YERMA di Federico Garcìa Lorca, adattamento di Roberto Scarpetti e regia di Gianluca Merolli

YERMA di Federico Garcìa Lorca, adattamento di Roberto Scarpetti e regia di Gianluca Merolli

(Teatro Vascello – Roma, 29 marzo/3 aprile 2016)

Stabat mater dolorosa…, con questo lamento liturgico inizia Yerma, uno dei tre drammi che costituiscono la trilogia lorchiana insieme a La Casa di Bernarda Alba e Bodas de Sangre, tutti incentrati sui temi oscuri della passione e della morte.

Per comprendere meglio lo spirito di questa tragedia che Federico Garcìa Lorca scrisse nel 1934 bisogna entrare, lavorando di immaginazione, in ciò che poteva meglio rappresentare la Spagna in quel periodo cupo immediatamente antecedente alla guerra civile ed alla definitiva affermazione della dittatura franchista. Gli ideali nazionalistici si fondavano essenzialmente sui valori della famiglia e sulla posizione della donna la cui missione primaria era  quella di procreare un numero indeterminato di figli e di rimanere fedele al marito fino alla morte. Yerma è una eccezione: il suo nome significa terra arida, qualcosa di sterile che non produce, che è incapace di generare un figlio, una donna che non potrà mai essere una vera donna, completa come le altre, un essere carico di passione non ricambiata, una ossessione non sedata da alcun momento di vera consolazione, un fuoco che non arde, un’acqua che non disseta, una terra che non dà frutti, un’aria che non crea vita.

Accanto a Yerma troviamo Juan, marito impostole dalla famiglia e che lei non ama pur rimanendole devota, un uomo che le nega la gioia di un figlio, distratto dal suo lavoro nei campi e che presumibilmente sterile fa ricadere sulla moglie la colpa di non potere o sapere generare. Il secondo protagonista maschile è Victor, vecchio amico pieno di desiderio e sensualità la cui presenza accende subito le pulsioni assopite della donna, i suoi istinti sessuali che però dovranno essere repressi per non infrangere gli obblighi di fedeltà coniugale. Invano la donna cercherà con ogni mezzo di rimanere incinta, ricorrendo pure a sortilegi e riti magici, ed alla fine non le rimarrà altro che uccidere il marito autoaccusandosi nelle ultime battute:  Non avvicinatevi, perché ho ucciso mio figlio. Io… l’ho ucciso io! In effetti con la morte del marito lei per sempre si negherà la gioia della maternità, perché lei non si concederà ad altri uomini, rimanendo salda sui suoi ideali di donna sottomessa ed ubbidiente.

L’ambientazione scenica di Alessandro Di Cola ci immerge in una atmosfera sospesa, quasi metafisica in cui i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco si fondono in una massa amniotica rarefatta e dove la sabbia cade dal cielo senza soluzione di continuità, come dentro una eterna clessidra, un ammonimento del tempo che scorre inesorabile per coprire tutto, uomini e cose.

Il regista Gianluca Merolli ha voluto in maniera esplicita, quasi forzata, attualizzare e contestualizzare il dramma di Yerma con le attuali turbolenze legislative italiane in materia di procreazione assistita, ma forse il suo intervento potrebbe risultare troppo ovvio e quasi inopportuno.

Bravi gli attori in scena: Elena Arvigo, Enzo Curcurù, Fabrizio Ferracane, Giulia Maulucci e Maurizio Rippa, quest’ultimo con funzione di basso continuo nell’introduzione lamentosa, come di un coro ad una voce.

Anche se Yerma, che nasce dalla sabbia e prende una forma giunonica in Elena Arvigo, ha un timbro espressivo uniforme e ripetitivo, tuttavia il lavoro risulta nel suo insieme ben strutturato. Buone le luci di Pietro Sperduti e ben curata la musica da Luca Longobardi.

data di pubblicazione:31/03/2016


Il nostro voto:

 

YERMA di Federico Garcìa Lorca, adattamento di Roberto Scarpetti e regia di Gianluca Merolli

LA SCUOLA di Domenico Starnone, regia di Daniele Lucchetti

(Teatro Quirino – Roma, 29 Marzo/10 Aprile 2016)

Sul palcoscenico del Teatro Quirino un intreccio di tubi innocenti avvolge le pareti della palestra di un liceo situato nella periferia romana: un equilibrio precario, come quello che lega i professori del IV D che si apprestano a prender parte al consiglio di classe per lo scrutinio finale.

