BARBARIANS di Hofesh Shechter

BARBARIANS di Hofesh Shechter

(Roma Europa Festival 2016)
Dopo il prologo estivo inaugura ufficialmente la sua stagione il Roma Europa Festival con lo spettacolo Barbarians, del coreografo Hofesh Shechter, in scena al Teatro Argentina dal 21 al 24 settembre.
Un lavoro certamente interessante, quello del coreografo inglese di origine israeliana, già presente nelle passate edizioni del Festival, spiazzante e imprevedibile, costruito attorno alla personale percezione e riflessione sui temi dell’intimità, della passione e dell’amore.
Una costruzione forte, a tratti elegante e intima e a tratti frenetica e ossessiva, costruita su tre momenti distinti in un’alternanza di musica barocca e sonorità techno dub; sei figure vestite di bianco si muovono secondo una struttura circolare in continuo divenire, una danza di Matisse ora gioiosa, ora di trance. Il prologo Barbarians in love alterna canoni classici a frenesie hip hop mentre la musica miscela François Couperin ad elettronica beat.
Una voce femminile sfocata apre a riflessioni ed indizi. “Io sono te” intona. “Tu sei me… Perché lo fai, Hofesh?” – E la voce fuori campo di Shechter, spiegando che stava solo cercando di rappresentare una danza sull’innocenza, esplicita le sue perplessità..
Si passa poi a The bead, un quadro con cinque ballerini in accademico oro, forte, tribale e languido, con continue sovrapposizioni di immagini e di stili, esteticamente ineccepibile. Nel mezzo due momenti i cui i danzatori appaiono in una nudità appena accennata, grazie ad una straordinaria luce crepuscolare.
Infine il duetto Two completely angles of the same fucking thing che chiude lo spettacolo e meglio esplicita la poetica di Hofesh, un duetto tra Bruno Guillore e Winifred Burnet-Smith, più umano e intimo, che si apre allo spazio metaforico personale del coreografo suggerendo che in fondo che l’ossessiva auto-dichiarazione dei primi due pezzi può portare a una sorta di riflessione più pacata ed armonica.
Uno spettacolo tutto sommato affascinante e cerebrale, con una magistrale cura delle luci che pecca però di una eccessiva dilatazione che finisce per sfocare l’essenza dello spettacolo, impedendo allo stesso di essere dirompente e straordinario.

data di pubblicazione: 26/09/2016


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FRAU SACHER-MASOCH con Silvana De Santis e regia di Antonio Serrano, testo di Riccardo Reim

FRAU SACHER-MASOCH con Silvana De Santis e regia di Antonio Serrano, testo di Riccardo Reim

(Teatro dei Conciatori – Roma, 23 Settembre/2 Ottobre 2016)

La voluttà della sottomissione nel teatro del masochismo, attraverso il racconto concitato della donna che per prima confessò la parafilia del marito.

Nella buia e fredda sala d’attesa di una stazione del Nord Europa, un tenue lucore illumina il copricapo di una donna mentre si muove nell’ombra. Sotto la luce spumosa e ingannatrice, le falde larghe del cappello – avvolto da una veletta e cinto di una corona di rose bianche – sembrano animarsi e schiudersi come i petali di un fiore. Da questo quadro trompe-l’œil, emerge la figura di una donna ieratica, circondata da valige, cappelliere e avvolta in una tenda pregiata, che stringe attorno a sé quasi fosse una pelliccia. Lo stesso indumento che le permetteva di soddisfare una delle perversioni sessuali del marito: la dorafilia. Non l’unica, appunto, perché il signore in questione non era altro che il celebre scrittore Leopold von Sacher-Masoch (Venere in pelliccia), il quale raggiungeva l’estasi tramite il dolore fisico inferto dalla consorte: da qui il termine “masochismo”.

Oltre ai bagagli chiusi alla bell’e meglio, nessuno è presente nell’algido ristoro insieme all’attempata signora. Solo i fantasmi del suo passato, che tornano alla memoria della donna squinternata e con cui quest’ultima inizierà un dialogo convulso e sgangherato, che culminerà nella rievocazione del patto scellerato stipulato con Leopold, il quale si asservì completamente alla donna, cui fu concesso l’esercizio di qualsiasi crudeltà, da accettare senza un lamento.

Lo spettacolo messo in scena da Antonio Serrano, basato sul libro in cui Wanda von Sacher-Masoch (al secolo Aurora Rümelin)raccolse le sue confessioni riguardo alle abitudini sessuali del marito, è breve ma intenso. Seguire la lucida follia della donna, tuttavia, risulta a tratti difficoltoso e straniante. Al contrario, conferisce un senso di sicurezza la scenografia raccolta e curata; ed estremamente affascinante risulta la scena iniziale: mercé il gioco di luci e ombre, Riccardo Reim e Flavio Mainella riescono immediatamente a trasportare il pubblico in un’atmosfera incantata. Resa ancor più suggestiva dall’affabulazione di Silvana De Santis, la cui interpretazione attoriale è incisiva e brillante (e non offuscata da un’opaca – seppur voluta – prova canora). L’attrice riesce a pieno a trasmettere i diversi stati d’animo che il suo personaggio attraversa: da una gioia inaspettata al piacere per il suono del pianoforte, fino all’atroce sofferenza dei ricordi. D’altronde, come scrive lo stesso Sacher-Masoch nel summenzionato libro, “la vita è sofferenza, il piacere una sua temporanea sospensione, che sempre condurrà a nuove torture. Non è dunque preferibile cercare il piacere nella sofferenza [..] e così trionfare sulla vita e sulla morte?”

data di pubblicazione:25/09/2016


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PADRE PADRONE di Paolo e Vittorio Taviani, 1977

PADRE PADRONE di Paolo e Vittorio Taviani, 1977

Considerato da molti il capolavoro dei fratelli Taviani, questo film si annovera tra i cento film italiani da salvare ed è sicuramente un ritorno al classico neorealismo che ha reso il cinema italiano famoso nel mondo. La storia è tratta dall’omonimo romanzo autobiografico di Gavino Ledda ed è ambientata nella Sardegna dei pastori negli anni quaranta. La vicenda prende avvio dall’irruzione del pastore Efisio (Omero Antonutti) nella scuola elementare dove si trova il figlio Gavino (Fabrizio Forte) per costringere il bambino, contro la sua volontà, ad abbandonare l’istruzione per diventare pastore ed aiutare così la famiglia nel proprio sostentamento. Il giovane vivrà il primi vent’anni della sua vita in assoluta solitudine, circondato solo dalle sue pecore, lontano da qualsiasi forma di civiltà e soprattutto privato della compagnia dei suoi coetanei. Dopo una breve esperienza di vita in Germania, Gavino, divenuto oramai uomo, (Saverio Marconi) viene reclutato nell’esercito, circostanza questa che gli permetterà di staccarsi definitivamente dal padre con il quale aveva fino a quel momento vissuto un rapporto di totale sottomissione. Aiutato da un commilitone, il giovane potrà riprendere gli studi e conseguire infine anche la laurea. Il film, prodotto da Raidue, fu richiesto e presentato al Festival di Cannes nel 1977, in quell’anno presieduto dal regista Roberto Rossellini che dovette molto lottare con gli altri membri della giuria per fargli assegnare la Palma d’Oro. Fu presentato successivamente al Festival di Berlino, dove ottenne il Grand Prix, e l’anno successivo fu premiato con il David di Donatello e con due Nastri d’Argento, uno per la miglior regia ed uno a Saverio Marconi quale miglior attore esordiente. La miseria della vita dei pastori sardi, in quel preciso periodo storico, ci suggerisce questa ricetta molto povera ma di sicuro impatto: polpette rosse di pane.

INGREDIENTI: 150 grammi di pane raffermo – 1 uovo – 50 grammi di pecorino grattugiato – uno spicchio d’aglio – mezza cipolla – 200 grammi di salsa di pomodoro – 1 mazzetto di prezzemolo – olio di oliva extravergine – latte – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: ammollare la mollica del pane nel latte, strizzarla bene e versarla in una ciotola. Aggiungere il pecorino grattugiato, l’uovo, l’aglio ed il prezzemolo tritati finemente, un poco di sale e pepe. Ottenuto un composto omogeneo, modellare con le mani le polpettine della dimensione di una noce e poi friggerle in olio fino a farle dorare bene. Intanto preparare una salsa di pomodoro con un soffritto di cipolla, fare cuocere per alcuni minuti e poi aggiungere le polpettine bel scolate. Cuocere ancora per una ventina di minuti e servirle calde.

LA CINA E’ VICINA di Marco Bellocchio, 1967

LA CINA E’ VICINA di Marco Bellocchio, 1967

Vittorio Gordini Malvezzi (Glauco Mauri), professore di scuola media superiore e aspirante assessore comunale, si fa aiutare nella sua campagna elettorale da Carlo (Paolo Graziosi) semplice ragioniere e militante nel Partito Socialista Unificato della città di Imola. Frequentando la famiglia altolocata di Vittorio, Carlo conoscerà sua sorella Elena (Elda Tattoli) e ne diventerà l’amante. Venuta a conoscenza della tresca amorosa, Giovanna (Daniela Surina) fidanzata di Carlo e che a sua volta collabora con Vittorio, decide di vendicarsi dell’affronto subito e per ripicca diventa l’amante del suo datore di lavoro. Il film è basato su intrecci ed intrighi che alla fine si concluderanno con un doppio matrimonio riparatore e tutto apparentemente troverà il giusto (?) equilibrio. Reduce dal clamoroso successo ottenuto con il suo primo lungometraggio I pugni in tasca (Nastro d’Argento nel 1966) il regista sembra qui anticipare tutti i temi che portarono alla imminente contestazione globale sessantottina, incluso il problema dell’aborto che viene esplicitamente affrontato nel film. Vengono scrupolosamente esaminati gli aspetti della provincia emiliana con le sue velleità di riscatto sociale proletario in contrapposizione alla sua tradizionale cultura piccolo borghese. Il film ottenne il premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1967 nonché un Nastro d’Argento per il miglior soggetto originale e migliore fotografia, nonostante alcuni critici, decisamente contrari alla sferzante analisi sociale affrontata dal regista, dissero che la Cina, mai era stata così lontana! La provincia emiliana con i suoi ricchi sapori, ci suggerisce questo primo piatto molto semplice e saporito nello stesso tempo: tagliolini con asparagi.

INGREDIENTI: 500 grammi di tagliolini all’uovo freschi – 3 uova – 50 grammi di parmigiano grattugiato – 200 grammi di asparagi verdi – 1 grammo di zafferano in pistilli – due cucchiai di panna da cucina o crema di latte – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Per prima cosa preparare la salsa sbattendo insieme due tuorli e un uovo intero. Aggiungere quindi il parmigiano e la panna nonché i pistilli di zafferano, precedentemente sciolti in acqua tiepida. Salare e pepare. Pulire gli asparagi e tagliarli a fette sottili in diagonale. A questo punto cuocere i tagliolini insieme agli asparagi e, una volta cotti, scolare lasciando un poco di acqua di cottura e versare il tutto nella crema di uova. Mescolare velocemente e servire.

FRANTZ di François Ozon, 2016

FRANTZ di François Ozon, 2016

Germania, 1918. La giovane Anna si reca ogni mattina al cimitero per portare fiori freschi al suo Frantz, morto sul fronte francese. Un giorno scorge un giovane piangere sulla tomba del suo amato: scoprirà di lì a poco che si tratta del francese Adrien, che pare abbia conosciuto Frantz a Parigi. Nonostante lo sconcerto iniziale dei genitori di Frantz, presso i quali la ragazza vive come fosse una loro figlia, Adrien riuscirà a scaldare nuovamente i loro cuori con i suoi racconti, facendo dimenticare ogni genere di ostilità.


Tratto da uno spettacolo teatrale già gloriosamente portato in passato sul grande schermo, l’ultimo film di François Ozon, in concorso alla 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016, è un susseguirsi di quadri in bianco e nero raffinati ed intensi, che ci avvolgono teneramente nell’atmosfera di una storia semplice, fatta di silenzi e cose non dette, a tratti ambigua ed aperta a svariate interpretazioni, in cui dialoghi essenziali unitamente ad una ambientazione ristretta a poghi luoghi, aiutano ad apprezzare invece che annoiare. Splendidi gli interpreti che ci regalano una prova sublime della loro bravura: Pierre Niney (Adrian) aveva già conquistato il pubblico con la sua struggente interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo film, mentre Paula Beer (Anna) è una giovane attrice tedesca, già apprezzata nel 2015 al Festival di Roma nel film della sezione Alice Four kings di Theresa Von Eltz (purtroppo non uscito nelle sale italiane), dotata di raffinata bellezza unita ad una forte intensità recitativa, che ha pienamente meritato il premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente assegnatole a Venezia.

Anna e Adrian rappresentano nel film di Ozon una coppia di amici “pericolosi” per la mentalità dell’epoca, anche perché lui, in quanto francese, è visto come un nemico dagli abitanti del paese e per farsi benvolere dai genitori di Frantz, in particolare dal padre che gli aveva mostrato una forte ostilità, racconta menzogne su come ha conosciuto il loro figlio mantenendo sempre un alone di mistero sui veri sentimenti che aveva provato per lui. In realtà l’atteggiamento ambiguo del giovane Adrian, sottolineato dalla sapiente regia di Ozon che mescola continuamente realtà e finzione, viene filtrato da Anna che seppur si invaghisca di questo ragazzo fragile e gentile in cui rivede il fidanzato scomparso, sente di dover difendere gli anziani genitori dal dolore che la verità sulla morte dell’unico figlio potrebbe causare loro. Ed in questa altalena di emozioni, disillusioni, piccole gioie e menzogne, Anna elabora il suo lutto e finalmente rinascerà a nuova vita.

data di pubblicazione: 14/09/2016


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LA VITA POSSIBILE di Ivano De Matteo, 2016

LA VITA POSSIBILE di Ivano De Matteo, 2016

Lo sguardo attento alle vicissitudini familiari di Ivano De Matteo porta sul grande schermo due grandi attrici italiane come Margherita Buy (Anna) e Valeria Golino (Carla) per parlare di una “famiglia” segnata dalle violenze domestiche.


La vita possibile muove dall’ennesimo episodio di aggressione su una donna, Anna, da parte del marito sotto gli occhi del figlio tredicenne (Valerio interpretato da Andrea Pittorino). L’episodio di violenza sulle donne che si consuma tra le pareti domestiche è fugace, rimane marginale per lasciare spazio alla “fuga” verso una possibile vita migliore. Anna e Valerio si rifugiano da Carla, un’amica storica di Anna che vive a Torino dove – grazie al sostegno economico dei genitori – si concede il lusso del difficile mestiere di attrice di teatro di nicchia.

A Torino le solitudini di Anna e di suo figlio si intrecciano con la solitudine di Carla – single dagli occhi sognanti e dai buffi atteggiamenti leggeri di un’adolescente -, di Mathieu (Bruno Tedeschini) – ex calciatore francese che gestisce una locanda sotto casa di Carla e Anna, vittima anche lui di un episodio che lo ha segnato -, e di Larissa (Caterina Shulha) – una giovane prostituta -. In una sequenza di scene che talvolta appaiono disorganiche, la storia della ricerca di un riscatto tocca fugacemente alcuni drammi dei nostri tempi difficili: la difficoltà per chi ormai non è giovanissimo a trovare un lavoro e la disperazione e la forza di una madre sola che, costretta ricominciare da zero una nuova vita, accetterà un lavoro durissimo, i traumi psicologici dei minori vittime anche solo di riflesso di violenza psicologica e fisica, la troppo frequente inidoneità delle misure e delle azioni penali a tutela delle donne vittime di violenza, il pregiudizio nei confronti dello “straniero”.

Tutti temi importanti e delicati che però sono toccati in modo superficiale perché nessuna di queste tematiche emerge in modo chiaro o viene adeguatamente messa in luce, tutte rimangono velate, marginali. Maggiore spazio viene, invece, dato all’innamoramento del tredicenne Valerio per la giovane prostituta ventenne che attende i suoi clienti al parco vicino casa: due solitudini che si incontrano per poi perdersi senza alcuna sorta di redenzione o rinascita nè dell’uno, né dell’altro. Infatti, il vero deus ex machina della storia, che consente una riappacificazione tra madre e figlio, separati dalla rabbia e dal malessere interiore del minore, che aiuta Valerio ad ambientarsi a Torino ed Anna ad aver fiducia negli uomini è Mathieu, il quale chissà, forse, sarà accanto ad Anna per questa sua nuova Vita Possibile. Sempre impeccabile l’interpretazione di Margherita Buy, con i suoi occhi profondi e liquidi, e perfetta, dai gesti fino ai costumi, Valeria Golino nel suo personaggio naïf. Se invece l’interpretazione del bambino, il personaggio di Valerio, non convince – se non per la forte somiglianza con Anna (Margherita Buy) – meritano la scenografia, la fotografia (bellissima la scena finale della mongolfiera giallo pastello nel cielo di Torino) e le musiche di Francesco Cerasi.

data di pubblicazione: 24/9/2016


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PIACERE, ETTORE SCOLA – Mostra

PIACERE, ETTORE SCOLA – Mostra

(Museo Carlo Bilotti – Roma, 16 settembre 2016/8 gennaio 2017)

A quasi otto mesi dalla scomparsa di Ettore Scola, il 16 settembre 2016 è stata inaugurata presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese la tanto attesa mostra dedicata ad uno degli artisti italiani più completi, profondi e umani degli ultimi 60 anni.

La mostra – articolata su due filoni, quello privato e quello professionale – è un’autentica passeggiata tra le stanze di “casa Scola”. Per quasi un paio d’ore, il visitatore si perde nella storia di questo grande uomo – disegnatore, sceneggiatore e regista -, e impara a conoscerlo meglio e a sentirlo ancor più familiare. Nella prima sezione delle Mostra si sfoglia “l’album di famiglia”: dai primi anni di infanzia trascorsi nella natia Trevico, dove c’è stato l’indelebile primordiale incontro con il “cinema”, a quelli che seguirono il trasferimento a Roma, passando per il rapporto in famiglia con il fratello maggiore, il padre medico e la madre che subito assecondò la passione e il talento del futuro cineasta accompagnandolo dopo scuola a vedere due film al giorno. E poi, il primo incontro tra i banchi con colei che sarebbe divenuta l’unica donna della sua vita, Gigliola, la nascita delle due figlie Paola e Silvia, e in parallelo i primi lavoretti per la scanzonata e affascinante redazione del settimanale umoristico Marc’Aurelio. Accanto alla vita privata si muovono parallelamente gli esordi del cineasta come vignettista, poi come dialoghista, sceneggiatore e infine come regista. Un’evoluzione professionale che si fonde con la sua vita privata grazie ai forti legami che Scola fu capace di stringere e mantenere nel tempo anche fuori dalle redazioni e dai set con autori come Metz, Marchesi, poi Macari, con artisti come Alberto Sordi – suo testimone di nozze – Risi, Pietrangeli, Vittorio Gassman, solo per citarne alcuni. Attraverso il file rouge dei disegni inediti di Ettore Scola – ritraenti momenti di vita privata, lo scambio di idee o la creazione della battuta geniale all’interno della redazione de Marc’Aurelio, la concettualizzazione grafica della trama o dell’inquadratura di una scena di un film, la caricatura di un amico o del Maestro Fellini –, ci si addentra nella bellezza di un uomo sensibile, timido, profondamente rispettoso dell’uomo e della condizione della donna, dei cd. “deboli” e degli emarginati del boom del dopo Guerra italiano, affettuoso con le figlie e con i compagni di lavoro e di vita. Una persona genuina, schietta. Un regista attento, meticoloso che sia come sceneggiatore, sia come regista non assecondava passivamente l’idea o i timori dei produttori, assumendosi il rischio di scelte talvolta audaci e, soprattutto, il rischio di non piacere a tutti i costi a tutti. Il rapporto con i suoi collaboratori, con gli attori durante le prove e fuori dal set, il legame con Federico Fellini, tutto filtrato e reso per la prima volta così completo e a noi vicino grazie a foto inedite, file audiovisivi, ricostruzioni con pezzi originali dello studio del Regista, l’esposizione di pezzi unici di alcuni dei suoi set, le locandine dei suoi film, le dichiarazioni delle persone con cui ha lavorato e vissuto, i vinili delle colonne sonore dei suoi lungometraggi, i premi. Al termine del percorso lungo i corridoi e le apparenti stanze della Mostra, inevitabilmente evocative dell’appartamento del quartiere Prati de La Famiglia, all’amarezza per la scomparsa del cineasta prevale la gioia del privilegio regalatoci dalla sua famiglia: poter trascorrere con il Maestro Ettore Scola qualche ora in compagnia delle sue parole, del suo sguardo attento e pulito, degli aneddoti che hanno segnato e colorato i suoi anni di carriera poliedrica. Ettore Scola, indimenticabile, grazie a questa esposizione diviene nuovamente parte della nostra vita, della storia del nostro paese e ci lascia come un amico al quale dire arrivederci, perché lo andremo a trovare rileggendo e sfogliando il Libro “Piacere, Ettore Scola” e rivedendo ciclicamente i suoi film, mai banali, ma sempre innovativi ed attuali.

data di pubblicazione:19/09/2016

IL CLAN di Pablo Trapero, 2016

IL CLAN di Pablo Trapero, 2016

Argentina, 1983. Arquimedes Puccio, confidando ancora nella copertura dei suoi ex superiori dei servizi segreti nonostante il ritorno della democrazia nel suo paese, a solo scopo di estorsione, continua a praticare sequestri di persone. Le sue vittime, appartenenti a famiglie molto ricche e in vista, vengono detenute come ostaggi in attesa di riscatto nella cantina e nella soffitta della sua casa, con la complicità di sua moglie e di due dei suoi tre figli maschi, con il silenzio delle due figlie Silvia e Adriana. Tutti gli abitanti del quartiere ignorano quanto accada in quella casa.



Il clan, Leone d’argento per la migliore regia alla 72^ Mostra di Venezia, si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto nella città di San Isidro, conosciuto come il “caso Puccio”. Quanto potrà mai durare la democrazia in questo paese? Un paio d’anni e si torna indietro…è su questa certezza che l’ex agente dei servizi segreti (rimasto senza lavoro) Arquimedes Puccio, uomo dall’aspetto pacato e tranquillo del buon padre di famiglia, ma in realtà padre-padrone freddo e crudele, continua a praticare l’attività criminale del sequestro di persona senza farsi alcuno scrupolo, giustificandosi con i propri familiari come fosse una normale fonte di sostentamento per tutti loro, rendendoli al tempo stesso complici e vittime di tanta crudeltà. Ad aiutare Arquimedes c’è il figlio Alejandro con il quale il padre ha un rapporto particolare ed intorno al quale ruota tutta la struttura di questo bel film di Pablo Trapero. Il regista ci offre il quadro di una nazione ancora malata, dove la sparizione di persone praticata sino ad allora dalla ex dittatura, era qualcosa di assolutamente radicato in una parte del tessuto sociale che anche nella nuova situazione continuava a detenere un certo potere sotto la protezione dei militari, in cui l’aberrante tornaconto personale dei Puccio si inserisce perfettamente.
E’ una storia cupa, potente ed ovviamente sconcertante quella che il regista ci racconta, aiutato da un cast di attori molto bravi fra i quali primeggiano, proprio per l’intensità degli sguardi, questo padre (Guillermo Francella) con i suoi occhi di ghiaccio che sono lo specchio di quella paura mista ad omertà con cui tiene legati a sé i suoi familiari, e questo figlio (Juan Pedro Lanzani) in perenne stato di “trans da obbedienza” il cui destino reale sino ai nostri giorni, che scorgeremo solamente nei titoli di coda, supera di gran lunga quanto incredibilmente viene narrato in tutto il film. Il clan è un film da vedere nonostante la dicitura “tratto da una storia vera”, perché mai come in questo caso la realtà supera la fantasia.

data di pubblicazione:19/09/2016


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TORNO DA MIA MADRE di Éric Lavaine, 2016

TORNO DA MIA MADRE di Éric Lavaine, 2016

La quarantenne Stéphanie, divorziata e con un figlio da crescere, perde il lavoro. Decide quindi di lasciare la casa in cui vive, di vendere la sua bella auto, per poi tornarsene a vivere da sua madre finché le cose non si sistemeranno. Ma la sua vita, tutta da ricostruire, le riserverà meno sorprese di quelle che l’anziana madre ha in serbo per lei, affetta (forse) da un principio di demenza senile…


Lavaine mette in scena una commedia lieve, semplice, dove hanno un peso determinante il ritmo delle battute e la bravura delle sue protagoniste femminili. Torno da mia madre non parla tanto di adulti non cresciuti che non vogliono andarsene di casa, quanto piuttosto di quella generazione di persone che farebbero volentieri a meno di condividere nuovamente le loro vite con quella dei propri genitori, ma che a causa della crisi sono state costrette a fare un passo indietro. Stéphanie (Alexandra Lamy), che sente sulle spalle il peso dei propri fallimenti familiari e lavorativi, ben presto dovrà adattarsi alle regole che sua madre Jacqueline (Josiane Balasko) le impone in casa, e soprattutto alla sua assoluta intransigenza: la mattina ci si sveglia alle sei in punto perché chi dorme non piglia pesci, non si possono abbassare i caloriferi né aprire le finestre per non disperdere il calore accumulato, non si può bere dalla bottiglia e si deve apparecchiare in un certo modo, non si può spalmare il burro sul pane con un coltello qualsiasi e, soprattutto, volere un caffè la mattina a colazione è una cosa davvero bizzarra! E mentre Jacqueline mette in atto una serie di strani comportamenti (come quello di salire con il carrello della spesa all’ultimo piano piuttosto che scendere in strada), Stéphanie ed il suo dramma esistenziale piano piano scolorano al cospetto di quanto sta accadendo a sua madre. E così il regista, nella seconda parte del film, vira sulla storia di questa settantenne realizzata, che fa progetti per il futuro come se la sua vita fosse appena agli albori, alimentando un sano egoismo quasi “giovanile” e rubando così la scena alla figlia per diventare lei la vera protagonista dell’intera vicenda.

Molto brave Alexandra Lamy (Gli infedeli, Ricky), che ben incarna lo sconcerto per quanto le sta accadendo, e Mathilde Seigner, sorella della più famosa Emanuelle, molto convincente nel ruolo della sorella scontrosa e vendicativa; ma la vera protagonista della storia è Josiane Balasko (l’indimenticata ed “elegante” portiera Renèe ne Il Riccio, trasposizione di Mona Achache del romanzo di Muriel Barbery), perfetta nei panni di una madre che non vuole essere giudicata perché ha ancora il desiderio di viversela un po’ la sua vita: senza di lei il film non avrebbe quella verve che aiuta in molte scene a ridere di gusto.

Se ne consiglia la visione a chi non ha troppe pretese e vuole passare un’ora e mezza di leggerezza e sano divertimento.

data di pubblicazione:19/09/2016


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QUESTI GIORNI di Giuseppe Piccioni, 2016

QUESTI GIORNI di Giuseppe Piccioni, 2016

Quattro ragazze in viaggio verso Belgrado, l’età in cui tutto sembra possibile, il futuro carico di aspettative, il presente con le sue sfide da affrontare e superare.


Caterina (Marta Gastini) decide di accettare una proposta di lavoro a Belgrado. Sogna di diventare una scrittrice, ma l’occasione di indossare una lussuosa e ordinata divisa da cameriera, così distante dai suoi abiti di adolescente anticonformista, le si propone come il possibile momento di passaggio che la traghetterà verso l’età adulta. Dietro l’apparente corazza di ragazza forte, determinata e autosufficiente, Caterina nasconde tutte le fragilità e le insicurezze proprie di un’adolescente alle prese con la complessità della vita. Accoglie quindi con sollievo la decisione delle sue amiche di accompagnarla nel suo viaggio “di crescita”.

Liliana (Maria Roveran) sta per laurearsi, ma deve fare i conti con una sfida ben più impegnativa della tesi da preparare sotto la guida del suo tanto timido quanto affascinante professore (Filippo Timi). Cerca senza successo le attenzioni e il sostegno di sua madre Adria (Margherita Buy), una parrucchiera che sognava di diventare avvocato e che non riesce ad abbandonare il ruolo di eterna ragazza con le gambe ancora molto belle.

Angela (Laura Adriani) appare sospesa in una dimensione distante e per certi aspetti ovattata, lontana dagli eccessi di un padre (Sergio Rubini) a tratti imbarazzante e proiettata verso un futuro che brilla di speranza e che lei crede di intravedere attraverso le luci delle candele.

La comitiva è chiusa da Anna (Caterina Le Caselle), che dietro gli occhi sgranati di una bimba ingenua e sprovveduta, si sta preparando ad affrontare la sfida della maternità.

L’avventura on the road in direzione Serbia ha tutti gli ingredienti classici del viaggio di formazione in versione adolescenziale: amori e gelosie, intraprendenza e paure, rivelazioni e segreti, litigi e riconciliazioni.

Con Questi giorni Giuseppe Piccioni, che torna in concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia dopo Luce dei miei occhi, si cimenta con un nuovo affresco dell’universo femminile, riuscendo nell’impresa di amalgamare armoniosamente quattro personaggi e quattro attrici molto diversi tra loro. La prima parte del film risulta forse eccessivamente dilatata, con delle scelte di regia non sempre efficaci e una sceneggiatura scricchiolante sotto il peso dei 120 minuti complessivi: l’incontro con il fratello di Caterina, che ha scelto di diventare prete ma che non ha certo il piglio della guida spirituale, per esempio, appare un fuor d’opera che poco aggiunge all’intensità del racconto. Il climax seguito dalla parte centrale fino alla conclusione, restituisce invece tanto la complessità dei personaggi quanto l’autentico significato del viaggio intrapreso dalle protagoniste.

Non si rinviene nulla di particolarmente originale nel film di Piccioni, ma tra i messaggi che risuonano chiaramente sullo scorrere dei titoli di coda, c’è quello per cui avere qualcuno accanto nel momento delle sfide più difficili e dolorose da affrontare è una gran bella consolazione, perché, in fondo, soffrire insieme è meno noioso.

data di pubblicazione: 18/09/2016


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