GENTE DI ROMA di Ettore Scola, 2003

GENTE DI ROMA di Ettore Scola, 2003

Una giornata normale in una Roma di oggi. Un autobus percorre le strade dissestate della città eterna dove i sampietrini che le lastricano risultano pure eterni, indifferenti al tempo che scorre. In questo traballante filo conduttore si intrecciano piccole storie, frammenti di una quotidianità osservata da Ettore Scola, con il suo sguardo ironico e malinconico nello stesso tempo, che evidenzia gli aspetti degradanti di una città che mal sopporta la convivenza, conservando invece una persistente dose di sopravvivenza. Pur con un cast ben assortito (Valerio Mastandrea, Sabrina Impacciatore, Arnoldo Foà, Antonello Fassari, Stefania Sandrelli…) il film tuttavia non ebbe una buona accoglienza da parte del pubblico che trovò le storie poco accattivanti, quasi scontate, mentre i personaggi risultavano vignettistici e di basso spessore. Questo film di Scola non regge certamente il confronto con gli altri capolavori da lui sapientemente diretti e che hanno veramente segnato il grande cinema italiano. Qualche critico ebbe a rimarcare che dal film emerge una gente romana che risulta priva di quella genuina romanità che era per esempio emersa nel film Roma di Fellini. Il grande Federico, pur da straniero, era riuscito infatti a cogliere gli aspetti peculiari di un modus vivendi tipico dei romani: tutti pieni di contraddizioni ma che riescono tuttavia a godere delle piccole cose della vita. E se non tutte le ciambelle riescono con il buco, sicuramente riusciremo a preparare queste polpette  a base di carciofi dove il carciofo, come nel film, diventa un ottimo protagonista sulla scena.

INGREDIENTI: 200 grammi di cuori di carciofo – 3 uova – 50 grammi di parmigiano grattugiato – 100 grammi di scamorza – 100 grammi di pangrattato – olio di semi per friggere – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Sbollentare la patata e i carciofi e passarli con lo schiacciapatate, unire il parmigiano grattugiato, due uova ed un pizzico di sale e pepe. Amalgamare bene l’impasto e formare delle piccole polpette, mettendo al centro un pezzetto di scamorza. Passare le polpette prima nell’uovo rimasto e poi nel pangrattato. Friggere in abbondante olio, scolare bene le polpette su carta assorbente da cucina e servirle ben calde.

NIGHTWATCHING regia di Peter Greenaway

NIGHTWATCHING regia di Peter Greenaway

Peter Greenaway è probabilmente il regista che ha dialogato di più con la storia dell’arte in assoluto Rembrant è sicuramente uno dei pittori più cinematografici di tutti i tempi, in grado di riprendere con forza e personalità il suo tempo. Solo Peter Greenaway poteva dipingere la sua storia e il suo mondo di luci e ombre.

La storia di un pittore che a 23 anni è già ricco, famoso, affermato in tutte le corti d’Europa, ma che dopo 15 anni di luminosa carriera artistica cade in disgrazia, perdendo tutto e morendo di stenti.

Rembrandt muore nella miseria non perché i suoi quadri non fossero più apprezzati dal pubblico, ma perché la società che lo aveva acclamato non gradiva più i messaggi racchiusi all’interno dei suoi quadri, non volendo essere accusata dei crimini morali che il pittore le rimproverava.

Il film racconta la genesi del suo più celebre dipinto, Nightwatching (La ronda di notte), ritratto di gruppo di una milizia civica di Amsterdam. Rembrandt (Martin Freeman) è convinto dalla moglie gravida (Eva Birthistle) a eseguire un ritratto di alcuni commercianti che si erano “eroicamente distinti” durante le guerre contro la Spagna Lavorando al dipinto, Rembrandt scoprirà la cospirazione che i suoi committenti stanno orchestrando, e ciò lo spingerà a trasformare coraggiosamente il dipinto in un vero e proprio atto d’accusa contro i potenti.

Da qui l’inizio delle sue sventure, che Greenaway ha voluto indagare, costruendo una vicenda che si muove tra misteri criminali, satira politica e passioni amorose, e ripercorrendo la vita del pittore e di chi gli stava attorno all’epoca.

