IL FUNAMBOLO di Jean Genet, regia di Daniele Salvo

IL FUNAMBOLO di Jean Genet, regia di Daniele Salvo

(Teatro Vascello – Roma, 4/7 ottobre 2016)

Daniele Salvo, regista ed attore emiliano diplomato al “Teatro Stabile di Torino” e allievo di Luca Ronconi, con il quale ha collaborato per diversi anni, dopo il successo ottenuto con Dionysus, tratto dalle Baccanti di Euripide, e Pilade, da un testo di Pier Paolo Pasolini, si ripresenta al Teatro Vascello con Il Funambolo, un lavoro che  Jean Genet scrisse per il suo amante Abdallah, che lavorava in un circo come acrobata. I due si erano incontrati nel 1957 e ben presto Genet aveva convinto il suo compagno a dedicarsi essenzialmente al funambolismo, attività suprema nella complessa arte circense, dove lui stesso avrebbe potuto trovare la pace interiore nella solitudine che è propria di quel genere di artisti. In effetti il funambolo, se è pur vero che si esibisce normalmente di fronte ad un pubblico, in realtà esercita da solo una continua prova di forza contro la corda tesa, attua una sfida verso qualcosa che rimane sospeso nel nulla, avvia inconsapevolmente una danza macabra con la morte per esaltarne le virtù a scapito delle meschinità terrene.

Non stupisce l’intimità e la profondità del testo proposto dal momento che Genet è sicuramente tra i più controversi scrittori e drammaturghi francesi del novecento, soprattutto per i suoi romanzi, caratterizzati da personaggi ambigui e violenti, e dove l’erotismo, essenzialmente a sfondo omosessuale, sembra trasudare in ogni atto narrato. Il regista accoglie lo spettatore, prima dell’inizio dell’azione scenica, accompagnandolo immediatamente in un circo dove le immagini  e i suoni ci riportano ai lustri di una belle époque parigina. L’introduzione all’opera vera e propria viene affidata a due danzatori (Yari Molinari e Giovanni Scura) che con la plasticità e sinuosità dei loro corpi danno risalto all’ingresso dell’acrobata Abdallah (Giuseppe Zeno) e dello stesso Genet magistralmente interpretato da Andrea Giordana. La fune sullo sfondo è il leitmotiv dell’intera narrazione e sembra rimanere immobile contro ogni fenomeno esterno, sia che si tratti di acqua o di fuoco, poco importa.

Rimane il fulcro verso cui è diretta l’attenzione di Abdallah durante tutto lo spettacolo e che lo spingerà infine al compimento dell’azione estrema, per lasciarsi andare tra le braccia della morte, rassicurante e materna. Molto convincente la recitazione degli attori, già ben noti al folto pubblico in sala, e sicuramente di grande effetto le musiche di Marco Podda che hanno accompagnato la splendida voce dal vivo di Melania Giglio. Estremamente curate le scene di Fabiana di Marco e i costumi di Daniele Gelsi che hanno contribuito a creare una atmosfera visionaria e nello stesso tempo satura di quel pesante erotismo che caratterizza l’opera di Genet.

Soddisfatto il pubblico in sala che ha a lungo applaudito confermando la buona riuscita dello spettacolo che, se pur basato su uno scritto di non facile lettura, la indiscussa professionalità di Daniele Salvo ha reso coinvolgente e appassionante nello stesso tempo.

data di pubblicazione:05/10/2016


Il nostro voto:

LIBERAMI di Federica Di Giacomo, 2016

LIBERAMI di Federica Di Giacomo, 2016

Liberami, vincitore di Venezia Orizzonti, è un bel film sulla possessione demoniaca. Senza calcare la mano verso derive di genere racconta il mondo degli esorcismi con ironia. Un documentario rigoroso che si guarda come un film.


