da Felice Antignani | Set 12, 2016
(Milano Film Festival 2016- In Concorso)
Polonia. Due sorelle sirene, Oro e Argento, vivono in un bacino nei pressi di una non meglio precisata città.
Per via della loro meravigliosa voce, iniziano ad esibirsi in un night club, volto anche ad intrattenere adulti (così come riferisce il direttore), ammaliando l’intera clientela. La loro particolare natura influenza (e turba) non poco i comportamenti e le abitudini dei dipendenti del club. Oro è desiderosa di innamorarsi, mentre Argento sembra più interessata a nutrirsi di carne umana, conformemente alla sua natura di sirena.
Primo lungometraggio della regista polacca Agnieszka Smoczynska, presentato in anteprima in Italia, alla ventunesima edizione del Milano Film Festival, e vincitore, tra l’altro, dello Special Jury Prize all’ultimo Sundance Film Festival, The lure è un film fantasioso, che mescola vari generi: dal musical, sostanzialmente presente lungo l’intera visione, all’horror, passando per momenti romantici e di sofferenza e sacrificio, fisici ed interiori. La trama è decisamente interessante, ben sviluppata, e il film, al netto di alcune ridondanze, è assolutamente godibile. Il rapporto tra le due sorelle sirene, affascinanti ma pericolose, è al centro della narrazione, unitamente alle conseguenze che si abbattono su di esso dall’allontanamento, morale e fisico, di Oro dalla sorella e, quindi, dalla natura di creatura acquatica. Esordio alla regia per la polacca Smoczynska che meriterebbe una distribuzione, quantomeno in home video. Ben fatto.
data di pubblicazione 12/09/2016
da Maria Letizia Panerai | Set 11, 2016
Il professore di filosofia Luigi Di Santo (Fabrizio Bentivoglio), originario di Mesagne nel Salento, vive a Milano da molti anni; per vendere la tenuta di famiglia deve però far ritorno nel suo paese da cui si era allontanato da giovanissimo, ma dove ancora vivono i suoi fratelli. Luigi dovrà cercare di convincere il fratellastro Aldo (Massimo Venturiello) a mettere in vendita la masseria di famiglia dove risiede, per tentare di aiutare gli altri fratelli: il candidato politico Michele (Emilio Solfrizzi), inseguito dallo strozzino Tonino (interpretato dallo stesso Rubini) a cui deve un’ingente somma e l’eterno studente universitario Mario (Paolo Briguglia), impegnato nel sociale in un centro per disabili. Ma Aldo non vuole affatto andarsene dalla masseria che è tutta la sua vita perché è sempre vissuto lì. Il venerdì santo, durante la processione del paese, Tonino viene ucciso: i sospetti di Luigi ricadono inevitabilmente su Michele ma, in realtà, la situazione non è come appare ai suoi occhi…Sul finale si scoprirà che nulla è più come prima, e ciascun personaggio mostrerà un lato sconosciuto di sé. Rubini anche in questo caso dà prova di essere un buon regista, dando al film un andamento quasi da thriller, rendendolo non scontato anche se apparentemente a lieto fine.
A questo film così “assolato”, come la terra intorno alla masseria in cui l’intera vicenda è ambientata, dedichiamo una ricetta decisamente sudista: una rivisitazione a base di melanzane della mozzarella in carrozza.
INGREDIENTI: 3 Melanzane con un diametro piuttosto grande – 3 uova – 200 gr. di pangrattato – 2 etti di farina – 1 fior di latte a fette – 4/5 filetti di acciughe – ½ etto di parmigiano grattugiato – foglie grandi di basilico napoletano – sale e pepe q.b.- olio di mais o arachidi per friggere.