Sette sono i docenti — compreso il Preside — che decideranno le sorti degli alunni, ognuno dei quali rappresenta un’anima diversa della scuola (e anche del nostro paese).

Il Preside (un ottimo Roberto Citran) è un illetterato — presumibilmente ricopre la carica più per meriti altrui che propri — ma ha un forte senso del dovere. Quello che manca, invece, al professore di francese Mortillaro (interpretato da uno strepitoso Roberto Nobile, che regala al pubblico una performance esilarante), il quale indossa un completo bianco che contrasta con il suo animo nero come la pece e la sua mentalità misoneista e retriva (tant’è che esclamerà: “c’è chi è nato per zappare e chi per studiare”). Nero è anche l’abito talare del maleodorante prete, nonché insegnante di religione, Mattozzi (impeccabile Vittorio Ciorcalo), il cui olezzo sgradevole — oltre a divertire il pubblico nel vedere le reazioni dei professori che gli si avvicinano — sa di vetusto e antico, come i precetti che segue. Schemi in cui è ingabbiata anche la prof.ssa di storia dell’arte Alinovi (un’attenta Maria Laura Rondanini), insegnante scrupolosa e pedante, più adatta a lavorare per i servizi segreti (visto l’ingegnoso meccanismo messo a punto per ricordarsi i nomi dei numerosi alunni delle sue classi) che a insegnare. Inadatto all’insegnamento è altresì l’azzimato professore d’impiantistica, l’ing. Cirrotta (un disinvolto Antonio Petrocelli), dedito più al commercio dei termosifoni, e ad ammiccare alle donne, che a istruire. In particolare, la sua concupiscenza avvampa non appena incontra la prof.ssa di ragioneria Baccalauro (un’intensa Marina Massironi) — soprannominata ironicamente dai colleghi Bachalau (come il tipico piatto della tradizione portoghese) —, nevrotica ma talmente appassionata del proprio lavoro da avere a cuore la preparazione dei suoi studenti. Ma il suo cuore batte anche per l’idealista e visionario professore di lettere Cozzolino (l’intramontabile Silvio Orlando: capace di un’immedesimazione nel personaggio eccezionale — quasi si dimentica che in realtà è un attore) con il quale porta avanti una liaison clandestina; Cozzolino che rappresenta il professore più solidale con gli alunni, e che cercherà con la poesia di svegliare i colleghi dal sonno della ragione.

Il culmine della discussione tra queste diverse anime è raggiunto nel momento in cui si dovrà decidere se promuovere o meno l’alunno Cardini (la cui presenza è costante durante lo spettacolo, ancorché non sia impersonato da nessun attore). Il liceale — così come descritto dai professori — è il ritratto dell’indolenza e, al contempo, simbolo del fallimento della scuola che non riesce ad aiutarlo nel suo percorso formativo. La sua unica dote è l’imitazione della mosca: si aggira tra i banchi fingendo di volare e chiedendo ai suoi compagni di salvare l’insetto, perché sente dentro di sé Cardini. La metamorfosi non è altro che una metafora del rifiuto verso se stessi, nei confronti di quella parte negativa; e l’uccisione catartica gli permetterebbe di esprimere le sue potenzialità. E allora anche le impalcature che circondano la palestra diventano una gabbia per lo studente, cui sono tarpate le ali della creatività. Ma Cardini non è l’unico a sentirsi prigioniero; anche i professori sopprimono le loro aspirazioni, i desideri cui anelano: come il Preside che, da presunto inetto, mosso da afflato poetico si rivelerà capace di scrivere una poesia commovente nella sua semplicità.

