da Antonio Iraci | Feb 15, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Apre la giornata di oggi il film in concorso Colo della regista portoghese Teresa Villaverde, ritratto dettagliato della famiglia di Marta, una adolescente che come tutti i giovani della sua età preferisce il silenzio e la riservatezza, rifiutando ogni interferenza da parte dei genitori. La famiglia, pur vivendo in una zona residenziale, soffre tuttavia di una profonda crisi economica: il padre è da tempo disoccupato e la madre è costretta ad effettuare doppi turni lavorativi per sopperire a questa carenza. Di fronte all’impossibilità di trovare una via d’uscita ai problemi che oramai investono la sfera della pura sussistenza, i tre decidono di intraprendere un cammino, ognuno per sé, alla ricerca di una tranquillità interiore sino a quel momento irraggiungibile. Il film, seppur inevitabilmente lento, con dialoghi ridotti all’essenziale, si lascia seguire bene senza annoiare, con apprezzabili prolungati piani sequenza in cui la macchina da presa sembra fare un passo indietro, indugiando proprio con l’intento di catturare l’intera situazione, restituendola con i suoi tempi reali.
Secondo film in concorso della giornata è Return to Montauk del regista tedesco Volker Schlondorff, che tratta della storia di uno scrittore tedesco, Max Zorn interpretato da Stellan Skarsgard, che arriva a New York per presentare il suo nuovo libro. Ad attenderlo ci sarà la moglie Clara (Susanne Wolff) che ha preparato, insieme all’editore, la pubblicazione del romanzo il cui soggetto parla di un grande amore purtroppo naufragato. La protagonista di riferimento è la bella Rebecca (Nina Hoss), un tempo amante dello scrittore e ora diventata una importante legale nella City: i due si incontrano, passano un week end fuori città in una località dove erano soliti andare, ricercano un qualcosa che purtroppo risulta oramai sepolto da dissapori e fragilità emotive di entrambi. La sceneggiatura non brilla per originalità e, seppur gli interpreti siano moto bravi e convincenti, il film non sembra decollare né tantomeno coinvolgere emotivamente il pubblico in sala.
El Bar del regista spagnolo Alex de la Iglesia è il terzo film della giornata, questa volta fuori concorso. Alcune persone si trovano casualmente in un locale al centro di Madrid per consumare la prima colazione quando improvvisamente avviene una sparatoria in cui restano uccise due persone. A questo punto, in maniera quasi illogica, tutti coloro che si trovano all’interno del locale dovranno lottare, l’uno contro l’altra, per assicurarsi la propria sopravvivenza. Con un ritmo tutto suo il regista focalizza la propria attenzione sui singoli personaggi, molto diversi tra di loro, quasi a volerne scrutare nell’intimo i caratteri, e come reagiscono nel bel mezzo di una situazione di estremo pericolo, indagando la loro vera natura. Il film raggiunge momenti di pura irrazionalità che lo rendono simpaticamente gradevole e che ricordano, per molti versi, l’estro di Pedro Almodòvar che, neanche a dirlo, fu il produttore del primo film di Alex de la Iglesia Acciòn Mutante, pellicola del 1993, un misto strano di noir e fantascienza.
data di pubblicazione:15/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 14, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Salutato quasi con una standing ovation, Call me by your Name, unico film italiano presentato in questa traballante edizione della Berlinale nella Sezione Panorama, ha polarizzato a buon ragione l’attenzione del pubblico.
Il film, firmato dal palermitano doc Luca Guadagnino, che ne ha curato la sceneggiatura insieme a James Ivory e Walter Fasano, si basa sull’omonimo romanzo di André Aciman.
L’azione si svolge in una non meglio identificata campagna del Nord d’Italia, dove il professore universitario d’arte antica Perlman e la sua famiglia trascorrono serenamente l’estate. Un giorno arriva il ventiquattrenne americano Oliver che verrà ospitato nella villa affinché possa completare i suoi studi di dottorato: bello ed intelligente, in poco tempo conquisterà l’attenzione di tutta la famiglia, inclusa quella del diciassettenne figlio del professore, Elio. Questi passa il tempo tra la lettura e la musica, dilettandosi a suonare al piano brani classici con una notevole professionalità; ma, come tutti i ragazzi della sua età, ama anche trascorre le serate nei bar a bere e a ballare. La frequentazione quotidiana tra i due giovani si trasforma pian piano in una relazione di cui, come lo stesso Oliver afferma, non c’è necessità di parlarne. La potenza di questo film sta proprio nell’aver utilizzato, attraverso delle immagini definite idilliache dallo stesso regista, un linguaggio espressivo semplice e autentico dove non occorrono parole per definire un sentimento di fatto indefinibile. Le scene sono girate in un modo da far sembrare tutto molto naturale e la fotografia ci fa veramente percepire la gradevolezza del paesaggio estivo in cui è ambientata la storia, ricorrendo a volte a delle dissolvenze che con discreto pudore sottraggono lo sguardo dalle immagini più intime. In sottofondo abbiamo un’Italia degli inizi anni ottanta dove, nonostante le turbolenti questioni politiche, imperava ancora l’idea di guardare al futuro con una giusta dose di ottimismo. Il film non è una love story tra due ragazzi, perché sarebbe troppo riduttivo definirla tale: sin dalle prime scene si viene catturati dalla bellezza dei luoghi in cui è ambientato il film, e dall’interpretazione assolutamente naturale dei due protagonisti Timothée Chalamet (Elio) e Armie Hammer (Oliver), come se la narrazione trattata fosse vita vissuta.
Dopo che lo scorso anno l’Italia ottenne l’Orso d’oro con Fuocoammare di Rosi, risultava alquanto strano che questa nuova edizione della Berlinale non avesse presentato alcuna pellicola made in Italy. Call me by your Name è un film che, in qualche modo, riesce pienamente a riscattare questa inspiegabile assenza, certamente non dovuta alla mancanza di talenti italiani nello scenario cinematografico internazionale.
In selezione ufficiale in questa sesta giornata sono stati presentati altri tre film: The Other Side of the Hope del regista finlandese Aki Kaurismaki, Beuys del tedesco Andres Veiel e Sage Femme del francese Martin Provost, in cui brillava come interprete principale una radiosa ed affascinante Catherine Deneuve.
data di pubblicazione:14/02/2017
da Alessandro Rosi | Feb 14, 2017
(Teatro Argot – Roma, 31 Gennaio/19 Febbraio 2017)
“Una lettera dal passato per un incontro presente. L’attesa fremente di quattro figli per un inaspettato arrivo imminente.”
È sabato santo. Il giorno dell’attesa per antonomasia, in cui si aspetta la resurrezione di Gesù.
Anche Luca, Caterina, Isabella e Martina aspettano un evento straordinario, che permetta loro di risorgere, di ricucire quella ferita aperta dalla madre vent’anni prima, dopo il suo tragico abbandono.
Da quel giorno Luca non smette di indossare i vestiti materni: unico resto di una madre scomparsa; ultimo legame con la donna che l’ha creato e che di sé non ha lasciato tracce, diventando impalpabile come un fantasma. Da anni non si occupa d’altro che del suo romanzo, di cui non è stata letta ancora una pagina: per questo è costantemente foraggiato da Caterina, la maggiore dei quattro figli.
Alacre insegnante, Caterina è insoddisfatta dalla sua vita perché non riesce ad avere un figlio. Un dolore profondo e continuo, che riesce a lenire soltanto allevando la dolce Isabella, la minore delle sorelle, sostituendosi così alla madre e coronando quel suo sogno impossibile.
Sotto la costante protezione di Caterina, Isabella è cresciuta lentamente, tant’è che non dimostra la sua età. Sembra avere un problema di apprendimento, di cogliere il senso delle nuove parole che le vengono dette (che prontamente annota sul suo taccuino). Non solo ha difficoltà ad afferrare i nuovi vocaboli, anche la realtà che la circonda sembra sfuggirle; come la verità sulla scomparsa della madre: creduta da lei morta invece che scappata, secondo quanto le avevano detto le sorelle.
Nonostante la sua sbadataggine, Isabella ha in serbo uno scherzo arguto per la sorella Martina, che oramai vive da anni in America. Donna inossidabile e fieramente omosessuale, la sua tempra d’acciaio l’ha condotta a intraprendere la carriera militare; ma dietro la sua armatura, si nasconde un animo fragile. È tornata in paese per i funerali di Luca – almeno questo è quanto le è stato fatto credere da Isabella.
Ma in realtà Isabella ha un piano più arguto di quanto ci si possa aspettare; e non esiterà a rivelarlo. Ha riunito tutte le sorelle e il fratello perché ha saputo la verità sulla madre, dal momento che ha ricevuto una sua lettera con cui comunicava il suo ritorno.
L’attesa dell’arrivo di Margherita diventerà un momento catartico per i suoi quattro figli, consentendo loro di ripercorrere le fasi dell’abbandono, in un fiume di ricordi che si susseguono come fotogrammi della pellicola di un film. E nella scena del tanto anelato ritorno, una rivelazione sconvolgente lascerà senza parole.
In questa sua opera, l’autore canadese porta lo spettatore a interrogarsi sul senso dell’abbandono: via di fuga vigliacca ed esecrabile o decisione ponderata e a fin di bene?
Per farlo sceglie l’abbandono più duro da digerire: quello materno. Una madre “che faceva sfoggio della sua felicità per nascondere la sua infelicità”, amando pubblicamente un altro uomo e per questo allontanata già nel suo stesso paese.
Un’incomprensione della società nei suoi confronti che si riverbera sui figli: Luca e Martina non riescono ad essere accettati per la loro omosessualità, e Isabella viene derisa per la sua ingenuità. L’unica figura della famiglia che cerca di integrarsi nella comunità è rappresentata da Caterina, ma ben presto sarà spazzata via anche lei dalla tempesta di critiche sociali.
Un quadro riassunto efficacemente dalle parole del regista:
«Sono stato costretto molto presto a prendere posizione nei confronti della società in cui vivevo e della sua mentalità ristretta, dove regnavano l’oppressione e il giudizio contro chiunque osasse affermare la propria diversità e le proprie ambizioni per una vita diversa da quella del clan.
Nelle Muse orfane, il personaggio della madre appartiene a questa tipologia di emarginati; al contrario di sua figlia Catherine, responsabile dei fratelli, che si aggrappa disperatamente ai valori del mondo antico per paura dell’ostracismo da parte della società in cui vive. In compenso, il risentimento e il senso di colpa che la animano, la rendono vittima del suo paese e tiranno della sua famiglia.
Io porto nel sangue le tracce di questa violenza, così cerco di essere sincero, di parlare solo di quello che ho visto, ascoltato, vissuto. Mi rendo conto che la mia scrittura vive una tensione costante tra i valori del vecchio e del nuovo mondo».
Canzoni d’antan, lacrime di dolore e inaspettate rivelazioni compongono il testo ideato da Michel Marc Bouchard, il quale dissemina durante la storia i pezzi del puzzle che ha costruito, e che lungo il cammino si ricompongono fino allo sconvolgente finale. Ed è proprio quest’ultima parte che Paolo Zuccari (regista nonché attore – con una formidabile prestazione – nei panni dell’eclettico Luca) non riesce a valorizzare nella messinscena: nel momento del colpo di scena, il pathos raggiunto finisce per dissolversi brevemente.
Degne di nota sono le interpretazioni delle tre attrici (Antonella Attili, Stefania Micheli ed Elodie Treccani): i loro sguardi dardeggianti infiammano il palcoscenico; la loro intesa sembra fraterna; i loro passi sono precisi nello spazio quadrato circoscritto dai mobili: sbarre della prigione ideale in cui sono rinchiusi i personaggi da loro interpretati. Seppur la scelta scenografica si riveli in più occasioni efficace, appare talvolta fin troppo essenziale.
Una storia di amore; una storia di abbandono. Si può abbandonare per amore?
Carlos Eleta Almarán usa queste parole nella sua “Historia de un amor”, non a caso la stessa canzone legata a Margherita Capuano:
Ya no estás a mi lado, corazón, Non sei più accanto al mio cuore
en el alma sólo tengo soledad Nell’animo ho solo solitudine
y si ya no puedo verte, E se non poso più vederti
porque Dios me hizo quererte Perché Dio ha voluto che ti amassi
para hacerme sufrir más? Per farmi soffrire di più?
data di pubblicazione: 14/02/2017
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 13, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Bright Nights del regista tedesco Thomas Arslan apre non bene questa quinta giornata della Berlinale. In occasione della morte del padre, che viveva in un posto remoto della Norvegia, Michael parte da Berlino con il figlio quattordicenne Luis che incontra sporadicamente da quando si è separato dalla moglie. Dopo il funerale, i due decidono di passare qualche giorno insieme accampandosi con la tenda tra i boschi e i laghi norvegesi. Per Michael e Luis, che durante il viaggio a stento si rivolgono la parola, potrebbe essere un pretesto per ritrovarsi e far nascere una affettività mai esistita. Il film è avaro di contenuti e la sceneggiatura procede con una lentezza esasperante, per poi non approdare a nulla evidenziando una certa inconsistenza.
Di ben altra pasta il film The Party della regista inglese Sally Potter che porta sul grande schermo una piéce teatrale in bianco e nero molto divertente e per nulla banale, un’amara ed allusiva riflessione sulla politica di oggi e sulle vuote prospettive che ci vengono proposte. Janet, appena nominata ministro di un governo ombra, insieme al marito Bill decidono di festeggiare l’evento con gli amici più intimi, invitandoli a casa loro. Una inaspettata dichiarazione di Bill sconvolgerà la variegata brigata che si troverà ad affrontare un pericoloso gioco al massacro dove ognuno risulterà vittima e carnefice allo stesso tempo. Il cast è di prim’ordine: Patricia Clarkson, Bruno Ganz, Cherry Jones, Emily Mortimer, Cillian Murphy, Kristin Scott Thomas e Timothy Spall. Il film è stato molto apprezzato dal pubblico in sala, piacevolmente intrattenuto dai dialoghi molto taglienti che hanno fatto sorridere, mitigando così la reale tragedia in gestazione. ù
Ultimo della giornata, sempre tra quelli in concorso ufficiale, Mr. Long del giapponese Sabu. Il film è un alternarsi di violenza da vero e proprio action movie e momenti di serenità domestica che si alternano a sentimenti di puro amore. Long, spietato killer in Taiwan, si trova braccato da pericolosi malavitosi ed è costretto a nascondersi in Giappone dove sopravvive preparando deliziose zuppe per il vicinato e per qualche casuale cliente. Il protagonista, aiutato dal piccolo Jun, cerca di raccogliere i soldi necessari per ritornare al suo paese e riprendere la vita spregiudicata di sempre. La storia si lascia seguire anche se la sceneggiatura è piuttosto prevedibile: qualche sforbiciata qua e là avrebbe sicuramente giovato all’intera narrazione che all’inizio prometteva molto bene in quanto sembrava discostarsi dai soliti cliché giapponesi, ma nel complesso poi è sembrata piuttosto deludente.
data di pubblicazione:13/02/2017
da Antonietta DelMastro | Feb 13, 2017
È la storia di Pietro, un bambino di Milano che fin da piccino viene portato tutte le estati dai suoi genitori in montagna, a Grana nella val d’Ayas, un valle “chiusa a monte da creste grigio ferro e a valle da rupe che ne ostacola l’accesso”; i genitori di Pietro si sono conosciuti e sposati in montagna, ai piedi delle tre cime di Lavaredo; non potevano non tornare al loro antico amore e coinvolgere anche il loro piccino.
A Grana Pietro farà amicizia con Bruno che diventerà, a tutti gli effetti, il fratello che non ha: passano insieme estati a esplorare case abbandonate, ruderi, a tentare di buttare la mola di un vecchio mulino nel torrente, a imparare il dialetto che a Pietro, divenuto Berio, sembrava più appropriato da usare in quei luoghi dove il larice era la “brenga” o i versanti della valle erano “adret” quello esposto al sole e “envers” quello all’ombra, dove vivano gli animali.
“Forse è vero, come sosteneva mia madre, che ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene”.
La quota amata dalla mamma con i boschi e i caprioli, quella amata da Pietro con le torbiere e i pascoli estivi e infine il regno del padre, ben oltre i 2000, dove la montagna diventa aspra e inospitale; era lì che le camminate agostane portavano padre e figlio, ed era quello il momento in cui erano più uniti, era “la cosa più simile a un’educazione che io abbia ricevuto da lui”.
Un libro che parla di un mondo maschile, dell’amicizia dei due ragazzi e di quello che solo anni dopo Pietro scoprirà: il triangolo che si era formato tra lui, suo padre e Bruno, scoprirà quando fosse stato faticoso il rapporto tra se stesso e suo padre e quanto stare insieme camminando, scalando, fermandosi nelle malghe e nei rifugi in silenzio, concentrati su ciò che si ha da fare avesse minato il loro affiatamento e, quanto invece avesse unito suo padre al figlio putativo, Bruno, con cui il silenzio e il non detto lo aveva legato.
L’unica che parlerà e unirà i fili rimasti sciolti nel rapporto tra padre e figlio sarà la madre, custode della storia della famiglia, che permetterà a Pietro di capire tante cose di quel padre così chiuso, così nervoso, così distante.
Un linguaggio magistrale, essenziale e intenso che ci fa assaporare questo romanzo “di formazione” in cui, come per Pietro e il padre, quello che più conta sono le parole tralasciate.
Ho amato questo libro, ho amato entrare nel mondo maschile dell’amicizia, riconoscere la potenza e la profondità di un affetto fatto di azioni concrete, senza parole.
data di pubblicazione:13/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 12, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Questa quarta giornata ha finalmente aggiustato il tiro, facendo quasi dimenticare quel leggero sconforto che aleggiava tra i rappresentanti della stampa internazionale qui presenti per la Berlinale. I tre film proposti, molto diversi per tipologia e ambientazione, hanno infatti convinto il pubblico in sala che si è persino lasciato andare a inaspettati prolungati applausi. Il primo film è stato Pokot, della regista polacca Agnieszka Holland, un thriller psico-ecologista ambientato tra i boschi della Polonia dove vive da sola Duszejko (Agnieszka Mandat). Oramai in pensione, la donna mostra un’esagerata passione per gli animali che la porta a lottare in maniera aggressiva contro la società locale, molto propensa invece alla caccia indiscriminata. La bellezza della natura incontaminata dove si muovono liberamente i cervi, i cinghiali ed ogni altro tipo di animale selvaggio contrasta con la mentalità corrotta della gente, che sembra addirittura coalizzata contro di lei.
Di ben altro spessore il film fuori concorso Viceroy’s House di Gurinder Chadha, regista nata in Kenia ma di origini indiane. Il film vuole essere un devoto omaggio al paese dei suoi genitori che vissero in prima persona le vicende del 1947 che segnarono la fine della colonizzazione britannica in India e la creazione del Pakistan, un nuovo stato creato allo scopo di sedare le cruenti lotte interreligiose tra Indi e Mussulmani. Il ruolo del vicerè britannico, pronipote della regina Vittoria, è affidato a Hugh Bonneville, attore inglese molto conosciuto che ha raggiunto la notorietà grazie a Notting Hill, mentre l’americana Gillian Anderson, nota per aver partecipato alla serie televisiva X-Files, impersona sua moglie. La pellicola vanta un cast eccezionale ed una incredibile ambientazione all’interno del palazzo imperiale di Nuova Delhi entro le cui mura, oltre ai fatti storici trattati, c’è persino spazio per una love story molto sofferta tra due giovani di diversa appartenenza religiosa. Film molto interessante dunque per molteplici aspetti, con una produzione di tutto rispetto ed una regia veramente di prim’ordine: non stupirebbe un riconoscimento da parte della giuria.
Il terzo film in programma Una Mujer Fantastica, del regista cileno Sebastian Lelio, ci proietta su un pianeta completamente diverso: la realtà dei transgender. Marina e Orlando hanno una intensa storia d’amore che viene troncata dalla tragica, quanto mai inaspettata, morte dell’uomo. Da questo momento Marina deve subire tutta una serie di soprusi da parte della famiglia di Orlando a partire dalla ex moglie che gli impedisce addirittura di partecipare ai suoi funerali. Sospettata e umiliata persino dalla polizia, la ragazza dovrà a proprie spese imparare a difendersi per sopravvivere e costruirsi una nuova vita. Molto intensa Daniela Vega nel ruolo della protagonista, che è riuscita a portare il pubblico in sala dalla sua parte, instillando la voglia di lottare per la difesa dei suoi diritti civili e della sua libertà sessuale. Giornata quindi intensa e piena di sorprese che ci predispone bene nel seguire con attenzione i rimanenti (ancora numerosi) film in selezione ufficiale.
data di pubblicazione:12/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 11, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Apre questa terza giornata berlinese Félicité, il film in concorso di Alain Gomis, francese di nascita ma di origini africane. Félicité è il nome della protagonista, che si guadagna da vivere cantando in un bar di Kinshasa; a seguito di un incidente nel quale il figlio è rimasto gravemente ferito, la donna è costretta per farlo operare a ricorrere alla solidarietà dei suoi poveri ammiratori. Nonostante la tematica affrontata, che sicuramente rimanda alla triste condizione sociale del Congo, il film, di cui Alain Gomis ha curato anche la sceneggiatura, non riesce a coinvolgere più di tanto, e la musica africana che avrebbe potuto essere il collante all’intera storia, non assume invece quella nota di rilievo che ci si sarebbe aspettati. Altro film in concorso è stato Wild Mouse dell’austriaco Josef Hader, opera prima di cui ha curato anche la sceneggiatura oltre a ricoprire il ruolo da protagonista. Georg, esperto critico musicale di una testata giornalistica, si trova dall’oggi al domani licenziato per un problema di riduzione dei costi e quindi, furioso verso il suo ex capo, medita una vendetta che possa in parte compensare la frustrazione subita. Il film, che presenta un lato umoristico anche se a tinte amare, è una drammatica critica alla classe media viennese dove, talvolta, una improvvisa deviazione alle regole borghesi può essere persino tollerata e giustificata. La storia, tuttavia, non riesce proprio ad appassionare. Finalmente, anche se fuori concorso, viene proiettato Final Portrait dell’attore, regista e produttore americano Stanley Tucci, che porta per mano lo spettatore nell’atelier di Alberto Giacometti, dandogli la possibilità di osservare da vicino le stravaganze di questo pittore e scultore svizzero. L’artista propone ad un critico d’arte americano, James Lord, di posare per lui per un ritratto; ma i tempi di gestazione dell’opera saranno enormemente lunghi perché Giacometti, come una bizzarra Penelope, distrugge in un attimo ciò su cui per giorni aveva lavorato, ricoprendo quanto già dipinto per poi iniziare l’opera daccapo. L’attore australiano Geoffrey Rush (vincitore di vari premi internazionali nonché di un Oscar per il film Shine) ricopre il ruolo del protagonista confermando la sua incredibile bravura e versatilità. Da segnalare anche l’interpretazione del bell’attore californiano Armie Hammer nella parte di James, che riesce ad adattare la sua figura aristocratica all’ambiente polveroso e bohemien dell’artista. Il film è divertente, l’ambientazione perfetta, i personaggi riescono veramente a coinvolgere il pubblico. Ecco finalmente l’unico film, seppure fuori concorso, che ha riscattato un’intera giornata altrimenti tragicamente noiosa.
data di pubblicazione:11/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 10, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Dopo Django che ha aperto ufficialmente ieri la Berlinale, tre film molto diversi tra di loro sono stati presentati in questa seconda giornata. Il primo è stato On Body and Soul della regista ungherese Ildikò Enyedi, in concorso, che ha portato sul grande schermo la storia di un uomo e di una donna che lavorano in un mattatoio, e che cautamente cercano di unire le proprie solitudini esistenziali dando vita a qualcosa che possa avere la parvenza di un rapporto d’amore. La storia scorre lentissima e sembra almeno inizialmente voler volare alto, cercando di svelare l’intimo imperscrutabile dei due protagonisti Maria (Alexandra Borbéli) e Endre (Géza Morcsanyi). Il risultato, purtroppo, delude le aspettative.
Dopo due ore di “calma piatta”, il pubblico si vede catapultato in una dimensione completamente diversa con il film fuori concorso di Danny Boyle T2 Trainspotting che raccoglie, vent’anni dopo, le stravaganze dei ben noti quattro eroinomani alle prese con problematiche esistenziali e con il loro rifiuto a qualsiasi forma di vita convenzionale. Renton (Ewan McGregor) torna a casa dopo anni di latitanza per incontrare i vecchi amici ai quali aveva sottratto il ricavato di una partita di eroina da loro venduta; i suoi tre amici Spud (Ewen Bremner), Sick Boy (Jonny Lee Miller) e Begbie (Robert Carlyle) lo stanno aspettando per regolare brutalmente i conti in sospeso. Il montaggio, perfettamente riuscito, grazie a dei flash back ci rimanda a quel Trainspotting che tanto strepitoso successo riscosse tra i giovani della generazione di allora, con un ritmo frizzante che riesce a coinvolgere emotivamente anche il pubblico più moderato.
Terzo film in concorso è stato The Dinner, del regista israeliano Oren Moverman, che ha decisamente trovato largo consenso tra il pubblico in sala. Paul (Steve Coogan) viene costretto dalla moglie Claire (Laura Linney) ad accettare un invito a cena da parte di suo fratello Stan (Richard Gere) e di sua moglie Barbara (Rebecca Hall). Tra una portata e l’altra in un ristorante di lusso dove Stan, prossimo candidato a Governatore, è di casa, i quattro si trovano a fronteggiarsi l’un contro l’altro nel prendere una importante decisione che riguarda i rispettivi figli, responsabili di un terribile crimine. Molto interessante lo studio caratteriale dei personaggi che mette in luce le diversità dei due fratelli, ma soprattutto il loro discordante senso di responsabilità nei confronti dei propri figli ora che il loro stesso futuro è seriamente messo in pericolo. Il regista evidenzia in modo molto netto il conflitto etico che spesso caratterizza la vita dell’uomo politico e quella dell’uomo comune nel trovarsi a fronteggiare situazioni imprevedibili e talvolta in contrasto con le proprie convinzioni morali. La pellicola, che ha decisamente convinto il pubblico in sala, si lascia seguire con attenzione ed interesse; splendida l’interpretazione di un maturo Richard Gere che mai come in questa prova è riuscito a dare il meglio di se stesso.
data di pubblicazione:10/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 9, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Inaugura la kermesse berlinese il film Django, opera prima da regista del francese Etienne Comar, già conosciuto a livello internazionale per aver firmato le sceneggiature di tantissime pellicole di successo tra le quali Mon roi, La cuoca del Presidente, Uomini di Dio. Il film, ambientato in Francia durante l’occupazione nazista, narra la storia del celebre chitarrista e compositore Django Reinhardt che, grazie al suo talento musicale, riesce a guadagnarsi l’ammirazione delle truppe tedesche che gli risparmiano, insieme alla sua famiglia, il crudele destino al quale erano condannati tutti coloro che, come lui, appartenevano alla stirpe gitana dei Sinti. Il Kommando locale tedesco lo invita addirittura ad esibirsi in Germania in concerti organizzati espressamente per lui e la sua band, al fine di utilizzare la sua “gypsy swing music” per motivi propagandistici e contrastare così il dilagare della musica afro-americana. Django vi si oppone fermamente e, aiutato da una sua ammiratrice/amante, riesce a fuggire da Parigi dove oramai è braccato, per rifugiarsi sul lago di Ginevra in attesa di trovare l’occasione opportuna per raggiungere la Svizzera e quindi la salvezza.
Il buon ritmo della pellicola denuncia l’esperienza da sceneggiatore di colui che è dietro la macchina da presa e, al di là del fatto narrativo, Django ha come vera protagonista la musica che, attraverso il suono della chitarra, riesce ad influenzare e convincere con la sua forza travolgente anche la natura umana più coriacea. Le esecuzioni jazz, affidate alla band olandese Rosemberg Trio, riescono infatti ad avvolgere piacevolmente anche il pubblico in un turbine di emozioni talmente forte, da riuscire a porre in dissolvenza quanto di tragico si sta perpetuando sullo schermo. Ottima l’interpretazione dei due protagonisti Reda Kateb (Django) e Cécile de France (la sua amante Louise), bella l’ambientazione e particolarmente toccante la scena in cui si moltiplicano all’infinito una serie di foto di volti accompagnate da un requiem composto dallo stesso Django, quale meravigliosa dedica a tutti gli zingari vittime della ferocia nazista.
data di pubblicazione:09/02/2017
da Felice Antignani | Feb 9, 2017
Roma, un anno e mezzo dopo le vicende che hanno portato all’arresto di Pietro e dei suoi amici, meglio conosciuti come “La banda dei ricercatori”, Pietro è in carcere a colloquio con la moglie e con il loro figlio di quasi un anno. Con un flashback la vicenda riparte proprio dall’arresto di circa un anno e mezzo prima, momento in cui Pietro e i suoi vengono reclutati dalla Polizia per condurre indagini contro la fabbricazione e lo smercio delle smart drugs, ottenendo, in cambio, la promessa di libertà. La banda dei ricercatori torna operativa, quindi, ma le sorprese non tardano ad arrivare.
Sidney Sibilia torna alla regia del suo prodotto, Smetto quando voglio, dopo il debutto con i fiocchi del 2014, e lo fa con un film che non fa assolutamente rimpiangere il primo, anzi. La narrazione non è mai prevedibile o scontata, il ritmo è costantemente alto, le battute sempre intelligenti e divertenti. Nel complesso, Smetto quando voglio – Masterclass è un film brillante, una commedia che si differenzia da tutte le altre del panorama italiano attuale (la maggior parte di basso profilo e contenuto, a parere di chi scrive). Diretto in maniera dinamica, fluida e sempre efficace da Sibilia, supportato da una brillante sceneggiatura ed interpretato in maniera molto convincente oltre che dai vecchi anche da nuovi protagonisti – tre sono infatti i nuovi personaggi: un medico abusivo, un sedicente trafficante di armi ed un avvocato in Vaticano – Smetto quando voglio – Masterclass entra di diritto nel complesso delle commedie nostrane (e odierne) che meritano di essere viste e ricordate. Il finale è aperto, anzi di più: in fine di proiezione, lo spettatore vede immagini di quello che sarà il seguito, un nuovo film della (quindi) trilogia, chiaramente girato contemporaneamente a questa seconda parte, che non può che essere atteso con trepidazione.
Da vedere (e gustare), assolutamente.
data di pubblicazione:09/02/2017
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