 Liberaci dal male. Il coro dei fedeli aggiunge Amen, poi normalmente se ne vanno tutti “in pace”. Non accade così nel bel film di Federica Di Giacomo, Liberami – antropologa di formazione, fresca di vittoria veneziana nella sezione Nuovi orizzonti – lì i fedeli arrivati da tutta Palermo per la messa del martedì pomeriggio non se ne vanno in pace, alcuni si buttano per terra, urlano, “posseduti dal maligno”.  Le ci sono voluti tre anni per raccontare cosa accade a una persona “posseduta” dal diavolo e che vive in Sicilia, perché è lì che opera uno dei più richiesti esorcisti italiani, Padre Cataldo, in una periferia scorticata, in una parrocchia dove sin dalle prime luci dell’alba si accalcano gruppi di fedeli che cercano una parola di conforto o che gli venga praticato l’esorcismo. Lui ascolta pazientemente tutti, sceglie parole semplici e non ha mai un momento di cedimento, di dubbio. Gloria, Enrico, Anna e Giulia vengono allo scoperto e si lasciano filmare nei momenti più difficili della possessione. Laddove, normalmente la telecamera spinge sul pedale dell’esagerazione, del pathos o dell’horror nei film di genere, la Di Giacomo registra con discrezione la vita di chi è prigioniero del diavolo, senza enfasi e con ironia. Padre Cataldo è bonario, ma il giudizio su due genitori che gli hanno portato il figlio piccolo, un diavolo quando deve andare a scuola, è tagliente: quella famiglia non è in grazia di Dio, e soprattutto è la madre ad aver smarrito la corretta via, permettendo al diavolo di impossessarsi del più debole.

La cifra della regista è quella del vero documentarista: registra la realtà possedendo uno sguardo, una posizione intellettuale per decifrarla senza che questa diventi invadente, una tesi da dimostrare. Vediamo Padre Cataldo colpevolizzare immediatamente la madre del “bimbo indiavolato”, o in una casa, ricca di mobili e quadri pregiati, abbattersi come una scure sul superfluo che lì regna, senza risparmiare di abbondante acqua (e probabilmente rovinandole) le preziose tele seicentesche di madonne e santi, che per lui dovrebbero invece  stare in una chiesa, o in un esorcismo telefonico che si chiude con gli auguri di Natale. In quei momenti si ride apertamente, e l’ironia diventa la chiave di volta, il basso continuo del film. Senza smettere di provare simpatia per il religioso e pena per i sofferenti, grazie al riso, ci si distanzia al punto giusto per guardare senza giudicare, ponendosi invece delle domande sui mondi arcani ed arcaici che convivono con la post modernità. Padre Cataldo riceve questo gregge scomposto e alla deriva, in una sala scalcinata; il tavolo è ricoperto da una cerata macchiata; le sedie spaiate. Nessuno sembra farci caso; chi va lì appartiene alla classe che compra i vestiti sulle bancarelle, e ha il trucco pesante. Nei locali alla moda del centro è il momento dell’aperitivo, ma nella chiesa di Padre Cataldo nessuno ne sa niente; due città che convivono senza incontrarsi.

È un film sulla possessione e sull’esorcismo, ma il vero racconto è affidato ai dettagli, a questo coro scomposto inzeppato dentro giacconi che imitano quelli di marca e che leggono quanto gli accade come il frutto del malocchio, di antiche invidie familiari, il male contro il bene. Sono quasi tutte donne vicine ai cinquanta, anche se Giulia ha solo tredici anni; un codice culturale che viene dal basso e da quello si alimenta. Faide familiari, corna, ma anche repressione, controllo sul corpo e sulla mente delle donne che alla fine per urlare il loro desiderio di libertà “si affidano” al male. Liberami allora diventa una supplica a stare nella vita con un altro passo, una richiesta che viene intercettata da chi, offrendo altre norme, le riporterà da dove cercano di fuggire.

data di pubblicazione: 5/10/2016


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DOMANI di Cyril Dion e Mélanie Laurent, 2016

DOMANI di Cyril Dion e Mélanie Laurent, 2016

Un domani migliore per l’intera umanità è possibile? E se sì, a quali condizioni e a fronte di quali sacrifici? Queste sono alcune delle domande che si pongono gli autori di DOMANI, e, nel tentativo di rispondere ad esse, vengono prese in considerazione alcune realtà particolarmente riuscite ed apprezzate in cinque settori della vita umana.


Domani, diretto da Cyril Dion (scrittore ed attivista per la pace) e Mélanie Laurent (attrice in numerose produzioni internazionali, tra le quali Bastardi Senza Gloria di Tarantino), è un viaggio che attraversa varie tappe (dagli Stati Uniti alla Finlandia, dalla Isla de la Riunion all’Inghilterra, tra le varie) in cui viene raccontata l’esperienza di numerosi imprenditori, economisti, politici ed istitutori, che si sono distaccati dalle procedure ordinarie, per raggiungere risultati straordinari nei loro settori, principalmente in termini di produttività, nel rispetto della natura e con l’occhio rivolto al benessere collettivo (realmente inteso) di oggi e di domani.

In agricoltura è possibile produrre maggiori quantità di cibo senza l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi, con bassissima meccanizzazione e, soprattutto, tenendosi ben lontani dal petrolio e dai suoi derivati; nel settore energetico, tra l’altro, viene narrata l’esperienza islandese, di totale autosufficienza energetica senza l’uso di petrolio e di carbone; in economia, assistiamo ai benefici prodotti dall’utilizzo di una moneta locale (che stimola i consumi e la circolazione di ricchezza in un dato contesto territoriale) e ad alcune policy societarie volte a produrre meno rifiuti, da un lato, ed al riciclo totale di quelli realizzati, dall’altro lato; in politica, colpisce l’attenzione l’esperienza di un sindaco indiano, che ha creato forme di partecipazione e collaborazione da parte della comunità locale particolarmente vantaggiose per la comunità locale medesima; infine, in ambito scolastico, l’organizzazione e gli strumenti didattici di un istituto finlandese (tra l’altro situato in una zona non particolarmente ricca) non possono che abbattere le differenze e favorire la socializzazione tra gli studenti (il 50% dei quali non è finlandese d’origine).

Ricco di contenuti assolutamente interessanti, e con notevoli spunti di riflessione e d’interrogazione, Domani è un documentario di spessore particolarmente elevato, del quale se ne consiglia la visione. Ascoltare e mettere in pratica i piccoli suggerimenti che la narrazione ci propone sarebbe un notevole punto di partenza, per noi e per il nostro futuro.

Dagli autori: “Forse non esiste una scuola perfetta, una democrazia perfetta, o modelli economici perfetti, ma quello che è emerso nel nostro viaggio, è una nuova visione del mondo, dove potere ed autorità non sono un privilegio di pochi, ma dove tutto è collegato, interdipendente, come in natura; un mondo più complesso, dove la nostra vera forza è la diversità; dove ogni persona e ciascuna comunità sono autonome, quindi più libere, hanno più potere, quindi più responsabilità. Come la cellula, che deve essere sana perché l’organismo funzioni, ma deve anche poter contare su tutte le altre cellule”.

data di pubblicazione:05/10/2016


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QUANDO HAI 17 ANNI di André Téchiné, 2016

QUANDO HAI 17 ANNI di André Téchiné, 2016

Due giovani diciassettenni, partendo da diversi presupposti, si scontrano in un perenne conflitto che, sotto un apparente odio sociale, nasconde invece un affetto molto profondo, difficile da esternare e che finirà con il turbare l’identità di entrambi.


In concorso all’ultima edizione della Berlinale e finalmente presentato nelle sale italiane, il film di Téchiné ci porta sul grande schermo le turbolenze di due adolescenti, Damien e il magrebino Thomas, compagni di classe, che si odiano a morte cercando ogni minimo pretesto per prendersi seriamente a pugni. Per una serie di circostanze fortuite, complice la madre di Damien (Sandrine Kiberlain), medico nel paesino dove è ambientata la storia sulle suggestive montagne francesi, tra i due ragazzi si profila inaspettatamente una schiarita che li porterà presto ad affrontare insieme i turbamenti affettivi ed i disagi tipici dell’età. I due protagonisti finiranno infatti con il seppellire l’ascia di guerra trasformando il loro rapporto in qualcosa di più profondo nella ricerca di una propria sia pur confusa identità sessuale, partendo da posizioni diametralmente opposte. Il regista, che già in passato aveva affrontato con altri film tematiche simili, si addentra ancora una volta nel mondo caotico degli adolescenti, caratterizzato da atteggiamenti spesso contradditori ed aggressivi, alla ricerca di un qualcosa che quasi sempre risulta poco definito. Basandosi sulla convincente sceneggiatura di Celine Sciamma, il film non risulta per niente melodrammatico ed i dialoghi, molto naturali, conferiscono alla pellicola un deciso tocco di credibilità. Convincente la performance dei due interpreti Kacey Mottet Klein (Damien) e Corentin Fila (Thomas), che hanno saputo dare una giusta spontaneità al racconto senza farlo scivolare in una inutile retorica, ma portando invece il tutto in un contesto di assoluta normalità, quasi a voler abbattere ogni residuo pregiudizio verso una presunta diversità.

data di pubblicazione:05/10/2016


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PETS – VITA DA ANIMALI (The Secret Life of Pets) di Yarrow Cheney e Chris Renaud, 2016

PETS – VITA DA ANIMALI (The Secret Life of Pets) di Yarrow Cheney e Chris Renaud, 2016

New York City. Max, un giovane terrier innamorato della sua padrona, Katie, trascorre una vita tranquilla e giocosa, ricca di momenti di affetto. Un giorno Katie porta a casa Duke, grosso cane randagio, trovato in canile, e tra i due cani non può che nascere un’accesa rivalità (destinata, tuttavia, a lasciare spazio, progressivamente, all’amicizia ed alla complicità).


Prodotto dalla Illumination Entertainment, sussidiaria della Universal Pictures, e diretto da Yarrow Cheney e Chris Renaud (già apprezzato regista di Cattivissimo me, Cattivissimo me 2 e Minions), Pets – vita da animali è un film animato brillante e divertente, ma con interessanti spunti di riflessione, tra l’altro, sia in merito al rapporto umani-animali (come questi ultimi ci vedono e, soprattutto, cosa sono e sarebbero capace di fare per noi?), sia, più in generale, in tema di accettazione del diverso (e superamento dei pregiudizi) nell’allegoria della fantasiosa relazione e amicizia tra animali di differenti specie (cani, gatti, uccelli rapaci, conigli, ecc.).

Godibile e veloce, Pets – vita da animali non può che far presa sui giovanissimi, ma, al contempo, anche (e soprattutto) sugli adulti, grazie, anche, ad un finale emozionante e ricco di contenuti.

Da un punto di vista tecnico/realizzativo, e nonostante il fatto che il 3D non stanchi la vista (risultando leggero, sostanzialmente), si segnala che, a differenza di altri film d’animazione, tale 3D non rappresenta il valore aggiunto: la storia è di per sé ben scritta, realizzata e rappresentata, da non trarre particolari vantaggi da tale arricchimento grafico.

data di pubblicazione:05/10/2016


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MAMMA MIA! di Phyllida Lloyd, 2008

MAMMA MIA! di Phyllida Lloyd, 2008

La giovane Sophie (Amanda Seyfried) gestisce con la madre Donna (un’incredibile Meryl Streep) un hotel sulla piccola isola greca Kalokairi. Nonostante la sua vita sia stata sempre felice e spensierata, le è da sempre mancata quella figura paterna di cui la madre non ha mai voluto rivelarle l’identità, ed ora che sta per sposare il suo amato Sky (Dominic Cooper), Sophie avverte molto forte questo vuoto paterno: conoscere suo padre e farsi condurre all’altare è il suo sogno. Un giorno Sophie trova un vecchio diario della madre dove viene raccontata la gioventù di Donna nel periodo precedente alla sua nascita, in cui frequentava tre uomini diversi. Credendo che uno dei tre possa essere quel padre che non ha mai avuto, all’insaputa di Donna, Sophie spedisce gli inviti di matrimonio ai tre uomini citati nel diario: l’affascinante Sam Carmichael (Pierce Brosnan), l’impacciato Harry Bright (Colin Firth) e lo scapestrato Bill Anderson (Stellan Skarsgård). Donna, che ben presto scoprirà la loro presenza sull’isola, cercherà con ogni mezzo di tenerli alla larga dalla giovane Sophie, ignorando che è proprio lei l’artefice di tutto.

Adattamento cinematografico dell’omonimo musical basato sulle musiche del gruppo svedese degli Abba, Mamma Mia! è divenuto un fenomeno da DVD in Gran Bretagna con 5 milioni di copie vendute, più che una pellicola di successo nelle sale cinematografiche. Il film, ambientato tra la sabbia finissima ed il mare cristallino di Skopelos e Skiathos, due isole facenti parte dell’arcipelago delle Sporadi, ci ispira una ricetta di polpettine di maiale in cui l’uvetta di Corinto è un elemento indispensabile.

INGREDIENTI: 4 etti di macinato di filetto di maiale – 1 uovo – 100 gr. di pangrattato – 2 cucchiai di parmigiano grattugiato – sale e pepe q.b. – noce moscata – un pizzico di cannella – una manciata di uvetta di Corinto – una manciatina di pinoli – olio extravergine d’oliva – brodo vegetale – crema di latte a piacere.

PROCEDIMENTO:

Lavorare la carne con uovo, sale, pepe e parmigiano. Aggiungere una grattatina di noce moscata ed un pizzico di cannella in polvere. Quando l’impasto sarà elastico, incorporate una generosa manciata di uvetta di Corinto e pinoli. Fate delle polpette non grandi e rotolatele nel pan grattato. A questo punto soffriggete le polpette in una padella con una buona dose di olio sino a far formare la crosticina, ed irroratele con un po’ di brodo vegetale per completare la cottura. Sul finale aggiungere (a piacere) un paio di cucchiai di crema di latte per ottenere un sughetto più gustoso. Da servire con una misticanza o con del riso alla cantonese (vedi ricetta collegata al film Chinatown) se si vuole dare risalto al gusto un po’ orientale. Mamma mia quanto sono buone!

LE ULTIME COSE di Irene Dionisio, 2016

LE ULTIME COSE di Irene Dionisio, 2016

Irene Dionisio è una giovane regista torinese (oggi trentenne) che con Le ultime cose, dopo essersi laureata in Filosofia estetica e sociale e frequentato il Master in documentarismo diretto da Daniele Segre e Marco Bellocchio, esordisce con questo film nel lungometraggio. Presentato a Venezia nella sezione Settimana della critica affronta in questi giorni il pubblico delle sale. La regista, con l’Associazione Fluxab di cui è socia fondatrice, cura progetti su temi come l’integrazione, le politiche culturali e le questioni di genere, temi che ha già in parte affrontato nei suoi documentari, e che costituiscono il punto di partenza anche per questo film che infatti in origine doveva essere un documentario.
Sono molte le persone che ogni giorno varcano la soglia del Banco dei pegni di Torino, tra smarrimento, angoscia e tentativi di mantenere il decoro. Cercano di ottenere una dilazione alla miseria impegnando appunto, quelle poche ultime cose che possiedono. Sandra, una giovane trans rifiutata dalla famiglia e appena tornata in città, cerca lavoro; Michele è pensionato e con sua moglie condivide la grande pena di non poter dare al suo nipotino di tre anni tutto ciò di cui ha bisogno per crescere meglio, soprattutto un indispensabile apparecchio acustico; Stefano da poco assunto al Banco, si scontra con colleghi che da tempo hanno fatto del Banco un luogo sordido dal quale ricavano soldi illeciti grazie al traffico dei pegni operato da altrettanto sordidi individui che come squali girano attorno all’edificio a caccia di bolle da riscattare e oggetti da ricomprare. Il perito “anziano” a cui Stefano è stato affidato, sottostima gli oggetti d’accordo con i rivenditori illegali all’esterno che si propongono immediatamente come compratori alternativi, offrendo compensi più appetibili a questo esercito di nuovi poveri. Stefano prova a comportarsi eticamente ma, forse perché troppo debole, alla fine sembra rinunciare alla sua posizione. Dico sembra, perché come molte altre cose di questo film, resta accennata senza essere sviluppata. La Dionisio non scava nei personaggi, li presenta e cerca di intrecciare labilmente queste storie senza riuscire però ad imbastire il racconto, e senza racconto e approfondimento manca l’interesse dello spettatore a saperne di più, a interessarsi veramente a queste vite. Lo sguardo della regista è attento alle piccolissime cose che definiscono i caratteri e le persone: monili, tinture slavate su capelli sciupati, abbigliamento da bancarella, case dignitose senza bellezza, ma non riesce a sfondare il confine che dalla documentazione, dalla testimonianza, si proietta nel racconto cinematografico, con ritmo e veri snodi drammaturgici. Insomma niente racconto corale come vorrebbe essere, dove non riescono a emergere neppure queste tre storie che dal coro dovrebbero elevarsi e allo stesso tempo rappresentarle tutte.
La stoffa c’è e il punto di partenza interessante, ma come ci ha ormai abituati Gianfranco Rosi, per far coesistere al cinema la verità della documentazione e la verosimiglianza della narrazione ci vogliono veri colpi d’ala di lirismo. Cinematografico!

data di pubblicazione 3/10/2016


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CAFÈ SOCIETY di Woody Allen, 2016

CAFÈ SOCIETY di Woody Allen, 2016

La condanna dei numeri uno, dei primi della classe, e sfido chiunque a non considerare Woody tra questi, è il fatto che tutti abbiano delle aspettative molto elevate su tutto ciò che questi numeri uno producono o debbano produrre, e quindi, se entrando in un cinema e vedendo l’ultimo film di Woody Allen, non si assiste a quel capolavoro che ci si aspetta (sarebbe da definire, poi, aprioristicamente, ciò che abbia rango per una simile definizione), ecco che si intasano i social network con frasi alludenti alla “delusione Woody”, “è sempre lo stesso gioco e la stessa cosa” etc etc senza ovviamente argomentare e guardare davvero il film.

“Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo giorno e un giorno ci azzeccherai” afferma la mamma del protagonista. “Peccato che noi ebrei non abbiamo un’aldilà…avremmo molti più clienti”. Sempre il solito Woody!Sempre le solite battute piene di humour, sempre riprese impeccabili, così come perfette scelte di attori (Steve Carrell I love you!, ndr), costumi, ambientazioni, la musica, il jazz.! Il tutto condito con il già abusato amore per New York in contrapposizione ad Hollywood, e l’amore puro e vero che non vince ma che, come nel migliore cliché per il club degli ultimi dei romantici a cui la sottoscritta appartiene, anche se si sono fatte scelte più ciniche e realistiche, passa e si declina attraverso lo sguardo smarrito e nostalgico dei due protagonisti lontani, fermi nel tempo e nello spazio mentre intorno accade il frastuono di due feste di Capodanno.

Un finale di una levità e dolcezza straordinaria. Ebbene, se anche voi volete dire basta a tutta questa bellezza, che ha stampato un sorriso ebete e sognate sul volto della spettatrice che vi scrive, ecco, allora non andate a vedere l’ennesimo film di Woody Allen fatto così bene. Regalatevi un brutto film ma che abbia il carattere dell’unicità, dell’originalità a tutti i costi assurta ormai a valore assoluto, anche nel campo dell’estetica: i cinema ne sono pieni.

data di pubblicazione: 02/10/2016


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INDIVISIBILI di Edoardo De Angelis, 2016

INDIVISIBILI di Edoardo De Angelis, 2016

Viola e Dasy sono due bellissime gemelle siamesi di Castel Volturno, nate l’una unita all’altra all’altezza del bacino e indivisibili nell’anima ancor più che nel corpo. Nel Casertano sono diventate due piccole dive della musica neomelodica, sfruttate e trascinate dai genitori da una festa all’altra, compleanni comunioni e serenate a pagamento, per dare spettacolo con esibizioni canore messe in piedi dal padre e per sfoggiare quella malformazione affascinante e anomala che, in un misto di superstizione e mito, fa di loro due creature a metà strada tra i freaks circensi e le sante da venerare.


Presentato con successo alle “Giornate degli autori” in occasione della 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il nuovo film di Edoardo De Angelis è una favola a tinte cupe, adrenalinica e commovente, che cala con equilibrata ambizione nel contesto fin troppo crudo e realistico della cosiddetta “terra dei fuochi” la surreale parabola ascendente di due gemelle che tentano di emanciparsi da quel legame fisico che le tiene unite e, metaforicamente, dal degrado sociale e culturale del loro ambiente familiare.

Viola e Dasy, appena scoprono all’età di diciott’anni che i loro corpi possono essere separati attraverso un costoso intervento chirurgico, manifestano da subito due reazioni opposte, rivelando caratteri diversi e complementari. Dasy, più ribelle e intraprendente, vuole poter vivere una vita vera e normale, liberarsi da quel fardello grottesco dei due corpi uniti, sogna di fare l’amore con un uomo, “perché sono femmina”. Riesce perciò a trascinare la sorella, Viola, più timorosa e impacciata, in una fuga disperata alla ricerca dei soldi necessari per poter affrontare l’operazione. Tra colpi di scena e immagini dal forte impatto visivo, il film scivola come acqua corrente e le due protagoniste diventano sempre più indivisibili e indispensabili l’una all’altra, dimostrando di provare le stesse emozioni e di sapersi sostenere a vicenda, fino all’inaspettata, travolgente e impeccabile sequenza finale.

Un cast fenomenale, anche se a tratti un po’ sopra le righe in alcune espressioni, verbali e fisiche, troppo marcate: oltre alle riuscite interpretazioni di Massimiliano Rossi e Antonia Truppo nei panni dei genitori, brillano per bellezza, bravura e fragilità, come due gemme grezze piene di vita, le sorelle gemelle Angela e Marianna Fontana. Edoardo De Angelis si conferma un ottimo regista, come ottima è la squadra (sceneggiatori, compositore, costumista e scenografo) di cui si è avvalso, capace di conquistare lo spettatore con storie costruite come vere e proprie tragedie contemporanee raffinate e insieme pop.

data di pubblicazione:28/09/2016


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BARBARIANS di Hofesh Shechter

BARBARIANS di Hofesh Shechter

(Roma Europa Festival 2016)
Dopo il prologo estivo inaugura ufficialmente la sua stagione il Roma Europa Festival con lo spettacolo Barbarians, del coreografo Hofesh Shechter, in scena al Teatro Argentina dal 21 al 24 settembre.
Un lavoro certamente interessante, quello del coreografo inglese di origine israeliana, già presente nelle passate edizioni del Festival, spiazzante e imprevedibile, costruito attorno alla personale percezione e riflessione sui temi dell’intimità, della passione e dell’amore.
Una costruzione forte, a tratti elegante e intima e a tratti frenetica e ossessiva, costruita su tre momenti distinti in un’alternanza di musica barocca e sonorità techno dub; sei figure vestite di bianco si muovono secondo una struttura circolare in continuo divenire, una danza di Matisse ora gioiosa, ora di trance. Il prologo Barbarians in love alterna canoni classici a frenesie hip hop mentre la musica miscela François Couperin ad elettronica beat.
Una voce femminile sfocata apre a riflessioni ed indizi. “Io sono te” intona. “Tu sei me… Perché lo fai, Hofesh?” – E la voce fuori campo di Shechter, spiegando che stava solo cercando di rappresentare una danza sull’innocenza, esplicita le sue perplessità..
Si passa poi a The bead, un quadro con cinque ballerini in accademico oro, forte, tribale e languido, con continue sovrapposizioni di immagini e di stili, esteticamente ineccepibile. Nel mezzo due momenti i cui i danzatori appaiono in una nudità appena accennata, grazie ad una straordinaria luce crepuscolare.
Infine il duetto Two completely angles of the same fucking thing che chiude lo spettacolo e meglio esplicita la poetica di Hofesh, un duetto tra Bruno Guillore e Winifred Burnet-Smith, più umano e intimo, che si apre allo spazio metaforico personale del coreografo suggerendo che in fondo che l’ossessiva auto-dichiarazione dei primi due pezzi può portare a una sorta di riflessione più pacata ed armonica.
Uno spettacolo tutto sommato affascinante e cerebrale, con una magistrale cura delle luci che pecca però di una eccessiva dilatazione che finisce per sfocare l’essenza dello spettacolo, impedendo allo stesso di essere dirompente e straordinario.

data di pubblicazione: 26/09/2016


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