da T. Pica | Nov 24, 2016
Dopo i clamori e gli scandali sollevati da Wikileaks, nell’era del digitale e della cyber security dove si tenta di dare attenzione e clamore ai recenti tentativi normo-legislativi di garantire una globale ed effettiva sicurezza al trattamento dei dati personali – dal cd. “Safe Harbour Principles” al cd. “Privacy Shield”, fino al nuovo Regolamento U.E. e alla Direttiva europea “Big Data” -, passando per l’ultimo episodio di hackeraggio di Yahoo, irrompe nella Selezione Ufficiale della XI Festa del Cinema di Roma Snowden di Oliver Stone.
Il grande regista ha riportato con coraggio, in 134 minuti, i nove anni più importanti – per ora – delle vita di Edward Snowden (interpretato da Joseph Gordon Levitt), il tecnico informatico – cresciuto in una famiglia conservatrice di stampo militare al servizio degli Stati Uniti d’America – che da ideatore di sistemi informatici per la CIA creati per la sicurezza del proprio paese assiste alla silenziosa manipolazione delle sue idee e delle sue invenzioni fino al loro abuso/uso distorto da parte della CIA e poi della NSA e dei suoi uffici “tentacolari” diffusi nel mondo. Dalla graduale e devastante presa di coscienza da parte di Snowden del conflitto di tale abusi con i suoi principi e ideali, il giovane tecnico – grazie anche al sostegno dell’unico “essere umano” estraneo ai lavaggi di cervello impartiti nella CIA e in NSA rimastogli accanto, la compagna Lindsay Mills (Shailene Woodley), personaggio al quale Oliver Stone ha voluto dare risalto cogliendo in lei un ruolo discreto ma fondamentale – da “primo della classe” e miglior tecnico della NSA diviene la voce di una delle più grandi denunce che abbiano mai colpito il sistema di intelligence americano e l’amministrazione Obama. Non era facile raccontare la storia del giovane Snowden e Oliver Stone ha sicuramente tentato il suo meglio per condensare nove anni di storia complessa (rivelata dal protagonista solo ai giornalisti del The Guardian e poi al regista in occasione di segretissimi incontri in Russia dove è esiliato per scampare alle condanne per altro tradimento e antispionaggio), articolata prevalentemente su un linguaggio prettamente informatico/tecnico/ingegneristico, in una pellicola di poco più di 2 ore. Se nella prima parte lo spettatore può appunto soffrire la complessità del sistema in cui Ed. Snowden si ritrovò prima a operare orgogliosamente e attivamente e poi sofferente prigioniero, negli ultimi 40 minuti il thriller si fa decisamente più dinamico e avvincente fino al sovrapporsi di “finzione” cinematografica e frammenti di quanto poi i Media riportarono dal 10 giugno 2013 quando il “più grande spionaggio di massa” venne denunciato al mondo intero. Emozionate la scena in cui irrompe l’applauso del pubblico che assiste alla prima intervista di Ed. Snowden dopo la difficile fuga in Russia dove è riuscito ad avere una seconda vita. Bellissimi i titoli di coda del film – alternati alla descrizione di come la vita di Eduard Snowden è proseguita fino ad oggi – accompagnati dalla canzone composta per Oliver Stone da Peter Gabriel “The Veil” (“il velo”): come a voler sottolineare il protettivo tentativo che con questo film Oliver Stone ha reso affinché gli americani tolgano dai propri occhi, dalle proprie orecchie e dalla propria intelligenza quel velo di affidamento e cieca fiducia in un sistema che per anni ha violato i principi e i diritti di libertà e riservatezza fondamentali di ogni cittadino sotto l’altro “velo” della “giustificazione” della minaccia del Terrorismo.
data di pubblicazione:24/11/2016
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da Antonio Iraci | Nov 24, 2016
Ramona, perdon Ray, ha sedici anni, si sente un ragazzo e vuole essere un ragazzo come tutti gli altri: indossa pantaloni e maglioni larghi, camice a quadri di pesante flanella e scarponi gialli. A scuola si comporta secondo la sua vera natura, provando sentimenti verso una sua compagna, nel quartiere viene visto girovagare con il suo skateboard, adottando il tipico look di un giovane dell’East Village newyorkese.