Il quadro sarà la definitiva fine delle sue fortune: dopo la morte della moglie per parto, il pittore scivola nell’ossessione e viene screditato dai commercianti, che lo fanno sedurre da una scaltra donna e tentano di renderlo cieco.

Nightwatching arriva finalmente in Italia sul grande schermo, distribuito da Lo Scrittoio, a nove anni di distanza dalla sua presentazione, molto apprezzata dalla critica, alla 64esima edizione del Festival del Cinema di Venezia.

Per presentare il film, Greenaway ha incontrato il pubblico in 4 proiezioni-evento realizzate in collaborazione con CG Entertainment: il 5 novembre al Cinema Odeon di Firenze, il 6 presso l’Anteo spazio cinema di Milano e al Teatro Argentina di Roma, e lunedì 7 al TTV Festival di Riccione.

Non è un ritratto storico attendibile di un’epoca: partendo dall’idea che il quadro contenga “51 misteri, che i critici stanno ancora cercando di svelare” (parole di Greenaway) il regista tesse una trama intricatissima, ritraendo il personaggio nel triplice ruolo di artista, uomo comune e “investigatore”. E il personaggio di Rembrandt è il vero punto di forza del film: Greenaway evita sapientemente lo stereotipo del genio folle, ritraendo il personaggio nei suoi gesti quotidiani, nel suo grottesco modo di fare e di esprimersi. Un uomo qualsiasi, con problemi economici e il vizio delle donne, mai ritratto nell’atto del dipingere, pur essendo continuamente alle prese con la sua opera.

Greenaway costruisce un film classicamente barocco nell’uso degli spazi e delle scenografie, che riprendono le composizioni visive de Lo Zoo di Venere o de Il ventre dell’architetto, Nightwatching segna infatti una sorta di ritorno alle origini e soprattutto a I misteri del giardino di Compton House: anche qui un pittore come protagonista, una cospirazione legata a dei quadri, il tutto tratteggiato da impressionanti e stupendi giochi di luci e ombre. Un film in costume che è un’opera cinematografica acuta, interessante e moderna.

data di pubblicazione:08/11/2016

ERO MALERBA regia di Toni Trupia

ERO MALERBA regia di Toni Trupia

Una messe di riconoscimenti e di premi per Ero Malerba, il docufilm  di Toni Trupia che racconta la guerra personale e la sete di vendetta di Giuseppe Grassonelli, vittima della strage del 1986 a Porto Empedocle in cui Cosa Nostra gli sterminò la famiglia e a cui lui sfuggì per caso, dedicando poi la sua vita alla vendetta.

Una storia incredibile di un ragazzino uomo che si carica sulle spalle la vendetta di famiglia, uccide e stermina, fugge e si ferma. Una vita violenta consumata in solo otto anni dai 17 ai  25 anni che si chiude con l’arresto e la condanna all’ergastolo ostativo.

Una seconda vita da ergastolano che non collabora, che sa di dover scontare all’infinito le sue colpe, all’interno di quattro mura, dapprima in isolamento, in compagnia solo di chiavi e serrature che cigolano e si chiudono e che poi decide poi di incontrare il suo cronista, quel Carmelo Sardo che aveva riportato le sue imprese per raccontargli la sua storia ed esternare le sue verità. In carcere si è laureato in lettere moderne con 110 e lode e ha intrapreso uno straordinario percorso di recupero.

Ha scritto la sua storia a quattro mani con il giornalista, siciliano come lui, Carmelo Sardo, nel libro Malerba edito da Mondadori che ha vinto il premio Sciascia ed è stato pubblicato in moltissimi paesi.

Il regista Trupia racconta questa storia intensissima a suo modo, con dovere di cronaca senza sentimentalismi ma con sfumature intelligenti, una storia che sfiora la guerra di mafia, ma che soprattutto parla di giovinezza violata, di contraddizioni, di legami fin troppi forti, una storia di una condanna che non perdona, di un pluriomicida che ritrova una sua redenzione, una via laica e profonda per dare un senso a una nuova e terribile esistenza. Raccoglie testimonianze di magistrati, politici e persone coinvolte a vario titolo nella guerra di mafia scoppiata nell’agrigentino, materiale di repertorio dell’epoca e documenti personali e intimi della famiglia Grassonelli.

Inizialmente il girato doveva essere il materiale per un film, ma poi, come racconta il regista, la realtà si è rivelata troppo potente per essere messa da parte: il risultato è un lavoro dove la lunga intervista a Giuseppe, gli interventi di alcuni componenti della sua famiglia insieme a immagini e filmati d’archivio costruiscono una storia forte, ambigua, profonda.

Un successo artistico che vede assoluti protagonisti il protagonista Giuseppe Grassonelli, il regista Trupia, lo scrittore Sardo e la produttrice Angelisa Castronovo.

Una storia che insegna quanto la cultura possa rappresentare una via di riscatto e possa permettere di ricostruire una dignità.

data di pubblicazione:06/11/2016

VISITA ALLA CASERMA DEI CORAZZIERI

VISITA ALLA CASERMA DEI CORAZZIERI

(Via XX Settembre, 13 – Roma, 05/09/2016)

Una visita nel cuore del reparto dei corazzieri, scoprendo, sotto le armature luccicanti, un mondo ricco di particolari sorprendenti.

 

La brezza mattutina sui fori imperiali viene deviata da un’invisibile aura baldanzosa, che ti protegge come uno scudo il corpo rinvigorito.

L’energia positiva delle persone assiepate sui marciapiedi si trasfonde fino alle profondità del tuo animo, rendendo l’incedere maestoso e solenne.

Le onde sonore delle grida incitanti travolgono la sabbia cutanea che ti avvolge le membra, propagandosi nella forma di un brivido caloroso, che rinfranca lo spirito e infonde sicumera.

Frazioni di vita in cui ti senti acclamato come un gladiatore che entra nell’arena, come un imperatore romano portato in trionfo dopo una campagna vittoriosa.

È questa la sensazione provata dall’ex maresciallo di palazzo, quando sfilava come corazziere al fianco del Presidente della Repubblica durante le cerimonie ufficiali; un’emozione indescrivibile, un ricordo che non riesce a trasmettere con le parole.

La visita guidata alla caserma dei corazzieri permette di conoscere da vicino il prestigioso corpo speciale dei Carabinieri e di partecipare, anche se solo per il tempo di un giro di lancette, alla vita dei 240 cavalieri che la popolano.

Trascinati dall’appassionante spiegazione del tenente colonnello Buti, impreziosita dagli aneddoti raccontati dagli altri ufficiali incontrati lungo il percorso, attraversiamo i diversi ambienti di questo luogo perfettamente autosufficiente. Dall’ampia stalla dei cavalli – dove diamo da mangiare alle imponenti creature – all’accogliente refettorio sotterraneo – in cui scopriamo un capolavoro architettonico di epoca romana appartenente alla dinastia dei Flavi –, passando infine per il lungo corridoio centrale dell’edificio – ove sono esposti i simboli appartenenti alla storia di questo corpo.

Far parte di questo gruppo è indubbiamente un onore, ma richiede anche molto sacrificio e requisiti particolari (come l’altezza). Un metro e novantacinque centimetri che consentono di incutere rispetto e proteggere il capo dello Stato in tutte le visite ufficiali, conferendo lustro al nostro paese.

Fortemente voluti da Einaudi, che ne scongiurò l’abolizione, il reggimento dei corazzieri si distingue per la vigoria, la forza, il valore, l’eleganza e la potenza. E hanno dimostrato il loro coraggio non appena se n’è presentata l’occasione, in ossequio al motto che si staglia sulla parete dell’ingresso: VIRTUS IN PERICULIS FIRMIOR.

data di pubblicazione:06/11/2016

UN MOSTRO DALLE MILLE TESTE di Rodrigo Plà, 2016

UN MOSTRO DALLE MILLE TESTE di Rodrigo Plà, 2016

Una donna, con un figlio adolescente e un marito in fin di vita, si trova a dover lottare contro il “mostro dalle mille teste” rappresentato dalla burocrazia e dalla corruzione del suo paese, sintomi di una società malata che si basa su regole violente che producono solo violenza.

