THE YOUNG POPE di Paolo Sorrentino, 2016

THE YOUNG POPE di Paolo Sorrentino, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

La Mostra di Venezia sceglie di presentare, ovviamente fuori concorso, i primi due episodi della serie televisiva The Young Pope, diretta dal premio Oscar Paolo Sorrentino e comprensiva di 10 episodi che saranno trasmessi da Sky a partire dal 21 ottobre. La nuova sfida di Sorrentino è apparsa fin da subito uno degli eventi di Venezia 73: e la proiezione non ha certo deluso le aspettative.

Il Conclave elegge come nuovo Papa il giovane Lenny Belardo, americano e affascinante, magistralmente interpretato dall’ottimo Jude Law. Il nuovo Pontefice prende il nome di Pio XIII (che, non a caso, viene dopo il tanto discusso Pio XII) e sceglie come suo Segretario particolare Suor Mary (una magnifica Diane Keaton): si tratta di una donna, la stessa donna sulla quale Lenny ha potuto contare da piccolo, dopo essere stato abbandonato dai suoi genitori.

L’eterogenea schiera di Cardinali, capitanati dal macchiettistico stratega Voiello (Silvio Orlando), non sa bene cosa aspettarsi da un Papa della cui vita e della cui visione della Chiesa si conosce molto poco. Quel che appare certo fin da subito è che saranno disattese le speranze di chi, contando sull’inesperienza di Belardo, confidava di poterlo esibire come testa di legno mediatica, mantenendo di fatto il governo del Vaticano. Pio XIII, infatti, rivela presto l’intenzione di prendere saldamente in mano il timone, imponendo brusche sterzate anche senza il consenso della “base”.

Carismatico, ma incapace di gestire fino in fondo le proprie debolezze. Anticonvenzionale nei gesti, ma conservatore nelle parole: è questo l’eterogeneo ritratto del giovane Papa che sembra emergere dai primi due episodi della serie.

Il racconto di Sorrentino è spesso irriverente, senza però risultare gratuitamente provocatorio; gioca con alcuni dei più abusati luoghi comuni sugli intrighi di palazzo e sulle ambiguità del cuore della Chiesa cattolica, mostrando al contempo la fallacia di una lettura “a senso unico” (emblematico a questo proposito il personaggio interpretato da Silvio Orlando). Il tutto marchiato dall’inconfondibile impronta cinematografica di Sorrentino: simmetria e plasticismo nella composizione dell’inquadratura, movimenti di macchina al servizio della ricerca estetica, esibizione dell’artificio cinematografico che non si risolve mai in sterile esercizio di stile.

Si tratta pur sempre, inutile negarlo, di un prodotto destinato al piccolo schermo, con quelle logiche della serialità che, per quanto plasmate dalle sapienti mani di un raffinato cineasta, non riescono ad elevarsi fino alla potenza espressiva del grande schermo.

Molto più di una serie televisiva, poco meno di un Film.

data di pubblicazione: 04/09/2016








BRIMSTONE di Martin Koolhoven, 2016

BRIMSTONE di Martin Koolhoven, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

La complessa rete di rapporti che lega una giovane donna e un Reverendo si traduce in un viaggio nel fanatismo religioso e nella miseria umana, ambientato nella desolazione del West.

Stati Uniti d’America, Badlands, XIX secolo. Liz (Dakota Fanning) parla solo attraverso il linguaggio dei segni, ma, anche grazie al supporto della figlioletta, sembra perfettamente inserita in una di quelle piccole comunità del Wild West raccolte intorno alla propria Chiesa e al proprio Reverendo, in cui però la pietà e la devozione sono solo la fragile facciata dietro la quale si celano i sentimenti più oscuri e degradanti. L’arrivo del nuovo Reverendo (Guy Pearce, in una delle sue migliori prove d’attore) turba profondamente Liz. La paura e la violenza irrompono prepotentemente nella storia, che, seguendo un andamento ritroso, dall’Apocalisse fino alla Genesi, chiarisce la complessa trama di rapporti che lega i due protagonisti.

La composita epopea raccontata da Martin Koolhoven conduce nell’abisso delle pulsioni più orride e ripugnanti, alimentate da un farneticante fanatismo religioso che arriva a giustificare ogni più squallida miseria umana. Dall’altra parte si pongono (e si oppongono) la speranza che diviene coraggio, il desiderio di rivalsa che diviene anelito di emancipazione. Il finale tenterà di (ri)comporre, sia pur in maniera contraddittoria, il nero e il bianco chiamati a fronteggiarsi nel corso della storia.

Con Brimstone la selezione ufficiale di Venezia 73 esplora un’ulteriore sfaccettatura dei generi, approdando a western con tanto di duello tra pistoleri sul terreno polveroso della via antistante al bordello cui è affidato un ruolo cruciale nell’intreccio narrativo. Le numerose ed esplicite scene di violenza rappresentano indubbiamente una delle cifre più caratterizzanti del film, anche se non sempre conferiscono un reale valore aggiunto a quel viaggio nella desolazione umana del West che forse il regista olandese intraprende con qualche punta di eccesso di zelo.

L’impressione complessiva è quella di un racconto ridondante, non solo per la durata di 148 minuti, ma anche per la tendenza a sovraccaricare il filo rosso di una storia che diviene difficile da rinvenire quando il film volge al termine.

Non basta l’elegante citazione de La pietà di Michelangelo e, più in generale, l’evidente ricerca estetica che pervade tutto il film. Così come non basta la solidità del cast, con le convincenti interpretazioni di Guy Pearce, Dakota Fanning, Emilia Jones (nel ruolo di Liz da adolescente) e il cammeo di Kit Harington e Carice van Houten, provenienti direttamente da Il trono di spade.

Brimstone, malgrado la durata, resta un’opera per molti aspetti incompiuta, che non riesce nell’impresa, centrata da Arrival con la fantascienza, di muovere dalle costanti del genere per poi superarle in maniera originale.

data di pubblicazione: 04/09/2016







FRANTZ di François Ozon, 2016

FRANTZ di François Ozon, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

Germania, 1918. La giovane Anna si reca ogni mattina al cimitero per portare fiori freschi al suo Frantz, morto sul fronte francese. Un giorno scorge un giovane piangere sulla tomba del suo amato: scoprirà di lì a poco che si tratta del francese Adrien, che pare abbia conosciuto Frantz a Parigi. Nonostante lo sconcerto iniziale dei genitori di Frantz, presso i quali la ragazza vive come fosse una loro figlia, Adrien riuscirà a scaldare nuovamente i loro cuori con i suoi racconti, facendo dimenticare ogni genere di ostilità.

Tratto da uno spettacolo teatrale già gloriosamente portato in passato sul grande schermo, l’ultimo film di François Ozon è un susseguirsi di quadri in bianco e nero raffinati ed intensi, che ci avvolgono teneramente nell’atmosfera di una storia semplice, fatta di silenzi e cose non dette, a tratti ambigua ed aperta a svariate interpretazioni, in cui dialoghi essenziali unitamente ad una ambientazione ristretta a poghi luoghi, aiutano ad apprezzare invece che annoiare. Splendidi gli interpreti che ci regalano una prova sublime della loro bravura: Pierre Niney (Adrian) aveva già conquistato il pubblico con la sua struggente interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo film, mentre Paura Beer (Anna) è una giovane attrice tedesca, già apprezzata nel 2015 al Festival di Roma nel film della sezione Alice Four kings di Theresa Von Eltz (purtroppo non uscito nelle sale italiane), dotata di raffinata bellezza unita ad una forte intensità recitativa.

Anna e Adrian rappresentano nel film di Ozon una coppia di amici “pericolosi” per la mentalità dell’epoca, anche perché lui, in quanto francese, è visto come un nemico dagli abitanti del paese e per farsi benvolere dai genitori di Frantz, in particolare dal padre che gli aveva mostrato una forte ostilità, racconta menzogne su come ha conosciuto il loro figlio mantenendo sempre un alone di mistero sui veri sentimenti che aveva provato per lui. In realtà l’atteggiamento ambiguo del giovane Adrian, sottolineato dalla sapiente regia di Ozon che mescola continuamente realtà e finzione, viene filtrato da Anna che seppur si invaghisca di questo ragazzo fragile e gentile in cui rivede il fidanzato scomparso, sente di dover difendere gli anziani genitori dal dolore che la verità sulla morte dell’unico figlio potrebbe causare loro. Ed in questa altalena di emozioni, disillusioni, piccole gioie e menzogne, Anna elabora il suo lutto e finalmente rinascerà a nuova vita.

