IL MATRIMONIO DI MIO FRATELLO di Enrico Brizzi – Mondadori, 2015

IL MATRIMONIO DI MIO FRATELLO di Enrico Brizzi – Mondadori, 2015

La storia di una famiglia italiana narrata da uno dei suoi componenti, Teo, il figlio “di mezzo”, quello schiacciato tra la primogenitura del maggiore e le attenzioni riservate dai genitori alla “piccola di casa”.

Teo è in macchina, sta correndo verso casa del fratello Max che, appassionato alpinista, si è trasferito in un paesino dell’Alto Adige. Max ha bisogno di lui, è in difficoltà e Teo, anche se stanco e arrabbiato, non può fargli mancare il suo sostegno e, mentre viaggia per raggiungere il fratello, ci racconta in modo vivace e avvincente la storia della sua vita, che è anche storia dell’Italia dagli anni Settanta al nuovo millennio, con alcune scene innegabilmente comiche e con alcuni stereotipi che non possiamo non riconoscere e ricordare sorridendo.

Il racconto che ci troviamo a leggere inizia con delle immagini molto tenere dell’infanzia dei due fratelli. Max è il primogenito, fulcro della vita del piccolo Teo che lo vede come un eroe all’ombra del quale poter crescere tranquillo; il loro è un rapporto destinato a cambiare con l’avvento dell’adolescenza che trasformerà totalmente Max, allontanandolo dai suoi genitori e da Teo, che non riuscirà più a capire le sue scelte. Sarà il comportamento del fratello maggiore a influenzare quello di Teo che, consapevole di non essere il “centro” della vita dei suoi genitori, cercherà, con i suoi comportamenti e con le sue scelte, di sostituire il fratello nelle loro speranze, nel loro affetto, nella loro considerazione, tentando di diventare ciò che loro si aspettavano da Max, sperando così di poter prendere il posto di “prestigio” che la primogenitura aveva decretato per il fratello maggiore.

Max quindi lascerà la strada tracciata per lui dai suoi genitori e si dedicherà alla sua passione assoluta, l’alpinismo; una passione che lo porterà lontanissimo da casa, verso una vita faticosa, che gli farà compiere delle scelte che lo porteranno a un passo dalla morte e che stravolgeranno in modo definitivo la sua vita. Teo seguirà invece le orme paterne, le sue scelte gli permetteranno di vivere una vita più tranquilla senza doversi sovraesporre, ma anche per lui arriverà il momento di cambiare, di compiere delle scelte: “sapevo da sempre che, senza un po’ di orgoglio, un uomo finisce per essere sempre trasportato in luoghi sgradevoli”.

Una narrazione vivace, mai noiosa, a volte un po’ cinica, che descrive perfettamente le dinamiche familiari, le aspettative dei genitori deluse dai figli che si trovano “a gestire un confronto impossibile con dei genitori terribili”, i quali non riescono a capire la realtà dei proprio figli perché la loro vita è stata estremamente più facile: “…hanno cominciato a lavorare in un decennio in cui il prodotto interno lordo è cresciuto del settanta per cento. Loro, da poveri, sono diventati ricchi e noi, cresciuti più o meno nell’agio, stiamo precipitando nell’abisso…”.

Un libro che fa sorridere, riflettere, divertire, meditare; un libro assolutamente da leggere.

data di pubblicazione:13/03/2016

LA DODICESIMA NOTTE di William Shakespeare, regia di Carlo Cecchi

LA DODICESIMA NOTTE di William Shakespeare, regia di Carlo Cecchi

(Teatro Eliseo – Roma, 8/20 marzo 2016 e in tournée)

Carlo Cecchi porta in scena dall’8 al 20 marzo al Teatro Eliseo di Roma La dodicesima notte, la commedia per eccellenza di Shakespeare, in una produzione Marche Teatro Stabile in collaborazione con Estate Teatrale Veronese, in tournée in Italia fino alla fine di aprile 2016.

La commedia degli equivoci e degli scambi di ruolo, in un mix perfetto di intrecci e colpi di scena, una giostra in continuo movimento in cui si alternano personaggi variopinti e connotati, rappresentanti di uno spaccato del genere umano senza tempo ma assolutamente attuale. Un adattamento dinamico e leggero, grazie anche alla traduzione di Patrizia Cavalli, che rende il testo seicentesco decisamente contemporaneo, senza stravolgerlo nell’essenza.

Carlo Cecchi ha curato una regia equilibrata e composta. L’amore è il tema della commedia; la musica, che, come dice il Duca nei primi versi “è il cibo dell’amore”, ha una funzione determinante. Non come commento ma come azione. La scena reinventa un espace de jeu che permette, senza nessuna pretesa realistica o illustrativa, il susseguirsi rapido e leggero di questa strana malinconica commedia, perfetta fino al punto, a volte, di rasentare la farsa (Carlo Cecchi).

Trama ricca di intrecci: tutto si svolge nell’Illiria, un territorio indefinito dove Shakespeare fa approdare i suoi protagonisti scampati a un naufragio. La giovane Viola, sopravvissuta ad esso, travestita da paggio si pone a servizio del Duca Orsino e si  innamora di lui. Questi spasima per la nobildonna Olivia e le manda messaggi passionali per mezzo di Viola-Cesario. Disgraziatamente la Contessa si innamorerà proprio di Cesario e Viola si ritroverà così al centro di un bizzarro triangolo amoroso. Un inaspettato colpo di scena fa poi arrivare in Illiria il fratello gemello di Viola, Sebastiano, in realtà anche lui sopravvissuto al naufragio; i due fratelli si ricongiungono e Viola potrà finalmente confessare il suo amore al Duca mentre la Contessa vivrà felice insieme a Sebastiano. Ma in mezzo c’è dell’altro. C’è Malvoglio, il maggiordomo di Olivia, pieno di boria e di malinconia, innamorato della padrona, bersaglio di un atroce scherzo. Alla trama principale è infatti affiancata, come spesso accade in Shakespeare, una sottotrama ricchissima di episodi, quasi più estesa della prima. E Carlo Cecchi, come egli stesso spiega nelle note di regia, decide volutamente di conferire maggiore importanza a tale sottotrama, che considera addirittura più importante e interessante del filone principale. Il concentrarsi maggiormente sul vero nucleo comico della vicenda costituisce l’elemento innovativo dello spettacolo, in grado mettere in scena un vero e proprio carnevale, animato da personaggi allegorici e realistici al tempo stesso.

Un cast allegro e accattivante di bravi attori formato da Daniela Piperno, Vincenzo Ferrera, Loris Fabiani, Giuliano Scarpinato e Dario Lubatti. Ottima anche l’interpretazione di Barbara Ronchi nel personaggio di Olivia, involontaria partecipante delle follie del bizzarro ménage familiare. Ma grande mattatore in scena è proprio Carlo Cecchi, interprete del maggiordomo di Olivia, Malvolio, pomposo e austero, vittima di una beffa feroce che lo fa credere oggetto di attenzioni da parte della sua signora, spingendolo a rendersi pubblicamente ridicolo con indosso calze gialle e giarrettiere a croce per far colpo sulla donna.

L’allestimento scenico è essenziale e rarefatto ma non spoglio, grazie a una pedana girevole centrale che dà continuo dinamismo. Splendidi i costumi di Nanà Cecchi eleganti e divertenti, e di grande effetto la musica dal vivo composta da Nicola Piovani in grado di rendere l’atmosfera magicamente onirica e vivace.

data di pubblicazione:13/03/2016


Il nostro voto:

IL MATRIMONIO DI MIO FRATELLO di Enrico Brizzi – Mondadori, 2015

È COSÌ CHE SI UCCIDE di Mirko Zilahy – Longanesi, 2015

Lo scenario in cui si dipana la storia è Roma. Zihaly ci porta da Piazza Navona alle stradine di Città giardino, una delle zone più belle di Montesacro, da San Paolo al vecchio Mattatoio del Monte dei Cocci.

