AN EVENING WITH ROY ASSAF, coreografie di Roy Assaf

AN EVENING WITH ROY ASSAF, coreografie di Roy Assaf

(Teatro Vascello – Roma, 12/13 Novembre 2016)

Per la prima volta a Roma, al teatro Vascello, arriva la danza di Roy Assaf, considerato uno dei nomi di punta della nuova generazione di coreografi israeliani con due lavori, Six years later e The hill, a firma dello stesso Assaf che vi partecipa anche come danzatore.

Un dittico, proposto il 12 e 13 novembre, che esalta la capacità creativa del giovane coreografo israeliano, che ha già lavorato per la Batsheva Dance Company, espressione alta di una nuova generazione di danzatori-creatori di immagini con il corpo e il movimento.

La prima è un duetto intimo e appassionato che ci parla del passato e del presente, strettamente legati tra loro come un’inevitabile storia d’amore. Un’affascinante e sensuale  Roy Assaf danza in coppia con una esile ed al tempo stesso forte nella sua centralità, Madison Hoke. Da un approccio semplice, delicato, decifrabile, accompagnati per mano si scende lentamente nelle pieghe di sentimenti e rughe psicologiche, in un misto di ricordi e di presente, di sentimenti passionali e di pacato quotidiano. Emozionante.

The Hill, che trae spunto da una canzone ebraica, vede in scena tre danzatori (Igal Furman, Shlomi Biton e Roy Assaf) che rappresentano l’assurdità e l’essenza dell’occupazione. Un movimento circolare continuo descrive un misto di paura e virilità, di terrore e lacrime ma anche di risate spensierate, a testimonianza dell’assurdità della lotta e della guerra. Il corpo a corpo tra i tre è dapprima una danza etnica scandita da una canzone popolare simbolica, che si trasforma in uno scontro giocoso ma mortale, l’immagine attonita di una violenza incomprensibile ad una natura umana sana e passionale, la rappresentazione dell’inutilità di una schermaglia di guerra in cerca di pace.

Uno spettacolo nel suo complesso elegante, poetico ma anche ironico, in cui la leggerezza del movimento si sposa alla profondità dei temi: l’intensità, la convenzionalità, la complessità, la ricchezza dei rapporti umani, uno spettacolo che colpisce diritto, regalando una breve ma profonda intensità.

data di pubblicazione:17/11/2016


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RAGAZZI DI VITA di Pier Paolo Pasolini, regia di Massimo Popolizio

RAGAZZI DI VITA di Pier Paolo Pasolini, regia di Massimo Popolizio

(Teatro Argentina – Roma, 26 ottobre/20 novembre 2016)

Al Teatro Argentina di Roma ha debuttato il 26 ottobre Ragazzi di Vita tratto dal primo romanzo di Pierpaolo Pasolini. Nell’ambito del quarantennale dell’uccisione di Pasolini, il Teatro di Roma ha coraggiosamente portato uno dei suoi scritti più importanti (in replica fino al 20 novembre), con la drammaturgia di Emanuele Trevi, la regia di Massimo Popolizio.

Il regista riorganizza e sintetizza il libro per l’adattamento teatrale presentandolo in capitoli diversi rispetto all’originale. Il racconto delle giornate di un gruppo di adolescenti delle periferie romane diventano così quadri, introdotti da un narratore che amalgama le storie dei diversi protagonisti, i tuffi nel Tevere, i furti di borsette e le corse in macchina, tra urla e parolacce, tra avventure amorose e botte tra giovani e cani.

Tutto lo spettacolo è un prodigioso gioco di equilibri, di strutture in movimento, di idee che si susseguono e si rinnovano, con diciotto giovani attori (tra i quali tre attrici) che si muovono armonicamente sul proscenio, davanti a sfondi con proiettate immagini astratte o su costruzioni mobili, enfatizzate da giochi di luci e ombre che avvolgono l’intera struttura dell’Argentina.

La voce del narratore fuori-dentro la scena, i protagonisti che parlano di sé stessi in terza persona, le canzoni ricantate sulle musiche originali creano una coralità potente e una vitalità trascinante, grazie anche al lavoro drammaturgico di Emanuele Trevi.

In scena gli attori non si risparmiano, entusiasmano, saltano e urlano in contrapposizione ad un narratore molto sui generis, il bravo Lino Guanciale, una presenza lieve che osserva non visto, aiuta, interferisce se serve, anch’egli attratto da un mondo che non gli appartiene ma che conosce benissimo. Una sorta di coscienza che già sa quello che deve succedere, mantenendosi sempre in equilibrio tra partecipazione e cronaca.

L’umanità affamata, dannata e vittima, incolpevole dei delitti dei quali alla fine si macchia raccontata da Pasolini nel romanzo, diviene un insieme di figure facilmente connotate nella propria semplicità, prive di qualunque complessità psicologica, collegate l’una all’altra, grazie al lavoro di regia in grado di creare un filo conduttore tra quadri, persone e contesti.

L’utilizzo simbolico delle scenografie e l’elegante pittoricità delle scene di gruppo rappresentano i veri punti di forza dello spettacolo. E poi c’è la lingua ed il glossario utilizzato: il romanesco inventato e contaminato di Pasolini enfatizzato dall’uso della terza persona.

Una citazione infine per le musiche che sono parte fondamentale del tessuto connettivo dello spettacolo e che vede gli attori cantare sulla base delle canzoni di Claudio Villa.

Un’adolescenziale vitalità di borgata che arriva diretta al pubblico, un’impresa difficile ma dovuta per restituire quell’atto d’amore che l’artista di origine friulane con il suo romanzo aveva voluto dedicare alla città di Roma.

data di pubblicazione: 14/11/2016


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FAI BEI SOGNI di Marco Bellocchio, 2016

FAI BEI SOGNI di Marco Bellocchio, 2016

Torino, 30 dicembre 1969. É sera e sta nevicando. Una mamma si avvicina al letto del proprio bambino mentre lui dorme e chinandosi per dargli il bacio della buona notte gli sussurra all’orecchio “fai bei sogni”. Massimo non sa che quel gesto, vissuto da lui passivamente come qualcosa di già appartenente alla sfera onirica, segnerà l’inizio della sua nuova vita senza di lei, che svanirà nel nulla al suo risveglio. Lei, sua mamma, e quella frase sussurrata tanto amorevolmente, saranno per molti anni oggetto di racconti paterni, una sorta di “ricordo filtrato” che condizionerà la sua vita sin nell’età adulta.

 