data di pubblicazione: 04/09/2016








 

TARDE PARA LA IRA di Raùl Arévalo, 2016

TARDE PARA LA IRA di Raùl Arévalo, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Una rapina in una gioielleria finisce in un bagno di sangue. Il padre e la compagna di Jose sono pestati brutalmente, e quest’ultima si spegne davanti ai suoi occhi. Senza più nulla da perdere ricatterà l’unico malvivente condannato, al fine di scovare i suoi complici e placare la sua sete di vendetta; ma scoprirà che la strada della giustizia privata è irta di spine.

Al bar Carrasco si ride e si scherza; si gioca a carte e si viene allietati dalle forme sinuose e provocanti della donna che serve ai tavoli: la sensuale ed elettrizzante Ana. Jose ne rimane subito colpito, e per superare il dolore provocato dalla perdita della compagna (vittima di un rapina nella gioielleria del padre) inizia a corteggiarla. Inizia così una intensa relazione tra i due, che ben presto decidono di trasferirsi nella casa in campagna di lui.

Un uomo facoltoso che strappa una donna affascinante dai quartieri malfamati: sembrerebbe una relazione idilliaca e a lieto fine; ma Ana in realtà è già sposata con Curro, rinchiuso in carcere per essersi reso complice in una rapina in un gioielleria. La stessa in cui è stata uccisa la moglie di Jose.

Si rivela allora il piano vendicativo di Jose, ossia ricattare Curro per scovare gli altri tre complici della rapina. Ed è solo il primo dei colpi di scena presenti durante il film; in una narrazione che procede incalzante e senza freni, come l’ira esplosiva di Jose.

Il regista Raùl Arévalo si dimostra abile anche dietro la macchina da presa – e non solo come attore (veste che indossa abitualmente). Non c’è spazio per le pause durante la proiezione e il film corre veloce, risultando ben congegnato. L’abilità del giovane direttore è ravvisabile particolarmente nella costruzione dei momenti di tensione, i quali, attraverso il sapiente uso della musica in crescendo e con le fugaci e strette inquadrature, riescono a tenere lo spettatore sulle spine durante tutti i periodi di spannung.

La pellicola porta inevitabilmente a riflettere sulla scelta di Jose di farsi giustizia da sé: una soluzione rischiosa ma più semplice di quella legale, e che permette di liberarsi del sentimento opprimente e insaziabile di vendetta. Un film ben strutturato, che si segue piacevolmente e mostra la rabbia in tutte le sue forme.

data di pubblicazione:03/09/2016








EL CRISTO CIEGO di Christopher Murray, 2016

EL CRISTO CIEGO di Christopher Murray, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

Il cammino vocazionale di Michael alla ricerca dell‘amico d’infanzia ferito. A piedi nudi attraverso il deserto cileno per riuscire nel miracolo di curarlo, in lotta costante con la diffidenza generale.

Tra le sterpaglie dell’arida regione cilena della Pampa del Tamarugal, l’unico suono che rompe il silenzio è il sibilo del vento tra i rami secchi. Nessun altro rumore a colmare il vuoto che circonda questa regione desertica. Nessuna speranza per la devastante indigenza in cui versano gli abitanti della zona.

Michael ha bisogno di credere che ci sia la possibilità di migliorare questa terribile condizione; vuole un segnale divino. Perciò s’inoltra nel deserto insieme all’amico fraterno e qui si fa trafiggere le mani da due chiodi, restando in attesa di un miracolo. Ma nulla accadrà; e il sangue continuerà a gocciolare incessantemente dalle sue ferite. Sono invece i frammenti di fiducia in lui che si coagulano e illuminano i suoi occhi, che brillano di una nuova luce.

Rinvigorito nello spirito, Michael cercherà di trasmettere agli altri la rinnovata fiducia in se stesso. Suo malgrado, si ritroverà ad essere tacciato di essere un millantatore e deriso pubblicamente. La sua fede però non cesserà sotto i colpi inferti dalle offese altrui, e, venuto a conoscenza dell’infortunio occorso al suo amico fraterno – trasferitosi in precedenza presso una città di minatori per lavorare – deciderà di compiere un pellegrinaggio per riuscire nel miracolo di ridargli speranza.

Inizia così il viaggio messianico del cristo cileno di La Tirana verso il paese di La pisagua. Un cammino in cui incontrerà diverse persone in situazioni disagiate e alla disperata ricerca di aiuto. Man mano che prosegue nel suo percorso, il silenzio che pervade l’ambiente circostante sarà interrotto dalla sua musica interiore, che tocca le corde delle persone che incontra: la fede diventerà il suono che riempie il loro vuoto.

Il regista Cristopher Murray sceglie di dirigere una pellicola dai forti connotati religiosi. Sebbene il cineasta non sia credente, C. Murray ha dichiarato che l’interesse per la religione nasce per due ordini di motivi: “perché è il più grande mistero e perché è radicata nei problemi concreti, nel vuoto della società. Segnatamente, in Cile la religione è una forma di costruire, per sopperire alle evidenti carenze sociali”.

Una pellicola che si distingue positivamente per l’attiva partecipazione degli abitanti della zona, che durante le riprese si sono spinti a consigliare quale luce utilizzare o quali dialoghi e conversazioni inserire. E nella proiezione traspare profondamente la sinergia e l’interazione creatasi.

Lo sviluppo del film, tuttavia, appare poco fluido e ripetitivo; e ciò inficia la storia del film, che nonostante  tocchi tematiche profonde (e indubbiamente interessanti) non riesce nell’obiettivo di tener incollato lo spettatore allo schermo.

data di pubblicazione: 03/09/2016







NOCTURNAL ANIMALS di Tom Ford, 2016

NOCTURNAL ANIMALS di Tom Ford, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

Una coppia affascinante e di successo, l’ex marito di lei ed un misterioso manoscritto sono gli ingredienti con cui Tom Ford costruisce un vero e proprio thriller, in cui la fantasia diviene metafora della realtà, ed in cui l’amore si mescola con il dolore di un addio, nella consapevolezza di aver perso qualcosa di importante per non aver saputo attendere.

Susan ed Edward sono una giovane coppia, diversi, leali, idealisti, innamorati. Lei pragmatica, esigente, con le idee molto chiare su cosa vuole diventare nella vita; lui scrittore in erba, sognatore, romantico, con una sensibilità che può essere scambiata per debolezza; entrambi hanno tempi diversi nel mordere la vita. Dopo solo due anni di matrimonio, Susan decide di lasciare Edward preferendolo ad Hutton Morrow, uomo affascinante e di successo che le garantirà una vita agiata ma infelice. Susan ed Edward non si incontreranno più per 19 anni sino a quando un giorno la donna riceve un manoscritto a lei dedicato: è la copia di un romanzo dal titolo “Nocturnal Animals” dello stesso Edward con un biglietto in cui l’uomo le esprime il desiderio che sia proprio lei la prima a leggerlo. Nel farlo, Susan scoprirà una storia cupa, violenta e dolorosa che la riguarda direttamente il cui contenuto le stimolerà ricordi dei momenti più intimi della loro unione, turbandone le sue abituali notti insonni da “animale notturno”. Da questo momento la narrazione del romanzo si insinua nella realtà descritta nel film, dando vita a due storie parallele altrettanto realistiche, seppure una sia la lettura metaforica di un vissuto che Susan rivivrà ogni notte sino all’epilogo della storia narrata nel romanzo.

Tom Ford cura, di questa sua seconda pellicola, anche la sceneggiatura rendendola accattivante, ritmata, incalzante, supportata da una ricerca estetica, come ci aveva già abituati in A single man, che è parte integrante della narrazione stessa, con inquadrature che sono delle vere e proprie installazioni d’arte contemporanea, anche nella descrizione delle scene più brutali. La performance iniziale, ambientata in una contemporaneità in cui l’immaginario si innesca nel reale, sconquassando le convenzioni in cui nessuno può più dirci come essere, è un autentico capolavoro, come la scena di due corpi femminili su un divano di velluto rosso, colore dominante usato dal regista negli arredi, nei particolari, nei capelli delle donne, persino nella carta del copione spedito al cast. Bravissimi gli interpreti principali Amy Adams e Jake Gyllenhaal, anche se una nota di merito va decisamente Aaron Taylor-Johnson, nella parte di uno psicopatico assassino.

Nocturnal Animals è un film che racconta un modo diverso di sentire l’amore e sul sapersi dire addio quando ci si accorge che si è buttata via un’opportunità, forse l’unica, perché non si è stati capaci di coglierla.

data di pubblicazione: 03/09/2016








AMERICAN ANARCHIST di Charlie Siskel, 2016

AMERICAN ANARCHIST di Charlie Siskel, 2016

 (73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

The Anarchist Cookbook” è il noto “manuale del perfetto rivoluzionario”, con tanto di ricette per la fabbricazione domestica di ordigni esplosivi, che pare abbia rappresentato la lettura preferita degli attentatori che hanno insanguinato la democrazia americana negli ultimi decenni. William Powell prova a spiegare cosa significhi essere l’autore di quel libro.

Le stragi più sanguinarie che hanno ferito (in senso non solo materiale) la democrazia americana negli ultimi decenni, dal massacro alla Columbine High School agli ultimi delitti targati ISIS, parrebbero svelare un minimo comun denominatore. Molti degli attentatori erano in possesso di una copia di The Anarchist Cookbook, libro scritto da William Powell e pubblicato nel 1970. Una sorta di “manuale del perfetto rivoluzionario”, in cui, accanto al manifesto ideologico di chi si faceva portavoce della controcultura in grado di salvare il mondo, figurano ricette illustrate in grado di spiegare, in maniera accessibile anche ai meno esperti, come fabbricare esplosivi o realizzare sabotaggi. Un caso letterario e politico capace di andare ben oltre la contingenza del ’68, anche grazie alla moltiplicazione esponenziale assicurata dal web e dalla facilità di acquisto garantita da Amazon.

In American Anarchist, presentato fuori concorso alla 73. Mostra di Venezia, Charlie Siskel dà voce proprio all’autore William Powell, morto qualche mese fa (luglio del 2016). L’uomo a volte ironico e a volte smarrito che compare sullo schermo sembra del tutto diverso, persino nello sguardo, dal ragazzo di 19 anni che, imbevuto di ideali e di speranze, credeva nella necessità di “fare la rivoluzione”. Prova rimorso per quello che ha scritto e per come lo ha scritto, ma non ha posto fine alla distribuzione del libro nel momento in cui avrebbe potuto ritirarlo definitivamente dal mercato. Non si sente responsabile delle stragi compiute, ma non può negare di avvertire la responsabilità e il vero e proprio rimorso (che è cosa diversa dal rimpianto) per uno strumento che si è prestato a un uso distorto. Chi scrive un libro non è certamente assimilabile a chi commette una strage, per quanto le parole si sono rivelino spesso armi potenti quando si tratta di giustificare la violenza. Le bombe fabbricate secondo le ricette di Powell hanno fatto vittime anche nelle scuole: nella sua “seconda vita”, per una sorta di curioso e crudele paradosso, Powell si dedica proprio all’insegnamento, specie a favore di quei “ragazzi difficili” che hanno trovato nel suo manuale il mezzo per comunicare con una società poco inclusiva nei loro confronti.

American Anarchist può essere osservato da almeno due prospettive. Focalizzando l’attenzione unicamente sul contenuto, si tratta indubbiamente di una storia che merita di essere raccontata, non solo perché sconosciuta al grande pubblica, ma perché offre la possibilità di rileggere criticamente un passato ancora molto recente. Volgendo invece lo sguardo al contenitore, sembra difficile scorgere un prodotto cinematografico capace di andare oltre la (pur interessante) intervista corredata da (ancor più interessante) materiale di repertorio.

Sembra in ogni caso condivisile la scelta di offrire a un documentario di questo tipo una vetrina tanto prestigiosa come quella di Venezia. Resta però un interrogativo: se The Anarchist Cookbook fosse stato il manifesto di un’ideologica esattamente speculare a quella “sessantottina”, si sarebbe trattato di un’operazione altrettanto “digeribile”?

data di pubblicazione: 02/09/2016







ARRIVAL di Denis Villeneuve, 2016

ARRIVAL di Denis Villeneuve, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

A seguito di un’invasione aliena, la linguista Louise Banks si vede affidato l’arduo compito di decifrare il modo di comunicare, e quindi di essere, delle misteriose creature atterrate sul pianeta Terra.

