METAMORFOSI di Ovidio, adattamento e regia Roberto Latini

METAMORFOSI di Ovidio, adattamento e regia Roberto Latini

(Teatro Vascello – Roma, 18/22 Maggio 2016)

“Ho scelto di lavorare su Metamorfosi di Ovidio per l’evidente impossibilità a farlo”. Su questo assunto si sviluppa l’adattamento e la regia che Roberto Latini fa di quel “materiale vasto, ricco e traboccante, dal sapore del non finito, del non finibile” che le Metamorfosi di Ovidio rappresentano. Come detto nel breve scambio di parole avuto con l’artista dopo la rappresentazione, la Metamorfosi del testo di partenza diventa essa stessa forma, in mutamento (“come aveva detto di farlo, Roberto?”), in uno spettacolo che nei primi due giorni si presenta, per singolo episodio, ad uno spettatore per volta e poi, nelle sere successive, si declina in undici episodi, raccolti in tre tempi. La metamorfosi che attraversa gli episodi e gli attori che, di volta in volta, tra gli altri, sono Ecuba, Narciso, gli Argonauti, Teseo, il Minotauro e soprattutto lo splendido Orfeo, non interessa invece i costumi e il trucco: una teoria di clown, dalle improbabili pance finte e parrucche, dalle lunghe e colorate scarpe e, soprattutto, con un finto naso rosso che diventa propaggine dell’alluce, anello, gioco di scambio con il pubblico nelle incursioni in sala che gli attori fanno, a mo’ di tendina cinematografica, tra un episodio e l’altro.  Latini conferma la sua scelta di un teatro “della relazione possibile e non della convenzione stabilita”, come aveva affermato a proposito del suo Ubu Roi, e qui, nelle note di regia dello spettacolo, parla infatti di “attrazione”, quale punto di partenza, e non di “astrazione”. La stessa attrazione che il pubblico fedele a Latini sente per il suo teatro, mai convenzionale ma neanche convenzionalmente off, un teatro che attiva cuore e cervello, che scardina, costringe a sentire e a pensare e  in cui, tuttavia, c’è sempre un ritorno a casa reso da quei segni ormai distintivi e imprescindibili della messinscena di Latini, il microfono, fedele amplificatore della sua voce possente, la corsa con cui il regista circoscrive i suoi attori e la sua scelta di regia, il corpo, i corpi,  i corpi nuovi in cui sono mutate le forme, in questo e in tutti gli spettacoli che mette in scena. E poi c’è Orfeo, ad accompagnarci nel viaggio poetico della vita e nell’Ade:“Non bagnatevi nel buio e nel sangue. È facile. Noi crediamo ancora nell’amore. Siamo ancora capaci di provare pietà”. Gli spettatori de le Metamorfosi hanno deciso di seguire Orfeo/ Roberto Latini ogni volta che salirà su un palco, per bagnarsi di teatro, d’arte, di bellezza e di emozioni pure e intellettive.

data di pubblicazione:22/05/2016


Il nostro voto:

ERA D’ESTATE di Fiorella Infascelli, 2016

ERA D’ESTATE di Fiorella Infascelli, 2016

(Evento nelle sale solo il 23 e il 24 maggio)

Era l’estate del 1985. Una calda estate siciliana, una famiglia che si appresta ad organizzare una festa di compleanno per la figlia adolescente. Ma una minaccia, intercettata dai Carabinieri dell’Ucciardone costringe quella famiglia, la famiglia Borsellino insieme a Giovanni Falcone ed alla sua compagna, ad una fuga improvvisa di notte e ad una reclusione forzata, sull’isola dell’Asinara, all’epoca sede del carcere di massima sicurezza.  Una reclusione a cielo aperto, a poca distanza da detenuti effettivi, una condivisione forzata di spazi ed emozioni, angosce e speranze  per due famiglie, un presagio velato a tre mesi dall’inizio del maxi-processo di Palermo.