 

 

Sonia Bonet, dopo l’ennesima crisi del marito malato di cancro, tenta di mettersi in contatto con il professore che lo tiene in cura, ma questi non vuole riceverlo prima dell’appuntamento già fissato di lì a un mese. La donna, temendo sia troppo tardi, insiste per tentare di avere subito un incontro, ma scopre che il professore si fa negare. Il medico in realtà non vuole più prescrivere al marito della donna dei farmaci che, seppur in grado di alleviarne le sofferenze, a causa del costo elevato non sono coperti dalla loro polizza sanitaria; inoltre, il grande gruppo assicurativo a cui è legato, ha tra i propri regolamenti interni assolutamente top secret, il riconoscimento di un bonus a quei professionisti che riescono a raggiungere una certa percentuale di “pratiche di rifiuto” nei confronti di assicurati che non possono permettersi di pagare premi molto elevati.

Un mostruo de mil cabezas ha inaugurato nel 2015 la Sezione Orizzonti della 72^ Mostra di Venezia. Girato in modo che ogni scena venga mostrata dal diverso punto di vista dei vari protagonisti, la pellicola ha la forma del thriller con un accompagnamento musicale che fa presagire in ogni istante l’arrivo imminente di una tragedia. Seppur ambientato in Messico, il film affronta un problema diffuso in molti paesi: quello dell’assistenza sanitaria legata a forme assicurative che creano un discrimine sulla salute delle persone. Rodrigo Plà aveva già sperimentato il thriller a sfondo socio politico sin dai suoi esordi, quando nel 2007 vinse il Leone d’Oro del futuro come miglior opera prima a Venezia ed il Premio Internazionale della Critica a Toronto con La zona, film-denuncia molto coraggioso che identificava nel titolo un quartiere benestante sito al centro di Città del Messico delimitato da alte mura, claustrofobica realtà a cui si contrapponeva l’informe agglomerato urbano delle favelas, due mondi antitetici dove l’elemento “muro” rappresentava al tempo stesso ostacolo da scavalcare e barricata per difendersi.

Con Un mostro dalle mille teste il regista torna sul tema della contrapposizione sociale, offrendoci un’immagine durissima della nostra società contemporanea con regole spietate, che trasformano gli esseri umani in vere e proprie belve feroci disposte a sbranarsi e a ricorrere alla violenza anche per urlare al mondo i propri diritti.

Solo l’abbraccio di un’infermiera e la comprensione di un poliziotto ci richiamano, forse, ad uno scenario di “normalità”… 

data di pubblicazione:04/11/2016


Scopri con un click il nostro voto:

NOTTURNO DI DONNA CON OSPITI di Annibale Ruccello, con Giuliana De Sio. Regia di Enrico Maria Lamanna

NOTTURNO DI DONNA CON OSPITI di Annibale Ruccello, con Giuliana De Sio. Regia di Enrico Maria Lamanna

(Teatro Quirino – Roma, 1/6 novembre 2016)

Adriana abita in una casa anonima in una desolata periferia. Non parla con nessuno tranne che con il marito, i due figli e la madre per telefono. Adriana è incinta e soffre il caldo d’afoso di fine luglio. Parla un dialetto napoletano contaminato e sincopato e vive di canzoni, tv e luoghi comuni.

Era il 1983 quando il compianto Annibale Ruccello, grande drammaturgo di Castellammare di Stabia, scomparso prematuramente a soli trent’anni in un incidente automobilistico, scriveva all’età di ventisette anni, Notturno di donna con ospiti, che, con Le cinque rose di Jennifer ed il capolavoro Ferdinando costituiscono le pietre miliari della sua produzione, opere di disarmante attualità che mettono a nudo i risvolti più cupi dei rapporti interpersonali, le incoerenze del progresso, la violenza domestica.

Adriana è sola e infelice anche se non sa di esserlo. Una notte d’estate però, mentre suo marito è al lavoro e si è addormentata davanti al televisore, in casa piomba una donna spaventata che le chiede aiuto a seguito ad un’aggressione subita per strada. Adriana riconosce che è la sua vecchia compagna di banco Rosanna. Poco dopo giungeranno il marito di Rosanna, ed il suo amante, Sandro, che è stato il primo amore di Adriana, e lo stesso marito Michele. La presenza di questi ospiti, i loro comportamenti morbosi e l’alcool cui Adriana non è abituata, la porteranno ad aprire cassetti della memoria richiusi dai tempi dell’adolescenza, quando viveva con un padre affettuoso e remissivo ed una madre autoritaria ed oppressiva.