É arrivato sugli schermi italiani l’atteso film di Marco Bellocchio liberamente ispirato al romanzo autobiografico Fai bei sogni di Massimo Gramellini, giornalista e scrittore, noto anche al grande pubblico televisivo per avere affiancato Fabio Fazio in una famosa trasmissione, divenendo personaggio dei nostri giorni molto amato. Solo un grande regista come Bellocchio poteva raccontare la storia narrata nel libro distaccandosi da esso, perché il Massimo del film non è il Massimo del romanzo, senza tuttavia allontanarsene e stravolgerla, ma dando ad essa la sua personale lettura nel raccontare “un’assenza” ingombrante con cui fare i conti e riconciliarsi. Questa assenza e questo vuoto, riemergono apparentemente per caso, in seguito ad un profetico attacco di panico del protagonista (interpretato da un misurato e taciturno Valerio Mastandrea), come manifestazione di desiderio e nel contempo di paura nello scoprire una verità da sempre negata e distorta. La storia, già nota in quanto il romanzo è del 2012, è raccontata da Bellocchio attraverso un’ambientazione in cui il ricordo ed il sogno si insinuano costantemente nel reale, attraverso la descrizione di una serie di personaggi chiave. Essi rappresentano l’ossatura del ricordo di Massimo oltre ad essere i capisaldi della propria crescita, e servono al regista come filtro per dare la sua personale versione di Fai bei sogni, in cui emerge spesso una mancanza prevalentemente affettiva da parte di chi resta accanto al bambino dopo la morte della madre. Un bravissimo Guido Caprino interpreta il padre di Massimo, distaccato e severo, che non trova mai il momento giusto per rivelargli la verità sulle cause della scomparsa, supportato da una governante che non prova neanche minimamente a colmare questa figura mancante; poi ci sono una coppia di zii, anch’essi allineati all’ideologia dell’omertà nei confronti del bambino, e un professore (prete) che lo esorta al coraggio di vivere senza “se”, ma imparando a farlo “nonostante” (figura questa magistralmente interpretata da Roberto Herlitzka). E poi c’è la vita reale, in cui Massimo incontra alcuni personaggi che ne tratteggiano la professione di giornalista: dall’intervista esclusiva ad un industriale che ricorda la figura di Raul Gardini nel momento del suo tragico epilogo (interpretato da un magico Fabrizio Gifuni), la figura di una madre (Piera degli Esposti) tratteggiata da una lettera del figlio che non la ama indirizzata al giornale al quale Massimo dovrà replicare, sino alla sua esperienza a Sarajevo in cui non potrà fare a meno di fotografare un bambino che non smette di staccare gli occhi dal suo giochino elettronico, pur di non guardare ciò che la vista non può sopportare.
Il film ci porta per mano in una favola adulta, dove i bambini soffrono e i grandi sono colpevoli perché sottraggono affetto invece di darlo, in cui la rigidità di un’educazione cattolica e la negazione della verità prevalgono sul coraggio di raccontarla ma anche sull’umiltà di farlo, segnando inevitabilmente la vita di quei figli, che da adulti dovranno fare i conti con la rabbia di una vita sempre in salita.

data di pubblicazione:13/11/2016


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FAI BEI SOGNI di Massimo Gramellini – Longanesi, 2012

FAI BEI SOGNI di Massimo Gramellini – Longanesi, 2012

Un romanzo emozionante, intenso, intimo. La capacità di empatia di Gramellini è tale da coinvolgere ogni piccolo atomo del lettore e fargli finire il libro in un battito di ciglia tra il turbamento e il rammarico di averlo già finito.

Il romanzo prende vita per caso. Gramellini era nella stanza del suo editore per condividere la bozza di un’idea di romanzo che stava nascendo dalla sua esperienza, dal suo vissuto di orfano quando si rese conto che la stanza si era affollata di tutti gli editor e che, molti di loro, erano profondamente commossi.

Fai bei sogni è la storia di Massimo che, a soli otto anni, viene svegliato la mattina del primo dell’anno dalle urla del padre tenuto a braccia da due sconosciuti.

La mamma non c’è, è fuori per delle commissioni, gli verrà detto dai i vicini di casa dai quali passerà qualche ora in attesa del rientro del padre e della tremenda verità: la mamma non c’è più, morta per un infarto dovuto allo stress delle cure a cui si sottoponeva per un “brutto male”.

Da quel momento Gramellini descrive i cambiamenti nella vita di quel bambino di tanti anni prima; la sua esistenza tranquilla e serena finisce, inizia una sofferenza inenarrabile di cui si vergogna e che lo accompagnerà fino all’età adulta, il dolore più grande, la morte della mamma.

Nella vita di Massimo manca la presenza di altre figure femminili, non ci sono le nonne e non ci sono delle zie, restano soli, lui e il padre: “per colmare in parte l’abisso di una madre che muore bisogna essere dei maschi femmina. Severi all’occorrenza, ma sensibili. Invece papà era maschio e basta… Aveva le mani grandi e uno sguardo truce che incuteva soggezione agli estranei e anche a me. Sembrava incapace di darmi una carezza che non assomigliasse a uno schiaffo, come di preparare un caffelatte decente”.

Gramellini, senza voler fare del libro un trattato di psicologia infantile, ci fa capire in modo diretto ed estremamente chiaro la sua condizione e la sua sofferenza, la sua vita con il marchio del “diverso”: “dentro di me il disagio per la condizione di orfano si mescolava al terrore che fosse ineluttabile”… “io non chiedevo compassione e privilegi, ma amore”…“io non piangevo… credevo ancora che una mattina mi sarei svegliato e avrei visto la mamma ai piedi del letto con la vestaglia sulle spalle”.

Il rapporto con il padre non esiste; l’unico momento di apertura tra loro su ciò che è accaduto dura pochi momenti, durante un viaggio in macchina il padre gli dice che ciò che era accaduto era drammatico per tutti e due ma sicuramente chi stava peggio era lui, perché una moglie poteva essere sostituita una madre no.

Crescendo senza alcun aiuto Massimo si avvolge sempre più su se stesso, nella sua mente compare una voce, che lui chiamerà Belfagor, che gli pone le domande più dolorose: perché proprio la sua mamma, perché gli altri bambini potevano rifugiarsi tra le braccia delle loro mamme e lui no?

Così passano gli anni delle medie e delle superiori fino ad arrivare all’università e alla scelta di una facoltà che non gli interessa, ma che va incontro ai sogni della madre: Giurisprudenza, diventare avvocato. Altri anni bui in cui si alternano esami superati con il massimo dei voti a periodi di reclusione nella sua stanza alla ricerca di un interesse che lo possa aiutare a uscire dalla confusione, che lo aiuti ad aggrapparsi a qualche forma di normalità, che gli permetta di uscire dal suo dolore e gli tolga la sua paura di vivere.

La luce in fondo al tunnel la porta una serie di concomitanze: l’inizio della sua carriera di giornalista e la realizzazione del suo desiderio atavico di scrivere, la comparsa nella sua vita di Elisa, la sua anima gemella, e la pubblicazione del suo ultimo romanzo che, regalato alla migliore amica di sua madre, lo porta a conoscenza delle vere cause della sua morte tenutegli nascoste per quaranta anni.

Con l’aiuto di Elisa tutte le domande che si ripresentano alla sua mente trovano una risposta, la sua compagna è un vero faro nel buio: “Liberati dal piombo che hai sul cuore… è una vita che ti tormenti e tormenti tua madre…”.

Massimo riesce a capire che, a volte, le menzogne si pensa di dirle a fin di bene, che la conoscenza della verità non può che aiutare ad affrontare la realtà, a sanare le ferite riuscendo a mettere nella giusta luce le persone che abbiamo avuto vicino, giudicandole per il loro reale valore.

data di pubblicazione:13/11/2016

IN GUERRA PER AMORE di Pif, 2016

IN GUERRA PER AMORE di Pif, 2016

New York 1943. Arturo Giammarresi, palermitano emigrato per lavoro negli Stati Uniti, è fermamente intenzionato a sposare la bella Flora, anche lei siciliana, che però suo malgrado è stata promessa in sposa a Carmelo, figlio di un boss mafioso intimo amico del potente Lucky Luciano. Flora, per coronare il suo sogno d’amore, suggerisce ad Arturo di recarsi personalmente in Sicilia e di chiedere direttamente la sua mano al padre che era rimasto a vivere sull’isola, mentre lei cercherà ogni possibile pretesto per rimandare le nozze combinate ad arte dallo zio e dal padre di Carmelo.

 

Dopo l’imprevedibile successo ottenuto con il film La Mafia uccide solo d’estate e dopo l’annunciata imminente serie televisiva ad esso ispirata, Pierfrancesco Diliberto, oramai a tutti noto come Pif, torna sul grande schermo con questo nuovo lavoro, sia come regista che come protagonista principale. In guerra per amore, sotto le apparenti sembianze di una commedia leggera e scanzonata, ha però la motivata pretesa di portare a conoscenza un tratto della storia a molti sconosciuto, che riguarda in particolare quella fase finale della seconda guerra mondiale quando gli alleati sbarcando in Sicilia, iniziando così la liberazione dell’Europa dall’occupazione nazista. Il film, tra il serio ed il faceto, ci fa sapere come la mafia ricoprì un ruolo determinante al momento dello sbarco delle truppe americane e che il comando che governava provvisoriamente l’isola non avrebbe mai ottenuto l’appoggio incondizionato della popolazione senza l’autorevole mediazione dei boss locali. Con riferimento esplicito a fatti realmente accaduti, Pif ci ricorda quello che realmente avvenne e di come i poteri forti riuscirono a trovare il giusto compromesso con la ben strutturata organizzazione mafiosa ottenendone, in buona sostanza, la necessaria protezione. Il film è ben curato soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione molto dettagliata degli ambienti, anche se un poco eccessivo risulta il ricorso ad alcuni clichè, che apparentemente potrebbero sembrare scontati ma che invece sono assolutamente funzionali per far meglio comprendere la mentalità siciliana nei suoi molteplici e spesso pittoreschi aspetti. Singolare la scelta del cast che caratterizza i personaggi, a volte un poco macchiettistici, e che contribuisce pienamente alla buona riuscita del lavoro, come pure i voluti riferimenti ad immagini di film oramai divenuti cult (Forrest Gump).

In Guerra per Amore ha il merito di trattare con intelligente ironia il tema importante della collusione tra politica e mafia sul quale ancora oggi si occupa frequentemente l’opinione pubblica e di cui tutti noi ne siamo tristemente testimoni. Il giovane regista palermitano utilizza un linguaggio espressivo semplice, tra il surreale ed il fiabesco, ed è proprio questo che dà un tocco particolare all’intera narrazione, lasciando lo spettatore divertito ed incuriosito ma anche con un leggero retrogusto di amaro in bocca.

data di pubblicazione:13/11/2016


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LA TEMPESTA di William Shakespeare, regia di Maurizio Panici

LA TEMPESTA di William Shakespeare, regia di Maurizio Panici

(Teatro Argot Studio – Roma, 2/20 novembre 2016)

La Tempesta, commedia in cinque atti che Shakespeare portò a termine nel 1611, tradizionalmente si può considerare l’ultima opera scritta dal celebre drammaturgo inglese. La peculiarità di questa commedia risiede nel fatto che l’autore volutamente riprende tematiche già utilizzate nei lavori precedenti quali il tradimento, la vendetta, la maledizione, il perdono, con l’aggiunta però di elementi meramente magici, quasi mitologici, che rimandano agli schemi dei classici greci dove l’elemento soprannaturale interagisce con gli umani per la risoluzione di questioni dove gli stessi, per natura limitati, non riescono nell’intento.

Il mago Prospero, legittimo Duca di Milano, si trova esiliato da dodici anni su un’isola remota insieme alla figlia Miranda per volere di suo fratello Antonio che, aiutato nella sua scellerata impresa dal Re di Napoli Alonso, si è indebitamente appropriato del titolo per governare sulla città. Unico abitante dell’isola è Calibano, mostro ripugnante figlio della strega Sicorace, che racchiude in sé una natura selvaggia che lo rende incapace di controllare i propri istinti bestiali anche nei confronti di Miranda. Avendo saputo per caso che Antonio sta viaggiando in nave insieme al Re di Napoli e a suo figlio Ferdinando proprio nei paraggi, Prospero, utilizzando le sue arti magiche anche con l’aiuto dello spirito Ariel, suo servitore al quale aveva promesso la libertà in cambio dei suoi prodigiosi servigi, scatena una tempesta che costringe i naviganti ad approdare sull’isola. In questa circostanza potrà finalmente attuare la tanto meditata vendetta nei confronti del fratello usurpatore. I naufraghi, una volta salvi, saranno infatti dispersi e Prospero farà sì che Ferdinando si innamori della figlia Miranda e, sposandola, la porterà a Napoli come regina. Ben riuscito il progetto di Maurizio Panici di proporre al Teatro Argot Studio questa nuova rivisitazione della commedia shakespeariana soprattutto per quanto riguarda lo sguardo introspettivo rivolto ai personaggi in scena che rappresentano le diverse sfaccettature della natura umana. Prospero è dunque il saggio che rappresenta la parte razionale dell’uomo e che sa sacrificare il governo della città e i suoi interessi di potere pur di non abbandonare i suoi amati libri. A lui si contrappone Calibano che, proprio per il suo essere repellente, incarna così la bassezza dell’uomo, succube delle proprie pulsioni. Il regista rimanda ad un messaggio ben preciso: la tempesta è quella in cui tutti noi ci troviamo oggi, disorientati da un groviglio di sentimenti contrastanti e dove nella confusione generale abbiamo difficoltà a trovare la giusta predisposizione alla tolleranza e al perdono. Enigmatica la figura di Calibano, egregiamente interpretato da Pier Giorgio Bellocchio, condannato alla solitudine e al disprezzo che però anela a qualcosa di più, attraverso l’amore, che lo possa far ritornare più umano ed assicuragli inoltre la continuazione della propria stirpe sull’isola. Ecco che riemerge ancora una volta la natura ambivalente dell’uomo che pur nel deprezzamento generalizzato di ogni valore etico, sente in fondo la necessità di un ritorno alla purezza e al riscatto di quelle qualità proprie della sua natura, prima che siano irrimediabilmente disperse dagli egoismi e dai soprusi. Buona la prova di Luigi Diberti nel ruolo di Prospero, così come degli altri attori del cast che hanno saputo dare risalto all’espressività della parola, seguendo l’intento del regista che la voleva protagonista, più che l’immagine, esattamente al centro dell’intera rappresentazione.

data di pubblicazione:12/11/2016


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LA RAGAZZA DEL TRENO di Tate Taylor, 2016

LA RAGAZZA DEL TRENO di Tate Taylor, 2016

Rachel Watson (Emily Blunt), da mera “spettatrice” passiva dal finestrino del treno che prende tutte le mattine per recarsi in città si ritrova, suo malgrado e in modo decisamente confuso, coinvolta nella scomparsa di Megan (Haley Bennett), una donna bellissima che insieme al marito Scott (Luke Evans) sembravano ai suoi occhi, smarriti e annebbiati, l’emblema dell’amore perfetto.

Ecco che Rachel, quasi in una sorta ricerca di “giustizia” personale contro chi infrange l’amore e la fiducia di un rapporto tradendo il partner – proprio come aveva fatto suo marito Tom (Justin Theroux) -, inizia ad indagare sulla scomparsa di Megan sebbene la Polizia sospetti proprio di lei per questa misteriosa sparizione, e, poi, per la morte della vicina di casa. Da questa indagine maldestra, ostacolata in primis dalle provate condizioni psicofisiche di Rachel che soffre di alcoolismo, la ragazza del treno arriverà a scoprire una verità non tanto eclatante per lo spettatore – visto gli intrighi e i tradimenti che tra soap opera, fiction e vita reale siamo ormai abituati e vedere, sentir raccontare o vivere -, quanto sconvolgente, dolorosa e risolutiva per lei stessa.

Tratto dall’omonimo libro La ragazza del treno – che confesso di non aver letto – il film diretto da Tate Taylor può contare su un buon cast di attori e soprattutto su una convincente Emily Blunt nel ruolo della protagonista. Tuttavia, la pellicola non convince pienamente soprattutto in termini di thriller – forse a causa di alcune inquadrature superflue o di scene che rasentano il ridicolo e fanno sorridere – e sul grande schermo prevale più una versione vicina al romanzo rosa. Da fan scatenata della serie tv americana Friends è stato bello rivedere, seppure in un ruolo minore, la sempre brava e bella attrice Lisa Kudrow (famosa per il ruolo di Phoebe Buffay in Friends) che nel ruolo di Monica, ex capo ufficio di Tom, sarà una sorta di “oracolo”, o fatina buona, che avvierà l’escalation, al cardiopalma, della risoluzione di Rachel.

data di pubblicazione:11/11/2016


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28 BATTITI scritto e diretto da Roberto Scarpetti, con Giuseppe Sartori

28 BATTITI scritto e diretto da Roberto Scarpetti, con Giuseppe Sartori

(Teatro India – Roma, 9/20 Novembre 2016)

“Ho 28 battiti al minuto. Un’emozione per me è come un terremoto.”

Alex si allena tutto il giorno, mangia solo riso bianco e va sempre a letto alle 22. Per questo motivo non ha neanche il tempo (ne può) prendersi una birra con gli amici. Una vita costretto a sacrificarsi. Ma è realmente ciò che ama? È davvero ciò cui anela?

Roberto Scarpetti indaga nella mente di un campione travolto dallo scandalo. Si sofferma sulla fragilità della persona umana, sulle motivazioni dietro quel maledetto gesto. Nel raccontare la storia “inventata” di Schwazer, il regista si focalizza sugli eventi che inducono uno sportivo a ricorrere al doping; sceglie pertanto di restringere il campo, tralasciando le ultime vicende che hanno coinvolto la medaglia d’oro di Pechino (ovvero l’ultima squalifica del Tas di 8 anni dalle competizioni sportive per aver usato una sostanza proibita), peccato perché sarebbe stato interessante toccare anche tale aspetto del drammatico caso dell’atleta trentino.

Per raccontare questa intensa storia, si affida all’energico Giuseppe Sartori: ogni suo gesto è un fendente nell’aria, qualunque suo movimento riempie prepotentemente lo spazio, ma l’anima del suo personaggio rimane vuota, anodina. L’attore dimostra tutta la sua abilità nell’interpretare il ruolo attribuitogli, ancorché per le caratteristiche fisiche (Sartori è privo di capelli, al contrario di Schwazer) e per il modo di parlare (difficile ripetere la loquela di Schwazer, soprattutto l’inflessione tedesca) non rievoca limpidamente l’atleta di Vipiteno – impressione probabilmente dovuta alle continue immagini dell’ex campione riproposte in televisione e sui quotidiani.

Sullo sfondo di questo dramma sportivo, scorrono i filmati dell’infanzia, dei luoghi degli allenamenti, delle gare di Schwazer sopra al corpo dell’ atleta mentre marcia, attraverso la tecnica della doppia esposizione. Effetto che permette la fusione del movimento ondulatorio della camminata con le immagini dinamiche proiettate, in una danza intima e suggestiva.

Se le immagini proiettate catturano l’attenzione del pubblico, non si può dire lo stesso dei suoni e luci circostanti: il tintinnio lento e continuo della pioggia che batte sulle grondaie (il quale può essere anche rilassante e piacevole in altre circostanze, ma non durante uno spettacolo teatrale) e il bagliore accecante delle luci bianche laterali (usate per avvertire della presenza degli scalini) non ci permettono di “lasciarci andare, di sentirci liberi” di poter godere pienamente dello spettacolo. E di seguire idealmente lo sportivo sulla cresta delle montagne, in uno spazio paradisiaco, tra cielo e terra.

data di pubblicazione:10/11/2016


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KNIGHT OF CUPS di Terrence Malick, 2016

KNIGHT OF CUPS di Terrence Malick, 2016

Los Angeles, Stati Uniti d’America. Rick è uno sceneggiatore hollywoodiano che, allontanatosi volontariamente dalla realtà (e dai suoi continui impegni), prova a cercare conforto nell’interpretazione dei tarocchi, da un lato, e in una vita mondana particolarmente attiva (con eccessi sessuali ed emotivi), dall’altro lato. Il tutto in un continuo confronto con la figura paterna, a tratti disperata e patetica, e con un fratello eccentrico ed esplosivo, sotto la presenza piuttosto ingombrante di un lutto mai superato.

 

C’era una volta un giovane principe che fu inviato dal proprio padre, il re dell’Est, in Egitto per trovare una perla. Ma quando il principe arrivò, gli abitanti del luogo gli versarono una coppa. Bevendola, egli scordò di essere il figlio di un re, si dimenticò della perla e cadde in un sonno profondo”.

Con questo incipit si apre Knight of cups, diretto dal texano Terrence Malick, un viaggio introspettivo del protagonista Rick, confuso ed insicuro, in una Los Angeles fredda ed asettica. Senza soste ed interruzioni, la storia si pone come un lungo e continuo scorrere di eventi, principalmente tra rappresentazioni ed inquadrature di paesaggi, degrado urbano e monologhi interiori. Perfettamente conforme allo stile ed alla tecnica mostrati, da Malick, in The Tree of Life, lo spettatore assiste ad una narrazione che conserva, lungo l’intera visione, una natura onirica, a tratti irreale e fumosa, che, purtroppo, non agevola la concentrazione e, soprattutto, non stimola l’interesse e la curiosità dello spettatore verso lo sviluppo (e l’epilogo) della storia. Condivisibile è lo stato d’animo del protagonista (un po’ meno i suoi comportamenti futili e temporaneamente appaganti), pregevole l’evoluzione dello stesso, e sicuramente originale, audace ed ambizioso il costrutto audiovisivo, ma Knight of cups, nonostante tali ottimi presupposti, non convince pienamente, come il piatto che lascia (in bocca) un buon sapore, destinato tuttavia a non durare a lungo.

data di pubblicazione:08/11/2016


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SING STREET di John Carney, 2016

SING STREET di John Carney, 2016

Dublino, inizio anni Ottanta. Il quindicenne Conor vive in famiglia una situazione generalizzata di crisi: il fratello maggiore si rifiuta di andare al college, la sorella vive isolata nel suo mondo, i suoi genitori non vanno più d’accordo e non ci sono più soldi in casa. Messo di fronte alla dura realtà, il ragazzo sarà costretto, suo malgrado, a studiare in un istituto più economico gestito da religiosi dove vige una severa disciplina, e dove soprattutto imperversa il bullismo tra gli studenti di cui, un ragazzo sensibile come lui, diviene facile preda.

Ma un giorno come tanti, di fronte alla scuola, Conor (Ferdia Walsh-Peelo)incontra lo sguardo di Raphina (Lucy Boynton), ragazza molto bella di cui s’innamora immediatamente. Per conquistare il cuore della giovane, il ragazzo s’inventerà all’istante di essere il leader di una boy-band; ma, visto che questa band ancora non esiste, Conor deciderà con caparbia determinazione di costituirne una raccogliendo altri ragazzi squinternati come lui, ma con tanta voglia di suonare. Sing Street è un film leggero, divertente e ci riporta alla memoria quel periodo d’oro del pop in cui tutti i ragazzi erano desiderosi di formare un proprio gruppo emulando i Duran Duran, The Cure, Spandau Ballet, Jam e tante altre band allora in voga. E mentre in quegli anni l’Irlanda attraversava un periodo economico disastrato e cercare fortuna a Londra sembrava essere la soluzione ultima a tutti i problemi, molti ragazzi dal canto loro provavano a dimostrare innanzitutto a loro stessi che la musica aveva il potere di tirarli fuori dalle preoccupazioni e farli diventare più grandi. Sotto la guida del fratello maggiore Brendon (Jack Reynor), Conor riuscirà a vincere la sua battaglia personale conquistandosi, grazie alle sue esibizioni canore, una buona reputazione a scuola ma soprattutto l’affetto della sua amata Raphina. Questa deliziosa pellicola diJohn Carney, presentata all’ultimo Sundance Film Festival e nel mese di ottobre nella Sezione Alice dell’11^ edizione della Festa del Cinema di Roma, ha la connotazione diuna piacevole commedia musicale che ha già ottenuto un buon consenso tra i giovani, trascinati dalle coinvolgenti musiche composte prevalentemente negli anni Ottanta da una band di cui faceva parte lo stesso regista, e che secondo chi scrive non mancherà di trascinare gli spettatori in un clima di sano divertimento.

data di pubblicazione:08/11/2016


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