PROCEDIMENTO:
Preparare prima tutti gli ingredienti sul tavolo da lavoro: mettere in un piatto piano la farina, in un altro il pangrattato, in un’altra ciotola le uova sbattute regolate di sale e pepe nero. Dopo aver lavato ed asciugato le melanzane, tagliarle a rondelle dell’altezza di un dito scarso, quindi metterle in una padella antiaderente con poco olio e farle soffriggere leggermente da ambo i lati. Dopo aver fatto questa operazione con tutte le rondelle, posizionarle su di una leccarda ricoperta di carta da forno e metterle in forno per 10 minuti scarsi. Fatele freddare e dopo passatele nella farina(poca) scrollando quella in eccesso. Tagliare il fiordilatte a fette e posizionare su ogni rondella di melanzana una fetta di mozzarella, un po’di parmigiano grattugiato, mezzo filetto d’acciuga sminuzzato e una bella foglia di basilico napoletano riccio, chiudere poi a panino con un’altra rondella di melanzana, incollando bene i lati in modo da sigillare il panino facendo pressione con le dita, poi passatelo nell’uovo assicurandosi che l’esterno del “panino” così ottenuto sia ben inzuppato di uovo anche sui laterali; passate quindi le due fatte di melanzane ripiene nel pan grattato, avendo cura che ne siano ricoperte anche sui lati. Procedete così sino ad ottenere tanti “panini imbottiti” ben sigillati.
Friggere in abbondante e caldo olio di arachidi o di mais. Se si gradisce, salare in superficie la melanzana in carrozza solo dopo averla fritta ed asciugata bene con carta assorbente.
Servire tiepide e filanti in un piatto da portata ricoperto di carta paglia.
da Antonella Massaro | Set 11, 2016
Tommaso, incapace di ritrovare il bambino che è in sé e di crescere insieme a lui, cerca invano il proprio equilibrio in relazioni fallimentari, avvicinandosi a quelle donne da cui è al tempo stesso affascinato e ossessionato.
Tommaso (Kim Rossi Stuart) di mestiere fa l’attore, anche se sogna di dirigere un film tutto suo. In attesa di leggere un copione che gli appartenga davvero e di scrivere la storia che lo rappresenti del tutto, si sforza di trovare il proprio ruolo anche nella vita. Il suo complicato e inappagante rapporto con le donne è solo la spia del più generale senso di inadeguatezza che opprime il protagonista fino a quasi soffocarlo. Si relaziona al sesso opposto con strategie quasi puerili, è ossessionato dal corpo di donne sconosciute che, dalla farmacia fino al tram, popolano le fantasie erotiche più elementari, ma, quando quelle donne abbandonano il sogno e diventano compagne reali, non riesce a far altro che concentrarsi su insignificanti difetti dei loro corpi all’apparenza perfetti: i denti storti di Chiara (Jasmine Trinca) o il “ciccetto di carne” pulsante sulle labbra di Federica (Cristiana Capotondi) sono i pretesti di cui Tommaso di serve per “mettere le distanze” e tornare a rifugiarsi nel suo impenetrabile mondo.
Mario (Renato Scarpa), lo psicoanalista che raccoglie gli sfoghi di Tommaso, gli ripete ossessivamente che l’unica via per crescere è quella di cercare e ritrovare il bambino che era dentro di lui e che si è smarrito chissà dove.
La causa remota del disagio esistenziale di Tommaso, dipinto a tinte lievi che non di rado scolorano però in variazioni più cupe, non lascia spazio a letture originali: il rapporto in parte irrisolto con i genitori, a partire dall’opprimente figura della madre (Dagmar Lassander), cui si aggiunge il peso delle convenzioni e degli obblighi sociali. Tommaso cercherà di spogliarsi dei suoi vestiti grigi e marroni, giungendo però alla conclusione che per tornare bambini non serve o comunque non basta togliere la barba e indossare t-shirt e cappellino, come avviene durante la relazione con la giovane Sonia (Camilla Diana).
Dopo il felice esordio di Anche libero va bene, Kim Rossi Stuart torna dietro alla macchina da presa con Tommaso, presentato fuori concorso durante la 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che, viceversa, sembra per molti aspetti un esperimento non riuscito. I toni onirico-psiconalitici pervadono in maniera originale l’intero film, ma solo nel finale risultano davvero convincenti. La sceneggiatura rivela qualche debolezza di troppo e anche la recitazione di Kim Rossi Stuart, da sempre una prevedibile certezza, non appare del tutto impeccabile, specie in quei toni grotteschi e surreali che pure dovrebbero rappresentare una delle cifre caratterizzanti del film.
L’impressione è quella per cui Tommaso, malgrado Kim Rossi Stuart si sia affrettato a smentire ogni suggestione autobiografica, è un film che appartiene troppo al regista per essere davvero “suo”.
data di pubblicazione: 11/09/2016
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da Antonella Massaro | Set 11, 2016
La 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016, pur partita in tono dimesso e con qualche scelta di programma non del tutto convincente, si conclude con un bilancio ampiamente positivo.
L’edizione 2016 della Mostra è riuscita nell’intento di accostare generi molto diversi tra loro (dalla fantascienza al western, passando per il melò), ha strizzato l’occhio al grande pubblico con film “più facili” (come li ha definiti il Direttore Barbera) ma non ha rinunciato al cinema d’autore, ha ospitato cineasti presi a prestito dallo star system più luccicante senza però che il glamour abbia mai rubato la scena al Cinema.
Quanto alle novità più attese, sembra che l’apertura di Barbera alle nuove forme di sperimentazione dell’audiovisivo di qualità, a partire dalle prime due puntante della serie The Young Pope di Paolo Sorrentino, abbia superato ogni possibile scetticismo. La nuova Sala Giardino, invece, per la qualità delle sedute e degli strumenti di proiezione, si è mantenuta ben al di sotto delle aspettative della vigilia.
La cerimonia di premiazione che ha concluso Venezia 73, diretta da una magistrale Sonia Bergamasco, ha confermato le molteplici anime che hanno attraversato questa edizione della Mostra. Ecco i premi assegnati dalla giuria presieduta da Sam Mendes.
Il Leone d’oro vola tra le mani di Lav Diaz per The Woman Who, che dedica il premio al popolo filippino per la sua lotta e alla lotta dell’umanità, ma un emozionatissimo Tom Ford, che ringrazia in italiano quella che considera la sua seconda casa, si aggiudica il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria per Nocturnal Animals. Due mondi, due stili, due visioni del cinema per certi aspetti speculari salgono in rapida successione sul palco della Sala Grande.
Si registra un ex aequo per il Leone d’Argento per la miglior regia, assegnato a Amat Escalante per l’ambizioso La Región Salvaje e Andrei Konchalovsky per Paradise, nuova riflessione sul dramma dell’Olocausto.
La Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, contro tutti i pronostici che davano per favorita Natalie Portman e la sua Jackie, è andata a Emma Stone, per la sua impeccabile interpretazione nel roboante film d’apertura La La Land.
Oscar Martinez si aggiudica invece la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile nel raffinato El Ciudadano Ilustre.
Il premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente viene meritatamente consegnato a una felicissima Paula Beer, per il poetico Frantz.
La migliore sceneggiatura è infine quella di Jackie, firmata da Noah Oppenheim, mentre il premio speciale della giuria va a The Bad Bacth di Ana Lily Amirpour.
Non resta che concludere tenendo sempre a mente le parole di Oscar Martinez: non solo Venezia è un appuntamento di sicuro prestigio per il cinema mondiale, ma l’Italia, grazie alla costellazione di geni che ha partorito, è stata in grado di realizzare il miglior cinema del XX secolo. Dovremmo cercare di non dimenticarlo, specie quest’anno in cui il grande assente di Venezia pare essere stato proprio il cinema di casa nostra.
Arrivederci al 30 agosto 2017!
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Riportiamo qui di seguito gli altri premi assegnati.
La Giuria internazionale della sezione Orizzonti presieduta da Robert Guédiguian ha assegnato i seguenti premi:
- Premio Orizzonti per il Miglior Film: Liberami di Federica Di Giacomo
- Premio Orizzonti per la Miglior Regia: Fien Troch per Home
- Premio Orizzonti per la Miglior Sceneggiatura: Bitter Money di Wang Bing
- Premio Speciale della Giuria di Orizzonti: Koca Dünya di Reha Erdem
- Premio Orizzonti per il Miglior Cortometraggio: La Voz Perdida di Marcelo Martinessi
- Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Maschile: Nuno Lopes per São Jorge di Marco Martins
- Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Femminile: Ruth Díaz per Tarde Para la Ira di Raúl Arévalo
La Giuria internazionale del Premio Venezia Opera Prima presieduta da Kim Rossi Stuart ha premiato:
- Akher Wahed Fina (The Last of Us) di Ala Eddine Slim
La Giuria della sezione Venezia Classici presieduta da Roberto Andò ha assegnato i premi seguenti:
- Premio Venezia Classici per il Miglior Film Restaurato: Break Up – L’Uomo Dei Cinque Palloni di Marco Ferreri
- Premio Venezia Classici per il Miglior Documentario sul Cinema: Le Concours di Claire Simon
data di pubblicazione: 11/09/2016
da Alessandro Rosi | Set 11, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Due amanti pronti a sacrificarsi. Tre storie vere. E tanta fantasia.
Il suono pizzicato del cimbalon, quello eccitante delle trombe e, infine, quello toccante del pianoforte. Ogni strumento scuote il nostro corpo con la sua inebriante melodia. È la miscela esplosiva della musica popolare balcanica, che s’interseca con i rumori della natura, scorre nelle vene e invita a danzare. Nonostante la guerra imperante, la musica continua a suonare costante.
Un amplesso musicale per festeggiare due imminenti matrimoni: Milena (una conturbante Sloboda Mićalović) sposerà il titubante – e stravagante – militare Kosta (Emir Kusturica); mentre il fratello della suddetta, il pluridecorato generale Zaga, si appresta a celebrare le nozze combinate con una profuga italiana (Monica Bellucci) – strappata a un centro d’accoglienza.
Ma i piani nuziali saranno stravolti dalla scintilla scoppiata tra Kosta e l’italiana. Un amore proibito, che farà precipitare i protagonisti in una serie di fantastiche e pericolose avventure.
Kusturica affabula una storia d’amore, interpretandola alla sua maniera, con fantasia e ironia.
Una favola moderna in cui si ammirano paesaggi unici, che si fondono con i personaggi e danno loro profondità.
Un ritmo incalzante e trascinante (ancorché nella seconda parte sfumi), come il rumore travolgente delle pietre che rotolano giù dalle rocciose colline balcaniche, durante la fuga dei due innamorati. Le stesse pietre che Kosta userà per ricomporre il mosaico del suo imperituro amore verso l’amata italiana.
data di pubblicazione:10/09/2016
da Alessandro Rosi | Set 10, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Una donna che non ha cercato la celebrità, ma è finita col diventarlo.
Ognuno di noi ha le sue debolezze, i suoi punti fragili, i suoi momenti buî. Ed è in questi ultimi che si misura il valore di un uomo: dal modo in cui reagisce al dolore, da come si rialza dopo esser caduto.
Jacqueline Kennedy ha il vestito macchiato di sangue, e nei suoi occhi sono ancora vive le immagini dei brandelli di cervello del marito sparsi nell’auto, quando le viene chiesto di decidere come saranno celebrati i funerali. Una scelta difficile e importante, che deve rendere onore a un uomo non perfetto, ma proprio per questo capace di migliorarsi.
Nonostante le ritrosie degli alti funzionari di Stato, modella il funerale su quello di un altro illustre presidente degli Stati Uniti d’America, Abraham Lincoln, assassinato anche lui durante il suo mandato. E pretende, pertanto, che tutti i capi di Stato marcino insieme fino al cimitero dove il corpo sarà seppellito.
“Jackie” volle fortemente che i funerali di J.F. Kennedy fossero un evento storico e irripetibile: e ci riuscì.
Il film rivela una first lady che, dietro un’apparente fragilità – con la sua voce dal tono basso e debole –, cela un temperamento ferreo e risoluto. Una donna capace di vincere tutte le resistenze, interne ed esterne, nel momento di massima sofferenza.
A Pablo Larraín va il merito di aver mostrato l’esecrabile episodio della morte di J.F. Kennedy da un punto di vista inedito, descrivendo l’enorme peso delle responsabilità che ricaddero sulla moglie (e che seppe gestire in modo sorprendente). La regia, tuttavia, appare alquanto anonima ed eccessivamente distaccata; non riesce ad affascinare, malgrado diverse componenti del film convincano: le musiche inquietanti si attagliano perfettamente alle scene e aumentano il dramma; la sceneggiatura è ricca di spunti che colpiscono; e le prove attoriali elevano la qualità della pellicola. Sotto quest’aspetto, è d’uopo menzionare la sublime interpretazione di Natalie Portman (Jacqueline Kennedy); il ruolo ricoperto le consente di mostrare le sue eccezionali doti di mimetismo, candidandosi alla coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.
E se nella nostra società si distinguono due categorie di donne, quelle che cercano il potere nel mondo e coloro che lo cercano a letto, lei – come Jacqueline Kennedy – dimostra di appartenere alla prima categoria.
data di pubblicazione: 10/09/2016
da Alessandro Rosi | Set 9, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Il mea culpa dell’umanità nei confronti della Terra: dagli albori dell’universo sino all’attuale temperie storica; attraverso la carica espressiva delle riprese sulla natura, che si manifesta in tutto il suo splendore.
Una voce calda, avvolgente, materna accompagna il percorso visivo dei momenti principali della storia dell’universo. Una sequenza di scene d’indimenticabile bellezza: lava incandescente che si protende verso il mare – come i tentacoli di una piovra; panorami inimmaginabili di luoghi verdi e incontaminati; celesti riprese subacquê che scovano gli angoli più reconditi del paesaggio marino. La Terra, dunque, nella sua più ammaliante manifestazione.
Nel mondo in cui viviamo, tuttavia, spesso la purezza della natura viene inquinata dalle barbarie degli esseri umani. Ed è ciò che esprime la voce in sottofondo, che rappresenta l’umanità e si rivolge in tono dimesso alla Terra, per espiare le sue colpe. Un monito per salvare ciò che stiamo deturpando, ciò che stiamo perdendo senza accorgercene. Per questo motivo, alle immagini naturali entusiasmanti, si alternano quelle di atrocità umane umilianti.
Un viaggio nel tempo che scorre inesorabilmente: “Ma se il tempo devasta e divora tutto, cosa rimane?”
La pellicola di Terrence Malick consente di ammirare la natura in un modo in cui non la si era mai vista prima. Filmati di rara bellezza e riprese mozzafiato, rese possibili grazie alla collaborazione con National Geographic.
Per la ripresa dei due tipi di immagini che si avvicendano (quelle stupende della natura e le altre che mostrano la grettezza dell’uomo) il regista sceglie sapientemente diversi tipi di ripresa: per le prime ricorre alla steadycam, permettendo una visione splendida e fluida; mentre per le seconde non usa lo stabilizzatore, realizzando un effetto mosso, sfocato, di bassa qualità. Artifizio che esalta ancor di più il contrasto tra la bellezze della natura e la meschinità umana.
Un film in gestazione per 40 anni, che ad ottobre arriverà nella sale e sarà distribuito in due versioni: una da 90 minuti (circa) con la voce di Cate Blanchett; e una di 40 minuti visibile con la tecnologia IMAX, accompagnata dalla voce di Brad Pitt. La proiezione avvenuta alla 73. Mostra del cinema di Venezia, tuttavia, è quella da 90 minuti ma senza IMAX; e ciò, evidentemente, ha comportato la perdita della visione totalizzante che conferisce l’innovativa tecnica.
Non spicca in modo particolare la colonna sonora del maestro Ennio Morricone – forse il difficile rapporto con Malick (atteso che il musicista italiano ha dichiarato di non trovarsi a suo agio con il regista statunitense: perché troppo invadente) non ha consentito al compositore di esprimersi al meglio.
Nonostante l’indubbio fascino delle immagini mostrate durante il film, lo sviluppo della trama filmica risulta lento e poco coinvolgente. Un panteismo naturalistico che non è nuovo al grande schermo, e che non riesce ad essere incisivo.
Il messaggio del global warming è un tema sicuramente importante, ma non è trattato qui con originalità.
Se, da un lato, l’impatto umano sulla natura può essere distruttivo; dall’altro, la natura dimostra una resilienza incredibile.
“La natura si divora soltanto per rinascere ancora”.
data di pubblicazione:09/09/2016
da Giulio Luciani | Set 8, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
In un bosco della campagna messicana, a pochi metri da dove sarebbe caduto anni prima un meteorite che ha scatenato le pulsioni sessuali di tutti gli esseri viventi della zona, una coppia di cinquantenni tiene nascosta in un capanno una misteriosa creatura aliena politentacolare in grado di regalare all’essere umano il massimo piacere sessuale, sotto qualsiasi forma e per tutti i gusti, alimentandone via via l’appetito fino alla totale dipendenza fisica, allo sfinimento e all’inevitabile atto finale.
Amat Escalante, premiato per la Miglior Regia a Cannes nel 2013 con il discusso Heli, torna, questa volta gareggiando in concorso al Lido, a raccontare e mescolare, con immagini crude e a tratti raccapriccianti, alcune tematiche psicologiche e sociali di una certa attualità, quali la repressione dell’omosessualità e della sessualità in genere, la solitudine dell’uomo contemporaneo e la disgregazione dei modelli relazionali umani, tentando di traslarli e sradicarli dalla realtà messicana per darne una lettura più universale ed esistenziale.
Vero, una ventenne dall’aria triste e misteriosa, già preda compiaciuta del piacere assoluto del mostro tentacolare, riesce a portare nel capanno tra gli alberi altre due persone, un ragazzo (gay) prima e sua sorella poi, il cui marito, omofobo e violento, la tradiva proprio con il fratello. Il mostro si rivela una creatura tanto generosa nel dispensare sesso e godimento, cancellando nei propri “partner” qualsiasi inibizione o frustrazione, quanto spietata nell’uccidere alcuni di loro, (forse) quelli che diventino dipendenti e assuefatti in via esclusiva ai rapporti con lui.
Il film è una confusa allegoria che prende in prestito alcuni elementi all’horror, al thriller e al sci-fi, per dar vita a un genere nuovo fuori dagli schemi, in linea con le tendenze del cinema messicano contemporaneo. Se gli intenti sono tutto sommato buoni e promettenti, la storia tuttavia prende presto una piega noiosa, perdendosi tra idee, sia a livello di plot sia di contenuti ideologici sottesi, che restano spunti incompiuti. Il risultato finale è un film che, pur disturbando lo spettatore con scene inquietanti e al limite del disgusto, non lo sconvolge nel profondo come vorrebbe, lasciando tanti, troppi, quesiti aperti.
data di pubblicazione: 08/09/2016
da Giulio Luciani | Set 8, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Viola e Dasy sono due bellissime gemelle siamesi di Castel Volturno, nate l’una unita all’altra all’altezza del bacino e indivisibili nell’anima ancor più che nel corpo. Nel Casertano sono diventate due piccole dive della musica neomelodica, sfruttate e trascinate dai genitori da una festa all’altra, compleanni comunioni e serenate a pagamento, per dare spettacolo con esibizioni canore messe in piedi dal padre e per sfoggiare quella malformazione affascinante e anomala che, in un misto di superstizione e mito, fa di loro due creature a metà strada tra i freaks circensi e le sante da venerare.
Presentato con successo alle “Giornate degli autori” in occasione della 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il nuovo film di Edoardo De Angelis è una favola a tinte cupe, adrenalinica e commovente, che cala con equilibrata ambizione nel contesto fin troppo crudo e realistico della cosiddetta “terra dei fuochi” la surreale parabola ascendente di due gemelle che tentano di emanciparsi da quel legame fisico che le tiene unite e, metaforicamente, dal degrado sociale e culturale del loro ambiente familiare.
Viola e Dasy, appena scoprono all’età di diciott’anni che i loro corpi possono essere separati attraverso un costoso intervento chirurgico, manifestano da subito due reazioni opposte, rivelando caratteri diversi e complementari. Dasy, più ribelle e intraprendente, vuole poter vivere una vita vera e normale, liberarsi da quel fardello grottesco dei due corpi uniti, sogna di fare l’amore con un uomo, “perché sono femmina”. Riesce perciò a trascinare la sorella, Viola, più timorosa e impacciata, in una fuga disperata alla ricerca dei soldi necessari per poter affrontare l’operazione. Tra colpi di scena e immagini dal forte impatto visivo, il film scivola come acqua corrente e le due protagoniste diventano sempre più indivisibili e indispensabili l’una all’altra, dimostrando di provare le stesse emozioni e di sapersi sostenere a vicenda, fino all’inaspettata, travolgente e impeccabile sequenza finale.
Un cast fenomenale, anche se a tratti un po’ sopra le righe in alcune espressioni, verbali e fisiche, troppo marcate: oltre alle riuscite interpretazioni di Massimiliano Rossi e Antonia Truppo nei panni dei genitori, brillano per bellezza, bravura e fragilità, come due gemme grezze piene di vita, le sorelle gemelle Angela e Marianna Fontana. Edoardo De Angelis si conferma un ottimo regista, come ottima è la squadra (sceneggiatori, compositore, costumista e scenografo) di cui si è avvalso, capace di conquistare lo spettatore con storie costruite come vere e proprie tragedie contemporanee raffinate e insieme pop.
data di pubblicazione: 08/09/2016
da Alessandro Rosi | Set 6, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Carne surgelata su fuoco ardente. È questo ciò che prova un tetraplegico: sul corpo non sente nessun dolore, ma è l’anima che gli brucia dentro. Felipe (Oscar Martinez) è un multimilionario che abita nello sfarzoso Palacio Bencich a Buenos Aires; braccia, gambe, mani e piedi sono completamente immobilizzate: in tale stato, anche se volesse tentare il suicidio, non potrebbe. La routine terapeutica – scandita da sedute di fisioterapia, massaggi, e frequenti lavaggi – lo blocca più della sua malattia. Ed è proprio un episodio insolito che lo desta dal torpore in cui è costretto dalla sua condizione: la forza e la determinazione con cui un nuovo collaboratore respinge le accuse del suo giardiniere, lo portano ad assumere il giovane sbarazzino. Tito (Rodrigo de la Serna – già visto ne I diari della motocicletta) porterà nuova linfa al tronco appassito di Felipe: e gli permetterà di evadere dal suo corpo; di uscire fuori dagli schemi convenzionali in cui vive; di riprendere a camminare su un sentiero nuovo, a lui sconosciuto.
L’adattamento realizzato da Marcos Carnevale della pellicola Quasi amici riesce ad essere estremamente divertente – più della versione francese. La cospicua presenza di battute salaci (alcune di queste, peraltro, anche molto piccanti) se, da un lato, suscita costantemente il riso del pubblico, dall’altro non riesce creare un acceso contrasto tra momenti di ilarità e di malinconia, determinante per il raggiungimento del pathos (ciò che, invece, accade molto bene con la versione originale del film).
Il film ha il pregio di sdrammatizzare un tema molto delicato, e lo fa cercando di rendere il racconto il più leggero possibile. Una leggerezza, tuttavia, che rischia di svanire nell’aria, come lo spirito delle battute recitate.
data di pubblicazione:06/09/2016
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