FAUST di Goethe, ricerca sul linguaggio dell’Opera di Pechino di Li Meini, regia di Anna Peschke

FAUST di Goethe, ricerca sul linguaggio dell’Opera di Pechino di Li Meini, regia di Anna Peschke

(Teatro Argentina – Roma, 7/12 marzo 2017)

Il Faust di Goethe approda al Teatro Argentina di Roma dal 7 al 12 marzo ed incontra il Jīngjù, l’antichissima forma scenica dell’Opera di Pechino. Una tragedia riletta in un contesto culturale lontano ed etereo di elevato impatto coreografico e visivo grazie alla capacità visionaria della regista tedesca Anna Peschke e alla fruttuosa collaborazione con la Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino.

Il Faust in lingua cinese e con sovratitoli in italiano è una esplorazione artistica ed una sfida importante affidata alla giovane Anna Peschke e a un gruppo di altrettanto giovani interpreti cinesi accompagnati da un ensemble musicale composto da musicisti italiani e cinesi, che eseguono un repertorio musicale originale composto da Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Chen Xiaoman.

L’opera viene messa in scena come un Jīngjù, la famosa arte performativa che non solo combina canto e recitazione, ma comprende anche danza, arti acrobatiche e marziali, offrendo nuove prospettive ad una storia senza tempo.

La vicenda del romanzo è stata rispettata fedelmente, anche grazie al testo della drammaturga Li Meini che ha curato l’adattamento in mandarino poetico. Protagonisti sono Faust (Liu Dake) e Mefistofele (Wang Lu). Il primo, dedito allo studio e alla conoscenza ormai giunto alla fine dei suoi giorni, si rende improvvisamente conto di non aver mai vissuto realmente la vita e stringe un patto con il diavolo affinché lo faccia tornare giovane per avere una seconda opportunità di vivere pienamente la vita e tutte le sue occasioni precedentemente perse. Affiancano la coppia principale Margherita (Zhang Jiachun) e suo fratello Valentino (Xu Mengke). La giovane donna cade vittima di un incantesimo lanciato da Mefistofele e si innamora perdutamente di Faust, che la lascerà subito dopo aver raggiunto lo scopo di possederla e, a causa di Mefistofele, averle rovinato la vita tramite la morte della madre e del fratello Valentino.

Il personaggio di Faust simboleggia l’archetipo dell’uomo contemporaneo che in nome del proprio piacere e per avidità, sottomette e sfrutta la natura e le persone, noncurante della miseria e della distruzione che genera. Mefistofele induce Faust in tentazione con scaltre promesse di giovinezza, amore e piaceri, ma Faust sceglie in piena consapevolezza e responsabilità.

Il potente scambio tra la cultura teatrale tedesca e le performing arts orientali consente l’interazione di diversi linguaggi scenici fatti propri dagli attori, vere e proprie maschere della Commedia dell’Arte che si esprimono in gesti stilizzati e duelli, a metà tra creature ninja e pupi siciliani, capaci di un controllo del corpo e di una cura dei gesti che sfiora la perfezione generando nuove suggestioni alla tragedia di Goethe.

La scenografia di Li Jiyong è essenziale, estremamente suggestiva come solo l’oriente sa essere sfrutta i contrasti cromatici del nero, del rosso e del bianco per le diverse situazioni della vicenda.

Uno spettacolo maestoso ed essenziale al tempo stesso. Due i momenti di grande pathos: la scena dell’impiccagione di Margherita, evocata da alcune sedie rosse fatte a pezzi che scendono improvvisamente dall’alto su uno sfondo di luci bianche e la disperazione di Faust che piange il suo destino e quello di Margherita. In ginocchio sul proscenio si tocca il viso e si guarda le mani sporche di trucco, capisce di essere diventato altro, di aver mutato la sua natura. Momenti estremamente toccanti ancora più forti perché rappresentati in una lingua e in una recitazione così distanti e così diretti.

data di pubblicazione:11/03/2017


Il nostro voto:

SCANNASURICE di Enzo Moscato, regia di Carlo Cerciello, con Imma Villa

SCANNASURICE di Enzo Moscato, regia di Carlo Cerciello, con Imma Villa

(Teatro Eliseo – Roma, 8/19 Marzo 2017)

Peripatetico fatiscente sulla via del decadimento, narra storie partenopee dalla sua gabbia di cemento.

 

“Dicitencello vuje ca nun mma scordo maje. E’ na passione, cchiù forte ‘e na catena, ca mme turmenta ll’anema e nun mme fa campá!” è il grido straziante che emana la radio; parole scritte da Enzo Fusco per la canzone “Dicitencello vuje”: canto disperato di un innamorato nei confronti della donna amata. Non è l’unico lamento che si sente nei Quartieri Spagnoli, anche l’androgino Scannasurice racconta mestamente le storie del suo quartiere, della sua città, mentre si inerpica negli stretti cunicoli dell’antro in cui vive, cercando al contempo di vestirsi prima di vendere piacere al corpo altrui.

In questo ambiente marcio, dove non c’è redenzione, Imma Villa si esprime in modo autentico, viscerale, e si fatica a credere che una volta tolta la maschera ci sia un’attrice dietro i costumi indossati.

Non si hanno invece dubbi sull’incredibile talento di Roberto Crea, che attraverso la realizzazione delle scene riesce sempre a sbalordire, consentendo allo spettatore di assistere a sculture teatrali interattive. In questo caso riempie l’intero palcoscenico con la sezione tagliata del palazzo decrepito abitato da Scannasurice, consentendo così di vedere all’interno dello stesso: abiti lerci, rimasugli di rifiuti, bottiglie di vino semivuote popolano l’abitazione: una tana sotterranea in cui l’attrice si muove strisciando come un topo (“surice”) e da cui proviene l’eco quando si insinua negli anfratti più buî. Allora il reticolato fitto di travi, che costituisce la struttura alla palazzina, non è altro che la grata di un tombino, da cui si può osservare una vera e propria cloaca.

Il suono ridondante proveniente da questo ambiente è reso ancor più tondo e avvolgente dal dialetto napoletano, utilizzato durante tutte la pièce. Se la scelta di mantenere la lingua napoletana appare più che giustificata dalla natura dello spettacolo, non si può condividere la mancanza di sottotitoli (nonostante la velocità del monologo) che consentano a tutti gli spettatori di comprendere lo svolgimento della rappresentazione. Al termine della stessa si rimane perciò indubbiamente estasiati dalla mimica e gestualità dell’attrice, dalla forza espressiva della scenografia, dalle musiche dolcemente malinconiche di Paolo Coletta; ma con un vuoto incolmabile riguardo a quanto accaduto. E una volta venuti a conoscenza della sinossi, si ha invece il rimpianto di non aver potuto assaporare appieno la messinscena – spettacolo che peraltro ha ricevuto nel 2015 il premio della critica (e viene da pensare che tutti coloro che l’hanno giudicato abbiano radici partenopee o conoscano bene il dialetto di quella zona).

La traduzione di certo non potrebbe restituire a pieno tutte le nuance sottese all’opera – e sarebbe anche difficile da seguire, vista la velocità delle battute (su ciò si condivide quanto detto da A. Tabucchi “La traduzione non è l’opera, ma un viaggio verso la stessa”) – però consentirebbe ad un pubblico maggiore di apprezzare Scannasurice.

data di pubblicazione:10/03/2017


Il nostro voto:

ROSSO ISTANBUL di Ferzan Ozpetek, 2017

ROSSO ISTANBUL di Ferzan Ozpetek, 2017

L’atteso ritorno di Ferzan Ozpetek non poteva che sorprendere e avvenire in grande stile. Rosso Istanbul è infatti una pellicola in parte diversa dalle storie alle quali il regista de Le Fate Ignoranti ci aveva abituati, ma, al contempo, racchiude quelli che potremmo ormai definire i topos della cinematografia di Ozpetek.

Siamo nel pieno della primavera – 13 maggio 2016 – e Istanbul è cornice e protagonista di questa storia introspettiva di sentimenti a cavallo tra il passato e il presente.  Orhan Sahin (Halit Ergenç), da 20 anni “esiliato” a Londra, torna nella sua città natia per aiutare in veste di editor l’amico Deniz Soysal (Nejat Isler). Il primo è un famoso scrittore, autore di un libro di successo di favole antiche della tradizione ottomana rivisitate in chiave moderna, il secondo è un famoso regista cinematografico che ha bisogno di Orhan per completare la stesura del suo primo romanzo decisamente autobiografico.

La missione che riporta Orhan a Istanbul viene, però, subito bruscamente arrestata dalla misteriosa sparizione di Deniz. Tuttavia, è come se da questa anomala scomparsa la missione di Orhan divenga un’altra: attraverso la forzata quotidianità nella casa di Deniz, con i suoi parenti e gli amici più intimi (che già conosceva attraverso la lettura della bozza del romanzo), Orhan compirà, inaspettatamente, un percorso di ricerca e resa dei conti finale con i propri sentimenti, con gli spettri di un passato tormentato, fino a una rinascita interiore che lo farà ricongiungere con i propri legami affettivi nonché prepararlo a futuri nuovi amori. Il tema centrale del film è l’importanza dei legami: i legami ci tengono vivi, ci permettono di amare, imparare, soffrire, ma possono anche tenerci intrappolati, prigionieri di angosce, di sofferenza.

Il ritorno a Istanbul, al suo cielo azzurro che si fonde con le acque del Bosforo, l’incontro inaspettato con Neval (Tuba Büyüküstün) – una sorta di Audrey Hepburn ottomana, amica intima di Deniz – e con Yusuf (Mehmet Günsür) – amore tormentato e maledetto di Deniz -, condurranno il protagonista alla riconquista della sua vita, simbolicamente rappresentata con il tuffo senza veli nel Bosforo per attraversarlo a nuoto. Il personaggio di Orhan, ha il volto espressivo e profondo dell’attore Halit Ergenç che con i suoi grandi occhi blu conferisce spessore, profondità ed emotività ad un film costruito prevalentemente sui silenzi, sugli sguardi, sulle parole forzatamente soffocate e gli scorci di una Istanbul cosmopolita, affascinante, elegante, a tratti opulenta – decisamente lontana dagli attentati e dal sangue che purtroppo la stanno devastando -.

Come preannunciato, i grandi temi di Ozpetek ci sono tutti: il forte legame del regista aspirante scrittore Deniz con la madre e le donne che animano la sua casa, l’amore omosessuale libero e tormentato e quello eterosessuale in cui la donna – in questo caso Neval – incontra il vero amore dopo aver sposato un altro uomo; la scena del grigio e freddo obitorio per il riconoscimento di un cadavere (chiara citazione di Saturno contro) e l’immancabile ruolo di macchietta (il personaggio Sibel) affidato come sempre all’attrice Serra Yilmaz . Il film colpisce per l’ottima fotografia, la scenografia e le musiche, il cast turco convince, ma poi la storia, pur catturando lo spettatore nella ricerca della verità attraverso una latente legante tensione che dovrebbe condurre alla soluzione della scomparsa di  Deniz, in alcuni punti si perde lasciando un senso di incompiutezza che penalizza poi l’intero film.

data di pubblicazione: 10/03/2017


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LA LUCE SUGLI OCEANI di Derek Cianfrance, 2017

LA LUCE SUGLI OCEANI di Derek Cianfrance, 2017

Un’isola tra due oceani, un faro e il suo guardiano, un uomo e una donna chiamati al cospetto delle proprie responsabilità.

Responsabilità, senso di colpa, coraggio e perdono. Sono queste le parole chiave che potrebbero sintetizzare The light between oceans di Derek Cianfrance, presentato alla 73. Mostra di Venezia.

Tom (Michael Fassbender, candidato all’Oscar nel 2016 per Steve Jobs) diviene il guardiano del faro dell’isola Janus. È reduce dalla prima guerra mondiale e dopo gli orrori della trincea non teme l’assolutezza di una solitudine che ha messo a dura prova i precedenti guardiani. Desira anzi concedersi una pausa dalle proprie responsabilità, nascosto e protetto dalla magnificente sontuosità di una natura che diviene a tutti gli effetti una protagonista della suggestione visiva confezionata da Cianfrance. Izabel (Alicia Vikander, premio Oscar 2016 per The Danish girl) riaccende in Tom la scintilla di una vitalità che pareva irrimediabilmente soffocata e sceglie di condividere il magnifico isolamento di Janus, in una dimensione sospesa dallo spazio e dal tempo. Il passato, del resto, va superato e del futuro non si può parlare, trattandosi al più di speranze o desideri: non resta dunque che vivere il presente, cristallizzandolo in un fotogramma sospeso tra il “prima” e il “poi”. Come Giano bifronte e il mese di gennaio che da quella divinità deriva il suo nome, a metà strada tra la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo. Come l’isola di Janus e il suo faro, chiamati a fare da spartiacque e, al tempo stesso, da raccordo, tra due oceani. Ma il tempo e la vita sono refrattari a ogni tentativo di fermo immagine e continuano inesorabili la propria corsa verso l’eterno ritorno.

Dal mare arriva una prova: un uomo morto e una bimba viva a bordo di una barca alla deriva. Le coscienze dei due protagonisti si trovano di fronte alla necessità di una scelta, innescando una spirale di sentimenti contrastanti, una tempesta in grado di rendere invisibile quel faro che aveva restituito l’impressione di un rassicurante punto di riferimento. Ogni scelta però comporta delle responsabilità, dalle quali neppure la solitudine dell’isola può rendere esonerati. Non resta dunque che trovare la via per evadere da quella che, per usare le parole scelte da Alicia Vikander, si trasforma in una vera e propria “prigione emotiva”.

Tratto dall’omonimo romanzo di M.L. Steadman, The light between oceans riesce senza dubbio nell’intento di confrontarsi con interrogativi universali, capaci di andare ben oltre la contingenza della singola storia. Michael Fassebender e Alicia Vikander (sor)reggono una sceneggiatura dal peso indubbiamente non trascurabile, a tratti ridondante, con qualche concessione di troppo nel finale. La regia, la fotografia e il talento degli attori (molto convincente anche la prova di Rachel Weisz) riescono però a tenere insieme i pezzi di una storia dalle molteplici chiavi di lettura.

data di pubblicazione: 09/03/2017


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OMICIDIO ALL’ITALIANA di Maccio Capatonda, 2017

OMICIDIO ALL’ITALIANA di Maccio Capatonda, 2017

La Giustizia affidata alle indagini condotte nei salotti televisivi e i giornalisti che divengono sacerdoti di un rito pronto a sacrificare ogni morale all’altare dello share: un surreale ma incredibilmente realistico affresco di quel che resta di uno Stato di diritto umiliato dalla logica del processo mediatico.

Acitrullo è un piccolo paese (s)perduto nell’entroterra molisano, dove si può arrivare solo affrontando una serie interminabile di curve, salite, discese e strade interrotte. 16 anime, età media 68 anni, niente campo per il cellulare e un modem 56K che fallisce il suo tentativo di connessione con il resto del mondo.

Il Sindaco Pino Peluria (Maccio Capatonda) non riesce ad arrestare l’inesorabile esodo dei compaesani verso Campobasso e anche suo fratello Marino (Herbert Ballerina) sogna ormai una nuova vita nella “capitale del mondo”. L’improvvisa morte dell’arcigna contessa Ugalda Martirio in Cazzati (Lorenza Guerrieri) riaccende però le speranze di Pino. Acitrullo ha l’occasione di conoscere i fasti di Avetrana, Novi Ligure, Cogne, Erba: paesi sconosciuti, che la TV e il turismo dell’orrore hanno reso famosi nel mondo.

In paese arrivano le forze dell’ordine capeggiate dall’inetto commissario Fiutozzi (Gigio Morra), ma le indagini sono condotte dalla troupe di “Chi l’acciso” e dalla regina dello share tinto di giallo, la dottoressa Donatella Spruzzone (una superba Sabrina Ferilli). Gli effetti benefici non tardano ad arrivare: Acitrullo, reso famoso dalla luce accecante del piccolo schermo, è inondato da turisti provenienti da ogni parte d’Italia che, importando l’abitudine dell’aperitivo e della musica ad alto volume, portano il benessere e spazzano via l’identità del piccolo centro.

La comicità surreale di Maccio Capatonda, distanziandosi dalle realtà, ne tratteggia un affresco impietoso ed efficace: il regista che dispone il “trucco” del cadavere affinché il sangue risalti meglio, l’assassino scelto con il televoto, il commissario che legge il gobbo predisposto dai “professionisti del settore” e l’ammiccante conduttrice televisiva che organizza l’agenda mediatica al solo fine di massimizzare gli ascolti. Quando una storia passa attraverso il piccolo schermo, ammonisce Donatella Spruzzone, non importa più che si tratti di un omicidio o di una catastrofe naturale: tutto diviene intrattenimento, tutto resta piegato al macabro gusto dello spettatore “medio”, ipnotizzato dal rituale del processo mediatico e disposto a tutto pur di assicurarsi un selfie sui luoghi del delitto.

Quando Pino Peluria esclama “I giornalisti stanno venendo ad arrestarci”, con conseguente irruzione in casa del Sindaco di una squadra armata di telecamere e microfoni, la sovversione dello Stato di diritto può dirsi ultimata.

Sebbene qualche gag non risulti del tutto efficace, Omicidio all’italiana resta un esperimento interessante. Impeccabile Sabrina Ferilli, nel ruolo della sacerdotessa del rituale mediatico. Preziosi i camei di Nino Frassica e Ninni Bruschetta. Apprezzabile anche il finale a sorpresa che, regalando alla storia quel bagliore di reale mistero, lo colloca in maniera trasversale a cavallo dei generi, colorando di un sorriso amaro il volto dello spettatore che, almeno una volta nella vita, si sarà fermato  guardare il mondo ricostruito da un plastico.

data di pubblicazione: 07/03/2017


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L’AUTORE E IL SUO DOPPIO di Fabrizio Gifuni, ideazione e regia di Roberta Lena, al suono G.U.P. alcaro

L’AUTORE E IL SUO DOPPIO di Fabrizio Gifuni, ideazione e regia di Roberta Lena, al suono G.U.P. alcaro

(Teatro Vascello – Roma, 2/12 Marzo 2017)

 

Un solo attore per una foresta di voci; un sublime autore per una selva di immagini feroci.”

 

Con passo felpato Gifuni fa il suo ingresso sul palco. L’oscurità lo circonda. Indossa un vestito bianco dello stesso colore delle pagine del libro “Lo straniero” di Camus che andrà a leggere e interpretare; i suoi capelli e la folta barba avvolgono la sua figura come la punteggiatura circonda i diversi enunciati; e la sua voce vigorosa darà vita alle parole stampate, scritte dall’autore francese.

Appena arrivato al centro del palco, due fari lo accecano. La luce del sole lo risveglia e così entra nel personaggio.

A Meursault è da poco deceduta la madre. Si trova nella stanza dell’ospizio ove dimorava. Lui non le si avvicina. Certamente è dispiaciuto per la morte, ma non lo dà a vedere, gli scivola addosso. Nella camera entrano altre figure indistinguibili; ma lui resta in disparte, distaccato, e dopo poco prenderà commiato, senza un gesto di saluto né una parola.

Lo stesso giorno del funerale materno incontrerà sulla spiaggia Maria, una donna che già conosceva, di cui si era invaghito ma che non amava. Visto l’interesse ricambiato, inizieranno una relazione fisica; ma quando lei gli chiederà di sposarla, risponderà con sincerità: per lui era indifferente, non l’amava, e reputava il matrimonio una questione non seria.

Oltre a Maria, Meursault non aveva molte relazioni, interagiva di rado con il suo vicino Raimondo, un personaggio riottoso e prevaricatore, che una sera finì per maltrattare la donna con cui si frequentava. Tale accadimento non restò senza seguito: alcune persone (tra cui il fratello della compagna) iniziarono a pedinare Raimondo per vendicare l’offesa; finché un mattino, mentre si dirigevano insieme verso il lungomare, ebbero con loro una colluttazione in cui Raimondo rimase sfregiato. Un fendente colpì quest’ultimo sul viso e li costrinse a battere in ritirata. Ma Raimondo non si diede per vinto, e non appena si fu ripreso costrinse Meursault ad accompagnarlo fuori. Durante la tranquilla passeggiata di ritorno sulla spiaggia, Meursault si imbatte all’improvviso in uno degli assalitori, che gli punta immediatamente il coltello sul viso. Abbagliato dal sole e accecato dall’adrenalina, estrae la pistola che aveva tolto per prudenza a Raimondo.

Un solo rumore. Rapido. Secco. Istantaneo. Un corpo che cade a terra. Inanime. Immobile. Freddo. E poi altri quattro colpi vengono sparati e si insaccano nel corpo ormai inerte: dopo poco Meursault ha le manette ai polsi e viene condotto al commissariato per l’interrogatorio. Ed è qui che comincia la sua storia.

Albert Camus, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, Julio Cortázar e Roberto Bolaño sono questi gli autori che Fabrizio Gifuni rappresenterà sul palco del teatro Vascello dal 2 al 12 marzo. Nel primo spettacolo riesce insieme a Roberta Lena a condensare in un’ora e mezza centosessanta pagine di libro. Si potrebbero nutrire riserve riguardo la lettura di un libro a teatro, c’è chi potrebbe insinuare che se ne possa fare un uso migliore se lo si legge da soli (come ha fatto provocatoriamente Emanuale Trevi nella sua intervista all’attore), ma Gifuni a tal proposito ha risposto: “Io stesso amo leggere nella mia intimità. Ciò che mi è più estraneo è l’idea di qualcuno che, in maniera più o meno accattivante, esegua un testo scritto. Un libro è un risultato, un magma che si è solidificato. È giusto che prenda la sua strada basata sull’atto di lettura. Io vado in cerca di altro: voglio entrare nella testa di chi lo ha scritto”.

E Gifuni riesce efficacemente nel suo obiettivo di trasportare lo spettatore nel mondo di Camus, nei suoi luoghi immaginari, mettendo in scena le sue inquietudini, il suo malessere, la sua albagia: nuance che non sempre è possibile cogliere con la lettura, ma che l’attore romano riesce a materializzare attraverso la sua voce: “la parte più segreta e misteriosa del corpo” (come diceva Orazio Costa). Una voce che l’attore modula diversamente in base al personaggio evocato, e chiudendo gli occhi si ha la sensazione che sul palco vi siano davvero più teatranti.

Palcoscenico in cui la scenografia è essenziale: sono presenti dei bauli per trasportare il materiale dello spettacolo in un angolo, e nell’altro vi è la postazione da dove G.U.P. alcaro fa partire i suoni che si incanalano nel fiume di parole dell’attore, contribuendo a dare un’ulteriore dimensione alla lettura del testo.

Anche gli effetti scenici sono ridotti all’osso: è l’illuminazione che domina la scena. Le luci calde che rischiarano il candido vestito di lino indossato da Gifuni restringono le pupille e tolgono profondità, in modo che la sua figura si distingua nettamente nel buio che lo avvolge, come una lucciola nella notte; ma nel momento in cui il suo personaggio raggiunge l’apice della sua ribellione, allora i fari posizionati in basso si spengono repentinamente e due luci fredde scendono dall’alto, dilatando le pupille del pubblico e conferendo di nuovo profondità allo spazio: in modo da far fluttuare nell’aria la sua figura, un’ascensione liberatoria, in cui il suo personaggio prende forza, sicurezza e consapevolezza di ciò che gli sta per accadere.

Meursault l’anaffettivo si desta quindi dal suo torpore, ma non si scorda che “non si è mai completamente infelici”. Da questo spettacolo si può invece uscire felici per aver assistito ad una straordinaria interpretazione, anche se gli intervalli temporali tra le diverse scene descritte (in cui viene inserita la musica), se da un lato permettono all’attore di riposarsi, dall’altro risultano vuoti e imbarazzanti – alla staticità continua del personaggio sarebbe in tal caso opportuno abbinare del movimento, per spezzare con il resto della narrazione. D’altra parte, se è vero che non si mai completamente infelici, non lo si è nemmeno felici.

data di pubblicazione: 04/03/2017


Il nostro voto:

BEATA IGNORANZA di Massimiliano Bruno, 2017

BEATA IGNORANZA di Massimiliano Bruno, 2017

Cosa c’è di più lontano e diverso dei mondi di un professore di italiano e di un professore di matematica che a vent’anni hanno rotto la loro amicizia perché innamorati della stessa donna, Marianna (Carolina Crescentini), e che ora insegnano nello stesso liceo con un approccio agli studenti e alle nuove regole della buona scuola on-line completamente agli antipodi? Se poi questi due professori hanno un rapporto altrettanto diverso con le nuove tecniche di comunicazione elettronica, la ricetta diventa esplosiva.

Da questa “strana” coppia di professori, uomini, padri ed ex amici, Massimiliano Bruno muove le fila di una commedia tragicomica, a tratti brillante, per puntare la luce su una verità amara di questi nostri tempi moderni, ovvero su come la tecnologia e al comunicazione via internet abbiano in gran parte devastato la nostra società e la nostra personalità.

Ernesto (Marco Giallini) e Bruno (Alessandro Gassmann) hanno amato Marianna e amano sua figlia, Nina: Ernesto ne è stato il padre per i primi quindici anni, quando poi si è scoperto che il padre biologico era Bruno. Dopo dieci anni, le strade professionali e sentimentali dei due professori si incrociano di nuovo e il liceo dove insegnano diviene uno dei “set” di un documentario/esperimento antropologico ideato dalla stessa Nina quando incredula vede su internet il video, ormai virale, che ritrae i due padri scontrarsi sul tema dell’importanza dei selfie, dei social neworks – di cui Bruno è dipendente – e sull’inadeguatezza di chi come Ernesto non ha lo smartphone, non ha alcun profilo sui social e non concepisce che a scuola tutto sia ora gestito on line via chat. Ha così inizio l’esperimento: Bruno dovrà vivere per due mesi rinunciando al suo amato smartphone, divenuto ormai una protesi del suo corpo, cancellandosi da tutte le pagine dei social network su cui era attivissimo, mentre Ernesto – sprovvisto di computer ma dotato solo di un cellulare Nokia di vecchia generazione -, dovrà attivarsi sul web e dotarsi di pc, tablet e ovviamente di uno smartphone.

Da questa prova emerge chiaramente come l’aberrante condizione di incomunicabilità dell’uomo moderno, già denunciata e narrata da artisti come Samuel Beckett, solo per fare un esempio, continui ad affliggere i rapporti interpersonali anche dell’uomo che oggi, con piccoli marchingegni, può essere in contatto con milioni di persone, di utenti, sparpagliati in ogni parte del globo. E proprio in questo scenario di disagio è davvero carino il personaggio della professoressa (Michela Andreozzi) che guida e supporta un gruppo di persone, tra cui Bruno, affette dalla dipendenza da social networks e smartphones in un percorso di disintossicazione finalizzato al ritrovamento del contatto umano, della vera comunicazione autentica con il prossimo ma anche, a monte, con se stessi (invitando i “tossicodipendenti da socialmedia” a prendere un appuntamento con se stessi per imparare a ritrovarsi e a coccolarsi).

Tra gag esilaranti, in particolare quelle del personaggio interpretato da Giallini, e le macchiette dei due operatori delle riprese del socio-documentario e del coinquilino strampalato che sotto l’effetto della cannabis da voce a grandi pensieri spiegati attraverso le formule matematiche, il film fa sentire l’intero pubblico un po’ sciocco e infantile per l’assuefazione da cyber comunicazione che ormai tocca trasversalmente tutti noi e in parte anche il sistema scolastico pregiudicando l’apprendimento e la formazione dei giovani studenti. Esasperando e colorendo la figura dell’uomo “selfie addicted” Massimiliano Bruno ci regala una fotografia della società contemporanea per farci riflettere su quel che davvero conta nei rapporti umani, su quel che oggi ci rende ancora più soli e incompresi e sul freno che ognuno di noi (anche le istituzioni) dovrebbe dare alla tecnologia via chat e sul web.

Il tutto viene narrato con un registro giusto, che non sfocia in toni demenziali o spiccioli, che ci fa sentire meno superficiali grazie anche alla vena romantica e dolce che il deus ex machina, ovvero il personaggio di Nina (Teresa Romagnoli), conferisce all’intera storia.

data di pubblicazione: 04/03/2017


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IL LAVORO DI VIVERE di Hanoch Levin, regia di Andrée Ruth Shammah con Carlo Cecchi

IL LAVORO DI VIVERE di Hanoch Levin, regia di Andrée Ruth Shammah con Carlo Cecchi

(Teatro Eliseo – Roma, 15 Febbraio/5 marzo 2017)

Carlo Cecchi torna al Piccolo Eliseo con “Il lavoro di vivere” di Hanoch Levin, diretto da Andrée Ruth Shammah in scena fino al 5 marzo, insieme a Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto.

Il testo del drammaturgo israeliano si sviluppa attorno a un letto. Un racconto, tragico e comico, fatto di ricordi e accuse reciproche. Uno spazio circoscritto che diventa un tatami dove, dopo 30 anni di matrimonio, la coppia si scontra e si riaccoglie, tra recriminazioni, rimproveri, insulti, slanci di affetto e rimpianti. È un flashback di vita reale, di passato e presente, di noiosa quotidianità e di paura del domani, di attesa ineluttabile. L’anziano Yona (Carlo Cecchi) a notte inoltrata si sveglia, si alza e ribalta il materasso su cui la moglie Leviva (Flavia Carotenuto) dorme profondamente. Vuole stravolgere la propria esistenza, troppo tranquilla e troppo piatta. Yona è in pigiama. Allaccia la cravatta, indossa calzoni e giacca, prepara la valigia. Vuole andar via per riappropriarsi di una vitalità troppo a lungo messa in disparte. Dal nulla spunta un visitatore, un amico: vuole un’aspirina, forse vuole solo parlare, ma è investito dal rancore dei due. Se ne va, non prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad averli legati per trent’anni l’uno all’altra, abbandonandoli alla loro amarezza. Ma il percorso è avviato ed il destino è segnato; quelle accese ed inutili discussioni sono beffardamente le ultime di una notte che va via portando con se l’uomo e lasciando la donna dinanzi ad una dolorosa e vuota vecchiaia.

Il teatro dell’israeliano Levin, poco rappresentato  in Italia ma invece conosciutissimo in Europa è certamente di impatto, caratterizzato com’è da una strana commistione di spiritualità e nero realismo. Il lavoro di vivere è forse il suo testo migliore: un rapido piano sequenza di ricordi alla soglia della vecchiaia di un uomo e una donna confusi e impreparati ad affrontare il domani. Una narrazione solo apparentemente secco e lineare, ricca com’è di riferimenti a Pinter, Bernhard, Brecht: una commedia sarcastica e di cupa ironia, popolata di personaggi poco eroi ma molto veri. Un testo a volte più leggero ma spietato e crudo. Carlo Cecchi e Fulvia Carotenuto sono i due battaglieri e bravi protagonisti, capaci di rappresentare l’incapacità di amare ancora ma soprattutto la paura della solitudine e di quello che la nuova alba porterà loro. Una inquietudine che permane anche con l’arrivo delle luci del giorno e con il silenzio della scena vuota.

data di pubblicazione: 02/03/2017


Il nostro voto:

QUELLO CHE NON HO di Neri Marcorè, drammaturgia e regia di Giorgio Gallione

QUELLO CHE NON HO di Neri Marcorè, drammaturgia e regia di Giorgio Gallione

(Teatro Quirino – Roma, 28 Febbraio/5 marzo 2017)

“Parole e musiche dal passato, e ancora di attualità sconvolgente, per un futuro che va salvaguardato dalle nefandezze del presente.”

 

Correva l’anno 1995 quando Neri Marcorè comprò il quotidiano ove sperava di leggere le recensioni del concerto di De André cui aveva appena assistito. Con sua meraviglia non trovava ancora le opinioni della critica, bensì un inserto titolato “Scritti Corsari”: una raccolta di articoli e interviste di Pasolini dai toni aspri. Sul momento non lo reputò utile e l’accantonò; ma di recente lo riscoprì e con suo sommo stupore notò che era ancora attuale, nonostante il tempo passato. Le parole del poeta bolognese appaiono descrivere per molti aspetti la situazione contemporanea: cambiano gli interpreti ma la musica è sempre la stessa.

Lo stesso accade con le canzoni di De André; ed è sull’ordito musicale lasciato dal cantautore genovese che Neri Marcorè, chitarra in mano, sferruzza sulle corde come le fila su un telaio, realizzando una trama fitta e articolata, agganciandosi a temi scottanti attraverso le questioni toccate dalle sue canzoni: come “Khorakhanè”, che narra di una bambina soffocata in macchina per la negligenza dei genitori, da cui l’attore trae spunto per parlare di una vicenda analoga che coinvolge la popolazione sinti (e quindi il perdurante problema della xenofobia); “Ottocento”, in cui il mulinello del capitalismo risucchia una famiglia altoborghese, e che consente di ammonire sugli effetti del consumismo imperversante; “Dolcenera”, testo ove si realizza un parallelo tra una storia di un amore rinnegato e l’alluvione di Genova del 1970, acqua che rischia in futuro di coprire le terre emerse su cui viviamo a causa global warming,e che è sempre più inquinata, come risulta dalla vicenda relativa alle “isole di plastica” presenti negli Oceani, ovvero enormi ammassi di polimeri derivanti dai carichi persi in mare durante i tragitti transatlantici, di cui una è pari per dimensioni al suolo del Belpaese. Un’Italia che era stata paragonata, dallo stesso Pasolini a una donna avvenente a cui è attorcigliato un fetido serpente, e che pertanto la rende poco attraente.

Questi sono solo alcuni dei temi e canzoni che si intersecano nel teatro musicale, il meglio bisogna scoprirlo: come l’interrogazione parlamentare su Clarabella…

Un concept album teatrale venato di umorismo e una buona dose di satira sociale quello realizzato da Neri Marcorè e Giorgio Gallione, attraverso cui si focalizza l’attenzione su quanto sta accadendo al nostro paese e pianeta, senza mai scadere in una critica fine a se stessa, ma sottolineando ciò che ha reso migliore il nostro territorio: d’altronde, come viene detto durante lo spettacolo, la metà delle opere presenti ad una sezione del MOMA è di origine italiana (la maggior parte degli anni Sessanta); quel made in Italy che ci ha resi famosi in tutto il mondo e su cui dovremmo continuare a puntare.

Le luci dello spettacolo curate da Aldo Mantovani puntano invece su di un telo increspato che fa da sfondo al palco, il quale si tinge di rosso, verde e blu in base alla scena da realizzare; tonalità di colore che danno rispettivamente un effetto di fiamme, foresta e mare. Una scenografia essenziale ma che riesce a suscitare la sensazione di cambiare scenario a ogni canzone. Meno essenziale la colonna centrale, anch’essa ammantata dal telo, che viene utilizzata soltanto in un’occasione senza particolare rilevanza.

Uno spettacolo dal quale si è affatturati per la sua capacità di trattare temi impegnativi con leggerezza e delicatezza, e in cui si è accarezzati dalla voce soave e stentorea di Marcorè, che riesce a ricordare l’inimitabile De André, grazie inoltre al supporto di Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini: i loro squilli di chitarra e il suono frusciante delle dita sulle corde permettono di sopperire all’inevitabile mancanza di strumenti e il canto in falsetto conferisce coralità partecipativa al canto.

Una canzone che si sarebbe ascoltata volentieri nel finale, che si addiceva peraltro all’ultimo afflato di speranza lanciato dall’attore marchigiano, è “Viva l’Italia” di De Gregori: l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare; l’Italia che si dispera e che si innamora; l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste e l’Italia che resiste. A onta di quanto scriveva Pasolini (che le lucciole sono scomparse: come metafora del nichilismo politico), ci sono ancora stelle che brillano nell’oscurità, ma non sempre si vedono. Allora, secondo l’adagio di Haruki Murakami:“Quando tutto attorno è buio non c’è altro da fare che aspettare tranquilli che gli occhi si abituino all’oscurità”.

Nota a margine: per evitare di creare disinformazione, in uno spettacolo che invece si prefigge di informare, da rivedere la parte in cui si parla di condanna per omicidio colposo per reiterazione del reato, in relazione alla vicenda dei genitori sinti, i cui bambini sono deceduti in un rogo. La reiterazione del reato, in ossequio all’art. 274 c.p.p., è un’esigenza cautelare che consente l’arresto e non la condanna. Se si vuole porre l’accento su di una parte della magistratura politicizzata (fenomeno riconosciuto anche dagli stessi vertici degli organi giudiziari) sarebbe opportuno farlo con chiarezza. Un’imprecisione che non mina di certo lo spettacolo.

data di pubblicazione: 02/03/2017


Il nostro voto:

TIERGARTENSTRASSE 4 di Pietro Floridia, per la regia Daniele Muratore, con Barbara Giordano, Serena Ottardo e Marco Polizzi

TIERGARTENSTRASSE 4 di Pietro Floridia, per la regia Daniele Muratore, con Barbara Giordano, Serena Ottardo e Marco Polizzi

(Teatro Argot – Roma, 21/26 Febbraio 2017)

“Il fascino irresistibile di un girasole luminoso per liberare una disabile dai nazisti e dal loro incubo tenebroso.”

Un fascio di luce calda piove sulla voluta del contrabbasso presente sul palco, proiettando sulla parete nera dirimpetto allo strumento un’immagine somigliante a quella del sole. La stessa forma che assume la prima vocale del nome Ofelia, che si caratterizza per il suo suono tondo e prolungato; a differenza della “i”, acuta e sottile, come i raggi di luce che penetrano nel sottobosco tra le fronde degli alberi. Queste sono solo alcune delle immagini del variopinto affresco di sensazioni che la piccola Ofelia provava ogni volta che il padre pronunciava il suo nome.

Ma ora Ofelia è sola. Non c’è più nessuno in casa. A farle compagnia è rimasto solamente il suo pesce rosso e una carriola: attrezzo prezioso che le permette di coltivare la sua passione per i fiori. Gli stessi che sono disegnati e colorati sul suo vestito bianco.

Una bambina semplice, troppo semplice per un sistema come quello tedesco durante la seconda Guerra Mondiale. E suscettibile pertanto di rientrare nel programma T4, il cosiddetto ‘Olocausto minore’, che prevedeva l’eliminazione dei disabili, ritenute vite ‘indegne di essere vissute’. La valutazione delle condizioni della candida Ofelia spetta all’oscura Gertrud, infermiera nazista avvolta nel suo pastrano nero. Gertrud rimane colpita dall’innocenza della giovane e di conseguenza cercherà di evitare il suo internamento, che l’avrebbe condotta a morte certa. Prova pertanto a indicarle il modo in cui sfuggire al controllo della Gestapo. Ma nonostante i suoi tentativi, Ofelia non riuscirà a nascondere la sua natura.

L’internamento non le impedirà tuttavia di alimentare il suo amore per i fiori; passione che si rivelerà salvifica, dato che i suoi girasoli le permetteranno di uscire dall’istituto e saranno richiesti in tutta la Germania, soprattutto dalle classi agiate e ricche. Il successo sarà condiviso anche con Gertrud, che la ospiterà nella sua casa e otterrà inoltre una promozione.

La terra su cui piantare nuovi bulbi, così come la pazienza di Ofelia a fronte delle pressanti richieste, ha però un limite; ma ciò è incompatibile con la sconfinata avidità nazista, che non ammette rifiuti, e che pertanto riserverà alle due un tragico finale.

Emarginazione, disabilità, crudeltà, sono questi i temi che Pietro Floridia decide di toccare con questo testo; magnificamente interpretato da Barbara Giordano, la cui interpretazione del ruolo di Ofelia è decisamente credibile: un insieme di smorfie, denti digrignati, linguaggio sgrammaticato che mostrano il disagio di una disabile in un mondo che non le appartiene. Il suo trucco, i suoi vestiti e i suoi comportamenti sono in contrapposizione costante con il personaggio interpretato da Serena Ottardo, la cui voce argentina brilla durante le canzoni di Edith Piaf (qualche stonatura di troppo, invece, durante la recitazione). Non stona invece Marco Polizzi al contrabbasso: sempre presente sulla scena, accompagna delicatamente la narrazione, sfoderando dalla faretra l’archetto nei momenti topici e più drammatici.

La scelta di utilizzare le canzoni della cantante francese per sdrammatizzare le scene più crude appare tuttavia avulsa dal resto della narrazione e non sempre contribuisce a distendere il clima di tensione creato con i temi affrontati – che talvolta risultano esasperati.

Delle scene realizzate da Bruno Buonincontri, suggestiva è quella dell’incontro tra Ofelia e l’infermiera, in cui le due si parlano su di un piano sfalsato, enfatizzando l’incomunicabilità tra i diversi mondi e modi di pensare, e il momento in cui la piccola disabile racconta come il padre pronunciava il suo nome quando la chiamava di ritorno a casa.

Uno spettacolo che si prefigge di toccare temi importanti, ma che avrebbe potuto avere una resa migliore

Di certo colpevolizzare è facile, più difficile trovare soluzioni. Quanto bisogna essere grandi per prendersi tutte le colpe?”

data di pubblicazione:28/02/2017


Il nostro voto: