QUALCOSA, LÀ FUORI di Bruno Arpaia – Guanda, 2016

QUALCOSA, LÀ FUORI di Bruno Arpaia – Guanda, 2016

Romanzo sulle conseguenze del cambiamento climatico e con una visione “particolare” dell’immigrazione, poiché in questo romanzo i migranti siamo noi…!

Dovremmo leggerlo tutti e riflettere su quando ha scritto Bruno Arpaia: il cambiamento climatico, che è già in atto da anni, interessa tutti noi e non può (e non deve) essere solo argomento da salotto perché le sue conseguenze potrebbero essere inarrestabili e devastanti.

La scenografia sembra quella di Mad Max, un futuro distopico con pianure desertificate, fiumi secchi, acqua esaurita; l’Europa e il mondo intero sono stati devastati dalle conseguenza del mutamento climatico. In questo scenario si muove una colonna di “migranti”, uomini, donne, bambini che hanno pagato tutti i loro averi per affidare le loro vite in mano a novelli “scafisti” per intraprendere il viaggio della speranza che dovrebbe portarli verso la Scandinavia che, insieme alle altre zone del circolo polare artico, è tra i pochi luoghi ormai accoglienti per la vita dell’uomo.

Attore principale Livio Delmastro, anziano professore di neuroscienze; il suo viaggio nella realtà post-apocalittica viene interrotta da angosciosi flashback che ci narrano sia la sua storia personale sia le scelte ottuse della politica internazionale, troppo incentrata sulla difesa dei propri interessi egoistici, che hanno portato a oltrepassare il punto di non ritorno.

In questo preoccupante scenario Arpaia ci regala momenti di umanità in cui Livio, benché estremamente spossato, ogni sera dedica del tempo a impartire lezioni ai bambini che si lasciano cullare nel ricordo di quello che era, e si distraggono da quello che è. Una realtà in cui, benché le condizioni di tutti siano precarie, si cerca di non lasciare indietro i più deboli, i vecchi, i malati, una realtà in cui si è capaci di provare ancora amore e affetto, e fino all’ultimo alito di vita si pensa al prossimo.

Perché l’umanità che contraddistingue l’uomo non si spegne, neanche nei momenti più bui.

data di pubblicazione:11/12/2016

IO SONO LI di Andrea Segre, 2011

IO SONO LI di Andrea Segre, 2011

Shun Li (Zhao Tao) è una immigrata cinese che lavora in una fabbrica tessile facendo turni massacranti pur di ripagare il suo debito e poter far venire in Italia suo figlio rimasto intanto in Cina. Trasferitasi a Chioggia, inizia a lavorare come barista in una osteria frequentata essenzialmente da vecchi pescatori, dove, dopo un periodo di sbandamento a causa della poco padronanza della lingua, farà amicizia con un uomo da tutti chiamato il Poeta (Rade Serbedzija). Li inizierà con lui, immigrato dalla Jugoslavia molti anni prima, una intensa relazione che non troverà approvazione né da parte degli italiani né da parte dei cinesi. Per non compromettere la possibilità di far arrivare suo figlio, Li interrompe bruscamente la relazione con il Poeta e va a lavorare in una fabbrica. Con grande gioia un giorno la donna verrà arrivare improvvisamente suo figlio dalla Cina e subito pensa che sia stato il Poeta ad aiutarla segretamente. Il film che nasce da una storia vera, affronta anche metaforicamente il problema  dell’integrazione degli immigrati attraverso il racconto di come vivono e pensano. Ambientato quindi in luoghi reali e con personaggi reali, il film sviluppa un linguaggio tutto proprio attingendo proprio dal genere documentario anche per la scelta linguistica, dal momento che viene utilizzato il dialetto di Chioggia. Presentato alla 68° edizione del Festival del Cinema di Venezia, ottenne un premio secondario proprio per la delicatezza dell’argomento trattato, nonché altri premi internazionali e infine anche un David di Donatello a Zhao Tao, quale migliore attrice protagonista. Pur ambientato tra i vecchi pescatori veneti, il film ci suggerisce una ricetta dal tocco un poco cinese in quanto si tratta di un filetto di maiale in agrodolce.

INGREDIENTI: 600 grammi circa di filetto di maiale – 2 radicchi trevigiani  – 40 grammi di burro – ½ bicchiere di vino bianco – 1 cipolla bianca  – 50 grammi di burro  – 3 spicchi d’aglio –  una spruzzata di aceto bianco – 1 cucchiaio di miele d’acacia – una manciata di uvetta – 1 rametto di rosmarino e 4 foglie di salvia – due cucchiai d’olio extravergine d’oliva – sale e pepe qb.

PROCEDIMENTO: Lavare il radicchio, eliminare la parte dura e tagliarlo a spicchi molto sottili. Tritare la cipolla e stufarla in una casseruola con l’olio. Unire quindi il radicchio, aggiungere il miele e quando inizia a caramellare spruzzare l’aceto. Fare sfumare bene, salare e pepare, quindi aggiungere l’uvetta precedentemente ammollata a fare cuocere il tutto a fiamma bassa per circa 6 minuti. Intanto salare e pepare bene il filetto e rosolarlo bene in una casseruola con il burro, l’aglio in camicia schiacciato. Sfumare poi con il vino ed aggiungere il rosmarino intero a la salvia sminuzzata. Fare cuocere per circa 8 minuti rigirando spesso la carne. Fare riposare un paio di minuti ed affettare il maiale che verrà servito con il radicchio brasato.

È SOLO LA FINE DEL MONDO di Xavier Dolan, 2016

È SOLO LA FINE DEL MONDO di Xavier Dolan, 2016

Louis è gravemente malato e per questo decide di far visita alla sua famiglia, che non vede da circa dodici anni. Il suo ritorno a casa turberà un equilibrio che forse non è mai esistito.

“Un po’ di tempo fa, da qualche parte”, Louis (Gaspard Ulliel), scrittore teatrale giovane e talentuoso, sale su un aereo per fare ritorno a casa. Gli resta poco da vivere e vuole incontrare la sua famiglia, che non vede da dodici anni, per dare l’annuncio della sua morte e per avere l’impressione di essere padrone, fino alla fine, della propria vita.

Durante la sua lontananza Louis ha mandato segnali attraverso puntuali ma scarne cartoline, infarcite di quelle che a casa chiamano “frasi ellittiche”: brevi parole di circostanza, che anche i postini possono leggere e che non comunicano nient’altro se non l’assenza di chi le scrive.

Il ritorno a casa del “figliol prodigo” viene accolto con un misto di strabordante eccitazione e di malcelato risentimento. Louis si vedrà costretto ad affrontare veri e propri duelli, verbali ed emotivi, con ciascuno dei suoi familiari, desiderosi di scendere nell’arena con lui per un chiarimento, per ricordare insieme il passato, per carpire dalle sue scarse parole e dal suo sorrisetto enigmatico cosa accadrà nel futuro, o anche solo per abbracciarlo.

La madre Martine (Nathalie Baye), il fratello Antoine (Vincet Cassel), la sorella Suzanne (Léa Seydoux), la cognata Catherine (Marion Cotillard): tutti avrebbero qualcosa da dire, ma nessuno riesce né a parlare né ad ascoltare, perché, forse, nessuno è realmente capace né di parlare né di ascoltare. Le parole si susseguono con un ritmo a metà strada tra l’isterico e il bulimico e le urla lasciano uno strascico di incolmabile silenzio tra chi pare legato solo da un sia pur incancellabile vincolo di sangue.

Basato sull’omonima piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce, il nuovo film dell’enfant prodige Xavier Dolan, già incoronato con il Grand Prix a Cannes 2016 e in corsa come miglior film straniero per gli Oscar 2017, resta forse leggermente al di sotto delle aspettative. È indubbiamente un film sull’incomunicabilità e sull’incomprensione, che tuttavia risultano esasperate a tal punto da coinvolgere anche lo spettatore, avvolto da un vortice di dialoghi che rischiano di sfiorare in più punti un livello di pericolosa stucchevolezza. Anche gli intermezzi affidati ai flash back, relativi alle domeniche che la famiglia ancora felice era solita trascorrere insieme o all’adolescenza tumultuosa di Louis, si arrestano spesso al livello del banale “già visto”.

La regia, prodiga di primi e primissimi piani che scavano dentro i personaggi, e la fotografia, pronta a sottolineare efficacemente alcune delle più significative svolte narrative, sono ovviamente impeccabili. Così come convincente risultano tanto il cast, già strepitoso “sulla carta”, quanto la sempre adeguata colonna sonora.

L’inquadratura del “faccia a faccia” tra madre e figlio, però, che rievoca quello celebre di Mommy, non riesce ad andare oltre la suggestione estetica rispetto a un film dotato di ben altro spessore emotivo e narrativo.

Data di pubblicazione: 9/12/2016


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FABRIQUE DU CINÉMA – Seconda edizione

FABRIQUE DU CINÉMA – Seconda edizione

(Spazio900 – Roma, 7 dicembre 2016)

In occasione della pubblicazione del numero 16 dell’editoriale trimestrale Fabrique du Cinéma – la carta stampata del nuovo cinema italiano (presente anche sul web fabriqueducinema.com), si è celebrata la serata del secondo Premio Fabrique du Cinéma presso gli eterei ed eleganti spazi di Spazio900, nel quartiere Eur di Roma, impreziositi dall’esposizione delle foto e dei lavori grafici di: Philippe Antonello e Stefano Montsi, con un progetto 3D; Martina Mammola e Simone Ferraro con il lavoro di artwork grafici “Les yeux De L’avenir”; Arianna Lanzusi con il suo “Progetto Cuba” e Adamo Pinto con il lavoro “Landscape”. La squadra che lavora con passione e dedizione nel progetto della rivista Fabrique du Cinéma – guidata da Davide Manca (direttore artistico), Elena Mazzocchi (direttore editoriale) e Ilaria Ravarino (direttore responsabile) – promuove i giovani talenti esordienti del cinema, italiano in primis ma anche internazionale, inteso nella complessità di professioni, arti e mestieri che si racchiudono, amalgamano e nascondono dietro la parola “CINEMA” e dietro il grande schermo.

L’Editoriale è davvero interessante e ben fatto: 73 pagine – connotate da quell’inconfondibile odore della carta dei libri e quaderni di quando eravamo bambini – in cui si alternano speciali, interviste, foto, curiosità su concorsi, premi e i dietro le quinte di giovani attori, registi, sceneggiatori e tecnici del cinema e del teatro. Il tutto con un occhio di riguardo sempre attento anche alla musica, riconosciuta come “attrice” determinante delle opere audiovisive, e all’arte come il bel pezzo “I classici e le pupazze” con i disegni davvero belli di Rita Petruccioli.

Dopo la prima edizione del Premio Fabrique du Cinéma del 2015 – che ha visto trionfare Miriam Leone come attrice rivelazione, Alessandro Borghi come attore rivelazione, Piero Messina per la categoria miglior opera prima, Matteo Garrone per la miglior opera innovativa e sperimentale e Federico Zampaglione per il miglior tema musicale -, nella seconda edizione la Giura, composta da Alessandro Borghi, Ivan Carlei, Valentina Lodovini, Piero Messina e Federico Zampaglione, ha assegnato il Premio “Miglior Opera Innovativa e Sperimentale” a Mine di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro; il Premio “Migliore Opera Prima” a La ragazza del mondo di Marco Danieli; Premio “Migliore attrice rivelazione” a Matilde De Angelis per il film Veloce come il vento di Matteo Rovere; Premio “Migliore attore rivelazione” ad Alessandro Sperduti e, infine, il Premio “Miglior tema musicale” a Teho Teardo per il film La verità sta in cielo di Roberto Faenza. Durante la serata sono stati proiettati in anteprima i cortometraggi Oggi offro io di Valerio Groppa e Alessandro Tresi – con un cast d’eccezione composto da Enzo Iacchetti, Icio de Romedis, Giobbe Covatta, Marco Balbi, Corrado Tedeschi, Giacomo Ciccio Valenti e Lucia Vasini -; Uomo in mare di Emanuele Palamara con protagonista Marco D’Amore; Ratzinger è tornato di Valerio Vestoso e la serie web Generation N – con compagna crowdfunding in fase finale per la realizzazione dell’episodio pilota – e Unisex serie web di Francesca Marino. Dopo le proiezioni e le consegne dei Premi Fabrique la serata è proseguita dando ampio spazio alla musica con le performance live di Joe Victor Double Trouble e di Wrongonyou (alias Marco Zitelli, giovane musicista romano autore di musica rock folk davvero bravo!).

Una bella serata che lascia ulteriormente ben sperare sia per il giovane cinema e teatro italiano – e per i giovani musicisti nostrani -, sia per gli “affamati” appassionati di cinema che come noi adorano leggere di arte e cinema sfogliando la carta stampata!

Data di pubblicazione: 8/12/2016

 

CAPTAIN FANTASTIC di Matt Ross, 2016

CAPTAIN FANTASTIC di Matt Ross, 2016

Una storia in bilico tra utopia e realtà. Una riflessione sul valore della famiglia e su quello della scoperta. Un film colorato ed eccentrico, capace di emozionare e far riflettere.

Negli alti e fitti boschi del Nord America, in una capanna in legno con annessa serra, vive da 10 anni un padre – Ben Cash (interpretato da Viggo Mortensen), con i suoi 6 figli, mentre la mamma – Leslie – è ricoverata da qualche mese in una casa di cura  per  un disturbo bipolare della personalità.

Tra pericolose arrampicate sulle rocce e allenamenti fisici impegnativi, come fossero soldati delle forze speciali, tra cacce al cervo armati di affilati coltelli, cene rischiarate dalla luce del fuoco, allietate da letture di classici e dalla gioia di fare musica insieme suonando chitarre ed armoniche, Ben – che non ha nulla del supereroe come ricorda il titolo, ma evoca piuttosto il capitano mio capitano – si prende cura amorevolmente dell’animo e della mente dei suoi ragazzi impartendo loro un’educazione rigorosa che li possa rendere delle persone speciali.

La morte della mamma tuttavia lo costringe a lasciare quell’eden, tenacemente costruito, e ad affrontare un viaggio con i suoi figli sul loro magnifico bus/caravan/biblioteca.

Durante questo viaggio nel mondo esterno dove i ragazzi scopriranno che “Nike” non è solo una dea greca ma più note scarpe o che un pollo si può comprare già pronto al supermercato, dove senza smartphone o Xbox, ma accompagnati dalla consapevolezza di loro stessi, capiranno anche che la vita è … scoprire gli altri.

Il film fa riflettere su cosa significhi essere genitore, sull’abnegazione che spesso porta con sé e su quanto questa sia davvero un bene per i nostri figli.

Film colorato ed eccentrico che fa pensare ed emozionare.

Captain Fantastic è stato il vincitore del premio del pubblico BNL nell’ 11^ Festa del cinema di Roma.

data di pubblicazione:8/12/2016


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IL CITTADINO ILLUSTRE di Gastón Duprat e Mariano Cohn, 2016

IL CITTADINO ILLUSTRE di Gastón Duprat e Mariano Cohn, 2016

Daniel Mantovani, premio Nobel per la letteratura, decide di tornare dopo quarant’anni nel piccolo paese Argentino in cui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Anche uno scrittore di successo come lui sarà costretto ad arrendersi alla tanto banale quanto inconfutabile evidenza per cui “ancora una volta la realtà supera la fantasia”.

Daniel Mantovani (Oscar Martínez, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Venezia 73) è uno scrittore argentino che ha scelto di abbandonare il suo piccolo e provinciale paese di origine in Argentina e ha coltivato in Europa la passione per la scrittura. Giunge persino a tagliare il traguardo del premio Nobel per la letteratura. Il suo discorso a Stoccolma è quello di un intellettuale che crede nell’arte come fattore di “disturbo” e di contestazione, ma che non può fare a meno di provare un appagante e narcisistico orgoglio per aver conseguito uno dei massimi riconoscimenti a livello mondiale.

Daniel riceve decine di prestigiosi inviti da ogni parte del mondo, che non ha alcuna intenzione di accettare o di onorare una volta accettati. Uno di quegli inviti, tuttavia, ha un sapore differente. Arriva attraverso “una lettera di carta” e il mittente è proprio il Sindaco di Salas, il suo paese natio, che vorrebbe ospitarlo per conferirgli l’onorificenza di “cittadino illustre”, il più alto titolo che la piccola comunità possa attribuire a uno dei suoi componenti.

Si tratta del luogo in cui Daniel ha ambientato tutte le sue opere letterarie, quel paese da cui i suoi personaggi non hanno mai avuto il coraggio di andar via e in cui lui non ha mai trovato, in quarant’anni, il coraggio di tornare. Dopo qualche indecisione, decide di salire su un aereo per l’Argentina. Da solo. Forse per ritrovare l’ispirazione che sembra appannata. Forse per regolare i conti con il passato. O forse con il solo scopo di non avere scopo alcuno.

Arrivato a destinazione, lo scrittore si vede ben presto costretto a scendere dall’Olimpo dei vezzi e delle richieste da star, per mescolarsi alla “gente comune”, ai loro ritmi, alle loro manifestazioni culturali (o pretese tali), alle cerimonie di dubbio gusto, alla curiosità “da telefonino”, agli alberghi che sembrano usciti da un film rumeno e che non dispongono di un letto con materasso in lattice.

La morale ha il sapore di un intramontabile luogo comune: la realtà supera sempre ogni più fervida fantasia. Senza contare che (altro topos sufficientemente esplorato dal cinema e dalla letteratura) non sempre la “gente rustica di campagna” è depositaria della rassicurante genuinità di valori incontaminati, posto che le comunità ristrette e lontane dalla rutilante corruzione cittadina possono rappresentare un nido in grado di proteggere, ma anche una trappola capace di soffocare.

Il film di Duprat e Cohn, però, è in grado di cogliere il senso più profondo di questi luoghi comuni. I toni narrativi si muovono lungo una pluralità di registri sempre sapientemente amalgamati, che restituiscono in maniera efficace la complessità del personaggio interpretato da Oscar Martínez: un cinico che cede ai buoni sentimenti, un artista travagliato che guarda con favore alla rassicurante quotidianità della gente “normale”, uno scrittore che vorrebbe cambiare la realtà ma che in quella realtà finisce per rimanere intrappolato. Persino la gente di Salas fatica a distinguere i personaggi dei romanzi di Mantovani dai loro concittadini, rendendo fitta e appassionante la trama in cui diviene sempre più complicato tracciare una marcata linea di confine tra l’immaginazione e il reale.

Il cittadino illustre è il film scelto dall’Argentina per la corsa all’Oscar come miglior film straniero.

Data di pubblicazione: 7/12/2016


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BORDERLIFE di Dorit Rabinyan – Longanesi, 2016

BORDERLIFE di Dorit Rabinyan – Longanesi, 2016

Un libro che ha fatto molto scalpore in Israele. La decisioni di escluderlo dai programmi scolastici dei licei, perché avrebbe potuto “minare le identità separate di ebrei e arabi”, ha di fatto reso il volume un vero caso editoriale con un boom di vendite che nessuno si sarebbe potuto aspettare.

A New York è il secondo autunno senza le Torri; due ragazzi si incontrano e si innamorano.

Lei è Liat, una ragazza di Tel Aviv, figlia di ebrei iraniani, a NY con una borsa di studio; i suoi tratti, nella NY ferita e ancora sotto shock, la classificano come una “mediorientale” e quindi persona sospetta, tanto che l’FBI riceverà una segnalazione e si presenterà alla sua porta per verificare le sue credenziali.

Lui è Hilmi, un ragazzo di Ramallah che ha passato 4 mesi in carcere in Israele per aver disegnato delle bandiere palestinesi sui muri, ed è a NY per dipingere; molti dei suoi quadri rappresentano sempre lo stesso soggetto, un bambino che sogna il mare.

I due giovani si incontrano in modo fortuito: Liat ha un appuntamento con un amico che, impossibilitato ad avvertirla di un contrattempo, manderà al suo posto Hilmi.

È così che si conoscono, ed è così che piano piano inizia tra loro qualcosa di più di una semplice amicizia, qualche cosa che, tra mostre, feste e la paura di Liat che qualcuno possa vederli e avvisare la sua famiglia, sfocerà in amore.

Un “amore a tempo”, un amore con una data di scadenza quella che, come una scatola di corn flakes, è impressa sul biglietto che riporterà Liat a Tel Aviv.

Sono tutti e due consapevoli che non esiste un futuro comune per loro due.

Sono uniti dall’amore per la stessa terra, si scaldano nella gelida e nevosa primavera newyorchese al ricordo del loro caldo sole levantino, Liat parla con nostalgia del suo mare e Hilmi ascolta affascinato, perché il suo sogno è quello di poter vivere in riva a quel mare.

E quello stesso amore li separa. I continui tentativi di trovare una soluzione che possa far convivere sulla stessa amata terra due popoli che si odiano da decenni portano con sé solo litigi e discussioni.

Tra fasi alterne la loro storia va avanti fin quasi alla fine di maggio, quando Liat torna a Tel Aviv e Hilmi rientra a Ramallah per trascorrere l’estate. Fin quando, in un pomeriggio estivo, il fratello di Hilmi non telefonerà a Liat…

Leggendo questo libro si ha l’impressione di guardare un album fotografico, tante immagini si presentano ai nostri occhi e forse rallentano un poco il corso della storia così come i troppi flashback che distraggono la nostra attenzione dalla storia principale; i personaggio sono costruiti e descritti egregiamente e i sentimenti che scaturiscono dal confronto di Lilat e Hilmi, dal confronto delle loro culture, dall’appartenenza a due popoli in lotta, ne fanno un libro che va assolutamente letto.

data di pubblicazione:04/12/2016

SULLY di Clint Eastwood, 2016

SULLY di Clint Eastwood, 2016

Il Comandante Chesley “Sully” Sullenberger è alla guida di Airbus della “Us Airway”, che, appena dopo il decollo, perde entrambi i motori. Compiendo una manovra apparentemente folle e temeraria, realizza un ammaraggio sul fiume Hudson, portando in salvo le 155 persone a bordo del suo aereo. Sully è un eroe o solo un pilota sconsiderato? 

 

Dopo il controverso e discusso American Sniper, Clint Eastwood torna a celebrare le glorie di “un comune eroe americano”, mescolando elementi del biopic e quelli del disaster film.

La storia raccontata da Sully è tratta da un episodio reale, balzato prepotentemente agli onori della cronaca qualche anno fa.

Il 15 gennaio 2009 un Airbus della “Us Airway” decolla dall’aeroporto La Guardia di New York con 155 persone a bordo. Un bird strike (l’impatto con uno stormo di uccelli) determina il repentino spegnimento di entrambi i motori. Nei pochi secondi che segnano il confine tra la vita e la morte, il Comandante Chesley “Sully” Sullenberger (Tom Hanks), assistito dal suo copilota Jeffrey Skiles (Aaron Eckhart), decide di tentare l’impossibile: una manovra di ammaraggio sul fiume Hudson. L’esito della manovra tanto spettacolare quanto priva di precedenti assume il sapore del miracolo: tutti riescono a mettersi in salvo, anche grazie a un’efficiente macchina dei soccorsi attivatasi in tempi rapidi per strappare i passeggeri dalla morsa delle acque quasi ghiacciate.

Mentre la gente “comune” celebrano il suo “eroe”, si apre però un’indagine interna alla National Transportation Safety Board (NTSB), volta ad accertare possibili responsabilità di Sully per aver messo inutilmente a rischio la vita dei passeggeri e del resto dell’equipaggio attraverso una manovra d’emergenza a dir poco temeraria.

Anche la sfida raccolta da Clint Eastwood con Sully non era certo dall’esito scontato: il miracoloso ammaraggio dell’Hudson è una storia già conosciuta al grande pubblico, che lascia ben poco spazio a divagazioni di tipo narrativo. Sembra però che Eastwood abbia vinto la sfida. I lunghissimi minuti trascorsi in cabina sono raccontanti da prospettive differenti, restituendo pienamente l’impressione di un dubbio che si insinua anche tra quelle che parrebbero le certezze più indiscutibili. Persino Sully, uomo tutto d’un pezzo, che ha fatto del suo mestiere la sua vita (o della sua vita il suo mestiere), sembrano a un certo punto vacillare, sotto il peso di una decisione in cui il “fattore umano” diviene più rilevante di qualsiasi checklist. Sullo sfondo c’è un’America desiderosa di superare le paure dell’11 settembre, attribuendo finalmente a un aereo che volta a bassa quota le vesti di un sogno che sa di speranza anziché quelle di un incubo dal retrogusto di disperazione.

Tutto il film è sostenuto da un ritmo narrativo adrenalico e risulta impressionante la verosimiglianza con la quale Clint Eastwood è riuscito a ricostruire lo scenario dell’ammaraggio.

L’enfasi retorica, per quanto perfettamente aderente al genere, risulta a volte eccessiva, mentre i personaggi, specie quello interpretato da un magistrale Tom Hanks, rischia di risultare ingessato in una monoliticità che lascia uno spazio troppo angusto alle sfumature.

 data di pubblicazione: 4/12/2016


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MACBETH di William Shakespeare, regia di Luca De Fusco

MACBETH di William Shakespeare, regia di Luca De Fusco

(Teatro Quirino – Roma, 22 Novembre/4 Dicembre 2016)

Dopo aver inaugurato la nuova stagione del Mercadante di Napoli, ha debuttato il 22 novembre sul palco del Teatro Quirino di Roma dove rimarrà in scena fino al 4 dicembre, il Macbeth di Shakespeare con la regia di Luca De Fusco.

Scritto tra il 1605 e il 1608, Macbeth racconta la vicenda del vassallo di re Duncan di Scozia che, divorato dall’ambizione e dalla brama di potere, rivelatagli dalla profezia di tre streghe, insieme alla moglie progetta ed esegue l’omicidio del re per salire al trono. Le conseguenze saranno funeste perché la loro coscienza sarà incapace di sopportare l’atroce gesto compiuto.

Macbeth è un’opera complessa, aspra, gotica, stratificata, nella quale il linguaggio, già di per sé metaforico, acquista più che mai valore di simbolo, e si presta ad ogni lettura, inclusa quella visionaria e trascendente.

Questa tragedia fosca, cruenta, in cui domina il male e in cui i personaggi sono complessi e ambigui viene raccontata attraverso una messa in scena certamente originale ed innovativa, caratterizzata dalla forte commistione di teatro, musica e danza, miscelate attraverso contaminazioni visive create con l’uso di trasparenze scenografiche, immagini video e giochi di luce, in ideale prosecuzione rispetto ai precedenti lavori del regista, Antonio e Cleopatra e Orestea. Fra citazioni cinematografiche e pittoriche l’idea drammaturgica si sviluppa attraverso un forte impatto visionario costruito attorno al testo originale, in un’ambientazione atemporale sospesa tra il medioevo e le atmosfere del cinema noir degli anni ’40.

Molto intensa l’interpretazione della coppia del male formata da Luca Lazzareschi nel ruolo di Macbeth e Gaia Aprea che veste i panni di Lady Macbeth, in perfetta prosecuzione con il lavoro cominciato con l’Antonio e Cleopatra.

Il tutto sotto la presenza incombente notturna di una civetta in volo, di una foresta primordiale, minacciosa e intricata, di austeri ambienti interni dove si svolge il banchetto di corte, mentre avvolto nel suo proprio sangue appare il fantasma di Banquo, il generale compagno di guerra e di avventure anch’egli al servizio del re di Scozia Duncan, e come lui ucciso per sete di potere. Immagini forti e metafisiche che accentuano l’orrore e la cupezza del male, video installazioni che proiettano nel presente il racconto, enfatizzando l’universalità e l’attualità del messaggio shakespeariano che può essere coniugato in vari tempi mantenendo un carattere di verità assoluta, come assoluti e primari sono i sentimenti narrati.

data di pubblicazione: 29/11/2016


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TRE FRATELLI – LEHMAN TRILOGY (I PARTE) di Stefano Massini, regia Luca Ronconi

TRE FRATELLI – LEHMAN TRILOGY (I PARTE) di Stefano Massini, regia Luca Ronconi

(Teatro Argentina – Roma, 25 Novembre/18 Dicembre 2016)

“Da un emporio di abiti e stoffe, tre fratelli tessono un impero per tutte le stagioni; ma l’eco del crollo risuona dal futuro”.

Nel cielo dello spazio scenico un orologio disegna cerchi nell’aria, riavvolgendo il tempo e portandoci alle 7.25 dell’11 settembre 1844. Sul quarto molo del porto di New York sbarca l’ebreo aschenatiza Heyum Lehmann da Rimpar (modesto paese della Germania); nella fredda Baviera non lascia solo i parenti ma anche la sua identità: Henry Lehman è il nome con cui è registrato e che d’ora in avanti sarà costretto a utilizzare. Si trasferisce subito nel Sud Est degli Stati Uniti, a Montgomery (città dell’Alabama ricca di piantagioni di cotone) e lì apre un piccolo negozio dove vende tessuti. Lo raggiungono dalla Baviera anche i fratelli Emanuel e Mayer; insieme formano un trio che si combina alla perfezione, in cui ognuno contribuisce con la sua personalità differente: Henry è saggio e paziente, Emanuel è impulsivo e deciso, mentre Mayer media tra i due. Il ruolo di quest’ultimo all’interno della famiglia si rivelerà determinante negli affari, perché è proprio attraverso la capacità di mediare che i Lehman costruiranno la loro fortuna.

Dal commercio in stoffe alla compravendita di cotone grezzo, superando la Guerra di Secessione e l’avvento della ferrovia, i Lehman sapranno reinventarsi e superare le difficoltà. Se tuttavia il futuro sembra scintillante, la minaccia di un tracollo incombente invade prepotentemente gli incubi dei tre fratelli, un presagio del destino che attende la loro famiglia.

Nella sua ultima regia il compianto Ronconi ci lascia da equilibrista della messinscena: dosa sapientemente le parti narrate, recitate e cantate, realizzando un percorso narrativo lineare che corre lungo il fil rouge della deriva familiare:notomizza la crisi dei Lehman e la sviscera in tutti i suoi particolari, racconta di tre generazioni e delle loro degenerazioni.

Il lavoro certosino con Stefano Massini, scrittore del testo Qualcosa sui Lehman (tradotto in otto lingue e rappresentato in giro per l’Europa) su cui si basa l’opera, ha dato vita ad uno spettacolo in cui ogni elemento si combina con gli altri, come nel mosaico di insegne su cui si muovono i personaggi.

Lo spazio scenico è accuratamente assemblato da Marco Rossi: il piano inclinato del palco ricorda quello di una nave che affonda (come la deriva che aspetta la famiglia Lehman); l’orologio che ruota su sé stesso dà l’idea dell’eterno ritorno, e degli stessi sbagli in cui ricade l’uomo nella sua storia; infine, le evanescenti scritte ebraiche, disegnate dai protagonisti sulle quinte laterali, conferiscono alla rappresentazione un tocco magico e mistico.

Tra le eccellenti interpretazioni brilla Massimo Popolizio nella parte fratello minore Mayer, ma non di meno sono Massimo De Francovich nel ruolo di Henry – abile anche nella parte ballata –, Fabrizio Gifuni nell’interpretare Emanuel e Paolo Pierobon nelle vesti di Philip (il prodigioso figlio di Emanuel).

Uno spettacolo pluripremiato in cui si riflette divertendosi, attraverso un testo che racconta del continuo mutamento denaro: da frutto prezioso dei campi e del lavoro a prodromo di un’insaziabile sindrome dell’accumulo di ricchezza.

Mazeltov!

data di pubblicazione:28/11/2016


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