Diretto da Fiorella Infascelli, autrice anche della sceneggiatura insieme a Antonio Leotti, Era d’estate ricostruisce con delicatezza quell’esperienza, facendo emergere lati inediti dei due protagonisti. Al centro della scena Massimo Popolizio nel ruolo di Giovanni Falcone, Beppe Fiorello in quello di Paolo Borsellino accanto a Valeria Solarino e Claudia Potenza, compagna e moglie rispettivamente di Falcone e Borsellino.

Un film semplice e lineare, malinconico e silenzioso, che prova a raccontare una frazione della vita dei due giudici, negli aspetti più intimi e personali, più pacato e ottimista Borsellino, più ironico e irruento Falcone, inquieti nell’attesa dei faldoni da analizzare, diversi ma alla fine uniti nella meticolosa preparazione del grande processo, di fronte ad un mare bellissimo ed un paesaggio essenziale. Un mare forte e protettivo in un tempo dilatato che permette ai due uomini di conoscersi meglio e di assemblare al meglio gli elementi del processo che li vedrà impegnati, preparandoli a un destino inesorabile che li aspetta.

data di pubblicazione:21/05/2016

LA PAZZA GIOIA di Paolo Virzì, 2016

LA PAZZA GIOIA di Paolo Virzì, 2016

Finalmente un film che ci ha circondati, avvolti e spettinati, come le chiome delle due travolgenti interpreti e le loro storie. Virzì ci diverte e commuove realizzando una pellicola in cui il confine tra la lucida razionalità e la pazzia è decisamente compromesso e dissolto, così come quello tra commedia e dramma, a metà tra Thelma & Louise, Il grande cocomero e Qualcuno volò sul nido del cuculo, in cui il mondo è diviso in due: tra quelli che vogliono stare male e quelli che vogliono stare bene… Applaudito a lungo e a ragione al 69° Festival di Cannes, La pazza gioia parla del lato oscuro che c’è in ognuno di noi, ma che in qualcuno prende quel tono di “cupa cromia” da reprimere e nascondere. Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti) sono due donne in cura presso una comunità psichiatrica che, approfittando della distrazione dei sorveglianti, riescono a scappare intraprendendo un viaggio al limite del credibile che ci porterà a scoprire le loro vite e l’origine della loro “pazzia”, in cui gli slanci vitali sono incarcerati nei regolamenti. Due donne che secondo alcune perizie sembrerebbero “matte”, ma che sicuramente sono alla disperata ricerca di un po’ di felicità, di quella pazza gioia che assume dei contorni semplici, innocenti, innocui.

Difficile stabilire se il film di Virzì faccia più ridere o commuovere. Una cosa è certa: è autentico, senza buonismi, pietismo, retorica o banalità. È un film sull’amicizia, sulle difficoltà della malattia ma anche un atto d’accusa nei confronti della “normalità” che, schierandosi dietro i Giudici, i Tribunali, i direttori sanitari o i medici degli OPG, troppo spesso è cieca, sorda e insensibile verso i più deboli, i più indifesi, i più generosi.

Beatrice è una istrionica, charmant, elegante e femminile contessa decaduta, sempre attenta ai dettagli e schiava della bella vita; mentre Donatella è una giovane ragazza madre dal corpo esile e spigoloso, mascolina nei modi e negli abiti, che si accontenta di avere uno spazzolino da denti, una torcia e un cellulare datato che usa solo per ascoltare a oltranza la canzone di Gino Paoli “Senza fine”, convinta che sia stata il suo babbo a scriverla per il famoso cantautore. La storia del loro incontro e della loro amicizia, nata tra le stanze di Villa Biondi, si sviluppa tra la torrida campagna toscana e il litorale tra Ansedonia e Viareggio, in una dimensione paradisiaca ed ancestrale della Maremma, e la perdizione corrotta delle discoteche.

Straordinaria l’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi, splendida la maturità artistica raggiunta da Micaela Ramazzotti, incredibile l’armonia poetica tra le due interpreti.

Il confronto tra le due protagoniste sul lungomare di Viareggio al tramonto è un momento emozionante, carico di tante verità, in cui lo spettatore non potrà non sentirsi vicino a loro e parte di loro, in cui i farmaci e le terapie mediche vengono sostituiti da un po’ di sana sincerità ed empatia che fa dire, a chi è nato triste ma che vuole guarire, “meno male che ci sei tu”.

data di pubblicazione:20/05/2016


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BATTLEFIELD tratto dal Mahābhārata, adattamento e regia di Peter Brook

BATTLEFIELD tratto dal Mahābhārata, adattamento e regia di Peter Brook

(Teatro Argentina – Roma e in tournée)

Il grandissimo regista britannico Peter Brook con Battlefield torna al Mahābhārata, il celebre poema epico indiano, uno dei testi fondamentali della religione induista, che già aveva allestito trentuno anni fa, riportandolo in scena, dall’11 al 15 maggio al Teatro Argentina, in una versione altamente poetica ed essenziale che si apre al nostro tempo ed ai conflitti d’oggi.

Battlefield prima di Roma, è stato presentato al Teatro dell’Aquila, per poi proseguire la sua tournée a Perugia, Firenze, Modena, in Francia, Spagna, Belgio, Lussemburgo, New York e Mosca.

Una grande guerra lacera la famiglia dei Bharata. Da una parte sono schierati  i Pandava, dall’altra i loro cugini, i Kaurava, i cento figli del Re cieco Dhritarashtra, una guerra che portato morti e dolore per tutti. Vincono i Pandava ed  il più anziano Yudishtira, deve salire al trono con il peso di una vittoria macchiata dal sapore amaro della distruzione. Il vecchio re Dhritarashtra, che ha appena perso tutti i suoi figli, e il nuovo re, suo nipote Yudishtira, condividono pertanto lo stesso dolore e lo stesso rimorso, ma devono affrontare la realtà e assumersene la responsabilità. Come potranno trovare la pace interiore e governare ora che hanno perso le loro famiglie, i loro figli e alleati?

Un attore entra in scena rivelando che quel pavimento spoglio non è altro che un campo di battaglia disseminato di dieci milioni di cadaveri, rimasti lì dalla fine della guerra. Accompagnati dal tamburo di un musicista giapponese (Toshi Tsuchitori) quattri straordinari attori (Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, Sean O’Callaghan), inanellano ruoli sempre diversi all’interno dei numerosi livelli di racconto nel racconto. In un minimalismo assoluto e in uno spazio scenico essenziale, connotato dal simbolismo cromatico di elegantissime pashmine, re, serpenti, falconi, manguste, principi, dèi e lombrichi appaiono in una catena senza fine, e ogni attore si ritrova a narrare una storia dentro la storia. La pièce è un sovrapporsi di voci e immagini sul mistero della morte. “La vita è sempre preziosa, anche la più misera”, dice il verme al saggio che lo interroga sulla sua paura di morire. “La vita ha mille forme, mille teste, mille nomi”. Insondabile e inaccettata, la morte è inevitabile: “Nei meandri della vita, lì c’è la morte”. E uno dopo l’altro tutti i personaggi chiudono il loro ciclo di vita in modo naturale.

Spettacolo dedicato alla morte, un grande affresco sull’esistenza umana in un alternarsi continuo di fine e rinascita da un’essenza all’altra, in una misticità assoluta fatta di tempo e di memoria. E mercoledì 11 alla prima dello spettacolo in occasione del debutto di Battlefield, il Commissario Straordinario di Roma Capitale, Francesco Paolo Tronca, ha consegnato la Lupa Capitolina a Peter Brook, l’alta onorificenza cittadina in segno di gratitudine per l’opera svolta dal Maestro. Il regista novantenne si è rivolto alla platea dicendo: «Sono molto toccato nel cuore. E il cuore di tutti i romani è qui questa sera. Questo teatro antico è come un grande cuore della città che ci accoglie tutti. Grazie a tutti voi per questo segno d’amore».