Le riflessioni morali, cui ineludibilmente conduce lo spettacolo, sono affrontate con una leggerezza comica che rendono la piece gustosa — soprattutto grazie alle battute salaci che guarniscono i dialoghi tra i personaggi. La scenografia si attaglia perfettamente al testo teatrale, mercé una ben congegnata articolazione dello spazio scenico da parte di Giancarlo Basili. I costumi, scelti da Maria Rita Barbera, si adattano a ogni personaggio, esaltandone le caratteristiche. Il tutto è magistralmente orchestrato da Daniele Lucchetti, capace di dettare efficacemente i tempi scenici, in guisa da ottenere uno spettacolo armonioso e spiritoso.

data di pubblicazione: 31/03/2016


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LA COMUNE di Thomas Vinterberg, 2016

LA COMUNE di Thomas Vinterberg, 2016

La comune, nuovo film dell’autore danese Thomas Vinterberg, è stato presentato, in concorso, alla 66° edizione del Festival di Berlino, in cui Tryne Dyrholm che interpreta la protagonista, Anna si è aggiudicata l’Orso d’Argento (come migliore attrice).

Siamo negli anni ’70, a Copenaghen. La trama narra le vicende di Erik, architetto e professore universitario, sua moglie Anna, giornalista televisiva conosciuta in tutta la Danimarca, e la loro figlia Freja, studentessa quattordicenne, dopo che il primo ha ereditato l’enorme villa di famiglia (nella quale è cresciuto), situata in un quartiere chic della capitale danese.

L’impossibilità di far fronte alle spese per il mantenimento della villa portano dapprima Anna e, successivamente Erik (non senza iniziali reticenze), a decidere di condividerla con altre persone, alcune già conosciute, altre no, creando, quindi, una vera e proprio comune: le decisioni vengono prese a maggioranza e ognuno è tenuto a collaborare, mediante il pagamento di una quota d’affitto e, come più spesso accade, partecipando attivamente alle faccende domestiche.

La convivenza, così instaurata, procede a gonfie vele, con momenti di ilarità generale (particolarmente divertenti sono il tuffo in acqua da parte di tutti i familiari, rigorosamente nudi, e le chiassose cene, innaffiate da fiumi di alcool). I legami si rafforzano e il sogno idealista dei protagonisti sembra diventare realtà. Ma l’elemento destabilizzante è dietro l’angolo e, paradossalmente, non proviene dall’interno della comune, bensì dall’esterno.

Il regista, anche co-sceneggiatore, firma una commedia brillante, parzialmente autobiografica (avendo vissuto, da ragazzo, in una comune), che parte allegra e gioviale (ma non leggera) e progressivamente si incupisce, svelando risvolti molto drammatici, alcuni prevedibili, altri meno.

Ben rappresentata è l’evoluzione dei protagonisti: Erik, rinvigorito dall’esperienza della condivisione totale, sembra ringiovanire, dirigendo le proprie attenzioni verso una giovane studentessa, mentre Anna, inizialmente tollerante verso il marito (ed il suo comportamento), finirà pian piano per autodistruggersi, nell’ostinazione di portare avanti il progetto “comune”, nonostante il venir meno dei presupposti originari. Per Anna, infatti, la comune deve sopravvivere, nonostante tutto e tutti, anche se il prezzo da pagare è irragionevolmente alto.

Il ritmo è ben sostenuto e i dialoghi non appaiono mai banali, al pari dei contenuti affrontati, tra i quali spicca il diritto (?) per la famiglia allargata di assistere un componente in ospedale (tema, quest’ultimo, attualissimo in Italia).

data di pubblicazione:29/03/2016


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PINOCCHIO VOL.1-REDUX di Andrea Carvelli, regia di Matteo Cusato

PINOCCHIO VOL.1-REDUX di Andrea Carvelli, regia di Matteo Cusato

(Teatro dell’Orologio – Roma, 22/25 Marzo 2016)

