classici dei danzatori e della danza, ricorrendo in questo caso ad un ibrido stile afro-occidentale affrontato con coinvolgente energia. L’Africa prefigurata da Raymond Roussel nella stesura del suo romanzo Impression d’Afrique (1910) è un paesaggio irreale, che non ha altro scopo che quello di servire da sfondo ad una struttura sovrapposta, fatta di continue reazioni a catena di parole e movimenti, catturati da contesti differenti.
La performance, già presentata al museo etnografico Pigorini di Roma nel 2013, parte dall’Africa come come terra d’origine a cui vengono associate culture e contaminazioni diverse, che portano ad un contesto più metropolitano e street-style. In questa cornice il mix di personaggi – una pattuglia di marines, una donna costretta al sacrificio, alcuni esperti di telepatia – danno vita ad un quadro volutamente stratificato e movimentato, dall’ampio respiro ritmico che cattura e coinvolge.
Ossidiana, è al contrario una performance che prende le mosse dall’osservazione di quei particolari fenomeni che si riscontrano in natura, dove le forme restano incompiute o originano altre forme. Siamo qui in contesto nordico, notturno e nebbioso. La natura e la materia rappresentano il punto di partenza della performance basata su dinamismi continui in un costante divenire di corpi nello spazio, quasi reazioni chimiche fra elementi diversi.
La struttura coreografica di Fabrizio Favale lascia fluire al suo interno numerosissimi avvenimenti prima che i precedenti siano conclusi, proprio come accade al vetro vulcanico di ossidiana, che si forma in seguito al rapido raffreddamento della lava e che, data la sua conformazione chimica, non diventerà mai un cristallo.
Ossidiana, lavoro originale e visionario, denso e aereo al tempo stesso, sarà rappresentato alla Biennale de la Danse de Lyon, che si terrà dal 14 al 20 settembre 2016.
data di pubblicazione:24/06/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Pesce | Giu 21, 2016
L’autore di Pusher, di Drive e di Solo Dio perdona ha realizzato un film complesso e ambizioso, partendo dalla sua consueta cifra algida, asciutta, ereditata dal suo Maestro sceneggiatore preferito Paul Schrader, ma avventurandosi stavolta con coraggio in sentieri visionari, molto simbolici, che nella seconda parte del film virano sull’horror alla maniera di Suspiria di Argento, sovrabbondando altresì di citazioni psicologiche, e con allusioni a Jan Kott (se la Bellezza è Dio, è desiderio dell’uomo divorarla)
Essendo stato Refn regista di video e spot era l’ideale per questa storia che ha al centro come angelo sacrificale, una sedicenne troppo bella, di una bellezza mitica e assoluta, che non ha bisogno di trucchi né di sovrastrutture. Una bellezza che non può che suscitare gelosie in un universo dove i 21 anni fanno spavento e dove, probabilmente, l’autore stessodà libero corso ai suoi dèmoni. Ilimiti stilistici del film sono l’estetismo reiterato e la tentazione troppo modaiola delle locations e delle musiche.
Ambigui e sfuggenti i personaggi maschili più importanti, soprattutto il gestore dello squallido motel affidato, chissà perché, a un attore importante come Keanu Reeves.
Era chiaro che la platea di Cannes accogliesse con favore e clamore un film così potente, ma una visione più riflessiva ridimensionerà fatalmente il fenomeno.
data di pubblicazione:21/06/2016
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da Accreditati | Giu 20, 2016
In India il fiume sacro Gange è adorato dagli indù, che la mattina, scendendo dalle scalinate (ghats) della città sacra Benares, vi si possono immergere in atteggiamento di preghiera per purificarsi dai propri peccati. Due storie d’amore si consumano sotto il cielo e tra le gradinate di questa città bagnata dal fiume, personificazione della dea Devi, senza tuttavia che i protagonisti se ne rendano conto, ma che solo alla fine come due linee parallele in un punto preciso all’infinito si toccheranno, apparentemente per caso.
Una ragazza viene sorpresa dalla polizia in un albergo, a letto con il suo compagno di studi Safhya: Devi è il suo nome e quella era la sua prima volta. La ragazza dovrà scontare a caro prezzo questo atto ritenuto dalla società come qualcosa di spregevole e vergognoso, soprattutto nei confronti del padre Vidyadhar Pathak, uomo molto stimato, saggio e colto, ridotto in miseria dalle circostanze della vita. Deepak, invece, è uno studente di ingegneria, la famiglia si occupa del crematorio lungo le sponde del Gange: il ragazzo si alterna con il fratello ed il padre nella cremazione dei cadaveri, dedicando il poco tempo che gli rimane allo studio. Si innamora perdutamente di Shaalu Gipta, una ragazza contattata su facebook che però appartiene ad una casta superiore alla sua ed il cui amore, sia pur ricambiato, non potrà essere essere vissuto alla luce del sole sino a quando il ragazzo non finirà gli studi e non avrà trovato un dignitoso lavoro.
Neeray Ghaywan, giovane regista indiano al suo esordio, con Tra la Terra e il Cielo ci narra due storie parallele per alcuni aspetti simili in quanto in entrambe l’amore si trasforma in sofferenza e la morte sembra avere il sopravvento, in maniera crudele, sulla vita. Adottando due diversi registri narrativi nel raccontarci le vicende di questi quattro giovani, il regista tuttavia riesce a fonderli sul finale in un tutto più armonico, lasciando ben intravedere l’apertura verso una nuova vita che risorge dalle ceneri della precedente. Coerente con la millenaria spiritualità della religione indiana, il film ci induce a credere che il nostro essere sia animato da opposti che si susseguono in un incessante movimento circolare, dove anche i contrasti trovano il loro punto di fusione.
Ghaywan ci dà un’immagine diretta e reale dell’India di oggi senza risparmiarci nulla, anche ciò che di spirituale ha molto poco, prendendo a pretesto due storie d’amore per parlarci della vita di ogni giorno in cui i giovani lottano, e a fatica, tra una realtà che guarda al progresso ed alla modernità, e una mentalità retrograda che pesa come un macigno frenando il paese ed impedendogli di emanciparsi completamente.
Nel film i personaggi, ciascuno spinto da motivazioni diverse, lottano per riscattarsi socialmente ed inserirsi in un nuovo mondo più evoluto, scontrandosi con corruzione, pregiudizi ed una tradizione religiosa con la sua rigida suddivisione in caste, rigorosamente chiusa in schemi che non permettono alcuna trasgressione.
Ma ancora una volta l’amore sarà l’unica strada percorribile per riscattarsi da queste gabbie convenzionali, con l’immagine di due anime che su di una barca vengono traghettate dall’altra parte del Gange verso un futuro inaspettato.
data di pubblicazione:20/06/2016
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da Accreditati | Giu 17, 2016
Secondo la teoria di alcuni, Dio è un essere perfettissimo ma bizzarro che, oltre a trastullarsi sulle disgrazie di noi umani (concetto esemplarmente tradotto in immagini nello spassoso quanto intelligente Dio esiste e vive a Bruxelles di Van Dormael), a volte manifesta la sua infinita saggezza e indiscussa onniscienza attraverso la voce di uno, scelto forse a caso, che a questo punto verrà definito e ricordato dai posteri come un genio. Il prescelto, di suo, parrebbe non mettere nulla, se non limitarsi ad enunciare qualcosa che sino a quel momento era sconosciuto: fungendo da tramite tra gli uomini e Dio ne diventa il suo portavoce, arrivando ad affermare qualcosa che già c’è, solo che nessuno prima di allora sapeva dove fosse.
L’uomo che vide l’infinito di Matt Brown parla di questo: il protagonista Ramanujan (Dev Patel) espone formule matematiche nella loro totale completezza senza avvertire la necessità di doverle dimostrare perché lui, nel suo modo di sentirle, non ne ha bisogno in quanto quei teoremi sono come una musica, sinfonie nella sua testa. Il racconto parte agli inizi del ‘900 da Madras, in India, a quel tempo colonia britannica, dove il geniale ragazzo Ramanujan vive in assoluta indigenza, scrivendo teoremi, algoritmi, equazioni esponenziali a n incognite e la successione dei numeri primi sul pavimento di un tempio, non avendo la possibilità neanche di comperarsi la carta per trascriverle. Dopo aver fatto innumerevoli tentativi in patria per essere ascoltato, decide di inviare una lettera al famoso Trinity College di Cambridge esponendo parte delle sue intuizioni; la lettera viene intercettata dal professore G. H. Hardy (Jeremy Irons), freddo ed ostile, che inviterà il giovane a confrontarsi e ad argomentare quanto asserisce nella sua missiva.
Il film si basa su una sceneggiatura a volte traballante ed incline al melodramma che, con qualche cliché di meno, avrebbe raggiunto una maggiore incisività facendo risparmiare allo spettatore qualche lacrima di troppo. La storia di questo giovane ragazzo indiano, passato poi alla storia come un genio della matematica, scorre abbastanza fluida, mettendo essenzialmente in luce la sua conquista di un ambiente ingessato ed avverso perché troppo intriso di pregiudizi e decisamente poco incline a riconoscerne una superiorità intellettuale. Ben interpretato, il film si lascia vedere anche grazie ad una attenta ricostruzione storiografica, una bella fotografia e per quell’ingiustificato fascino che la dicitura “tratto da una storia vera” esercita sullo spettatore.
La chiave di lettura del film tuttavia non sembra doversi ricercare nel contrasto generazionale e razziale tra il protagonista e l’ambiente austero del College inglese, quanto nell’ispirazione divina delle formule enunciate che solo una sapiente dose di spiritualità indiana ne giustifica l’accettazione.
Purtroppo fa male constatare che ad un attore del calibro di Jeremy Irons siano riservati nell’età matura solo ruoli da tronfio professore universitario (La corrispondenza). Questa fase della sua carriera, non certo la migliore, è comunque di tutto rispetto al confronto dei ruoli ultimamente interpretati da Robert De Niro che, proprio nel cast assieme ad Irons in quel meraviglioso Mission, diede vita ad una delle più memorabili scene di conversione che siano mai state portate sul grande schermo.
data di pubblicazione:17/06/2016
Scopri con un click il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Giu 16, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 14/16 giugno 2016)
Immagini e memorie, delicate e complesse, articolate, nitide e sfocate dell’universo pasoliniano. Lo scontro tra uno spoglio presente ed i valori dello scrittore. Una discarica rarefatta che scopre e mette a nudo le ipocrisie della società. Copertoni velati di bianco, un falso candore, un inferno interiore. Siamo nella nuova creazione di ricci/forte, PPP Ultimo inventario prima di liquidazione che chiude la stagione del Teatro Argentina dal 14 al 16 giugno completando l’omaggio che il Teatro di Roma ha dedicato a Pier Paolo Pasolini, nel quarantennale della sua tragica scomparsa.
Lo spettacolo si interroga sulle involuzioni culturali del nostro presente, attraverso un testo poetico di dura denuncia dell’Italia contemporanea. Uno spettacolo meno esasperato, apparentemente più sobrio rispetto ad altri, che temporaneamente mette da parte l’estetica pop e le esasperazioni stilistiche per lasciarsi guidare dal narrato e dall’evocato. Ma le parole le non hanno mai un significato solo. PPP sta per Pier Paolo Pasolini, a cui è dedicata la rappresentazione un’elegia all’uomo ed al poeta in contrapposizione al confomismo dei tempi. Ma PPP sta anche per primissimo piano, ovvero inquadrature e focalizzazioni su dettagli, primi piani, controcampi per raccontare una scampagnata, una corsa in bici, una mattinata al lido, preferibilmente quello di Ostia, in autunno. Un omaggio all’intellettuale, scrittore, poeta, attraverso una struttura di memorie e immagini cinematografiche a metà tra compassato racconto biografico ed potenti invenzioni coreografiche.
Un ragazzo (Giuseppe Sartori capace sempre di grandi performance), alter ego dell’intellettuale in crisi, si piega sotto il peso di un grosso copertone bianco e inizia a vagare e a rimuginare sullo stato delle cose e sul suo ruolo. Immerse tra i copertoni cinque donne – Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Catarina Vieira – sono un mondo di apparizioni a cui si contrappone l’isolamento di un “io”, del poeta- Sartori. Le cinque figure sono riflessi della sua coscienza, sono donne, uomini, in un continuo alternarsi di integrazione e repulsione.
Giocando su una scrittura ora letteraria, ora cinematografica, ricci/forte costruiscono un percorso avvincente dal primo all’ultimo istante, con la solita ricerca musicale efficacissima e dirompente. Rimane la forza dell’espressione teatrale ed il messaggio all’orizzonte, che supera violenza, atarassia e volontà degli uomini per rigenerare, ciclicamente, l’utopia di un possibile cambiamento, di una nuova rinascita socio-culturale.
data di pubblicazione: 16/06/2016
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Giu 13, 2016
Un nuovo libro del Re.
Questa volta è un libro di racconti. In genere non amo le raccolte di racconti perché appena si inizia ad addentrarsi nella storia, ad amare e conoscere i personaggi, tutto finisce e si resta sempre con un po’ di amaro in bocca.
Ma il Re è il Re non si discute, si ama! Ergo ho letto subito anche questo nuovo libro e, come sempre, ne sono rimasta entusiasta!
Già solo l’introduzione valeva il prezzo del volume: “Ho preparato un po’ di cose per te, Fedele Lettore; ce le hai davanti agli occhi sotto il bagliore lunare. Però, prima di curiosare tra i piccoli tesori fatti a mano che offro in vendita, parliamone un attimo, d’accordo? Non ci vorrà molto. Forza, siediti accanto a me. Avvicinati. Tanto non mordo. Però… ci conosciamo da secoli e forse sai che non è proprio vero. O mi sbaglio?”
Scherza con il suo lettore, lo irretisce, istrionico come solo lui sa essere, gli offre la sua “merce” da scegliere tra gli scaffali di un immaginario Walmart.
Sono 20 le storie che ci ha preparato, ognuna delle quali è introdotta da una pagina di presentazione in cui si diverte nella spiegazione della nascita o, in alcuni casi, di come qualche avvenimenti gli abbia offerto l’idea iniziale oppure di come un qualche accadimento improvviso gli abbia chiarito come sviluppare un’idea inizialmente accantonata. In alcune di queste pagine ci aiuta a compiere anche una piccola analisi del testo in cui sottolinea le sfumature del racconto che riportano, in qualche modo, le influenze delle sue letture del momento.
Non è possibile fare un sunto perché si svelerebbe troppo della magia dei racconti che ci ha “dedicato”, ne cito qualcuno di quelli che mi più mi sono piaciuti: Miglio 81 in cui ritroviamo un il classico di Stephen King, la macchina “infernale”, il mostro che vuole impossessarsi del nostro mondo e l’innocenza e il coraggio di alcuni bambini che sconfiggono un simile flagello.
La Duna in cui un anziano Giudice racconta di come si sia reso conto che le Dune della spiaggia dove andava in barca da piccolo gli parlavano scrivendogli messaggi che annunciavano stragi e morti premature, e il tocco di macabra ironia dell’autore che non posso assolutamente svelare…
Geniale Ur, un racconto che King scrisse su ordinazione, l’amore per la scrittura “non paga le bollette” ci spiega – anche se nel 2009 non credo che fosse ormai più il suo problema!!! – scritto in esclusiva per Amazon in occasione del lancio del Kindle, il suo eReader. Un professore di inglese, Wesley Smith, attaccato alle “tradizioni” per dimostrare di essere aperto alle novità ordina un Kindle eReader che Amazon gli consegna in 24 ore, l’unica differenza da quelli che stanno cominciando a circolare sembra essere il suo colore: rosa. Ma Smith troverà un menù molto particolare sul suo “lettore”, un menù che gli permetterà di leggere libri che sarebbero stati scritti da Hemingway se non fosse morto nel 1961, oppure da Shakespeare se fosse deceduto diciamo nel 1630… e la storia continua ma va letta, assolutamente.
Ne ho citati tre, non che gli altri diciassette non siano mitici, ma mi conosco, se comincio a parlare di racconti, novelle, libri di King mi entusiasmo e non mi fermo più!
data di pubblicazione: 13/06/2016
da Alessandro Rosi | Giu 11, 2016
“Non giriamo più film qui. C’è la guerra ora.”
Amhed (mercenario ceceno al servizio degli abcasi) e Nika (miliziano georgiano) sono nemici seduti uno di fronte l’altro, convalescenti dalle ferite riportate in seguito a un conflitto a fuoco. Non c’è solo un tavolo a separarli; le loro religioni, i loro rituali, la loro musica diventano una barriera insormontabile. E alla violenza delle armi, si sostituisce quella della favella: nella loro lingua fredda, spigolosa, tagliente il suono delle parole risuona duro e secco come quello dei colpi di un’ascia.
La scure è utilizzata anche da Ivo, proprietario della casa che li ospita, per tagliare la legna e costruire cassette utili al vicino Margus nella raccolta dei mandarini. I due sono tra gli ultimi a essere rimasti in un piccolo villaggio estone (retaggio di un’emigrazione di parte della popolazione del paese baltico per volere dello Zar, ai tempi dell’immenso impero russo) situato in Abcasia, regione della Georgia, dove tra il 1991 e il 1993 gli abcasi lottano per l’indipendenza, ma trovano la strenua opposizione dei georgiani.
I motivi che hanno spinto i due estoni a rimanere sono differenti: Margus vuole raggranellare più denaro possibile dal raccolto di mandarini prima di ritornare in Estonia; Ivo, invece, è legato alla terra da un segreto orfico, che ha radici ben più lontane e profonde della guerra che imperversa. Dopo uno scontro armato avvenuto innanzi alle loro abitazioni, salveranno la vita ad Amhed e Nika; ma la convivenza tra i miliziani non sarà semplice. L’anziano canuto Ivo, tuttavia, si dimostrerà capace di sradicare dai due l’odio e il veleno che li corrode e di introiettare in loro l’amore e la fratellanza. I mandarini allora, frutto dalla buccia ruvida ma con la polpa interna dolcissima, finiscono per tramutarsi in allegoria dei due combattenti che, tolte le loro armature, si riveleranno disponibili e affabili; perché, come afferma il regista, “anche i più fieri nemici possono superare l’innaturale opposizione e i massacri istituzionalizzati dettati dalla guerra, se credono nell’umana bontà, nella capacità di perdonare e proteggersi l’un l’altro”.
La pellicola realizzata da Zaza Urushadze inquadra la guerra da un punto di vista insolito, più intimo; un lavoro completo, quello del regista estone, che per la seconda volta vede una sua opera selezionata tra i migliori film stranieri agli Academy Awards; e quest’anno, per giunta, ha ottenuto anche una candidatura per la scintillante statuetta dorata (e pensare che un film così intenso e ben arrangiato è stato scritto in sole due settimane e realizzato in cinque!).
Contribuiscono a elevare il film l’oculata scelta degli attori, che si addicono alla perfezione ai ruoli rivestiti, e la malinconica colonna sonora composta dal georgiano Niaz Diasamidze: tra il suono penetrante del panduri (strumento a corde: ibrido tra mandolino e chitarra) e la voce soave di un cantante georgiano, lanciamo anche noi insieme a Ivo lo sguardo oltre l’orizzonte, con la promessa di un ritorno.
data di pubblicazione: 11/06/2016
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