Ma chi sono questi ospiti e perché quella notte sono lì? La loro presenza dà modo ad Adriana di riconsiderare la sua vita con occhio critico. La folle e imprevedibile nottata lascia pesanti segni nella testa di Adriana, che logorata dalla solitudine e dalla frustrazione del quotidiano, la porterà ad un folle decisione.

Giuliana De Sio interpreta Adriana nel Notturno di donna con ospiti, sul palcoscenico del Teatro Quirino dal 1 al 6 novembre, con la regia di Enrico Maria Lamanna e la riproduzione scenica di Roberto Ricci.

Annibale Ruccello costruisce attorno al personaggio d’Adriana un complesso tessuto drammatico composto da molteplici piani narrativi. Gli elementi sono i medesimi di tutta la produzione di Ruccello: la periferia degradata, le canzoni alla radio, la tv, il luogo chiuso e il pericolo esterno. Il contatto con mondo esterno è filtrato attraverso la veranda e l’armadio che diventano scene nella scena. Il passato di Adriana si materializza in flashback onirici, attraverso una continua interscambio della protagonista con i personaggi che popolano la sua casa e la sua mente. Sogno e realtà si mescolano, scanditi da una angosciante e angosciosa ripetizione di frasi o parole. La conclusione, noir e cinematografica, propone il triciclo di Shining e l’abito da sposa, sintesi di una nuova dimensione nella quale la mente di Adriana è già entrata.

Un testo che viene messo in scena da oltre vent’anni con la stessa attrice. L’interpretazione di Giuliana De Sio, nel ruolo di Adriana, è straordinaria per la sua capacità di raccontare una donna ordinaria, sola, alienata, chiusa tra quattro mura, in una sorta di prigione con tutti i piccoli comfort, carica di rimpianti di gioventù e appiattita dal grigiore quotidiano.

Tutto il cast è ottimamente diretto; meritano una particolare menzione Rosaria De Cicco nel ruolo di Rosanna e Gino Curcione, nel doppio ruolo del padre e della madre di Adriana, interpretati con eleganza, ironia, mai eccessivi.

Un’opera metropolitana riproposta dall’attenta regia di Enrico Maria Lamanna, bravo a ricontestualizzarla in chiave terribilmente attuale che scuote e colpisce.

data di pubblicazione: 4/11/2016


Il nostro voto:

 

LE OLIMPIADI DEL 1936 di Emilio Russo, Federico Buffa, Paolo Frusca, Jvan Sica

LE OLIMPIADI DEL 1936 di Emilio Russo, Federico Buffa, Paolo Frusca, Jvan Sica

(Sala Umberto – Roma, 1/6 Novembre 2016)

A lezione da Federico Buffa: affabula le olimpiadi del 1936 e le rende una storia indimenticabile.

L’incredibile amicizia che legava l’ariano Lutz al record man nero Jesse Owens e il retroscena riguardo alla medaglia d’oro nel salto in lungo; la marcia estenuante del coreano Sohn Kee-chung per il riscatto del proprio popolo dominato dai giapponesi; i retroscena dietro le affascinanti sequenze del film di Leni Riefensthal, la regista tedesca che girò una pellicola capolavoro sulle olimpiadi del 1936: sono solo alcune delle storie che verranno descritte dal miglior story teller italiano in circolazione.

Aneddoti e racconti che s’intrecciano come fili di lana di uno splendido arazzo, e che tessono un discorso indubbiamente charmant.

All’apertura del sipario, entriamo nel locale che frequentava abitualmente Wolgang Fürstner (comandante del villaggio olimpico): qualche tavolino rotondo di epoca liberty in ferro battuto, un appendiabiti, un pianoforte, e l’immancabile bottiglia di liquore. In questo ambiente dal sapore d’antan, ripercorreremo le fasi salienti e le curiosità latenti di quelle storiche olimpiadi.

La narrazione è inframezzata e accompagnata dallo splendido suono emesso dal pianoforte di Alessandro Nidi – che scandisce il ritmo del racconto –, dalle note della fisarmonica di Nadio Marenco – che nel movimento ondulatorio del mantice ci trasporta come le onde del mare –, e dalla voce di Cecilia Gragnani – che dimostra il suo talento cimentandosi in canzoni in diverse lingue (anche se il pezzo di De Gregori è rivedibile) – e, ahimè, anche del suono metallico del microfono usato da Federico Buffa durante il racconto.