Una rivisitazione in versi del ben noto romanzo, più che una fiaba, di Carlo Collodi curata da Andrea Carvelli con la regia di Matteo Cusato, che ci racconta in forma poetica delle prime avventure del celebre burattino Pinocchio. Nella fantasia di Mastro Geppetto il pezzo di legno che si trova tra le mani ha un’anima, una voce che riflette le proprie impressioni e che bisogna far vivere dandogli una forma. In questo caso però la pretesa va oltre: Pinocchio non sarà solo un burattino di legno, ma diventerà un bambino a tutti gli effetti che bisognerà mandare a scuola affinché impari a leggere e scrivere, per poi iniziare a uniformarsi a quanto richiesto dalla società. La morale appare evidente e rispecchia il vivere civile, che impone di sacrificare l’istinto naturale alle convenzioni: questo vale pure per Pinocchio, al quale proprio risulta innaturale conformarsi alle regole.

Interessanti le scene elaborate dallo stesso Carvelli dove vediamo muoversi il burattino/bambino interpretato magistralmente dal giovane Anton De Guglielmo che con movimenti rapidi rappresenta bene il Pinocchio che tutti immaginiamo: senza sbavature o tentennamenti lo vediamo comporre e scomporre dei pezzi di legno, interagendo perfettamente con gli altri personaggi del racconto e dando una certa uniformità all’insieme. Poco stimolanti le voci fuori campo ma necessarie per spiegare lo svolgersi della fiaba per chi, credo pochi, non abbiano mai letto da piccoli il celebre libro collodiano.

data di pubblicazione 25/03/2016


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LA MACCHINAZIONE di David Grieco, 2016

LA MACCHINAZIONE di David Grieco, 2016

Molto, ma mai troppo, è stato visto, scritto e raccontato su Pier Paolo Pasolini, ed ogni volta si aggiunge qualcosa di nuovo, come un tassello mancante che si inserisce in un quadro più generale delineando, con tratti sempre più marcati, la figura di questo grande poeta, scrittore, regista, giornalista, intellettuale che con il suo pensiero ha influenzato la cultura italiana del nostro tempo.

Questo film di David Grieco, amico personale di Pasolini che lo aveva scelto come attore in Teorema e successivamente come aiuto in Medea per fare da assistente alla Callas, ha uno scopo preciso: indurre ad aprire ancora una volta l’inchiesta sul delitto alla luce dei nuovi elementi probatori, tutti orientati a definire la faccenda come una vera e propria “macchinazione”, un complotto politico a tinte fosche per eliminare una figura divenuta oramai scomoda ai centri di potere.

Pasolini, nei giorni appena antecedenti la sua morte, aveva portato a termine, sia pur in maniera disordinata, il suo libro denuncia Petrolio attingendo dallo scritto del fantomatico Giorgio Steimetz Questo è Cefis, sparito subito dalla circolazione, in cui si denunciava la figura di Eugenio Cefis, allora Presidente dell’Eni e della Montedison.

Nella lettera a Moravia che accompagna il manoscritto, Pasolini chiarisce il tipo di taglio antinarrativo che vuole dare al libro affermando che pur trattandosi di un romanzo non era scritto come tale, ma più assimilabile a come si fa nella saggistica o in certi articoli giornalistici, nelle recensioni, nelle lettere private o anche in poesia…Pubblicato postumo nel 1992 da Einaudi, questo insieme disorganico di appunti e riflessioni è facile credere sia stato il vero motivo dell’assassinio, pianificato nei minimi dettagli, che si prefiggeva come obiettivo prevalente l’eliminazione di un personaggio oramai fastidioso e compromettente, facendo risultare chiaramente infondata, alla luce dei nuovi fatti emersi, la confessione nel primo processo del reo confesso Pino Pelosi.

Curato alla perfezione nella scelta delle scene firmate da Carmelo Agate e sotto la direzione della fotografia di Fabio Zamarion La Macchinazione di David Grieco, che si è già occupato molte volte dell’amico/maestro Pasolini in vari film e anche collaborando con Sergio Citti in una serie televisiva, sembra essere carente solo nella selezione del cast. Indubbia la somiglianza del volto di Massimo Ranieri con quello di Pasolini, ma certamente poco convincente la sua recitazione che non sembra trasmettere la giusta tensione emotiva, mentre la scelta di Milena Vukotic, nella parte della madre, sembra decisamente più efficace. Poco credibile anche la figura di Pino Pelosi impersonato dall’esordiente Alessandro Sardelli, sia nella interpretazione che nell’aspetto fisico, mentre molto indovinata la musica di accompagnamento Atom Heart Mother prestata al film dai Pink Floyd, un classico degli anni settanta che ben si adatta al periodo storico trattato.

Il film ha comunque il pregio di essere un documento che ci proietta nel mondo di Pasolini e ci chiarisce il suo pensiero riguardante il destino della sinistra italiana e della educazione scolastica borghese, pensiero che con il passare del tempo è risultato decisamente premonitore sulla realtà politico/sociale di oggi.

data di pubblicazione:23/03/2016


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LA CORTE di Christian Vincent, 2016

LA CORTE di Christian Vincent, 2016

Un raffinato gioiello francese, dopo aver illuminato di una luce tanto discreta quanto avvolgente la selezione della 72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, rischiara anche gli schermi italiani.

Xavier Racine (Fabrice Luchini, immancabilmente perfetto) è un intransigente Presidente di Corte d’Assise, che amministra la Giustizia in quel Nord della Francia divenuto ormai un autentico toposcinematografico. Durante il processo relativo alla morte di una bambina, all’interno del quale rischiano di insinuarsi il pregiudizio e/o la noncuranza relativi alla condizione di emarginazione sociale che fa da sfondo alla commissione del delitto, lo sguardo del “Presidente”, come ci tiene a essere chiamato Racine, incontra quello della giurata Birgit Lorensen-Coteret (un’impeccabile Sidse Babett Knudsen): non si tratta di uno degli anonimi nominativi estratti a sorte per la composizione della Giuria, ma degli occhi che in passato hanno acceso nel cuore di Racine il bagliore di un amore mai sopito.

La dimensione teatrale del processo, un po’ troppo didascalicamente enfatizzata nel corso del film, non è certo un mistero. Il processo, soprattutto quello penale, è al tempo stesso “rito” e spettacolo, con tanto di palcoscenico, scenografia, costumi, attori e copione.  Così come non è un mistero che il courtdrama sia un genere tipicamente targato USA, il quale, rafforzato dalla strutturale spettacolarità del processo di common law e dall’effetto trascinatore del botteghino americano, fatica a trovare corrispondenti altrettanto convincenti nella cinematografia del Vecchio continente: è significativo che ne La Corte uno dei personaggi si veda affidato il compito di “illustrare”, anzitutto allo spettatore, la composizione dell’aula e, quindi, l’allestimento dello spettacolo che sta per iniziare. Il lavoro di Vincent si caratterizza però per una scrittura consapevole e non approssimativa, con quei giurati seduti attorno a un tavolo in cui è pressoché inevitabile intravedere gli eredi dei 12 Angry Men (titolo originale di La parola ai giurati, sebbene il regista smentisca esplicitamente qualsiasi influenza delcult di Sidney Lumet). Rinunciando alla pomposa maestosità dello stereotipo del “processo da grande schermo”, il film riporta il tribunale e gli uomini di legge a una dimensione forse più prosaica, ma indubbiamente familiare a chi è abituato a frequentare i luoghi della Giustizia.

Il personaggio interpretato da Fabrice Luchini riproduce proprio il dualismo tra la dimensione solennemente pubblica e quella romanticamente privata attorno al quale si sviluppa l’intero racconto. L’Ermellino (non a caso sottolineato dal titolo originale “L’Hermine“) e la sciarpa rossa, il Giudice che conduce con sicurezza il dibattimento e l’uomo che non sostiene il pressante interrogatorio della figlia adolescente di Birgit: due anime efficacemente distinte dalla recitazione di Luchini, pronte a ricomporsi in armonica unità nel finale.

La commedia “romantico-giudiziaria” tratteggiata da La Corte è anche la nitida fotografia di uno spaccato sociale sul quale hanno richiamato a lungo l’attenzione, nella conferenza stampa veneziano, tanto il regista quanto il protagonista, nel corso di un irresistibile show di Luchini che ha spaziato dalla riflessione politica alla lezione sul mestiere dell’attore.

data di pubblicazione 22/03/2016


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YERMA di Federico Garcìa Lorca, adattamento di Roberto Scarpetti e regia di Gianluca Merolli

PAGAMENTO ALLA CONSEGNA di Michael Cooney, regia Emilia Miscio

(Teatro San Genesio – Roma, 8/20 Marzo 2016)

Sussidi, indennità, assegni di qualsiasi tipo piovono su Eric Swan (Simone Giuletti), disoccupato londinese che ha ingannato il sistema previdenziale inglese ed è riuscito ad ottenere il riconoscimento di numerose somme di denaro per tutte le persone indigenti che ha dichiarato vivere al suo indirizzo.

Ma il castello di menzogne da lui creato è sul punto di sgretolarsi. Seduto sul comodo divano di pelle del suo elegante appartamento — le cui pareti sono per metà ricoperte da una boiserie in legno laccato di bianco e per l’altra dipinte di color rosso vermiglio — decide di rinunciare a tutti gli aiuti statali che ha ottenuto illecitamente.

Il destino, tuttavia, gli ha riservato una sorpresa. Il campanello della porta suona inaspettatamente e sull’uscio Eric rimane pietrificato alla vista di un sussiegoso signore: è il funzionario statale del dipartimento di previdenza!

L’incontro nefasto innescherà una reazione a catena che vedrà coinvolti diversi personaggi nella farsa generata da Eric, tra cui lo sfortunato inquilino Norman (Massimo Sconci) che, mentre si aggira per casa nei suoi stravaganti pantaloni in tartan rosso, si ritroverà suo malgrado coinvolto nel baillame generale.

Fuseaux dai colori sgargianti, reggiseni di proporzioni enormi, vestiti dai motivi floreali sono solo alcuni degli espedienti che saranno utilizzati per camuffare una situazione che arriverà ai limiti dell’inverosimile, ma che troverà nel lieto finale il tanto anelato ripristino dello status quo.

Le gags di cui è costellato lo spettacolo, costituite soprattutto dagli escamotage cui Eric ricorre per cavarsi d’impaccio, sono simpatiche e appropriate; e rendono lo spettacolo equilibrato, senza mai scadere nel ridicolo. Il quid pluris della messinscena è sicuramente costituito dalla prova corale della compagnia teatrale, che ha trovato la chimica giusta per rendere questa commedia ancor più amena. Il divertimento è palpabile, tant’è che gli stessi attori, in alcuni frangenti, non riescono a trattenere il riso e li si può scovare a ridere di sottecchi!

data di pubblicazione:19/03/2016


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TRUTH di James Vanderbilt, 2016

TRUTH di James Vanderbilt, 2016

Il 2015 riporta in auge il connubio tra giornalismo d’inchiesta e grande schermo, che sembrava ormai relegato negli scaffali del cinema da collezione: dopo l’ottima accoglienza di Spotlight alla 71. Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Truth si è visto assegnato il compito di inaugurare la decima edizione della Festa del Cinema di Roma e di invertire la tendenza rispetto alle più disimpegnate aperture delle ultime edizioni (L’ultima ruota del carroSoap Opera). Entrambe le pellicole arrivano, pressoché in contemporanea, sugli schermi italiani.

Il film d’esordio di James Vanderbilt racconta la scandalo esploso a seguito di una puntata della trasmissione televisiva “60 Minutes” andata in onda nel 2004, nell’ultima fase di quella campagna elettorale post 11 settembre che avrebbe consegnato per la seconda volta lo scettro di Presidente degli Stati Uniti a George W. Bush.

Il “boccone è succulento”: molti privilegiati figli del Texas, tra cui il giovane Bush Junior, evitano il sanguinario fronte della Guerra in Vietnam arruolandosi nella più rassicurante Guardia Nazionale dell’Aeronautica, non certo sulla base di pretesi meriti da pilota, ma sfruttando la via spianata dalle pressioni e dalle raccomandazioni che regolano i rapporti tra uomini di potere.

Mary Mapes (Cate Blanchett), dopo aver scosso l’America (e non solo) con il servizio sulla prigione di Abu Ghraib, decide di “produrre” anche questa storia, mettendo in campo una squadra formata dal Colonnello Roger Charles (Dennis Quaid), dalla docente di giornalismo Lucy Scott (Elisabeth Moss) e dall’alternativo freelance Topher Grace (Mike Smith). Il racconto televisivo è affidato al volto e alla voce di Dan Rather (Robert Redford), autentica istituzione dell’informazione made in USA.

I tasselli del mosaico sembrano progressivamente ricomporsi in quadro coerente e credibile, confortato da documenti e dichiarazioni tra loro concordanti. La puntata viene però mandata in onda in tempi troppo stretti per rendere inattaccabile un’inchiesta a dir poco esplosiva. Il “sistema” si insinua allora nelle fessure lasciate aperte dalle lancette di “60 Minutes” e giunge ad allestire un autentico processo, in cui l’accusa e la difesa si fronteggiano senza le garanzie di un giudice terzo e imparziale.

Il meticoloso racconto del c.d. Rathergate, sostenuto da un ritmo narrativo incalzante e coinvolgente, diviene anzitutto un inno appassionato in difesa della libertà di stampa e del giornalismo alla vecchia maniera, stretto nella morsa degli intrighi della politica, delle logiche di mercato e dell’incalzare spersonalizzante dei nuovi media. Truth è però anche una più ampia riflessione sugli abusi e le prepotenze del potere, che gli anticorpi della Democrazia non riescono ad arginare. Chi, per amore di quella verità evocata dal titolo, sceglie di sfilarsi dagli ingranaggi del “sistema manipolato”, si espone al rischio dell’umiliazione professionale e personale e si vede sottoposto a tortura con la minaccia di esecuzione sommaria, fino a quando, implorando a chi abusa del suo potere di porre fine al supplizio, non ammetta la sua resa.

La prova di Cate Blachett è impeccabilmente monumentale e la sinergia con l’inossidabile Robert Redfort contribuisce a rendere pienamente convincente un film che forse indulge in qualche passaggio alla retorica del monologo demagogico, ma che urla negli occhi dello spettatore il monito di continuare a fare domande, senza accontentarsi delle risposte preconfezionate. L’alternativa è il consolidarsi di un sistema di informazione in cui la diversificazione dei media conduce paradossalmente a una sempre più impenetrabile omologazione della pubblica opinione.

 data di pubblicazione 17/03/2016


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YERMA di Federico Garcìa Lorca, adattamento di Roberto Scarpetti e regia di Gianluca Merolli

QUELLA STRANA PARTE DI ME di Patrizio Cigliano

(Teatro dei Conciatori – Roma, 8/20 Marzo 2016)

Lorenzo Da Ponte alla fine del ‘700, nel portare a termine il libretto commissionatogli da Mozart per la sua opera buffa Così fan tutte, già aveva stigmatizzato, sia pur in maniera ambigua come suo solito, l’infedeltà “insita” nella natura femminile lasciando però un prudente margine di dubbio: sono le donne costrette al tradimento a causa dei raggiri maschili, oppure sono gli uomini che si fanno abbindolare dalle lusinghe femminili?