data di pubblicazione: 17/05/2016


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MONEY MONSTER – L’ALTRA FACCIA DEL DENARO di Jodie Foster, 2016

MONEY MONSTER – L’ALTRA FACCIA DEL DENARO di Jodie Foster, 2016

George Clooney e Julia Roberts di nuovo insieme sul grande schermo. Jodie Foster dietro la macchina da presa. Lo spettatore di Money Monster – L’altra faccia del denaro si siede in sala pronto a lasciarsi sorprendere dal trio delle meraviglie. E le sue aspettative non restano deluse.

Lee Gates (George Clooney) conduce il programma televisivo “Money Monster”, con il quale rende accessibili i misteri dell’alta finanza al grande pubblico: con un stile spesso sopra le righe, ammantato di paillettes e lustrini, Lee commenta l’andamento del mercato, fa previsioni, consiglia investimenti. È una star, eccentrica ed egocentrica, capace di trasformare in intrattenimento il turbinio di denaro che si muove a livello globale e a velocità non umanamente controllabili.

In cabina di regia siede Patty Fenn (Julia Roberts), che riesce mirabilmente, ma con insofferenza crescente, a stare dietro alle continue improvvisazioni di Lee.

Durante una trasmissione in diretta irrompe nello studio il giovane Kyle Budwell (Jack O’Connell), con una pistola, una bomba e un detonatore. Ha investito tutti i suoi risparmi nelle azioni della società IBIS seguendo il consiglio di Lee Gates, ma un improvviso glitch, un errore di sistema nel funzionamento dell’algoritmo progettato per gestire in modo sicuro i risparmi degli investitori, ha determinato una perdita di 800 milioni di dollari.  Ora non chiede indietro il suo denaro, ma cerca delle risposte. E Lee Gates e Patty Fenn faranno di tutto per trovarle.

Il messaggio di Money Monster risuona chiaramente ed è lo stesso su cui il cinema americano si è interrogato spesso (per restare alle pellicole più recenti 99 Homes e La grande scommessa): dietro le complesse macchinazioni dell’èlite finanziaria c’è la massa di piccoli risparmiatori, che complessivamente sono necessari al funzionamento della macchina globale, ma singolarmente non sono indispensabili alla sua folle corsa. E dietro ciascun piccolo risparmiatore c’è una storia fatta di sacrifici e di sogni, capaci di essere spazzati via da un improvviso e imprevedibile glitch.

Il film di Jodie Foster riesce però a comunicare quel messaggio in maniera originale, fondendo magistralmente lo stile drammatico e le battute da commedia, l’andamento adrenalinico e il sentimento non smielato (emblematica la sequenza in cui Lee chiede aiuto al “suo” pubblico, invitandolo a investire in diretta su IBIS per assicurare un recupero del titolo). Il tutto tenuto insieme da svolte narrative sincronizzate con una perfezione magistrale, capaci in più di un’occasione di sorprendere lo spettatore.

A ciò si aggiunge la cura meticolosa riservata alle sfumature di ciascun personaggio, dai protagonisti a quelli secondari. Fenn, che non riesce a dirigere come vorrebbe il programma “finto” di Lee, recupera nell’emergenza della realtà il suo più autentico ruolo di regista. Lee mette da parte il cinismo in nome di un ideale di giustizia. Kyle resta inevitabilmente affascinato dal meraviglioso mondo della TV. E così via, fino all’ultimo dei cameramen e dei poliziotti, in un film che in fondo risulta corale e in cui la magnificenza dei protagonisti si amalgama armoniosamente nel contesto, seguendo l’andamento di un copione ben scritto e di una macchina da presa consapevole. La psichedelica regia delle sequenze inziali anticipa i fuochi di artificio della storia, tanto nella più corposa parte girata in studio quanto nelle “epiche” sequenze finali. Fino alla conclusione per cui, nonostante tutto, the show must go on, specie quando lo show è in tutti i sensi business.

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes e uscito contemporaneamente in Italia, come molte delle pellicole che stanno rischiarando la Croisette in questi giorni, Money Monster è un film da non perdere.

data di pubblicazione: 15/05/2016


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WEEKEND di Andrew Haigh

WEEKEND di Andrew Haigh

Il bellissimo Weekend, distribuito in Italia dopo ben cinque anni dalla sua uscita ufficiale, torna in sala il 17 maggio per la Giornata internazionale contro l’omofobia, per raccontare la magia dell’amore attraverso una storia di intimità tra due ragazzi alla ricerca di se stessi.

Russell e Glen si incontrano una sera in discoteca e passano la notte insieme. La mattina al risveglio i due iniziano a conoscersi, ripercorrendo con la mente quel che ricordano della nottata trascorsa e rivelando da subito caratteri e storie diversissime alle spalle. Glen all’apparenza più risolto e cinico, ironico e testardo. Russell docile e timido, romantico e insicuro. Entrambi sembrano disincantati sull’amore, il primo per una precedente relazione fatta di bugie e tradimenti, il secondo per un’incapacità di accettarsi appieno forse a causa dell’assenza di un legame coi genitori.

Andrew Haigh è un maestro e un poeta delle relazioni umane. In 45 anni ha messo a nudo, con l’espressività istintiva degli sguardi di Charlotte Rampling e un crescendo di emozioni soffocate che si scartano lentamente, le verità e i turbamenti di una coppia di anziani. Nelle due stagioni della serie tv per HBO Looking (da cui è stato tratto un film per il cinema di prossima uscita) Haigh, riprendendo proprio le atmosfere e i toni di Weekend, ha raccontato il mondo di tre amici gay a San Francisco, con una sceneggiatura fresca e realistica modellata su personaggi costruiti meravigliosamente.

Il fascino di Weekend sta proprio nella scrittura dei dialoghi diretti, teneri e spiazzanti, oltre che nell’interpretazione autentica dei due protagonisti, Tom Cullen e Chris New, che ci trascinano dentro i loro abbracci e il loro innamoramento anche grazie a una regia sensibile che fotografa la nascita e la crescita spontanea di un rapporto senza forzarne i tempi o invaderne bruscamente la più profonda intimità.

Altrettanto eloquenti sono gli sguardi e i momenti di silenzio tra i due, che si fanno sempre più densi di quell’alchimia, fisica e metafisica insieme, che quando scatta diviene scopo e motore dell’esistenza.

In sole quarantott’ore di strada percorsa insieme Russell e Glen sembrano trovare ciascuno una chiave di lettura per la propria vita, riprendendo a credere negli altri e in se stessi e riscoprendo la forza inarrestabile e catartica dell’amore. Quel che resta alla fine è un piccolo registratore con cui Glen ha fissato per sempre le parole e le risate scambiate con Russell. Forse sarà solo il ricordo dolce e nostalgico di un weekend insieme, un altro segno sul cuore. Forse invece porterà con sé, come ennesima tappa di mezzo di un percorso che non finisce mai, l’entusiasmo e la voglia di ricercare il nostro posto nell’universo, tanto da farci sognare di andare a vivere su Marte “where green rivers flow, and your sweet sixteen is waiting for you after the show”, come canta sui titoli di coda John Grant con I wanna go to Marz.

data di pubblicazione:15/05/2016

METAMORFOSI di Ovidio, adattamento e regia Roberto Latini

COME VI PIACE di William Shakespeare, adattamento e regia di Ilaria Testoni

(Teatro Arcobaleno – Roma, 11/29 Maggio 2016)

“Meine Damen und Herren, Ladies and Gentlemen, Signori e Signore” pronti a scoprire quale vincolo straordinario, inspiegabile, irrazionale lega i personaggi di questa storia?

Germania. 1933. Lo Stato mitteleuropeo è in pieno fermento nazionalsocialista; il calore dei sentimenti lascia spazio al freddo acciaio delle armi. Una fiumana di persone si riversa nei paesi confinanti, costretta a fuggire perché considerata impura o non all’altezza dell’emergente razza ariana: non sembra esserci più posto per i sentimenti. E, invece, in un teatro di cabaret rimane ancora un barlume di speranza; in questo luogo, mitico e incontaminato, si formeranno coppie e l’amore sorprenderà gli attori e riscalderà i loro cuori doloranti.

400 anni sono trascorsi dalla morte di Shakespeare, ma le sue opere sembrano non avere età, capaci di vincere il tempo.

In questa rilettura della commedia del drammaturgo inglese (datata 1600), Ilaria Testoni sceglie di attualizzarla ambientandola nella Germania del 1933, in guisa da conferire maggior risalto al contrasto tra i nobili sentimenti e le azioni inumane compiute durante il regime. Attraverso la tecnica metateatrale si catapulta lo spettatore sul palco, rendendolo maggiormente partecipe della narrazione. Siffatta scelta registica è resa adeguatamente da Bruno Vitale attraverso il posizionamento di un velo posto a metà del palco – come la patina che ricopre le antiche fotografie, donando allo spettacolo ancor più fascino – e che permette di dividere gli ambienti (dietro le quinte e palcoscenico) del teatro tedesco dove avviene la messinscena.

La rappresentazione è piacevole e armoniosa; la Compagnia Mauri Sturno – composta di professionisti del mondo teatrale che lavorano insieme a giovani attrici e attori – si rivela uno strumento perfettamente accordato, in cui i commedianti suonano la loro parte come le corde di un violino (tra cui spicca la brillante l’interpretazione di Camillo Marcello Ciorciaro). In questa storia universale, tuttavia, non solo gli attori recitano, ma anche il pubblico finisce per essere emotivamente coinvolto, perché:“Tutto il mondo è palcoscenico”.

data di pubblicazione:15/05/2016


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IL LIBRO DELLA GIUNGLA regia di Jon Favreau, 2016

IL LIBRO DELLA GIUNGLA regia di Jon Favreau, 2016

Chi non ha sognato, almeno una volta nella sua vita, di vivere libero come il piccolo Mowgli de Il Libro della Giungla? Dopo generazioni cresciute ascoltando e fantasticando sulle storie dell’opera letteraria di Rudyard Kipling, poi divenute per la memoria visiva di tutti quelle narrate dal cartone di Walt Disney, finalmente le avventure di Mowgli sono approdate al lungometraggio. Il Libro della Giungla di Jon Favreau colpisce per la straordinaria bellezza delle immagini, dei paesaggi, della natura e della sua forza emozionante o distruttiva quasi in simbiosi con i sentimenti che pervadono gli abitanti delle giungla. La storia del piccolo cucciolo d’uomo, ben interpretato dal giovanissimo Neel Sethi, adottato dalla Lupa Raksha – nome che in sanscrito vuol dire “protezione” – e cresciuto nel branco dei lupi come uno dei loro cuccioli, non diverge molto dal racconto del cartoon, fatta eccezione per alcuni particolari tra cui la morte del lupo Akela presente solo nel film. Durante la lunga siccità che ha messo in ginocchio tutti gli animali della giungla, la spietata tigre Shere Khan – doppiata nella versione italiana dall’impeccabile Alessandro Rossi –, accecata dal desiderio di vendetta, dichiara guerra a Mowgli, colpevole solo di essere il figlio dell’uomo che anni addietro gli cagionò la perdita di un occhio, e dichiara aperta la sua caccia non appena la tregua della “pietra della pace” cesserà con il ritorno delle piogge. Ha così inizio il viaggio di Mowgli verso il villaggio degli uomini dove Bagheera – Ben Kingsley nella versione originale, mentre nell’adattamento italiano incanta con la voce di Toni Servillo -, la pantera nera che lo aveva ritrovato abbandonato ancora in fasce nella giungla e lo aveva salvato affidandolo al branco dei lupi, ha deciso di riportarlo per proteggerlo dalla “persecuzione” di Shere Khan. In questo viaggio Mowgli crescerà ma non diventerà un uomo che cade nella “tentazione” del fiore rosso, la temuta arma del fuoco che spesso per colpa degli uomini devasta la natura della giungla mietendo vittime. Infatti, non entrerà nel villaggio dei suoi simili e dopo essere scampato alle grinfie del serpente Ka (Scarlett Johansson e Giovanna Mezzogiorno) e al rapimento del gigante orango King Louie (con la voce Cristopher Walken e, nella versione italiana, di Giancarlo Magalli), il cucciolo d’uomo fronteggerà coraggiosamente la tigre Shere Khan per l’ultima resa dei conti senza agire con le “armi” dell’uomo bensì con la destrezza e il coraggio proprio di un lupo.

Il film è uno spassoso alternarsi di messaggi positivi, momenti ironici e ludici con momenti toccanti, il tutto ben miscelato con picchi di adrenalina e suspense che lo rendono godurioso e accattivante anche per quegli adulti che quasi avevano dimenticato quanto fosse bello passeggiare per la giungla a piedi nudi canticchiando ti bastan poche briciole, lo stretto indispensabile e i tuoi malanni puoi dimenticar… insieme all’orso Ballo impiastricciato di miele.

data di pubblicazione:12/05/2016


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METAMORFOSI di Ovidio, adattamento e regia Roberto Latini

DANZA MACABRA di August Strindberg, regia Luca Ronconi

(Teatro Quirino – Roma, 10/22 maggio 2016)

Danza macabra di August Strindberg, ultima regia dal grande Luca Ronconi presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto a luglio 2014, approda a Roma al teatro Quirino dove sarà in scena del 10 al 22 maggio 2016.

Edgar e Alice, alla soglia delle nozze d’argento, vivono nel più assoluto isolamento in un faro su un’isola, tra abitudini e rancori: il loro raffinato equilibrio, fatto di ira e manie, non può sopportare alcuna intrusione. I due hanno vissuto una vita d’inferno e continuano a viverla rassegnati e convinti che solo la morte potrà separarli, che aspettano come liberatrice. Il ménage familiare si anima di colpo all’arrivo di un terzo personaggio, Kurt, ufficiale di quarantena, cugino della donna e artefice del loro matrimonio. Marito e moglie si contendono le attenzioni di Kurt, spalancandogli l’inferno domestico. Una atmosfera grottesca che fa saltare quegli equilibri instabili,  che fa riaffiorare in Alice cattiveria e masochismo, rammaricata di aver abbandonato il teatro per seguire le aspettative di una vita agiata prospettata dal marito spingendola alla conquista del timido Kurt. Quando il cugino frastornato e spaventato decide di scappar via, tutto tornerà come prima, facendo rientrare la coppia nel quotidiano fatto di crudeltà ma anche di amore.

Un forte vento che sposta mobili e persone, messaggi da un telegrafo quale unico strumento di comunicazione con l’esterno, un cupo e austero interno di un faro bianco arroccato su una scogliera. In questo sepolcro gotico, straordinariamente essenziale e simbolico, creato dallo scenografo Marco Rossi, Luca Ronconi celebra una vera danza di morte popolata da spettri nemici e complici al tempo stesso: Alice accusa suo marito di non essere diventato maggiore e di non aver avuto successo, lui le risponde esercitando una sofisticata violenza psicologica, per render sempre più forte la dipendenza di sua moglie e la natura di ciò che determina la loro unione.

La regia che si caratterizza per il profondo rigore stilistico e per il rispetto classico del testo, si apre alla commedia noir con toni volutamente da fumetto e sopra le righe trasformando per esempio i due coniugi in diabolici vampiri che dispensano morsi sul collo dell’ospite inatteso Kurt. Una regia attenta e moderna, che esaspera i comportamenti della coppia in chiave contemporanea, con quel gusto sadico di confessarsi, di raccontare particolari intimi, cercando negli altri complicità e comprensione.

Straordinari i costumi di Maurizio Galante e straordinario il cast, con la grande interpretazione della coppia Giorgio Ferrara e Adriana Asti che ci donano un misantropico e burbero Edgar, ed una sofisticata ed intrigante Alice: due demoni e due anziani al tempo stesso, supportati da un suggestivo Kurt interpretato da Giovanni Crippa.

data di pubblicazione:12/05/2016


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IMMATURI di Paolo Genovese, 2011

IMMATURI di Paolo Genovese, 2011

Questo divertente film di Paolo Genovese gioca su come esorcizzare un incubo che ognuno di noi ha vissuto almeno una volta nella vita: quello di dover ripetere l’esame di maturità!
Ai protagonisti di Immaturi capita davvero da adulti di doverlo ripetere e, per alcuni di loro, dopo aver conseguito una laurea ed essersi affermati professionalmente. E così lo psichiatra infantile Giorgio (Raoul Bova), l’agente immobiliare Lorenzo (Ricky Memphis), la manager Luisa (Barbora Bobulova), divorziata e con una figlia a carico, lo chef Francesca (Ambra Angiolini), affetta da un’irrefrenabile appetito sessuale e per questo motivo in costante contatto con Giorgio, il DJ Piero (Luca Bizzarri) il bugiardo del gruppo, l’“infedele di professione” Virgilio (Paolo Kessisoglu) e l’ex fidanzata di Giorgio Eleonora (Anita Caprioli), si vedono annullare dal Ministero della Pubblica Istruzione il loro esame di maturità e, per non vedere compromesse le loro attività lavorative ed i loro titoli di studi presi successivamente, saranno costretti a ripeterlo. Il più immaturo, almeno in apparenza, sembra essere rimasto Lorenzo (un divertentissimo Ricky Memphis, figlio sulla scena di Giovanna Ralli e Maurizio Mattioli): diplomatosi con il massimo dei voti ai tempi del liceo, da allora continua a comportarsi come un inguaribile bamboccione non volendone sapere di andare a vivere da solo, continuando addirittura a dormire nella camera di quando era ragazzo con tanto di letto a castello!
Il gruppo di ex liceali, ricreatosi per l’occasione, si confronterà sul presente e soprattutto sul passato, ritrovando quell’affiatamento che sembrava perduto.
Il film è molto divertente e consacra Genovese nella veste di regista. A questa pellicola, che ci ributta inevitabilmente indietro negli anni, dedichiamo una ricetta semplice che sa di prima colazione casalinga: il plumcake all’arancia.

INGREDIENTI: 250gr di farina – 250 gr di zucchero – 170ml di olio di riso – 4 uova intere – 50ml di latte -1 bustina di vanillina – 1 bustina di lievito –succo di 1 arancia grande e la sua scorza tagliata fine – 1 pizzico di sale – zucchero a velo per decorare.
PROCEDIMENTO:
Accendere il forno a 170° (termoventilato) e farlo scaldare bene. Mettere in una coppa lo zucchero e la scorza dell’arancia, poi l’olio di riso e le uova ad una ad una, lavorare bene il composto, quindi aggiungi il latte, il succo dell’arancia e a pioggia setaccia la farina continuando a mescolare per farla incorporare bene. Infine aggiungere la bustina di lievito continuando a girare. Versare il composto (che risulterà piuttosto liquido) in uno stampo da plumcake imburrato e sul quale avremo passato un po’ di farina. Mettere in forno per 45 minuti. Quando il plumcake sarà freddo, cospargere con abbondante zucchero a velo.

Note:
-unitamente al succo dell’arancia si può rendere il plumcake più aromatico se aggiungeremo del cointreau o del grand marnier.