Nelle note alla fine del libro l’autore spiega il perché di queste immagini della Città eterna che ci offre: “ho sempre subito il fascino del profondo contrasto che, in una città strabordante d’arte, storia e cultura come Roma, si coglie quando ci si trova improvvisamente di fronte a uno dei suoi mille mostri d’acciaio…”, non si può non essere affascinati dalla convivenza, in questa meravigliosa città, delle testimonianze di archeologia industriale e di “arte pura”!

Il protagonista della storia è il commissario Enrico Mancini, profiler specializzato nei crimini seriali a Quantico, che combatte contro i demoni personali e al quale è stato imposto il caso di un serial killer che sta terrorizzando la città.

Debbo ammettere che Mancini non mi ha colpita per la simpatia, nel corso delle indagini ho provato più empatia con l’ispettore Comello o la fotografa De Marchi con la quale purtroppo condivido la musofobia, ma sarà sotto la sua guida che la task force che ha creato, con lui ci saranno oltre ai già citati Comello e De Marchi anche l’anatomopatologo Rocchi e la pm Foderà, riuscirà a trovare le linee che li porterà a scoprire la verità che si nasconde dietro quei cadaveri sezionati chirurgicamente, ai vestiti che indossano, agli oggetti che sono dentro di loro.

Un libro noir che si svolge in una Roma vetero-industriale su cui piove ininterrottamente da giorni, un thriller che risente di influenze americane, un intreccio ben sviluppato con abbondanza particolari, un autore che padroneggia splendidamente l’italiano e che lega il lettore al romanzo in un crescendo sempre più rapido e coinvolgente.

Non possiamo che restare in attesa del ritorno di Mancini e della sua squadra.

LA DODICESIMA NOTTE di William Shakespeare, regia di Carlo Cecchi

DIONYSUS – IL DIO NATO DUE VOLTE da Le Baccanti di Euripide, regia di Daniele Salvo

(Teatro Vascello – Roma, 4/13 marzo 2016)

In prima nazionale al Teatro Vascello questa ultima interpretazione classica tratta da Le Baccanti di Euripide con la direzione di Daniele Salvo, regista e attore emiliano, diplomato alla scuola attori “Teatro Stabile di Torino” e allievo di Luca Ronconi, con cui ha lavorato per molti anni sia come attore che come aiuto in svariati spettacoli.

Oramai di casa al Teatro Greco di Siracusa, dove ha portato sulla scena artisti di grosso calibro come Giorgio Albertazzi in Edipo a Colono e Maurizio Donadoni in Aiace di Sofocle, nonché Piera degli Esposti in Orestea, Daniele Salvo si presenta qui a Roma con le sue Baccanti, conquistandoci ed impressionandoci tra l’altro per la scelta accurata degli elementi di scena (Michele Ciacciofera) e dei costumi (Daniele Gelsi).

Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, comune donna mortale, arriva a Tebe per convincere il re Penteo sulla sua natura divina, per incitare le donne a ribellarsi contro la propria condizione di sottomissione e per onorarlo sul monte Citerone, come Baccanti, mediante riti propiziatori in suo onore che in realtà si trasformano in vere e proprie orge liberatorie in cui, inebriate dal vino, potranno dare libero sfogo alle proprie irrefrenabili pulsioni.

Sulla sfondo della tragedia, lo scontro/incontro dei due personaggi principali: Dioniso e Penteo, in cui ben presto si afferma e si nega contestualmente la natura divina di uno e la tirannia dell’altro, ma dove poi le situazioni si capovolgono e le due personalità finiscono con rappresentare le due facce della stessa medaglia. Due immagini esattamente speculari che si fronteggiano per poi fondersi in un unico amplesso conciliatorio, sia pure illusorio.

L’idea del regista è che Le Baccanti sono poi quella parte irrazionale di noi, quel quid che vorrebbe esplodere per ridarci la nostra vera natura, oramai perduta nei meandri delle convenzioni piccolo/borghesi che ci hanno manipolato e contro le quali risulta oramai difficile ribellarci.