Patrizio Cigliano nel suo lavoro in scena al Teatro dei Conciatori ci sottopone mutatis mutandis lo stesso dilemma. Andrea è un quarantenne in apparenza felicemente sposato da dieci anni che ogni tanto si concede una scappatella extra con qualcuna più giovane di lui. Dopo aver assunto nel suo ufficio una stagista di nome Linetta, ben presto prenderà coscienza che la giovane, nella sua inettitudine al lavoro ed alla vita affettiva in genere, lo ha coinvolto emotivamente al punto tale da sacrificare il suo matrimonio per un rapporto che solo lui crede di autentico amore, ma che invece non presenta alcun  coinvolgimento da parte della ragazza.

Invano interviene quella strana parte di sé che razionalmente spingerà Andrea a meditare su quanto sta realizzando: abbandonare la moglie fedele e desiderosa di creare una famiglia per una ventenne scialba, anaffettiva, che si concede facilmente a sconosciuti solo per il gusto di sentirsi desiderata.

Ancora una volta la ragione non sembra avere presa sul sentimento, sull’amore che tutti noi stranamente cerchiamo nella direzione sbagliata, illudendoci per un breve momento sulla certezza di quell’emozione che ben presto però ci creerà solo pena e tormento.

Il salto generazionale tra Andrea a Linetta aggraverà ulteriormente la situazione e renderà il rapporto insostenibile: i linguaggi espressivi sono troppo diversi e non c’è proprio nulla da fare per riconciliare i due amanti in quello che avrebbe potuto essere, almeno nelle intenzioni di Andrea, un rapporto d’amore duraturo. I quattro attori della Compagnia Arcadinoè (Patrizio Cigliano, Barbara Begala, Beatrice Messa e Veronica Milaneschi) si muovono con disinvoltura sulla scena ideata dallo stesso regista, cadenzata da rapidi cambi in uno spazio ben studiato per le diverse situazioni. La narrazione si segue con attenzione e divertimento, lasciando lo spettatore con quell’inevitabile amaro in bocca, tipico di ogni opera buffa che si rispetti.

data di pubblicazione:17/03/2016


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AVE, CESARE! di Ethan e Joel Coen, 2016

AVE, CESARE! di Ethan e Joel Coen, 2016

Se il filosofo e sociologo tedesco Herbert Marcuse avesse visto il film Ave, Cesare!, firmato dai fratelli Coen e presentato come film di apertura all’ultima Berlinale, avrebbe sicuramente rivisto al meglio le proprie teorie sul capitalismo e sulla manipolazione delle masse da parte della cultura dell’intrattenimento.

Il film, ambientato in una Hollywood di celluloide degli anni cinquanta, in quei famosi Studios dove contemporaneamente si mescolano western, musical e polizieschi di ogni genere, sembra irridere alle situazioni stesse, a volte grottesche, che pur nella confusione generale, trovano sempre una soluzione per far andare avanti al meglio quanto previsto in copione. Il risultato è una divertente satira socio/culturale del tempo che solo la maestrìa dei fratelli Coen sa rendere al meglio, usando toni leggeri e quasi surreali, senza peraltro ricadere nel banale o nel tutto prevedibile. Il film, pur non atteggiandosi volutamente a divenire un classico d’autore, diventa invece un film autoriale grazie all’abilità di questi due registi che hanno saputo cogliere l’essenza del tema annunciato.

Di gran livello il cast, che va da Josh Brolin a George Clooney, da Alden Ehrenreich a Ralph Fiennes, e poi ancora Jonah Hill, Scarlett Johansson, Frances McDormand, Tilda Swinton, Channing Tatum, ed anche se alcuni di loro sono impegnati solo in piccoli camei, tutti insieme determinano la buona riuscita complessiva del film che rimanda, per situazioni e personaggi, a fatti e persone reali degli anni cinquanta.

Il messaggio che ci arriva è quello che le cose semplici, paradossalmente, sembrano essere quelle più sbagliate e che invece proprio dal caos nasce l’ordine e la felicità, che è quello che in fondo appaga noi comuni mortali in un futuro anteriore che oramai, minuto per minuto, ci respinge in un passato remoto e dove anche la luna piena, che si rispecchia nell’acqua, può così all’improvviso dileguarsi: basta semplicemente… tuffarvisi dentro.

data di pubblicazione:17/03/2016


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