Uno spettacolo interessante, sia per la forma sia per i contenuti, sebbene non si possa dire breve, e le continue digressione portano talvolta a perdere l’attenzione. Un’opera è completa non quando non si ha più nulla da aggiungere, bensì nel momento in cui non si ha più nulla da togliere.

data di pubblicazione: 4/11/2016


Il nostro voto:

IL GIUOCO DELLE PARTI da Luigi Pirandello, con Umberto Orsini e regia di Roberto Valerio

IL GIUOCO DELLE PARTI da Luigi Pirandello, con Umberto Orsini e regia di Roberto Valerio

(Teatro Eliseo – Roma, 1/20 Novembre 2016)

La crudeltà vendicativa di due parti, che finiscono per giocare con la vita degli altri.

Il tempo ha scavato il volto dell’arguto signor Leone, oramai ricoverato in una clinica fredda, asettica, insignificante. Nulla più lo circonda, nessun pensiero lo assilla; si è privato di tutto, come un uovo appena svuotato: rimane l’involucro, simbolo dell’affascinante lucidità della ragione, ma è privo del contenuto, ossia la cieca frenesia della passione.

Astrarsi dagli accadimenti concreti, abbandonarsi al flusso ininterrotto di perpetue novità senza tuttavia partecipare: questa è la sua soluzione all’esistenza, la ricetta che gli ha permesso di non essere soggiogato dai sentimenti, di poter guardare la vita dall’esterno senza esserne toccato.

L’unica compagnia che gli è rimasta, sono tuttavia solo i fantasmi dei ricordi che lo assalgono; tra cui riaffiora con forza dirompente la tormentata relazione con la moglie Silia, che non ha perso tempo dopo la concordata separazione, accompagnandosi con il vigoroso Guido. Nonostante la divisione, Silia non è ancora riuscita a liberarsi del marito, che rimane il suo peggior incubo, costantemente presente nei suoi pensieri. Per questo motivo – una sera in cui viene scambiata per cortigiana da alcuni guasconi alticci – coglie l’occasione per costringere il marito a lavare l’oltraggio subito nel suo onore sessuale, pretendendo che Leone sfidi i colpevoli in un duello mortale.

L’energia vitale ed emozionale di Silia ritorna dunque con pervicacia nel guscio vuoto della perfetta razionalità del marito, stavolta per riempire quell’involucro – così irritante e tranchant – fino a farlo cadere, per spezzare quel perno ideale a cui si aggrappa Leone e da cui non vuole staccarsi.

In questo perfido gioco tra persone piene di vita (ma proprio per questo infelici) e persone estraniate dalla realtà, per non naufragare nel mare di emozioni (con il rischio tuttavia di volare via in aria come un palloncino); in questo scontro tra vuoto razionale e pieno passionale; nelle morse di questa tenaglia, un uovo si romperà e macchierà la scena: sennonché l’interno non sarà il solito albume, bensì il sangue di uno dei personaggi coinvolti.

Umberto Orsini adatta l’opera di Pirandello rendendola ancor più contemporanea, più fluida; e aggiunge alla ricetta un pizzico di ironia, che permette di riequilibrare il cinismo imperante. L’adattamento a sei mani, cui ha partecipato inusitatamente lo scenografo Maurizio Balò (per volere di Orsini), inizia con una prolessi da cui si dipana il racconto della vicenda che involge i tre protagonisti.

L’inizio dalla fine dell’opera pirandelliana riduce inevitabilmente il pathos legato all’attesa per vedere ciò che accadrà, anche se resta il piacere di scoprire come si evolverà la situazione. La narrazione, almeno nella fase iniziale, stenta a decollare, anche se si riprende in modo strabiliante nel proseguimento dello spettacolo.

Se nelle scelte registiche si possono nutrire riserve, le recitazioni fugano ogni dubbio riguardo al risultato della messinscena. Nella parte di Leone, Orsini riesce a conferire al personaggio un quid pluris: si muove sul palco con passo felpato, a memoria, come se conoscesse ogni angolo, ogni centimetro della scena. Una maestria travolgente e percepibile, che contagia ineludibilmente anche gli altri attori. Nella selezione degli altri due interpreti principali de “Il giuoco delle parti”, la Compagnia Orsini trasceglie due attori di spessore: Alvia Reale veste alla perfezione i panni di Silia, come un vestito che calza a pennello, tant’è che il suo coinvolgimento traspare a fine spettacolo, quando si commuove sotto i meritati applausi che il pubblico le tributa; e Totò Onnis indossa la maschera di Guido con sensazionale maestria, quasi confondendosi con il personaggio che raffigura.

Le intense interpretazioni sono inserite in una scenografia essenziale ma efficace; i diversi elementi presenti sulla scena sono come tasselli di un mosaico in composizione, che cangiano colore e si modellano a seconda della scena – sublime il momento in cui Leone, sovrappensiero, narra delle vicende che gli accadono e i componenti della scena intorno a lui si muovono e si adattano ad ogni suo pensiero.

Un lavoro studiato nei dettagli, che riesce ad offrire una rappresentazione pregna di significato, breve e diretta. Si nota come coloro che hanno partecipato alla messinscena abbia lavorato alacremente per raggiungere questo risultato, sotto la direzione di Orsini che, non pago del successo da lui già ottenuto, si cimenta in nuove opere con cui sforna talenti tramite la compagnia teatrale che ha coraggiosamente costituito, nonostante il momento di crisi. D’altronde, “È una questione di misura contentarsi. Uno si contenta di tanto, un altro ha tutto e non se ne contenta.”

 data di pubblicazione: 3/11/2016


Il nostro voto:

7 MINUTI di Michele Placido, 2016

7 MINUTI di Michele Placido, 2016

11 operaie sono chiamate a decidere se continuare a lottare o accettare un nuovo, ulteriore compromesso pur di mantenere il proprio posto di lavoro. Un dilemma che coinvolge tutte le operaie dell’azienda tessile di cui loro sono le rappresentanti al cospetto del padrone. Ma ciò che sembra in apparenza una scelta semplice ed immediata, in realtà nasconde mille insidie che andranno attentamente valutate, prima di prendere una decisione definitiva.

 

E se quello che guardiamo non è il cielo ma un mare che sta per cascarci addosso? É ciò che si chiede una delle undici operaie di un’azienda tessile italiana, da poco ceduta ad una multinazionale francese, chiamate a decidere in rappresentanza di tutta la fabbrica se accettare o meno le condizioni della nuova proprietà. Il lavoro è salvo, ma si chiede ad ognuna di loro di rinunciare ogni giorno a 7 minuti della pausa pranzo: cosa sono solo 7 minuti, se in ballo c’è il mantenimento del posto di lavoro? Sono donne, ma anche madri, figlie e future nonne; i loro dialetti si mescolano all’italiano incerto di altre operaie immigrate dall’Albania, dalla Nigeria, dalla Romania. Ma Bianca, che è colei che le ha rappresentate tutte nel Consiglio di fabbrica, dice loro che quei pochi minuti, moltiplicati per il numero di tutte le operaie presenti in fabbrica, sono 900 ore di lavoro in più al mese: vuol dire produrre di più a costo zero e senza nuove assunzioni. E allora, accettare questo compromesso è uno sbaglio? Vuol dire che forse sta vincendo la paura perché, quando tutto crolla, cresce il bisogno di salvarsi? E se si accetta senza problemi, cosa succederà in futuro?

Michele Placido ci racconta una storia ispirata ad un fatto vero, portandoci per mano, senza eccessi, nel cuore pulsante di interrogativi importanti e lo fa affidandosi ad un cast femminile di prim’ordine. Queste donne dovranno in poco tempo emettere un vero e proprio “verdetto” e decidere se accettare o meno una proposta apparentemente innocua pur di vedere salvo il lavoro di tutti. Il film, nato da un testo teatrale di Stefano Massini, si svolge prevalentemente in una stanza in cui le operaie, intorno ad un tavolo, si trovano a dover prendere per tutti una decisione che ha un peso specifico importante, ed evoca in maniera inequivocabile, nell’impianto scenico, La parola ai giurati di Sidney Lumet il cui soggetto è stato ripreso negli anni in diversi adattamenti teatrali. La contrapposizione delle loro storie, i discorsi razzisti che in condizione di nervosismo emergono con prepotenza tra di loro, il voto che ognuna dovrà ripensare perché nel confronto le certezze cominciano a vacillare, sono anch’essi elementi nodali che ci riportano al film di Lumet e ai suoi 12 giurati chiamati a decidere unanimemente su un caso di parricidio che sconvolgerà le loro coscienze.