Ray (Elle Fanning) vive in una famiglia di sole donne dal momento che sua madre Maggie (Naomi Watts) da anni non ha più contatti con il suo uomo, e la nonna Dolly (Susan Sarandon) vive da sempre un equilibrato ménage con la sua compagna Frances (Linda Emond). Una famiglia, più o meno, come tante altre, che come tutte si trova a dover affrontare il delicato problema della crescita di un figlio adolescente: non tanto nella ricerca del proprio orientamento sessuale, quanto piuttosto nella determinazione di riconoscere la propria identità e prendere atto di essere nato in un corpo che non gli appartiene. Il film di Gaby Dellal si fa subito amare per la delicatezza con la quale vengono affrontate le diverse dinamiche all’interno del nucleo familiare. In casa tutte sono animate da buoni sentimenti e rispettano la decisione, oramai inconfutabile, presa da Ray di iniziare la terapia ormonale che lo spingerà in una nuova dimensione dove non sono ammessi ripensamenti. Tutte, ognuno a modo proprio, sono pronte ad affrontare questa sfida che le impegnerà in prima persona anche a confrontarsi con problemi di identità nei confronti di sé stesse. Film divertente ed intelligente che però nel contempo coinvolge lo spettatore in tematiche che possono risultare anche molto forti per chi è ancora legato a schemi sociali preconfezionati dove c’è poco spazio per la tolleranza e il rispetto delle scelte altrui. La sceneggiatura, curata dalla stessa regista insieme a Nikole Beckwith, è bene equilibrata e mette in risalto l’intero cast che, inutile dirlo, è di ottimo livello. Elle Fanning, bravissima nel ruolo di Ray, è un transgender felice di poter finalmente affrontare comportamenti e tematiche maschili e ci insegna che è bello anche presentarsi a casa con un occhio nero dopo aver fatto a cazzotti per strada.
data di pubblicazione:24/11/2016
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da Antonio Iraci | Nov 24, 2016
Aldo, Giovanni e Giacomo lavorano in un negozio milanese di ferramenta di proprietà del Cavaliere Eros Cecconi (Carlo Croccolo) che è padre delle rispettive consorti di Aldo e Giovanni. I tre dovranno attraversare l’Italia e andare a Gallipoli, dove avrà luogo il matrimonio di Giacomo con la terza figlia dell’imprenditore, e con l’occasione portare una scultura in legno a forma di gamba di uno scultore famoso oramai in procinto di morire. Durante il viaggio i tre dovranno affrontare una serie di disavventure di tutti i generi che metteranno in serio pericolo la scultura che, a detta dell’irascibile suocero, un giorno avrà un valore inestimabile. Nel bel mezzo del loro viaggio i tre incontreranno Chiara che chiede loro passaggio fino a Brindisi per poi imbarcarsi per la Grecia dove ha programmato di fare una vacanza. La ragazza viene quindi coinvolta nelle diverse vicende in cui si trovano sempre i tre amici fino a quando non si accorge che Giacomo si è innamorato di lei. A questo punto decide, con una scusa, di allontanarsi per non mandare all’aria il matrimonio in programma. I tre arriveranno finalmente a destinazione ma dopo, aver preso coscienza di voler radicalmente cambiare la loro vita, decideranno di abbandonare la famosa gamba sul cancello della villa del suocero e quindi di allontanarsi definitivamente dal loro destino nella famiglia Cecconi. Il film, record assoluto di incassi, segno il debutto di Aldo, Giovanni e Giacomo sul grande schermo, dopo che i tre comici si erano fatti già conoscere ed apprezzare dal pubblico in vari corti televisivi. Nel film, da loro curato anche nella regia, i tre funzionano bene come anche le battute, molte delle quali riciclate dai precedenti corti, che, anche se non completamente originali, riescono comunque a suscitare ilarità senza avere troppe pretese e senza mai sfiorare la volgarità. Il colore del meridione ci suggerisce questa ricetta molto mediterranea di un antipasto a base di pesce: insalata di mare colorata.
