da Rossano Giuppa | Mag 27, 2024
(Teatro Argentina – Roma 23 maggio/2 giugno 2024)
In scena al teatro Argentina di Roma Diari d’amore per la regia di Nanni Moretti, un dittico formato da due commedie di Natalia Ginzburg, Dialogo e Fragola e Panna. In entrambe il regista esplora con ironia relazioni affettive della società borghese, spente e rassegnate, nelle quali i personaggi si troveranno a parlare di matrimonio, fedeltà, maternità e amicizia, esplicitando inettitudini ed incapacità di essere e di amare (foto Alberto Novelli).
Nanni Moretti sceglie il “teatro delle chiacchiere” di Natalia Ginzburg, figura di primo piano della letteratura italiana del Novecento, per raccontarci le vicende di due nuclei familiari dai valori etici inconsistenti, scegliendo una chiave di lettura fredda, che converte in commedia fatti altrimenti tragici della vita dei protagonisti.
Il sipario si apre con una camera da letto dove Francesco, interpretato da Valerio Binasco, scrittore casalingo di buone maniere e noioso al tempo stesso, disquisisce del nulla con la moglie Marta (Alessia Giuliani) che alla fine confessa d’avere una relazione con un loro amico comune, che le ha anche procurato un nuovo lavoro. Una lettera appena giunta rivelerà invece che l’amante non ce la fa a rompere con la moglie e che la porta in viaggio in Spagna, lasciando i due miseri coniugi con un niente di fatto per il loro ménage.
Più affollato è Fragola e panna: bussa alla porta di una villa in campagna la giovane Barbara in fuga dal marito (Arianna Pozzoli), sostenendo di essere una cugina e si intrattiene con la domestica Tosca, logorroica e popolana (Daria Deflorian). Arriva la signora Flaminia (Alessia Giuliani) che intuisce che la ragazza ha una storia con il marito; interviene la sorella di lei (Giorgia Senesi) che trova un posto dove far passare la notte alla ragazza per farla così andar via dalla casa. Giunge infine il marito Cesare (Valerio Binasco) che rivela alla moglie di non avere alcuna intenzione di occuparsi della ragazza, che viene abbandonata così al proprio destino.
Due contesti tragicomici con finali sospesi, due storie di coppie borghesi alla ricerca di risvegli e alibi, imprigionate in contesti ingombranti e vuoti al tempo stesso che le scene di Sergio Tramonti e le luci di Pasquale Mari incastonano perfettamente tra un letto matrimoniale notturno ed un salotto borghese isolato dalla neve.
Un cast di attori che ruota intorno a un Valerio Binasco perfetto anti-eroe borghese in due declinazioni assolutamente efficaci e Daria Deflorian che svetta nel personaggio solo in apparenza marginale, ma decisivo della domestica, petulante sì ma in grado di svelare le dinamiche borghesi di un gioco al massacro che non si consuma mai completamente.
data di pubblicazione:27/05/2024
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Mag 26, 2024
regia di Andrée Ruth Shammah, con Marina Rocco, Mariella Valentini, Luca Sandri e Filippo Lai
(Teatro Vascello – Roma, 21/26 maggio 2024)
A un anno dal debutto milanese arriva al teatro Vascello di Roma La Maria Brasca di Giovanni Testori. Marina Rocco veste i panni della calzettaia di Vialba nel riallestimento dello storico spettacolo firmato da Andrée Shammah per celebrare i cento anni dalla nascita dell’autore e cinquanta dalla fondazione del Teatro Franco Parenti di Milano.
Sanguigna e testarda al limite del capriccio, la Maria Brasca di Marina Rocco è uno scrigno di speranza e di freschezza tutta giovanile. Donna del popolo e della periferia, milanese senza dubbio, per cui il sacrificio e il lavoro sono una ragione quotidiana e inevitabile. Non ha dimenticato i sogni dell’adolescenza eppure ha già sviluppato una corazza resistente, in merito dell’esperienza della vita. Energica e sfrontata al punto da sfidare a testa alta il pregiudizio di chi le contesta di aver avuto troppi amanti e ora un fidanzato più giovane, senza un lavoro, che sembra non disprezzare la compagnia di altre donne a soddisfazione di uno spirito machista tipico della vecchia Italia del dopoguerra. Caparbia e risoluta come solo una lombarda può essere, alla fine ottiene il consenso di Romeo a sposarla, facendo terminare in commedia una storia che poteva benissimo dalle premesse avere un finale drammatico.