12 oggetti non identificati approdano in luoghi molto distanti del globo terrestre, gettando le popolazioni e i rispettivi capi di Stato in una condizione mista di sconcerto e terrore. Sembrerebbe l’ennesima storia dell’ennesima invasione aliena quella raccontata da Arrival, ma il film di Denis Villeneuve riesce a sorprendere una Mostra di Venezia perennemente oscillante tra storie rivolte al passato oppure proiettate verso il futuro, ma unificate dal comune intento di veicolare una riflessione sul presente.

Difficile comprendere quale sia l’intento che ha spinto le strane e inquietanti creature ad approdare sulla Terra. Difficile comprendere addirittura se le strane creature riescano a decifrare il concetto di “intento”. Per ottenere delle spiegazioni che mettano a tacere l’ansiosa fame di risposte da parte di un mondo che si sente sotto assedio per il solo fatto di non conoscere i propri ospiti, bisogna dapprima individuare un codice che consenta una comunicazione tra “umani” e “non umani”, mettendo a punto un alfabeto, una grammatica e una sintassi condivisi. Proprio per questa ragione il Colonnello Weber (il premio Oscar Forest Whitaker) decide di affidarsi alla linguista Louise Banks (la convincente Amy Adams, a Venezia anche con Nocturnal Animals), affiancata dallo scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner).

Il linguaggio, del resto, non solo è alla base di ogni convivenza “civile”, ma incide sui centri maggiormente attivi del cervello, influenza il modo di pensare dell’essere umano e il suo rapportarsi alle coordinate spazio-temporali di riferimento. Non resta che decifrare il modo di comunicare, e quindi di essere, dei nuovi arrivati.

Louise, sforzandosi di restare impermeabile alle logiche di quelle istituzioni da cui pure è stata reclutata, intraprenderà un viaggio alla scoperta delle nuove creature e, in definitiva, di se stessa.

Linearità e circolarità del tempo, necessità e libertà nel progredire della vita di ognuno: sono alcuni dei temi che, anche grazie a una sceneggiatura accurata e convincente, il progressivo dialogo con gli extraterrestri riesce a portare in primo piano. Sullo sfondo, ma sempre ben visibile, resta il tema così eterno eppure così attuale della necessità di comunicare e di restare uniti per evitare di restare sopraffatti dalla paura del “diverso”, posto le “incomprensioni” generano divisioni, caos e, quindi, guerra.

L’impressione complessiva è quella di un film che, pur ripercorrendo alcuni dei più consolidati stilemi del cinema fantascientifico, riesce a imporsi per originalità e consapevolezza anche a un pubblico esigente come quello del Lido.

data di pubblicazione: 02/09/2016








ORECCHIE di Alessandro Aronadio, 2016

ORECCHIE di Alessandro Aronadio, 2016

 (73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

Un fastidioso fischio nelle orecchie scandisce “una giornata di ordinaria follia” di un professore (supplente) di filosofia, dopo che al risveglio riceve in maniera insolita la notizia della morte del suo amico Luigi. Quando finalmente, alla fine di una serie di disavventure, arriverà nella chiesa dove si terranno i funerali, avrà capito quanto sia importane dare ascolto a quel fastidioso fischio invece di tentare di curarlo per la paura, giorno dopo giorno, di mettersi in gioco.

Il regista palermitano Alessandro Aronadio presenta per la Biennale College, che lo ha prodotto e sostenuto, una divertente commedia low cost in bianco e nero, che rispecchia la vita tragicomica del suo protagonista in una Roma animata da personaggi quasi surreali, ma che al contrario sono terribilmente calati nella realtà odierna. Il nostro professore di filosofia non sa gestire una realtà così incredibilmente folle, anzi ogni giorno tenta di sfuggirle sino al risveglio di un giorno qualsiasi quando, nel tentativo paradossale di ricordare chi fosse l’amico defunto al cui funerale dovrà recarsi, cercherà prima di risolvere quel fastidioso fischio alle orecchie con il quale si è destato. Nel tentativo disperato di capire cosa esso sia, incontrerà un otorinolaringoiatra molto sicuro di sé quanto incompetente e folle ed un suo collega burlone e terribilmente cinico, non prima di essersi imbattuto in due suore particolarmente invadenti, in una irritante impiegata di un pronto soccorso, nel direttore di una testata giornalistica “illuminata” e all’avanguardia, nella moglie di un suo ex professore che custodisce amorevolmente un triste segreto, sino all’incontro con il prete che officerà la funzione funebre che beve vodka per rilassarsi prima di celebrare. E tutto questo per evitare di confrontarsi con l’affetto sincero ma titubante della sua fidanzata e con quello decisamente debordante di una madre immatura ed egoista.

Il protagonista di questa sorprendente pellicola, l’esordiente Daniele Parisi che nelle espressioni di smarrimento ed incredulità ricorda il miglior Francesco Nuti, è affiancato da un ricco cast di attori del nostro cinema italiano: dalle bravissime Pamela Villoresi, Piera Degli Esposti e Milena Vukotic, oltre a Rocco Papaleo, Massimo Wertmuller, Andre Purgatori e tanti altri, che lo insidiano in questo viaggio incomprensibile e minaccioso sino alla fine di questa folle giornata, fastidiosa come quello strano fischio…

data di pubblicazione: 02/09/2016








LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ di Wim Wenders (2016)

LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ di Wim Wenders (2016)

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

Dialogo tra un uomo e una donna all’ombra di un placido bersò. La natura circonda i personaggi e si fonde nei loro racconti poetici; ma sulla luminosa e trasognata atmosfera estiva incombe l’oscura attualità.

Una luce calda e intensa abbaglia gli Champs Elysee, la Tour Eiffel e la Senne. Le inquadrature dei più affascinanti luoghi della capitale francese si susseguono lentamente, e dolcemente si allontanano dal centro storico per portarci in un incantevole giardino del suburbio bucolico parigino: una sequenza emozionante e resa ancor più efficace dalla profondità espressiva che dona il 3D. Sensazioni confermate dallo stesso regista in conferenza stampa che, alla nostra domanda su quale fosse il motivo che lo ha spinto a ricorrere al cinema tridimensionale, ha risposto affermando di voler optare per tale tecnica innovativa per coinvolgere maggiormente lo spettatore, in guisa da circondarlo dei suoni provenienti dallo stormire delle fronde e dal cinguettio dei volatili; e di carezzarlo virtualmente con le foglie degli alberi.
Sul giardino paradisiaco dove si è posata la cinepresa, si affaccia la stanza di uno scrittore, il cui sguardo fisso nel vuoto etereo è alla ricerca d’ispirazione. Un tavolo, due sedie e una mela: è quanto basta per dare inizio ad una nuova storia. Seduti sotto un rigoglioso pergolato – e suggestionati dal frutto del peccato originale – un uomo e una donna iniziano un periglioso jeux d’amour verbale. Nel dialogo platonico che coinvolge i due, l’entusiasmante Sophie Semin si racconta al confidente, il quale è abile nel ghermirle i segreti più inconfessabili sul rapporto con il suo sesso e con l’altro. Ed è in questo scambio di esperienze, perfuse da afflato poetico, che emerge con forza dirompente la natura, quale elemento onnipresente e determinante nelle azioni di ognuno di noi – sia nella sua veste pura e candida che in quella laida.

Wim Wenders sceglie di riadattare per il grande schermo l’opera teatrale di Peter Handke. Un testo profondo dove le anime dei due personaggi si scontrano e si fondono, ancorché senza violenza; una rappresentazione con un forte impatto emotivo, specialmente per i temi delicati che vengono toccati. L’adattamento cinematografico, tuttavia, difetta della sublime empatia che solo la mise-en-scene teatrale può conferire al pubblico, specialmente per un testo di tal fatta.

Una pellicola che indubbiamente porta a riflettere sulle relazioni tra uomo e donna, ma che al contempo finisce talvolta per essere un’opera estetizzante: un divertissement en plein air.

data di pubblicazione: 02/09/2016