INGREDIENTI: 6 mazzancolle – 4 calamari piccoli – 4 seppie piccole – 150 grammi di pomodorini – 1 peperone giallo – 1 peperone verde – olio extra vergine d’oliva – prezzemolo – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Lavare i peperoni, tagliarli in fette larghe e cuocerli alla piastra in ghisa per circa 10 minuti. Una volta cotti condirli con olio, sale, pepe e prezzemolo tritato. Tagliare i calamari a listarelle, le seppie a metà e sgusciare le mazzancolle. Fare cuocere il tutto per due minuti in acqua salata, scolare bene e aggiungere il pesce ai peperoni e ai pomodorini tagliati a metà. Condire l’insalata con altro olio, mescolare bene e servire tiepida.
da Gabriella Ricciardi | Nov 22, 2016
Giulia cammina con gli occhi bassi senza un filo di trucco, con una lunga treccia che le oscilla sulle spalle di un vestito castigato. Giulia non sembra appartenere a questo tempo dove ci sono facebook e la rete, e infatti non gli appartiene, perché il suo mondo è la comunità (la setta?) dei Testimoni di Geova e tutto quello che c’è fuori è proibito, pena la disassociazione dal gruppo. Giulia è Sara Serraiocco de La ragazza del mondo, un mondo che si lascia sempre più desiderare nonostante i pericoli che gettarcisi dentro comporta.
La ragazza del mondo è la promettente opera prima di Marco Danieli che getta lo sguardo dentro le stanze del Regno dove la comunità dei Testimoni di Geova si riunisce. Oltre a negare le trasfusioni e ad aver ricevuto più di una volta la fatale scampanellata che te ne annuncia la visita, poco sappiamo del modo che hanno di tenere compatto il loro esercito, minacciato a volte dagli ormoni. Sì perché il film, ispirato a una storia vera, racconta di Giulia, della sua giusta sete di vita, di baci e di desiderio carnale, e che trova in Libero, Michele Riondino, il compagno per aprirsi all’impetuosità di questo desiderio.
La vita di Giulia è regolata dalle adunanze, dal proselitismo, schiacciata da genitori che non le permettono nemmeno di pensarsi all’Università, lei che frequenta un istituto tecnico per ragionieri ed è un vero talento per la matematica. Studiare è coltivare un atteggiamento narcisistico, questo le dice il padre, meglio essere assunte dal mobilificio dove sta già facendo uno stage e scordarsi di farsi stregare dagli algoritmi. Ma Libero, appena uscito di galera per spaccio e a cui Giulia offre un lavoro in azienda, la travolge con la sua fisicità, con la sua scanzonata trasparenza che cozza contro le regole che da sempre le hanno imposto, ma che si fa sempre più strada nel suo sangue.
In un cinema italiano attento a storie che si ambientano tra camera e cucina (mi si passi la spiccia definizione per lo stile del cinema nostrano), il film di Danieli invece riesce a dialogare con un contesto sociale più ampio utilizzando il linguaggio del cinema di genere. Anche se racconta in modo meno convincente la deriva della storia, arrivando, per le vicende che riguardano lo spaccio, a snodi narrativi prevedibili, la personalità di Libero riesce comunque a saldare i distinti mondi, sospeso com’è tra il desiderio di una normalità sentimentale dalle tinte melò e l’appartenenza alla strada.