Fedele interprete del testo euripideo, Daniele Salvo scruta l’intimo dell’animo per dare una voce diversa ai personaggi, anche mediante utilizzo di suoni sgranati e forzati, quasi innaturali, ma che sgorgano dal profondo per raggiungere uno stato emotivo superiore, mantrico, liberatorio.

Qui non si tratta di trovare nuove soluzioni, ma di seguire l’interpretazione genuina della narrazione mediante l’uso di tecniche visive di grande effetto per il pubblico e con l’obiettivo di portare in scena uno spettacolo emotivamente coinvolgente.

Ottimo il cast in scena e singolare la recitazione di Manuela Kustermann, nella parte di Agave, e Ivan Alovisio in quella del figlio Penteo, oltre al coro delle Baccanti che hanno raggiunto momenti di grande effetto coreografico, trasmettendoci quel pathos tipico della tragedia greca classica.

data di pubblicazione:05/03/2016


Il nostro voto:

 

IL GIORNO DELLA CIVETTA di Damiano Damiani, 1968

IL GIORNO DELLA CIVETTA di Damiano Damiani, 1968

Il Capitano dei Carabinieri Bellodi (Franco Nero), in servizio in un paesino dell’entroterra siciliano, si trova ad indagare sul delitto dell’impresario edile Salvatore Colasberna, ucciso dalla mafia. La stessa mattina dell’omicidio si perdono le tracce di un certo Nocolosi, la cui moglie Rosa (Claudia Cardinale), messa alla strette, confessa che il marito quel giorno aveva incontrato sul luogo dell’omicidio un certo Zecchinetta, pregiudicato in diverse questioni mafiose. Intanto il boss del paese Don Mariano Arena (Lee J. Cobb) cerca di depistare le indagini facendo credere che Nicolosi avrebbe ucciso Colasberna, ritenendolo amante della moglie, quindi per puro delitto passionale. Il Capitano, grazie anche all’aiuto di un confidente della polizia (Parrinieddu), non si convince di questa versione dei fatti e continua deciso nelle indagini anche se, risultando oramai chiaro a tutti la dinamica del delitto, non riuscirà ad ottenere la condanna del vero colpevole. Tutto quindi verrà insabbiato: lo scomodo Capitano Bellodi trasferito in altra sede; Don Mariano verrà allontanato temporaneamente, ma praticamente libero; ed il nuovo Capitano, con un atteggiamento più conciliante, verrà apostrofato come “quaquaraquà” dagli stessi mafiosi locali, vale a dire come un uomo privo di qualsiasi valore morale e senza l’onore di un vero uomo.

Tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, in questo film il regista evidenzia in maniera particolare l’atmosfera di omertà esistente in Sicilia e la corruzione diffusa in tutti gli ambienti: politico, giudiziario, ecclesiastico. Ottima la sceneggiatura di  Ugo Pirro e dello stesso Damiani. Bravi gli attori, a partire dai comprimari Tano Cimarosa (Zecchinetta) e Serge Reggiani (Parrinieddu), convincente Franco Nero (premiato col David), in una delle sue interpretazioni migliori, nel dare al Capitano Bellodi il volto pulito del funzionario dello Stato che ancora crede nei valori della Giustizia.  Bravissima Claudia Cardinale (anch’essa premiata) con quell’atteggiamento torvo e sensuale che contraddistingue il suo personaggio.

Il film ci suggerisce questa ricetta dal sapore tutto siculo: sformato di broccoli al gratin.

INGREDIENTI: 1 kg di broccolo, possibilmente romanesco – 300 grammi di salsiccia – 100 grammi di parmigiano grattugiato – 100 grammi di provola dolce – 100 grammi provola affumicata – ingredienti per la besciamella: latte, burro, noce moscata, farina, sale e pepe q.b..

PROCEDIMENTO: Lessare il broccolo in acqua salata e lasciare raffreddare, quindi tagliarlo a pezzetti. Fare cuocere la salsiccia sfumandola con un poco di vino, togliere quindi il budello e sgranarla. Preparare una besciamella piuttosto densa e mescolarla ai broccoli e salsiccia; aggiungere il parmigiano e un poco di pepe. Preparare una teglia, imburrandola, e versare il preparato con i broccoli mettendo al suo interno anche la provola, sia dolce che affumicata, tagliata a cubetti.

Prima di infornare, cospargere la superficie con una spolverata di pan grattato, un poco di pepe e dei fiocchetti di burro. Fare cuocere in forno a 180 gradi per venti minuti e poi almeno altri dieci, solo con il grill. Servire lo sformato tiepido.

SUFFRAGETTE di Sarah Gavron, 2016

SUFFRAGETTE di Sarah Gavron, 2016

Londra 1903. Appena a ridosso dell’età vittoriana, in un clima decisamente maschilista dove solo all’uomo era devoluto tutto il potere decisionale sia nel pubblico che nel privato, con il termine dispregiativo di “suffragette” si indicavano quelle donne che lottarono attivamente per l’ottenimento del diritto al voto.

Il film di Sarah Gavron ci mostra, in maniera diretta e senza ricorso ad immagini retoriche, una Inghilterra pervasa da palesi lacerazioni politico/sociali in cui l’economia si basava essenzialmente sullo sfruttamento del lavoro femminile, proprio a causa del divario culturale esistente verso la figura maschile, e che sfociò in un atto di ribellione, prima pacifica poi armata, sicuramente preludio di tante altre lotte che portarono al completo riscatto della donna nella società.

Proprio in questo sfondo a tinte cupe, la narrazione prende corpo per identificare l’azione delle “suffragette” che, sotto la spinta della carismatica Emmeline Pankhurst (Meryl Streep), leader e fondatrice del movimento, prende via via forza assumendo le caratteristiche di una vera e propria lotta dinamitarda volta a sabotare i simboli di quelle istituzioni talmente “ingessate” da ignorare regolarmente le istanze delle donne per l’estensione del voto e per il riconoscimento di pari dignità nell’ambito lavorativo.

Figura centrale è Maud Watts (Carey Mulligan, pluripremiata per il film An Education del 2009) che quasi accidentalmente viene a contatto con il gruppo e che ben presto diventerà una delle principali attiviste, incoraggiata da Edith Ellyn (Helena Bonham Carter, interprete in film di grande successo e con due Nomination come Miglior Attrice per il film The Wings of the Dove del 1997 e per Il Discorso del Re del 2010), ad iniziare la propria rivolta nella lavanderia, dove lavorava sin dall’età di otto anni, per tredici ore al giorno sotto le molestie del suo datore di lavoro. Brutalmente picchiata dalla polizia, più volte arrestata, persino allontanata forzatamente dal figlio e messa sulla strada da un marito di poco spessore, Maud insieme alle altre donne seguirà sino in fondo il pensiero della Pankhurst, che incitava appunto ad una lotta terroristica per la conquista della parità dei diritti.

Il film è curato alla perfezione da un punto di vista scenografico da Alice Normington che è riuscita a riprodurre un ambiente in cui i personaggi si muovono con assoluta naturalezza, come nel caso delle sequenze girate nella lavanderia dove, dietro l’apparente compostezza delle operaie, si percepisce perfettamente la loro sofferenza e lo stato di semi schiavitù in cui erano costrette a lavorare. La regista assieme alla sceneggiatrice Abi Morgan, coadiuvate da un team tutto al femminile, hanno raggiunto un ottimo risultato anche grazie ad un cast di livello eccellente che è riuscito a dare un volto credibile alle figure storiche che si muovono nella vicenda, regalandoci un pezzo di storia che molti ignorano e che invece risulta essere il punto di avvio di quel processo di emancipazione generale per il quale ancora oggi molte donne lottano.

data di pubblicazione:2/03/2016


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TESS di Roman Polanski, 1979

TESS di Roman Polanski, 1979

Tess (Nastassja Kinski) viene mandata nel nord della Francia per rivendicare una presunta parentela con la famiglia d’Urberville, ritenuta di nobili origini, ma che nella realtà invece riunisce solo nuovi ricchi che hanno comprato il nome per darsi più rispettabilità sociale. Il giovane Alec Stoke (Leigh Lawson) la accoglie a nome della famiglia e subito si innamora di lei. Più volte rifiutato dalla ragazza, pur di averla per sé, la violenta; Tess darà alla luce una bambina (Sorrow) che tuttavia morirà subito dopo la nascita.
Tempo dopo la giovane conoscerà Angel (Peter Firth) di cui si innamorerà; quando, dopo averla sposata, Angel verrà a conoscenza del passato burrascoso della moglie, fuggirà in Brasile abbandonandola. Approfittando dell’assenza di Angel, Alec si ripresenterà per risolvere i problemi pratici di sussistenza in cui, nel frattempo, era piombata la famiglia di Tess e nel contempo per rivendicare il suo amore. Tornato Angel dal Brasile, la situazione precipiterà inevitabilmente: Tess ucciderà Alec e poi verrà giustiziata per l’omicidio commesso, con il conforto finale che il marito almeno sposerà la sorella minore Liza.
Il film, dalla trama molto complessa, ebbe un grande riscontro nel pubblico e da parte di tutta la critica internazionale facendo vincere a Polanski diversi importanti premi tra cui ben tre Oscar e due Golden Globe, oltre a tantissime nomination, segnando l’esordio della bravissima Nastassja Kinski che venne premiata come miglior attrice debuttante. Il film, che ha il suo tragico epilogo tra le misteriose megaliti di Stonehenge, ci suggerisce questa ricetta dal sapore tutto inglese: fricassea di pollo.

INGREDIENTI: 8 sovracosce di pollo – 100 grammi di pancetta a dadini – due cipolle bianche – un dado per brodo – due tuorli d’uovo – un limone – olio d’oliva q.b. e una noce di burro – sale e pepe.
PROCEDIMENTO: Pulire bene le sovracosce di pollo togliendo la pelle, infarinare e soffriggere in abbondante olio d’oliva ed una noce di burro, insieme alle cipolle. Aggiungere la pancetta a dadini, fare insaporire e rosolare ben bene; correggere di sale e pepe, e quindi aggiungere il brodo molto ristretto. Lasciare cuocere a fuoco moderato per circa 30 minuti. Alla fine, quando il brodo si sarà asciugato, aggiungere il battuto ottenuto con i tuorli d’uovo ed il succo di un limone e togliere subito dal fuoco, facendo risposare il tutto. Il piatto va servito tiepido.

OSCAR 2016

OSCAR 2016

La premiazione della serata degli Oscar 2016, consegnati domenica 28 febbraio presso il Dolby Theatre di Los Angeles, anche quest’anno come per il 2015 è stata presentata da Chris Rock, su di un palcoscenico scintillante creato dallo scenografo Derek McLane, che ricordava la Hollywood degli anni ’70.

24 le categorie premiate e, per ogni statuetta consegnata, moltissime sono state le star che si sono avvicendate sul palco.

Il 2016 sarà sicuramente ricordato come l’anno dell’Oscar a Leonardo di Caprio, miglior attore protagonista per Revenant, che incorona nuovamente Iñárritu come miglior regista dopo il successo di Birdman. Lo scettro di miglior film viene invece consegnato a Il caso Spotlight.

Come miglior attrice protagonista si conferma, dopo la vittoria ai Golden Globes, Brie Larson per Room, mentre i due migliori attori non protagonisti sono Mark Rylance per Il ponte delle spie e Alicia Vikander per The Danish Girl.

Nessuna sorpresa per il miglior film straniero (Il figlio di Saul) e per il miglior film di animazione (Inside Out), mentre sul versante “tecnico” si regista un autentico trionfo di Mad Max Fury Road.

La musica di questa notte degli Oscar parla italiano, con la vittoria di Ennio Morricone per la colonna sonora di The Hateful Eight. Il Maestro ringrazia salutando con tanto semplice quanto commovente “Buonasera signori”.

Ecco tutti gli 88esimi Academy Awards.

 

Miglior film                                    

Il caso Spotlight

 

Miglior regia

Alejandro Gonzales Iñárritu – Revenant

 

Miglior attore protagonista

Leonardo DiCaprio – Revenant

 

Miglior attrice protagonista

Brie Larson – Room

 

Miglior attore non protagonista

Mark Rylance – Il ponte delle spie

 

Miglior attrice non protagonista

Alicia Vikander – The Danish Girl

 

Miglior sceneggiatura originale

Il caso Spotlight

 

Miglior sceneggiatura non originale

La grande scommessa

 

Miglior film straniero

Il figlio di Saul (Ungheria)

 

Miglior film d’animazione

Inside Out

 

Miglior montaggio

Mad Max Fury Road

 

Miglior scenografia

Mad Max: Fury Road

 

Miglior fotografia

Revenant

 

Migliori costumi

Mad Max Fury Road

 

Miglior trucco e acconciature

Mad Max: Fury Road

 

Migliori effetti speciali

Ex Machina

 

Miglior sonoro

Mad Max: Fury Road

 

Miglior montaggio sonoro

Mad Max: Fury Road

 

Miglior colonna sonora originale

The Hateful Eight

 

Miglior canzone

Writing’s On the Wall – Spectre

 

Miglior documentario

Amy

 

Miglior corto documentario

A Girl in the River: The Price of Forgiveness

 

Miglior cortometraggio

Stutterer

 

Miglior cortometraggio d’animazione

Bear Story

 

data di pubblicazione 29/02/2016

 

 

PORCILE di Pier Paolo Pasolini, regia Valerio Binasco

PORCILE di Pier Paolo Pasolini, regia Valerio Binasco

(Teatro Vascello – Roma, 16/28 Febbraio 2016)

Julian è un venticinquenne figlio dell’opulenta e potente borghesia tedesca. Ma ciò solo all’anagrafe, perché Julian non si sente appartenere a nessuno. Non riesce a condividere i suoi sentimenti neanche con la giovane Ida, che incessantemente (e infruttuosamente) lo corteggia. Respinge tutto e tutti: “Niente di ciò che è di tutti è mio”.

La mancanza di senso di appartenenza lo tormenta: non trova spazio nella società e al contempo non ne vuole far parte, però, se agisce da reazionario, finisce per sentirsi partecipe. “Io non ho opinioni. Ho tentato di averne, e ho fatto, in conseguenza, il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista.”

Il suo senso di straniamento lo conduce a distaccarsi dalla comunità — in particolare dai membri della borghesia (che considera dei suini) —, ma la sua affezione nei riguardi di ciò che lo ha generato persiste e riuscirà a esternarla in una forma diversa: svilupperà una perversione sessuale nei confronti di quell’animale che per lui rappresenta quella categoria avversata: il maiale. Zooerastia, quindi, che diventa simbolo della diversità del giovane, ma che cela il legame indelebile con quella parte della società avida. Avidità che finirà per divorarlo.

Diversità, amore proibito, epilogo tragico, eventi che hanno segnato la vita di Pasolini e di cui è intriso questo spettacolo dall’intensa carica autobiografica; che traspare appieno anche grazie alla splendida interpretazione del personaggio di Julian da parte di Francesco Borchi, il quale mostra una notevole capacità d’immedesimazione nel personaggio.

La trasposizione teatrale di Valerio Binasco dell’opera è più diretta e meno concettuale rispetto al testo originario. Depurato dagli intellettualismi pasoliniani, lo spettacolo è di più facile comprensione e, pertanto, accessibile a un pubblico più vasto.

Non solo il testo teatrale ma, altresì, la scenografia è essenziale: sul palco sono presenti un impiantito dal colore rosaceo (che allude al colore della pelle dei suini) e uno sfondo cangiante — il quale all’occorrenza diventa cinque archi oppure cinque arbusti fioriti e intrecciati. Sagace anche l’utilizzo di una proiezione video per simulare il sipario, che, nel momento in cui cala per l’ultima volta, ci lascia con il ricordo della straordinaria storia di Julian: una vita devota all’amore e dallo stesso sentimento consumato. «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto» (Il pianto della scavatrice, Pasolini).

Durata degli applausi: 3’ 10’’

data di pubblicazione:29/02/2016


Il nostro voto:

GLI ANNI di Annie Ernaux – L’orma, 2015

GLI ANNI di Annie Ernaux – L’orma, 2015

Al salone “Più libri più liberi” 2015 ci troviamo davanti a una elegante signora in nero, lunghi capelli biondi sulle spalle e una voce calda, quella di Annie Ernaux che ci parla della sua nuova fatica, Gli anni. Rispondendo alle domande che le sono state poste spiega come siano importanti per l’empatia del lettore le parti che parlano di pubblicità, politica, musica, televisione, tutti argomenti che sono parte della nostra quotidianità e che rendono il lettore partecipe di un “sentire comune”.

L’idea è quella di un romanzo autobiografico, Annie Ernaux fa di più perché raccontando la sua vita ci propone in realtà un viaggio dal primo dopoguerra a oggi in cui è la Storia a fare da protagonista. Lei stessa definisce questa sua opera “un’autobiografia impersonale”, proprio perché la sua figura, che si muove all’interno del libro, ci permette di essere spettatori di istantanee della Guerra d’Algeria, delle lotte sessantottine, della politica di Mitterand; tutti noi possiamo riflettere su quei cambiamenti, ripensare a come eravamo e cosa sentivamo. Il libro è un susseguirsi di fotografie del nostro modo di essere perché, di fatto, la Storia è fatta dall’insieme delle vite di ognuno di noi.

Ma il suo racconto non è fatto solo di eventi pubblici noti, è anche un susseguirsi di minuziose descrizioni di interni, l’evoluzione della moda, del succedersi dei pranzi di famiglia che mostrano i cambiamenti epocali che si rincorrono uno via l’altro; personalmente sono rimasta sconcertata dalla verità del nostro rapporto con gli oggetti, un tempo desiderare qualche cosa e ottenerla creava un senso di soddisfazione prolungato nel tempo e che si radicava in noi: gli oggetti tanto anelati “si offrivano agli sguardi e alle ammirazioni altrui” mentre ora la velocità dei cambiamenti è tale che si è concentrati sul continuo rincorrere senza riuscire a godere di nulla di quello che si ha, sempre alla ricerca di qualcosa di più.

Le parole con cui l’autrice descrive  l’avvenimento che ha creato un confine, un prima  e un dopo nella nostra storia contemporanea, il momento “che non poteva essere creduto, né pensato, né sentito, soltanto visto e rivisto sullo schermo di un televisore” è quello dell’11 settembre in cui “tutti cercavano di ricordare in che attività fossero impegnati nel momento esatto in cui il primo aereo aveva colpito la torre del World Trade Center, mentre coppie che si tenevano per mano si gettavano nel vuoto” una descrizione così viva che mi ha riportato alla mente il dolore di quei momenti.

Benché abbia molto apprezzato la struttura del romanzo, forse avrei gradito un approfondimento maggiore, perlomeno di alcune fasi della vita. Così mi sono sentita quasi una spettatrice davanti a un vecchio filmino in super8, immagini da colori ormai improbabili che scorrevano velocemente sul muro bianco, una concatenazione di momenti i cui si sorride al ricordo di una pubblicità o si aggrottano le sopracciglia al pensiero di una disgrazia; ma tutto troppo veloce, tutto con un tempo che non lascia prendere fiato e sedimentare i sentimenti che si creano rimangono solo in superficie, per poi svanire come bolle di sapone.