Anche Roma festeggia Giovanni Testori in occasione dei cento anni dalla nascita. Autore prolifico e complesso, subito dopo la guerra inizia a raccontare la periferia del capoluogo lombardo con I Segreti di Milano, una raccolta di romanzi e racconti in cui si inseriscono i due lavori per il teatro La Maria Brasca e L’Arialda. Alla fine degli anni Cinquanta viene invitato a scrivere un testo per il Piccolo di Strehler e Grassi da Mario Missiroli, alla sua prima regia ufficiale dopo il diploma alla Silvio D’Amico. La Maria Brasca entra nel cartellone del primo teatro stabile, da poco costituito come ente autonomo, tra le novità italiane che sappiano raccontare i cambiamenti del belpaese per la stagione 1959/60. Protagonista è Franca Valeri che proprio con un testo (oggi perduto) di Testori, La Caterina di Dio, ebbe il suo debutto teatrale anni prima quando ancora si faceva chiamare con il suo vero nome, Franca Norsa.
Le scene sono di Luciano Damiani e tra il pubblico è presente Adriana Asti, trentadue anni dopo chiamata a ricoprire il ruolo della Maria nella regia della Shammah nello storico teatro, il Franco Parenti, aperto dalla regista insieme all’attore Parenti e a Testori cinquant’anni fa. Un altro importante anniversario da festeggiare. L’edizione del 1992, come quella di Missiroli, viene seguita e apprezzata dall’autore, all’epoca ricoverato al San Raffaele dove sarebbe scomparso l’anno dopo.
Lo spettacolo ospitato al Vascello è quindi carico di storia e di ricordi. In embrione ci sono tutti gli elementi che Testori svilupperà nella produzione successiva. C’è l’esempio di una grande donna. C’è soprattutto la periferia milanese, laboriosa e indigente ma già proiettata verso la crescita e il benessere. Questa la Milano evocata dalla Shammah, a cui la regista aggiunge un pizzico di spensieratezza che dà colore alla scena. Il grigiore del muro di mattoni nel cortile del casermone nei pressi delle fabbriche viene allietato infatti da un’umanità vivace e autentica.
Al centro della scena disegnata da Gianmaurizio Fercioni (curata nel riallestimento da Albertino Accalai in collaborazione per i costumi con Simona Dondoni) si apre a saracinesca uno squarcio rettangolare che mostra la cucina dell’appartamento della famiglia Scotti, punto focale di tutta l’azione. È qui che vive Maria, ospite nella casa del cognato Angelo (Luca Sandri) e della sorella Enrica, una strepitosa Mariella Valentini. Le due sorelle sono una il contrario dell’altra. Mentre Maria è ferma nelle proprie convinzioni e sa guardare gli uomini in faccia, soprattutto il suo Romeo (Filippo Lai), Enrica è una donna remissiva, guidata da un forte spirito di abnegazione, dedita alla famiglia, per cui sacrifica tutto, e molto attenta al buon nome e alla reputazione. La maldicenza e il giudizio degli altri stanno infatti al centro dei litigi familiari. Ma per Maria sono come quelle foglie morte che si ammassano nel cortile del fabbricato e che uno spazzino può spazzare via con un colpo di scopa. La dignità è solo quella che riesce a toccare con mano quando è con il suo Romeo.
Manca dall’elenco dei personaggi solo la Giuseppa, che nel testo svolge il ruolo dell’amica e confidente della Brasca. La sua funzione drammaturgica viene però compiuta da una donna scelta a caso tra la platea alla quale la protagonista si rivolge come a una vecchia conoscenza, come fosse una compagna di fabbrica. A lei e al pubblico consegna tutta la sua felicità che sta nell’aver saputo realizzare i propri sogni, seguendo il suo solo istinto.
data di pubblicazione:26/05/2024
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Mag 26, 2024
Si è appena chiusa la grande Kermesse che per due settimane ha ruotato attorno alla Competizione Ufficiale sulla Croisette. Si ripete puntuale la solita storia di tutti i grandi Festival. False voci, illusioni, delusioni, film inutili, belle sorprese e contestazioni. I pronostici sono sempre scritti sull’acqua. E’ ormai consolidato il divorzio fra Critica, Giuria e Pubblico. Ognuno procede per conto proprio. Resterà da vedere poi quale sarà il vero giudizio finale, quello degli spettatori al botteghino. Tutto era già nell’aria. Si diceva infatti che la Giuria presieduta dalla Gerwig sarebbe stata imprevedibile. E lo è stata! Una scelta finale, la sua, che pone dubbi su quali siano stati i valori cinematografici di riferimento. A generare sorpresa trionfa infatti una produzione Indy. Quel Cinema Indipendente americano tanto caro alla regista di Barbie. Forse sarà pure il cinema del Futuro ma quest’anno in Concorso c’erano altri film che avrebbero meritato il massimo premio.
La Palma d’Oro è quindi andata ad Anora di Sean Baker. Un film, ha dichiarato la Gerwig, “pieno di umorismo e di umanità”. Anche la Generazione Z ha così diritto alle sue favole! La storia di una sex worker, una Cenerentola dei nostri giorni, una Pretty Woman di Brooklyn con un finale meno hollywoodiano di quella del 1990. Una gradevole favola che, volendola proprio premiare, avrebbe più correttamente meritato un riconoscimento minore.
Il resto del Palmares è:
Grand Prix a All we imagine as light dell’indiana Payal Kapadia. Una storia trasognata dell’amicizia di tre donne a Mumbay;
Premio della Giuria a Emilia Perez di Jacques Audiard. Un imprevedibile thriller, un mélo sotto forma di musical. Un’idea geniale di un grande autore che sfugge a tutti i cliché;
Premio Speciale della Giuria a The Seed of the Sacred Fig dell’esule iraniano Mohammad Rosoulof. Un omaggio alle giovani iraniane che manifestano per la libertà a rischio della vita;
Premio Migliore Regia al portoghese Miguel Games per Grand Tour. Un film tra passato e presente, un tour attraverso l’Oriente di due innamorati che si cercano e si sfuggono;
Premio Migliore Sceneggiatura a The Substance della francese Coralie Fargeat. Un body-horror sul culto della bellezza e della giovinezza, con una rediviva Demi Moore;
Premio Migliore Attrice alle quattro protagoniste del bellissimo Emilia Perez;
Premio Migliore Attore a Jesse Plemons per la sua triplice interpretazione in Kinds of Kindness.
Fra i non premiati, ma degni di attenzione, segnaliamo:
Kinds of Kindness di Y. Lanthimos, in cui il regista ritorna alla matrice grottesca e surreale dei suoi esordi; Megalopolis di F.F. Coppola, B-movie fantasmagorico di un Autore che ha fatto la Storia del Cinema e Horizon di K. Costner, un western, una imperdibile opportunità per chi ama il genere.
E il Cinema Italiano? Purtroppo per Paolo Sorrentino l’abilità diplomatica di Favino in giuria nulla ha potuto. Forse le nostre storie non riescono ad avere quel valore universale che può colpire. Il film però non potrà non essere visto e forse meglio apprezzato.
Unico successo in qualche modo “italiano” è stato quello de I Dannati di Roberto Minervini nella sezione Un Certain Regard. Il cineasta vive e lavora da 24 anni negli Stati Uniti e il suo atipico western è un apologo sull’insensatezza di ogni guerra.
Insomma, una grande abbuffata di film, forse troppi. Al di là dei casi individuali, la presenza di tanti mostri sacri ancora attivi e di giovani talenti emergenti confermano che il Cinema è vitale. Come ha detto F.F.Coppola… Vive le Cinéma!
data di pubblicazione:26/05/2024
da Accreditati | Mag 23, 2024
Un bambino lasciato da solo in casa fino a tarda sera, in assenza della madre, barista in un locale notturno, decide di mettersi a friggere patate per fame improvvisa e finisce per ustionarsi. Dal ricovero in ospedale alla “presa in carico” da parte dei servizi sociali il passo è breve. A partire da quel preciso momento ha inizio l’incubo delle “sabbie mobili”. Sylvie tenterà in ogni modo di riprendere con sé il proprio figlio Sofiane, trasferito contro la sua stessa volontà in una casa- famiglia.
Opera prima della regista Delphine Deloget, che è anche sceneggiatrice della storia, sostenuto da ritmi vorticosi e dialoghi incalzanti, questo film dipinge un dramma familiare, e si spinge oltre. Lo lascia parlare, gli dà voce. E lo fa con un linguaggio diverso, trascinando chiunque vi si accosti in una vera e propria discesa agli Inferi. Là dove Orfeo perde per sempre la sua Euridice, per non aver resistito all’impulso di volerla rivedere. Dove è relegata la giovane Kore, strappata dalle braccia della madre da un’entità oscura, più grande e più forte. E dove le paure ataviche – separazione, perdita, abbandono – si materializzano come ombre nella caverna.
Allontanato dalla propria casa per avere garantita una “maggiore tutela”, Sofiane (interpretato dal piccolo Alexis Tonetti) vede il fratello Jean Jacques (Félix Lefebvre), e persino la propria madre, sempre più raramente. In contesti “protetti”. Per rimanere attaccato a lei, non può fare altro che annodarle i capelli, una ciocca dopo l’altra, con le dita sottili. E poi, scaduto il tempo della visita, aggrapparsi a quella treccia come fosse il cordone originario, che ancora li lega.
La donna, dal canto suo, lotta anche lei, con le poche risorse a sua disposizione. I due fratelli innanzitutto, fragili e sgangherati ma presenti e pronti a sostenerla. Alcuni amici fidati, solidali ciascuno a modo proprio. E i compagni di terapia, cui hanno ugualmente sottratto i figli. Fagocitati anch’essi dalla macchina giudiziaria, questi compaiono sulla scena seduti in cerchio, come in una sorta di rito iniziatico, e annunciano mostri: “Ricorda di passare la candeggina ovunque, prima che loro ti tornino dentro casa”.
In questo viaggio “dentro la notte”, lo spettatore si identifica con madre e figli, provando empatia. Vive con loro, partecipa della loro storia. Poiché non è solo “finzione”, questo film. È un pugno allo stomaco, un getto d’acqua fredda sparata sul viso, un tizzone che brucia, contro il petto, e che lascerà cicatrici. E proprio la cicatrice – tanto reale quanto metaforica – “tatuata” sul petto del bambino è il leitmotiv della storia. Motivo di sofferenza e al tempo stesso di orgoglio (“me l’ha fatta un drago!”), e di forza interiore.
Convincente la prova dei due giovani attori, fratelli indivisibili e complici, dall’inizio alla fine.
Notevole, al di sopra di ogni altra, l’interpretazione di Virginie Efira – Sylvie – di volta in volta imponente e sommessa, inarrestabile e meditativa. Con lo sguardo fermo e fisso all’orizzonte, lungo il cammino di feuilles mortes.
data di pubblicazione:23/05/2024
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da Antonio Iraci | Mag 22, 2024
Maria vive in famiglia a Nazareth e come tutte le donne di quell’epoca deve occuparsi solo delle faccende di casa. Presto dovrà andare sposa a un uomo che le verrà imposto, in base agli accordi tra le famiglie. La ragazza ha però altri progetti. Lei vuole studiare le sacre scritture, conquistare il mondo e non pensa proprio al matrimonio. Dopo vari tentativi, finalmente si convince a sposare un certo Giuseppe, falegname benestante che la istruirà e la preparerà al grande viaggio…
Paolo Zucca trae spunto dall’omonimo romanzo di Barbara Alberti per presentarci un’immagine del tutto inedita di Maria, la madre di Gesù. Il regista, sardo d’origine, trasferisce la sua storia proprio nella sua Sardegna, tra una fitta vegetazione a volte però soffocata da un paesaggio desertico e arcaico. In questo contesto si muove Maria, giovane oramai pronta al matrimonio, che però ha le idee ben chiare su come impostare la propria vita, ben lontano dai modelli patriarcali che le vengono imposti. Quindi una ribelle ante litteram che rompe gli schemi della società del suo tempo. Lei rifiuta il suo ruolo di moglie destinata solo alle incombenze domestiche e aspira a ben altro. Vuole imparare a leggere e scrivere, e fare tutte quelle cose che sono destinate solo agli uomini e vietate alle donne dalla legge. Solo Giuseppe, tra tutti i pretendenti che le vengono proposti, sarà in grado di capirla in fondo e assecondare i suoi desideri. La sposerà, la manterrà casta fin quando lei vorrà, le insegnerà tutto ciò che la renderà una creatura libera e emancipata. Un giorno un essere alquanto strano si presenta per annunziarle che qualcun altro, Dio in persona, avrebbe già deciso per lei. Rimanere incinta dallo Spirito Santo e non dal suo Giuseppe, è qualcosa che Maria non può proprio accettare. Se i Vangeli Apocrifi erano ritenuti sacrileghi per aver presentato una figura di Gesù ben lontana dai rigidi canoni del cristianesimo, il regista qui dà il via a interpretazioni su Maria a dir poco fantasiose. Una rilettura della figura della Madonna che farà sicuramente riflettere anche le più sfegatate femministe. E che dire poi di Gabriele, l’Arcangelo incaricato ad annunciare una gravidanza imposta e non voluta? Un giovane biondastro con tanto di ali piumate che si esprime con un tono arrogante e saccente. Nonostante la recitazione, molto teatrale in verità, di Benedetta Porcaroli (Maria) e di Alessandro Gassman (Giuseppe) il film non decolla e a tratti risulta quasi irritante. Senza passare per bigotti, si fa veramente fatica a seguire una storia che forse, almeno nelle buone intenzioni del regista, avrebbe invece dovuto dare una immagine di Maria più credibile, anche se fuori dagli schemi tradizionali della Chiesa.
data di pubblicazione:22/05/2024
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da Antonio Jacolina | Mag 22, 2024
Parigi, durante un casting Chiara Mastroianni viene invitata dalla regista Nicole Garcia a recitare cercando di essere “meno Catherine e più Marcello”. Frustrata dal continuo confronto con i genitori, stanca di essere “la figlia di…” Chiara è alla ricerca della propria identità. Catarticamente affronta la crisi esistenziale e professionale appropriandosi dell’identità, del look e degli atteggiamenti del padre. Si veste e si fa chiamare come lui: Marcello …
In concorso a Cannes ’24, esce sugli schermi, distribuito dalla LUCKY RED il film Marcello Mio. Si rinnova ancora una volta dopo L’Hotel degli amori perduti (2019) il sodalizio artistico fra lo scrittore, regista e sceneggiatore francese e Chiara Mastroianni. L’occasione è il centenario della nascita di Marcello Mastroianni. Un tenero omaggio al grande attore scomparso nel 1996.
L’estroso spunto iniziale può far pensare di primo acchito ad una commedia sul trasformismo o al solito film nel film. In realtà Honoré abilmente in bilico fra realtà e fiction continua la sua ricerca sui temi a lui cari dei rapporti familiari e sulla “mancanza”. Una riflessione sulla nostalgia, l’amore, la morte e la vita. Lo fa, da par suo intelligentemente, osservando con fantasia dolce-amara il mestiere dell’attore e le implicazioni che il recitare genera sugli equilibri psichici, sui sentimenti, sugli affetti e sui ricordi. Lo fa con grazia, con poesia ed ironia, trasformando una realtà molto particolare e privata in un racconto di valore universale.
L’atmosfera narrativa tanto buffa quanto poeticamente suggestiva è in equilibrio fra realtà e sogno. Il regista, fra infinite citazioni cinefile, tiene saldamente in pugno la direzione, supportato da una sceneggiatura fantasiosa ma ottimamente scritta e ritmata. La messa in scena e l’ambientazione è circoscritta al gruppo di amici parigini della famiglia Deneuve-Mastroianni. Ognuno di essi reagisce in modo diverso alla sorprendente decisione di Chiara di rivestire i panni del padre Marcello e di assumerne i comportamenti ed i tratti caratteriali. Quasi una metaforica recherche del padre perduto. Chiara Mastroianni è ovviamente al centro di tutto. Con talento, stile, sensibilità ed autenticità supera la difficile sfida di essere se stessa e… Marcello. Veramente affascinante nella trasformazione! Attorno a lei e con lei ci sono: Nicole Garcia, Melvil Poupaud, Benjamin Biolay, Fabrice Luchini e ovviamente Catherine Deneuve. Tutti recitano se stessi in una versione gioiosamente un po’ esagerata ma complici sinceri e giusti. Su tutti spicca Luchini che con verve ironica ed a tratti sottile comicità interpreta l’attore, l’amico con cui confidarsi. L’unico che accetta, comprende e condivide complice la scelta di Chiara.
A parte una lunghezza forse un poco eccessiva e la forte dissonanza con il resto del film della breve esperienza romana Marcello Mio è un buon film non privo di charme ed una bella evocazione di Marcello Mastroianni. Un’opera sulla Memoria e sul Cinema, ben recitata da attori di gran pregio, diretta con delicatezza, equilibrio, humour e sincerità.
data di pubblicazione:22/05/2024
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da Antonio Jacolina | Mag 21, 2024
Francia 1976. Pierre Goldman ebreo, intellettuale e militante di estrema sinistra già condannato all’ergastolo per quattro rapine a mano armata è sottoposto a nuovo processo per due omicidi avvenuti durante l’ultima. Si proclama innocente con irruenza provocatoria divenendo un’icona politica. L’approccio ideologico è in contrasto con la strategia del suo giovane avvocato. Rischia così la ghigliottina …
Dopo Anatomia di una caduta ecco un nuovo film processuale francese. Altrettanto interessante e coinvolgente anche se molto diverso nella forma. Kahn rievoca il famoso e tumultuoso processo Goldman. Personalità carismatica ed affascinante l’imputato utilizzò l’aula per denunciare la Polizia di antisemitismo ed accusare il Sistema Giudiziario e tutto l’Establishment francese. Il regista avrebbe potuto tranquillamente scegliere la via convenzionale del biopic. Preferisce invece concentrarsi sul dibattimento vero e proprio. Coerentemente, fatto salvo un breve prologo, il racconto si svolge tutto nell’aula giudiziaria. Una scelta rischiosa. Una scelta che però offre al cineasta l’opportunità di una direzione e di una messa in scena classiche nella forma ma del tutto originali nella sobrietà e nella precisione. Una ricostruzione priva di qualsiasi artificio (filmati, flashback, voix-off…).
I film processuali traggono forza e fascino dalla capacità con cui la regia riesce a rendere apprezzabile il predominio della parola sull’immagine. Il processo è un teatro ove ognuno rappresenta la propria verità. Le opposte versioni vengono narrate attraverso le diverse capacità dialettiche. Mettendo in scena solo l’aula, Kahn si concentra unicamente su ciò che viene detto. Un film verboso? Tutt’altro. L’autore sa bene utilizzare il fascino delle parole restando sempre in un contesto cinematografico. Un gioco abilissimo di alternanze di campo e controcampo e di piani ravvicinati resi tutti incisivi e dinamici da un ritmo serratissimo e da un montaggio perfetto. È evidente il riferimento a capolavori come L’Affaire Dreyfus e, soprattutto, la Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. La scelta compositiva di un formato di immagine di 4/3 che riduce lo schermo, le inquadrature fisse sui soggetti o sui volti sottolineano il rimando ai classici del passato ma servono anche a rafforzare la logica narrativa. L’unica vera azione nel film sono infatti le parole pronunciate o urlate.
Il regista con intelligenza non prende alcuna posizione di parte né pretende di fare una ricostruzione fedele dei fatti. Trascende dalla vicenda e vuole piuttosto riflettere su un passato in cui risuonano echi di un presente. Una riflessione sulla Giustizia, sui vincoli culturali, sul razzismo occulto e, soprattutto sulla fragilità dei ricordi e delle certezze. La difficoltà di fare Giustizia e di fare emergere la Verità.
Come in Anatomia di una caduta la Giustizia è un problema di punti di vista! A chi credere? Lo spettatore è lasciato solo, nella stessa difficile situazione dei giurati e con lo stesso peso di coscienza.
Il Caso Goldman è un lavoro riuscito, un film autoriale di dialoghi ed altissima recitazione. Un dramma teso ed asciutto che brilla per le sue qualità di scrittura. Un’opera di grande intensità, coinvolgente e mai noiosa che continua a risuonarci dentro anche parecchio tempo dopo averla vista.
data di pubblicazione:21/05/2024
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da Paolo Talone | Mag 20, 2024
regia di Marcella Favilla, con Paola Giglio e Matteo Prosperi
(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 9/11 maggio 2024)
Fotografia fedele e riuscita di una coppia ordinaria alla ricerca di un posto nella società. Marta e Pietro sfidano un mondo che gira troppo in fretta, trovando nella lentezza l’antidoto al veleno della frenesia. (foto di Giovanni Chiarot)
Avvicinarsi alla soglia dei trent’anni nel secondo decennio del nuovo millennio pone sfide di una difficoltà non trascurabile. Crisi finanziarie, pandemie, guerre e cambiamento climatico sono fattori che interessano tutti. Ma per la generazione dei millennials, a cui appartengono i protagonisti di Interno camera, diventano una barriera ulteriore che impedisce una costruzione serena e lineare della propria carriera e posizione sociale.
È stato in scena negli spazi del bellissimo teatro di Tor Bella Monaca lo spettacolo scritto da Paola Giglio nel 2019 durante un laboratorio guidato dalla drammaturga Lucia Calamaro, il progetto SCRITTURE, che vede protagonista l’autrice affiancata dal compagno di vita e di lavoro Matteo Prosperi, diretti da Marcella Favilla.
In scena sono Marta e Pietro, una coppia che vive in un grazioso ma disordinatissimo appartamento di città. La stanchezza non celata di Marta difronte all’impossibilità di realizzarsi come scrittrice di romanzi, che per sbarcare il lunario è costretta a formulare contenuti trash su un sito internet, e il blocco di Pietro, che non riesce a terminare la sua tesi di dottorato in filosofia e per vivere effettua consegne a domicilio, sono motivi di stallo e depressione. Sono il riflesso dettagliato della condizione di un’intera generazione. Se da un lato a chi ora si affaccia all’età adulta è stata concessa l’opportunità di potersi formare per la professione dei sogni, dall’altro gli si preclude la possibilità di poterla praticare. Lavori precari e mal pagati sono il necessario compromesso per sopravvivere. Per non parlare dello sviluppo tecnologico che ha reso tutto più veloce e inconsistente, ponendo gli individui attraverso i social in continua competizione tra di loro.
Il testo drammaturgico fotografa con precisione questa condizione che interessa tanti giovani di oggi, mutando la parte dialogica direttamente dal vissuto quotidiano. Per questo linguaggio e trama si svolgono in maniera naturale, senza forzature o incantesimi anche nel finale positivo. La tentazione di diventare dottrinale viene poi evitata con una sana, pragmatica ironia. Paola Giglio e Matteo Prosperi affiancano a questo testo così credibile una recitazione spontanea, al limite dell’improvvisazione e per questo istintiva, che cela un grande legame e un’alchimia che sul palco si manifestano in naturalezza di espressione e divertente complicità. Teneri quanto coinvolgenti e veri.
Paradossalmente per Marta e Pietro superare lo stallo, generato dall’ansia dell’essere sempre all’altezza delle aspettative sociali, significa riprendere a camminare. In senso metaforico ma anche fisico, soprattutto per Pietro che parte solo per un lungo viaggio nel quale avrà tutto il tempo per ritrovare sé stesso. Concedersi il lusso di rallentare per rimettere a posto pensieri e progetti è finalmente la soluzione. Una lezione utile, che ancora una volta viene dal teatro, per chi si trova impantanato nella stanchezza e nella mancanza di ispirazione.
data di pubblicazione:20/05/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mag 20, 2024
con Massimo Ghini. Produttore esecutivo Enzo Gentile
(Teatro Il Parioli – Roma, 15/26 maggio 2024)
Una rivisitazione di un personaggio storico più che religioso. Graffiante, stimolante, creativa. Ghini regge brillantemente la scena per un’ora e mezzo validamente assistito da un corredo video iconico che vale il prezzo da solo del biglietto. Storia, cinema e teatro per l’obiettivo finale di trovarci così simili a Giuda.
Riscoperta in otto passaggi del presunto “grande traditore”. Ma sarà andata poi così? Rileggendo i Vangeli e la cronaca dell’epoca c’è da dubitare che Giuda abbia venduto Gesù per soli trenta denari. Da ritoccare una patina di ruggine stesa sul personaggio grazie a frettolose etichettature. Sapevate che esistono i Vangeli di Giuda e che il Barabba collocato in crudele alternativa al Salvatore aveva la funzione di Messia alternativo, come uomo di battaglia rispetto all’uomo d’amore? Ghini va a frugare nei nostri pregiudizi assistito da un testo potente che però non rinuncia all’aspetto mondano, liberandosi dei vestiti, indossando uno smoking di gala per far intuire che è un’operazione di modernità quella a cui si accinge. Il suo solo assistente centellina solo qualche battuta oltre a rifornirlo di acqua e a beccarsi qualche lamentela. La riscoperta di Giuda è laica ma si butta nel profondo della religione, fatta di mistero e di credenze per fatti molto lontani nel tempo. Ma la cornice storica è impeccabile e non opinabile. Giuda si batte per un auto riabilitazione attraverso Ghini che semina il dubbio ricorrente: siamo poi così diversi da Giuda nella nostra mancanza di coraggio nelle scelte di tutti i giorni? Se il teatro è contraddizione Giuda è la perfetta epitome del conflitto. E a fine spettacolo, ovviamente, si merita qualche accusa in meno e qualche simpatia in più, pur non ricorrendo a facili strumenti di riabilitazione se non quelli fondati sulla storia e su un legittimo dubbio.
data di pubblicazione:20/05/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mag 20, 2024
con testo e regia di Maria Paola Conrado con Martina Scaringella, Paola Narilli, Giacomo Ricci Caterina Camerini, Vincenzo Ferrari, Alessandra Luzzi, Marina Spagoni, Elvira Pallotta, Vincenza Toce, Alessandra Giudice, Roberta Baietti, Anna Virgilio Simoni, Simona Porcu, Elisa Cimino. Luci Diego Caterino. Produzione: La Compagnia dei Pasticceri
(Teatro Sette -Roma, 19 maggio 2024)
Il Teatro dentro il Teatro. Pretesto non nuovo ma espresso con ricchezza di personaggi. Fuori dai grandi giri degli Stabili chi ha più il coraggio di programmare spettacoli con una quindicina di attori? Tra emozione e spontaneità un baedeker di molti secoli di scena. Con disinvolta vivacità e spazio per tutti, anzi soprattutto per tutte vista la grande prevalenza al femminile.
Quattro attori sono prigionieri di un teatro viste le avverse condizioni atmosferiche. Potrebbero provare ma non ne hanno alcuna voglia anche per alcune croniche incompatibilità con l’autore. Preferiscono mettersi a dormire e rinviare la lettura del copione al giorno dopo. Ma la notte sarà popolata di sogni che a volte rischiano di trasformarsi in incubi. Perché se la vita è sogno (Shakespare, Calderon de La Barca) qui l’immaginario del teatro prende il sopravvento. E con uno stratagemma forse troppo volte ripetuto compaiono in scena personaggi creati dalla fertile fantasia del bardo britannico, un personaggio extra tra quelli pirandelliani, una Baccante euripidea e persino un Godot che cerca di rescindere la corda fatale che lo lega metaforicamente a Beckett. Siparietti da assolo poi reimmergersi nella trama corale che prevede anche disinvolti balli e persino un twist. Ovvio che la trama del lavoro in progress sarà più ricca con questo clamoroso valore aggiunto. Dunque nella retrospettiva non ci si fa mancare niente, comprese Le tre sorelle di Cechov e la riapparizione di un Puccini addolorato per non aver potuto terminare quella Turandot che fu affidata al maestro Toscanini alcuni mesi dopo la sua morte. Incuriosito per tanta generosità tra il pubblico il direttore artistico del teatro Michele La Ginestra, sempre fresco e inossidabile Rugantino.
data di pubblicazione:20/05/2024
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