Scritto molto bene, quasi filologico nell’attenzione ai gesti e ai linguaggi che parlano i vari personaggi rendendoli sempre credibili, si affida a volte (colpevolmente) alla musica come riempitivo per una scena già risolta, come se il cinema da solo non bastasse. Invece le immagini sono “giuste”, serrate nonostante a volte si ripetano. Sullo sfondo una galleria umana che racconta una città sdrucita, disoccupata, lontanissima dalle griffes del centro, davvero dirompente quando arriva Pippo Del Bono, uno degli anziani della comunità, bravissimo nel suo ruolo di controllore viscido e vischioso della morale delle ragazze aderenti ai Testimoni, e guardiano implacabile della coesione della setta. L’atmosfera è soffocante, ma Giulia nonostante qualche incertezza, troverà con coraggio la sua strada, una strada che la porta nel mondo, che ha il sapore della libertà e che imparerà a percorrere da sola.
Sia la Serraiocco che Riondino hanno vinto per le loro interpretazioni il Premio Pasinetti a Venezia, dove La ragazza del mondo era in cartellone alle Giornate, essendo davvero coinvolgenti e credibilissimi. Resta a lungo nello spettatore il passo di questa giovane che dal buio dell’indottrinamento, cerca la luce, percorrendo una città che a poco a poco sarà più sua, una città totalmente priva di smalto e raccontata solo nelle sue strade periferiche che Danieli racconta in modo convincente e senza maniera.
data di pubblicazione:22/11/2016
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da Antonella Massaro | Nov 21, 2016
Una storia di amore e di amicizia tra un artista di strada e un gatto rosso. Una storia sulla forza dei sentimenti. Una storia sulla possibilità di risurrezione e di riscatto.
A spasso con Bob porta sul grande schermo la storia vera di James Bowen, già divenuta famosa per il grande pubblico a seguito del successo dell’omonimo racconto letterario edito da Sperling & Kupfer (titolo originale A Street Cat Named Bob, un milione di copie vendute in Inghilterra e traduzione in in trenta lingue), seguito da altri capitoli della “saga” di James e Bob.
James (Luke Treadaway) ha 27 anni, un passato familiare complicato e un presente segnato dalla dipendenza all’eroina. Si aggrappa con forza alla sua chitarra e alla sua musica, che rappresentano l’unico appiglio in grado di evitare la definitiva caduta nel baratro, tra le viscere delle strade di una Londra capace di trasformarsi in un insidioso percorso a ostacoli per chi è costretto a frugare nella spazzatura pur di svegliarsi la mattina successiva.
Il programma di recupero, il metadone, la solitudine e l’isolamento; poi, finalmente, un’assistente sociale che decide di “scommettere” su James assegnandogli un alloggio popolare. Una finestra lasciata aperta di notte nella sua nuova casa diviene la porta attraverso cui un gatto rosso (il vero Bob, nel ruolo di se stesso) decide di fare irruzione nella vita di James. È affamato, porta sul corpo i segni della strada, non ha una casa: è insomma l’alter ego felino di James.
Le due solitudini si incontrano e si sostengono vicendevolmente. Bob accompagna James nelle sue esibizioni e all’improvviso le strade di Londra divengono più luminose. I passanti sono incuriositi e affascinati dalla strana coppia, le offerte divengono più consistenti, i due nuovi amici possono permettersi una spesa al supermercato che sia degna di questo nome. Bob diviene l’angelo custode di James, che a questo punto trova il coraggio di munirsi di ali per ricambiare il favore. Sia pur con inevitabili difficoltà, James intraprende la via del cambiamento ed esce vittorioso dalla sua battaglia con la vita.
Se si dovesse giudicare A spasso con Bob con il metro esclusivo dell’opera cinematografica, dovrebbe probabilmente rilevarsi il limite di una favola che, sebbene non rinunci alla rappresentazione a volte cruda del dramma della tossicodipendenza, resta troppo spesso in superficie, frenata dalla prevedibilità di certi stereotipi narrativi più vicini alla televisione che al cinema.
Se però si guarda il film di Roger Spottiswoode attraverso il filtro della “storia vera” e, soprattutto, attraverso gli occhi del vero Bob che mostra doti di attore consumato mentre resta saldamente ancorato alle spalle di James e batte il cinque con tenera disinvoltura, allora il giudizio razionale lascia il posto a quello emotivo e A spasso con Bob assume la consistenza di un inno all’amore, alla speranza e alla possibilità di riscatto.
data di pubblicazione: 21/11/2016
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da Antonietta DelMastro | Nov 21, 2016
Ammetto la mia immensa ignoranza; per me la Mongolia era solo Gengis Khan e le cavalcate nei deserti quindi, quando Fahrenheit (Radio RAI3) ha presentato il libro di Ian Manook e la storia del commissario mongolo Yeruldelgger sono stata così incuriosita che non ho potuto fare a meno di iniziare la lettura.
Le indagini che richiedono l’intervento del commissario sono due e proseguono parallelamente. Il rinvenimento dei cadaveri di tre cinesi i cui corpi sono stati oggetto di riti sessuali e il ritrovamento, nel mezzo della steppa, del corpo di una bambina di pochi anni seppellita insieme al suo triciclo.
Il commissario dovrà superare non pochi ostacoli che verranno lasciati sul suo cammino da poliziotti corrotti, magnati stranieri in cerca di facili affari e gruppi neonazisti per portare a termine le sue indagini, nel corso delle quali potrà contare solo su tre persone: la collega ispettrice Oyun, l’anatomopatologa Solongo, e Gantulga un ragazzino di strada che si rivelerà essere di una furbizia e di un valore assoluto.
Nel corso delle 524 pagine scopriremo un commissario burbero, chiuso, che mal sopporta l’autorità, che va dritto per la sua strada senza chiedere permesso a nessuno e senza paura delle conseguenze, che ha un passato di intense sofferenze e un futuro che non promette nulla di buono …
L’ambientazione del libro è spettacolare!
Manook descrive una steppa traboccante di fascino, immensa, silenziosa, eterna con le usanze e tradizioni di cui è pervasa: la benedizione dei viaggiatori che avviene spargendo alle loro spalle latte verso i quattro punti cardinali, i suoi cibi, su tutti il boodog, il tè salato con latte di yak e burro di cui è goloso Yeruldelgger, le yurta, abitazioni dei nomadi descritte minuziosamente fin nel modo in cui la tradizione vuole che ci si muova al loro interno.
Con il commissario entriamo nel monastero buddista di Yelintey e poi nella capitale della Mongolia, Ulan Bator, quasi irrimediabilmente corrotta, sfregiata dai vecchi squallidi e grigi palazzoni senz’anima dell’edilizia sovietica, invasa dal traffico, con nuovi cantieri che nulla hanno a che vedere con la cultura mongola, con i tanti disperati che la abitano.
Sono rimasta affascinata dalla Mongolia di questo libro, assolutamente, totalmente, innegabilmente affascinata.
Purtroppo non posso dire altrettanto della trama che ho trovato per alcuni versi un po’ farraginosa, in alcuni punti scontata e in altri forzata. Alcune descrizioni sono state esageratamente crude e violente e, la fine inevitabilmente scontata e dal sapore esageratamente buonista.
Ci sarà un seguito e so già da ora che lo leggerò per potermi nuovamente immergere nei venti della steppa: speriamo che la trama migliori così da potermi affezionare anche alle storie.
data di pubblicazione: 21/11/2016
da Alessandro Rosi | Nov 19, 2016
(Teatro San Genesio – Roma, 15/20 Novembre 2016)
Una concatenazione di bizzarri eventi, si trasforma in una burrascosa giornata dai risvolti divertenti.
In un tranquillo villino di Londra rivestito da lucenti mattoncini rossi, Tom e Linda sono in apprensione per l’incontro con l’assistente sociale, decisivo per l’adozione del loro primo figlio. Mentre Tom predica calma, Linda è in ansia e non riesce a trovare pace. A render ancor più tesa la situazione ci penseranno i fratelli di Tom: il perdigiorno Dick, capace solo di cimentarsi nel contrabbando di sigarette o di tentare buffi affari (come quello del vin agre: comprato credendo fosse vino pregiato per venderlo a prezzo raddoppiato!), e il modesto Harry, portantino in ospedale che cercherà – in modo molto particolare – di rendersi utile.
La situazione sfuggirà ben presto di mano a Tom, che, per coprire i guai innescati dai fratelli minori, si ritroverà invischiato in una serie di malintesi e menzogne. Incomprensioni che si aggroviglieranno fino a formare un’enorme matassa inestricabile, mettendo infine Tom con le spalle al muro. Ma quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, un’inaspettata sorpresa farà esplodere di felicità la coppia.
A Emilia Miscio va il merito di aver portato in scena, per la prima volta in Italia, la recente opera di Ray e Michael Cooney. Il testo dei maestri inglesi lambisce temi attuali come l’immigrazione, l’adozione, il reality show, con una spensieratezza tale da controbilanciare i toni, spesso sprezzanti, usati nel quotidiano. Contribuisce a rendere sereno il clima l’atmosfera familiare che si respira in sala; un teatro dove ci si sente a proprio agio: spesso persone dal pubblico si pongono domande a voce alta o precedono le battute degli attori, oppure inneggiano e acclamano il loro beniamino.
Se la messinscena ha un ritmo allegro, frizzante e incalzante, la divisione in due atti – e l’eccessiva durata – velano la leggerezza e l’ironia raggiunta durante la rappresentazione.
Una commedia ridanciana, dove si cerca con il paradosso (anche se talvolta esasperato) di intrattenere il pubblico.
E se il colmo per un altoparlante è sentirsi male, con questo adattamento si rischia si star male per le risate!
data di pubblicazione:19/11/2016
Il nostro voto:
da T. Pica | Nov 18, 2016
(Teatro Ambra Jovinelli – Roma 17/27 novembre 2016)
Nella deliziosa cornice del Teatro Ambra Jovinelli il tempo torna vertiginosamente indietro fino alla mattinata del 17 febbraio 1939. Ricalcando la Hollywood dei set e delle case di produzione recentemente portata sul grande schermo dai fratelli Coen e Woody Allen, rispettivamente con Ave, Cesare! e Cafè Society, Virginia Acqua porta sul palcoscenico teatrale l’ufficio dorato di David O. Selznick (un irresistibile Antonio Catania), Presidente della casa di produzione Selznick che sta lavorando alla realizzazione del più grande colossal di tutti i tempi: Via col vento.
Purtroppo però la situazione è critica, disperata, perché “Mr. Selznick”, dopo due anni di preparazione al film, non è soddisfatto né del regista, né della sceneggiatura e ha bloccato tutto. Mr. Selznick, allora, tenta il tutto per tutto: l’unico modo per risalire il baratro e scongiurare il fallimento economico e, soprattutto, il suo ritorno sotto le grinfie lavorative del suocero (Mr. Mayer) è quello di affidare la sceneggiatura al suo amico di sempre Ben Hecht (un bravissimo Gianluca Ramazzotti) e la regia a Victor Fleming (spassoso Gigio Alberti). Dalla convocazione di Hecht e Fleming alle 6 del mattino del 17 febbraio 1939, Mr. Selznick ricorrerà all’espediente di un vero e proprio sequestro di persona, a base di arachidi e banane – perché ormai è labile il confine tra la sua appassionata voglia di realizzazione del film, di riscatto morale e sociale verso il padre, il suocero, la moglie e i soci del Country Club, da un lato, è l’analoga ardente sete di riscatto della protagonista del romanzo, Rossella O’Hara, dall’altro -, per riuscire nell’impresa impossibile di avere nell’arco di soli 5 giorni la sceneggiatura di Hecht pronta per l’avvio delle riprese sul set sotto la direzione di Fleming. Virginia Acqua, anche grazie alla bravura, la simpatia e la mimica esilarante del fantastico trio “Catania-Ramazzotti-Alberti”, nonché dell’impeccabile Paola Giannetti (nel ruolo della efficiente e premurosa segretaria di Mr. Selznick), ha messo in scena uno spettacolo davvero ben fatto, che riporta fedelmente i dialoghi del libro di Ron Hutchinson. Uno spettacolo, ironico, a tratti comico, dal ritmo incalzante, spassoso seppure fortemente legato agli anni dei bagliori della guerra in Europa. Dal libro e dalla rappresentazione teatrale, di Hollywood riemergono alcuni topos mai tramontati e che a quanto pare non sono una peculiarità dei nostri tempi moderni: l’annoso problema dei finanziamenti nel mondo dell’arte, e in questo caso di quello del Cinema; il “duello” tra le diverse professioni – regista, sceneggiatore, produttore -, chi è che conta davvero, chi conta più dell’altro e muove davvero il cuore pulsante del cinema? E, ancora, lo scontro tra chi persegue il profitto e vuole realizzare film che raccontano storie, romanzi – come Selznick – e chi, come lo sceneggiatore Hecth vorrebbe incentivare la diffusione di un cinema più impegnato, che racconta la vita reale, per aiutare gli americani a capire chi siano realmente ed evitare che siano come quegli uomini descritti da Platone come coloro che vivevano guardano le proprie ombre riflesse sul muro. Ma poi perché tutti vogliono fare il cinema? per i soldi? Per la fama? No. Semplicemente perché è l’unico modo per essere immortali. Tra i pregi di questa pièce c’è sicuramente quella di sdoganare con la giusta ironia e comicità il melodramma per eccellenza di Via col vento (rendendolo ad esempio più simpatico a chi come me non ne è mai stata una fan) e, soprattutto, quello di regalare una lettura attenta e profonda del romanzo che diviene al contempo chiave di lettura e spunto di riflessione su tematiche sociali, storiche e cinematografiche ancora fortemente attuali. Il tutto sugellato dal “gran finale”: 1037 pagine del romanzo per poi sapere solo che domani è un altro giorno????;e la chicca di conoscere come nacque la famosissima battuta “francamente me ne infischio”. Insomma, da vedere!
data di pubblicazione:18/11/2016
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Nov 17, 2016
Una coppia affascinante e di successo, l’ex marito di lei ed un misterioso manoscritto, sono gli ingredienti con cui Tom Ford costruisce un vero e proprio thriller, in cui la fantasia diviene metafora della realtà, ed in cui l’amore si mescola con il dolore di un addio, nella consapevolezza di aver perso qualcosa di importante per non aver saputo attendere.
Susan ed Edward sono una giovane coppia: molto diversi tra loro, ma leali, idealisti, innamorati. Lei pragmatica, esigente, con le idee molto chiare su cosa vuole diventare nella vita; lui scrittore in erba, sognatore, romantico, con una sensibilità che può essere intesa come debolezza; entrambi hanno tempi molto diversi nel mordere la vita. Dopo solo due anni di matrimonio, Susan decide di lasciare Edward preferendolo ad Hutton Morrow, uomo affascinante e di successo che le garantirà una vita agiata ma infelice. Susan ed Edward non si incontreranno più per 19 anni sino a quando un giorno la donna riceve un manoscritto a lei dedicato: è la copia di un romanzo dal titolo “Nocturnal Animals” dello stesso Edward con un biglietto in cui l’uomo le esprime il desiderio che sia proprio lei la prima a leggerlo. Nel farlo, Susan scoprirà una storia cupa, violenta e dolorosa che la riguarda direttamente il cui contenuto da un lato le farà affiorare i ricordi dei momenti più intimi della loro unione, e dall’altro ne turberà le notti abitualmente insonni da “animale notturno”.
Da questo momento la narrazione del romanzo si insinua nella realtà, dando vita a due storie parallele altrettanto realistiche, seppure una sia una rilettura del vissuto di Edward con Susan, che la donna rivivrà, ogni notte, sino all’epilogo ancora sconosciuto contenuto nel romanzo. Tom Ford cura, di questa sua seconda pellicola, anche la sceneggiatura rendendola accattivante, ritmata, incalzante, supportata da una ricerca estetica (come ci aveva già abituati in A single man), che è parte integrante della narrazione stessa, con inquadrature che sono delle vere e proprie installazioni d’arte contemporanea, anche nella descrizione delle scene più brutali. La performance iniziale, ambientata in una contemporaneità in cui l’immaginario si innesca nel reale, sconquassando le convenzioni in cui nessuno può più dirci come essere, è un autentico capolavoro. Appare dominante nel film l’uso del colore rosso, fortemente voluto dal regista: lo troviamo negli arredi, nel velluto di un divano che ospita due corpi nudi, nei particolari di molte scene, nei capelli delle donne, e persino, pare, sulla carta su cui è stato scritto il copione spedito al cast.
Bravissimi gli interpreti principali Amy Adams e Jake Gyllenhaal, anche se una nota di merito va decisamente ad Aaron Taylor-Johnson nel ruolo dello psicopatico Ray Marcus.
Animali notturni, premiato a Venezia 73. con il Gran Premio della Giuria presieduta da Sam Mendes, è un film che racconta un modo diverso di sentire l’amore e sul sapersi dire addio, quando ci si accorge che si è buttata via un’opportunità, forse l’unica, perché non si è stati capaci di coglierla.
data di pubblicazione:17/11/2016
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da Accreditati | Nov 17, 2016
La professoressa di storia moderna dell’ebraismo Deborah Lipstadt accusa in un suo libro lo storico e saggista britannico David Irvin perché sostenitore di tesi che negano l’Olocausto. Irvin la cita in giudizio per diffamazione ma, secondo il sistema legale inglese, spetta all’imputato l’onere della prova.
Il termine inglese denial indica, nel film omonimo diretto dal regista e produttore televisivo Mick Jackson arrivato nelle nostre sale con il titolo La verità negata, colui che nega l’evidenza dei fatti o, come meglio lo definisce la protagonista, un negazionista. La professoressa americana Deborah Lipstadt (Rachel Weisz), parlando in uno dei suoi libri sullo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, si scaglia contro lo storico David Irvin (Timothy Spall) che sostiene apertamente la tesi che l’Olocausto sia tutta una invenzione ideata da Israele per ricavarne vantaggi economici e politici. Irvin intenta contro la Lipstadt una causa per diffamazione che verrà sottoposta al giudizio di una corte inglese: la particolarità del sistema giudiziario inglese è che l’onere della prova non è, come in America, a carico dell’attore che promuove la causa bensì a carico della parte convenuta. Dunque, Deborah Lipstadt si troverà a dover dimostrare l’infondatezza delle accuse per diffamazione non mediante la prova della verità dei fatti narrati nel proprio libro, bensì mediante la prova degli errori commessi dal negazionista Irvin. Per riuscire nell’impresa, verrà sostenuta dal famoso avvocato Julius, tra i migliori di tutta la City, e dal suo team, la cui strategia difensiva, estremamente accurata e lungimirante, non poggerà sulla schiacciante prova testimoniale dei sopravvissuti allo sterminio di Auschwitz.
La verità negata è un thriller giudiziario che, seppur presenti nella sceneggiatura dei punti di debolezza, si avvale di un buon cast e tratta molto bene il profilo legale e processuale del contenzioso in materia di diffamazione, tema che rende la pellicola particolarmente interessante ed intrigante: senza ricorrere a troppi colpi di scena o ad immagini capaci di sorprendere, il film coinvolge per due ore senza annoiare. Il processo (che realmente durò otto settimane), riesce infatti a calamitare lo spettatore tenendolo abilmente ed alquanto “incredibilmente” con il fiato sospeso, a causa di una palmare incertezza dell’esito che trapela dal volto imperscrutabile del Giudice designato e da alcuni sue inaspettate osservazioni rese in occasione dell’ultima arringa.
Ci troviamo di fronte ad una storia vera come è pur vero, purtroppo, che esistono ancora oggi diversi gruppi estremisti antisemiti che, in quanto negazionisti, affermano il contrario di quanto perpetuato nei lager.
data di pubblicazione:17/11/2016
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