Tuttavia, nonostante le affinità, 7 minuti è un buon film, che si avvale non solo di una solida e collaudata sceneggiatura, ma anche di una ottima interpretazione corale di: Ottavia Piccolo, Ambra Angiolini, Fiorella Mannoia, Violante Placido (finalmente in un ruolo maturo), Clèmence Poèsy e Sabine Timoteo (bravissime), Maria Nazionale ed Cristina Capotondi; ma soprattutto di una ritrovata verve di Michele Placido alla regia.

data di pubblicazione:03/11/2016


Scopri con un click il nostro voto:

LA RAGAZZA SENZA NOME di Jean-Perre e Luc Dardenne, 2016

LA RAGAZZA SENZA NOME di Jean-Perre e Luc Dardenne, 2016

Liegi. Jenny Davin è un medico che lavora a ritmi serrati. Pur essendo molto giovane, è stata chiamata a sostituire momentaneamente l’anziano medico titolare di un ambulatorio, riuscendo in poco tempo a conquistarsi la stima dei pazienti del quartiere. In attesa di trovare una struttura a lei più consona e trasferirsi altrove, Jenny si avvale dell’aiuto di uno stagista: un laureando taciturno e problematico, con il quale sovente deve discutere in merito alle procedure da seguire con i pazienti. Una sera, nel bel mezzo di una delle loro discussioni Jenny decide, al fine di controllare che il giovane completi tutte le attività della giornata prima di tornare a casa, di non aprire la porta dell’ambulatorio chiuso già da un’ora pur avendo sentito suonare il campanello…

 

Ma l’indomani si scoprirà che a suonare il campanello, anche se una sola volta e fuori orario, era stata una giovane donna africana, visibilmente in fuga da qualcosa ed anche molto spaventata, come si evince dal video della telecamera di sorveglianza dell’ambulatorio che Jenny dovrà mostrare alla polizia. Il suo cadavere è stato ritrovato proprio quella mattina non lontano dall’ambulatorio, senza un documento o un qualsiasi indizio che ne possa rivelare l’identità. Da quel momento la vita di Jenny non sarà più la stessa.
La ragazza senza nome ha l’andamento di un noir con tanto di colpo di scena finale e tiene a tratti con il fiato sospeso, ma soprattutto è il manifesto di quell’inconfondibile modo dei fratelli Dardenne di scavare nei gesti e nelle scelte quotidiane delle persone comuni, in cui lo spettatore si riconosce. Accolto tiepidamente a Cannes, dove è stato presentato in concorso quest’anno, il film ricorda nella struttura il precedente Due giorni, una notte: in entrambi c’è una sorta di “corsa con il tempo” da parte della protagonista e, come fu per la brava Marion Cotillard che rincorreva i voti dei colleghi per evitare il licenziamento, anche Adèle Haenel, non meno brava nel ruolo di Jenny, è mossa da un forte senso di colpa oltre che dall’etica professionale nel fare la sua personale quanto affannosa indagine al fine di dare un nome a quel volto disperato di donna. Encomiabile la sua figura professionale che non sa darsi pace per aver commesso una leggerezza seppur giustificata, ma pur sempre deprecabile dal suo punto di vista, continuando comunque imperterrita a seguire i suoi pazienti, con dedizione, pazienza, competenza.
Il film tuttavia, come anche fu per Due giorni, una notte, non raggiunge la profondità di Rosetta, la sensibilità de Il matrimonio di Lorna e la magia de Il ragazzo con la bicicletta che rimangono, per chi scrive, film di un’intensità tale da far pensare che i famosi registi belgi abbiano negli anni perso un po’ del loro smalto, pur continuando a mantenere un posto alto nell’olimpo dei grandi per il loro crudo realismo, per la semplicità delle storie e per la poesia della loro narrazione.

data di pubblicazione:02/11/2016


Scopri con un click il nostro voto: