da Rossano Giuppa | Mar 26, 2017
(Teatro India – Roma, 21/26 marzo 2017)
Pier Paolo Pasolini ritorna protagonista sul palcoscenico del Teatro India dal 21 al 26 marzo con lo spettacolo MA di Linda Dalisi e la regia di Antonio Latella.
MA, la prima sillaba della parola mamma, è una incursione dolorosa e intima nell’opera di Pasolini, nella sua scrittura e nella sua drammaturgia, costantemente pervasi dalla presenza della figura della madre.
Una donna, seduta lateralmente, offre a stento il suo volto ad una parete di lampade strappate ad interni e salotti, ora adibite a fari d’interrogatorio posti su una fredda grata di metallo. Una figura femminile immobile e silenziosa – che aspetta paziente, senza fare niente per essere notata, con un paio di scarpe enormi ai suoi piedi.
Infatti è l’immobilismo il primo messaggio percepibile. Ma la regia di Latella è da subito inconfondibile: la protagonista in piedi lentamente si piega, molto lentamente e senza dire una parola. Fino a sedersi, rigida. I muscoli tesi, l’espressione sofferta. Il volto verso il basso, un fazzoletto bianco nelle mani raccoglie lacrime, gocce di sudore dalla fronte e muco dal naso. Una devastante liquefazione senza alcuna resistenza.
È una madre che ha perduto il figlio: scompare insieme a lui, si scioglie e si dissolve in pianto. Una Madonna, una Medea, la sora Roma.
Inizia così un processo-interrogatorio alla madre, in una toccante e sconvolgente interpretazione di Candida Nieri. Il viso è rivolto a quella grata di lampade. Sola in scena, griderà tutto il suo dolore e le inadeguatezze di famiglia in un microfono, mettendo a nudo l’intimità di una morte violenta e “mica male insabbiata”.
La drammaturgia di Linda Dalisi è un intenso e duplice studio sulla parola e sulle interconnessioni psicologiche e affettive tra la figura materna e il figlio che della parola ha fatto arma di difesa e di denuncia in un mondo di ipocrisie.
La sua voce è amplificata dal microfono: “Ti sono figlia dopo che madre”, pronuncia la sua bocca in monologo; madre come generatrice, madre che ha donato parola al figlio ed ora, di fronte al figlio morto è quasi desiderosa di sottrargliela.Alla voce di Candida Nieri si alternano gli audio di Maria Callas in Medea e quelli di Anna Magnani in Mamma Roma. La donna rilegge il copione cinematografico (de Il Vangelo secondo Matteo) scritto da Pasolini, il modo in cui lui l’ha prima immaginata e poi partorita su carta ai piedi della croce. Ad alta voce, ci accompagna in una sequenza dopo l’altra, scoprendo e raccontando come il figlio l’abbia generata e messa al mondo. Una fine innaturale, perché nessun genitore dovrebbe seppellire il proprio figlio. E allora che fare per resistere al dolore?
Non dimenticare, ripetendo i suoni a raffica – «MA!», «MA!», gridando e rinfacciando al mondo le ingiuste condanne inflitte, denunciando la cattiveria umana che mette aì margini un povero, un operaio, un intellettuale, un poeta, un figlio. Per rialzarsi infine con forza e, nonostante le enormi scarpe che le schiacciano i piedi, continuare a camminare.
data di pubblicazione: 26/03/2017
Il nostro voto:
da Antonella Massaro | Mar 23, 2017
Un ragazzo di sedici anni, il suo skateboard, l’amore per una ragazza, le responsabilità cui neppure gli adulti sembrano in grado di assolvere. Riusciranno i nostri eroi a vivere la realtà senza rinunciare ai propri sogni?
Sam (Ludovico Tersigni) ha sedici anni e la voglia di vivere in simbiosi con il suo skateboard. Quando però incontra Alice (Barbara Ramella), scende dalla tavola per perdersi nel labirinto dell’amore adolescenziale, quello che ti infiamma e poi ti gela con la stessa impietosa repentinità. Alice resta incinta e Sam sembra destinato a perpetuare la storia della famiglia dalla quale proviene: sua madre (Jasmine Trinca), infatti, ha trentadue anni e non perde occasione per ricordare a sé stessa e a chi le sta accanto quanto le abbia sconvolto la vita una gravidanza così precoce. Il papà di Sam (Luca Marinelli, attualmente in sala con Il padre d’Italia), poi, non è esattamente un modello da prendere come riferimento e l’unico consiglio che può dare al figlio è quello di fuggire dalle sue responsabilità, proprio come aveva scelto di fare lui sedici anni prima.
Sam e Alice riusciranno a trovare, a loro modo, un equilibrio, fuori dall’ideale di una famiglia e di una storia d’amore perfette, ma forse con maggiore solidità di quella che i rispettivi genitori sono stati in grado di assicurare loro.
Il cinema italiano più recente sembra aver riscoperto il gusto per le storie ispirate dal mondo adolescenziale: Piuma, L’estate addosso e, tra poco nelle sale, Non è un paese per giovani.
Slam, tratto dall’omonimo romanzo di Nick Hornby e diretto da Andrea Molaioli (La ragazza del lago, Il gioiellino) è indubbiamente animato dalle migliori intenzioni, specie per evitare di inciampare nello stereotipo che, per pellicole di questo tipo, è sempre in agguato. La cifra narrativa si caratterizza per una continua oscillazione tra realtà e sogno. Sam intrattiene un costante dialogo ideale con Tony Hawk, il più famoso skater della storia, la cui voce originale interviene e a scandire le fasi più significative della storia. Alla stessa cifra narrativa appartengono anche i “salti temporali” del racconto, che sovrappongono le coordinate spazio-temporali e cercano di condurre lo spettatore nel sogno ad occhi aperti di Sam.
L’impressione complessiva, tuttavia, è quella di un film che perde la sua identità nel momento in cui decide di avere tante (troppe): non è un teen movie, ma non è neppure altro. Nonostante il solidissimo cast sul quale si poggia, Slam perde di incisività nella parte centrale, quando il connubio tra realtà e finzione non riesce a realizzarsi pienamente. Il film di Molaioli resta però un esperimento interessante, che strizza l’occhio più a un pubblico di genitori che di figli.
data di pubblicazione: 23/03/2017
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da Alessandro Rosi | Mar 22, 2017
(Teatro Vascello – Roma, 20/21 Marzo 2017)
“Musica cantautorale e storie dal forte impatto sociale, per una serata dal suono speciale”
Via Giacinto Carini. Civico 78. Siamo arrivati. Parcheggiamo e ci avviamo in direzione del teatro. Il consueto nugolo di persone assiepa l’ingresso del Vascello, pronto ad essere traghettato verso un nuovo spettacolo.
Ma non è una serata come le altre, lo si percepisce dal vociare concitato e festoso, dai gesti di sorpresa e stupore, dall’aria frizzante e rarefatta del primo giorno di primavera. C’è tuttavia qualcos’altro che rende l’atmosfera particolare e ancora ci sfugge; allora ci avviciniamo alla porta principale, mettiamo meglio a fuoco la situazione, e scopriamo il motivo di tutto quello scalpore: Celestini è lì, davanti alla porta principale, a discettare con il suo pubblico, come un avventore qualsiasi, come una persona comune.
Malgrado ciò, Celestini non è un quisque de populo, bensì è unico nel suo genere, è capace di infrangere le barriere tra pubblico e palcoscenico, tra attore e spettatore. Lo conferma guidandoci in sala e, una volta che tutti hanno preso posto, iniziando lo spettacolo.
Si comincia a spron battuto, con la voce incalzante di Alessio Lega e la fisarmonica lucente di Guido Baldoni, che raccontano la storia di un sindacalista arabo (regolarmente soggiornante in Italia) ucciso da un crumiro durante un picchettaggio. Una morte atroce, travolto da un muletto mentre esercitava il suo diritto di protestare. Con la canzone i due vogliono denunciare la scarsa considerazione che ha avuto un evento del genere, solo perché a essere colpito è stato un immigrato.
Ora è il turno di Celestini, il cantastorie contemporaneo, avvolto da abiti più grandi di lui, con la barba mefistofelica e la voce nasale che lo contraddistinguono; inizia con la storia di Domenica, una bambina trascurata dai genitori e indotta a rubare, poi narra di Viola, cresciuta da suore crudeli che la maltrattano, di seguito parla di Giobbe, lavoratore modesto in una fabbrica dall’atmosfera umile ma non umiliante, che tuttavia non riuscì a sopravvivere ad un attacco cardiaco per la mancanza di un defibrillatore nei locali dove lavorava.
Maltrattamenti, autolesionismo, morti sul lavoro, sono solo alcuni dei temi toccati da Celestini nel suo percorso a tappe musicali.
Il fascino esercitato dalla sua loquela, dalla sua recitazione, dalla capacità di rendere leggeri – attraverso l’uso misurato dell’ironia – argomenti più pesanti del piombo, rapisce anche i suoi compagni di viaggio, che lo osservano stregati durante l’esibizione.
Se indubbio è il talento dell’artista, meno pregevole è il risultato dello spettacolo nel suo complesso, in cui la parte musicale non sempre si lega alle storie narrate. Tra citazioni di Sergio Endrigo, Jannaci, Gianni Rodari e cantautori russi si perde spesso il filo conduttore (che probabilmente non c’è) e che sicuramente incide negativamente sulla rappresentazione.
Di certo è apprezzabile la volontà far conoscere un cantante che ha il pregio di tradurre capolavori musicali appartenenti alla tradizione russa (anche se così c’è il rischio di avere l’effetto contrario). Ed è proprio l’ultima canzone, quella lasciata per il finale, che ci consente di apprezzare il talento di Alessio Lega: con con la sua voce intrisa di emozione, ci canta la traduzione da lui realizzata della canzone “La nostra classe” di Jacek Kaczmarski (cantautore dissidente polacco).
“Quali nomi, quali voci ci diranno cosa è vero,
Se serbiamo le radici in esilio o al cimitero,
Siamo rovi o siamo gigli della vita sola e affranta,
E scordiamo di esser figli, foglie della stessa pianta,
Foglia della stessa pianta.”
data di pubblicazione:22/03/2017
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Mar 22, 2017
“Ma la mafia ucciderà anche noi?”- “Tranquillo, ora siamo d’inverno…la mafia uccide solo d’estate”. Questo primo lungometraggio di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, è una commedia drammatica fortemente ironica, che narra di una sanguinosa stagione dell’attività mafiosa di Cosa Nostra a Palermo attraverso la vita e i racconti di Arturo Giammarresi, in un arco temporale che va dalla sua infanzia sino all’età adulta. Nato in una Palermo amministrata da Vito Ciancimino, Arturo sin da piccolo sembra aver un fiuto particolare nel riconoscere i mafiosi. Siamo negli anni settanta ed in occasione della nascita del suo fratellino, Arturo fa la sua prima importante conoscenza in quanto, tra i padri accorsi al nido per osservare i propri figli appena nati, ce n’era un po’ particolare: Salvatore Riina. Alle elementari conosce la figlia di un famoso banchiere che vive nello stesso stabile di Rocco Chinnici e di cui Arturo diventerà “amico e confidente”: lei si chiama Flora ed Arturo se ne innamora perdutamente; al suo primo carnevale Arturo sceglie di vestirsi da Giulio Andreotti dopo essere stato folgorato da alcune sue dichiarazioni durante una trasmissione televisiva. La vita di Arturo è dunque puntellata da avvenimenti ed incontri che lo riconducono costantemente, anche se sotto aspetti diversi, alla mafia: egli di fatto “assiste”, come una sorta di involontario testimone – ndr. Il testimone è stato un programma televisivo di grande successo di Pif – alle morti di Boris Giuliano, Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa, con i quali in qualche modo “era venuto in contatto” nella sua personale lotta alla mafia, sino a sfiorare le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in occasione delle stragi di Capaci e Via d’Amelio. Il piccolo Giammarresi conosce anche Francesco, un giornalista che per il suo impegno contro la mafia è obbligato dal direttore del giornale a curare le rubriche sportive: sarà proprio lui, quale figura emblematica di libertà di pensiero e parola, a spronarlo a diventare da grande un giornalista.
La mafia uccide solo d’estate ha ricevuto molti e meritati premi tra cui due David, due Nastri d’argento, l’Europian Film Award, un Globo d’oro; da esso ne è nata una serie TV di grande successo che ha portato anche sul piccolo schermo, in maniera assolutamente insolita, argomenti e situazioni che tutti conosciamo purtroppo molto bene, attraverso la vita ed i racconti del piccolo Giammarresi.
A questo film, ambientato in Sicilia, associamo una ricetta a base di mandorle, ingrediente di cui questa regione è ricca assieme a molte altre buone e splendide cose. Ecco come eseguire dei facili ma buonissimi amaretti morbidi.
INGREDIENTI: 500 gr di mandorle pelate intere – 400 gr di zucchero – 4 albumi montati a neve ferma – 1 cucchiaio da tavola raso di farina – ostie.
PROCEDIMENTO: Accendete il forno a 160° per farlo ben scaldare. Macinare grossolanamente le mandorle e metterle in una coppa, aggiungere lo zucchero ed un cucchiaio raso di farina per dare più corpo; incorporare quindi gli albumi montati a neve girando con un cucchiaio di legno con un movimento dal basso verso l’alto per non fare smontare gli albumi. Aiutandosi con due cucchiai da tavola, fare delle forme di amaretto adagiandoli su ostie, distanziate regolarmente, sopra della carta da forno con cui avrete foderato una leccarda. Mettere la leccarda in forno ben caldo (fisso solo sotto e non termo-ventilato altrimenti gli amaretti si asciugano troppo), e fate cuocere gli amaretti per 10/12 minuti: tirateli fuori appena dorati. Conservare gli amaretti non appena di saranno freddati in una scatola di latta foderata di carta oleata.
da Antonietta DelMastro | Mar 20, 2017
Il libro inizia con due ragazzini che camminano su una strada assolata nel sud della Spagna, una scena che si svolge alla fine del libro: la storia in realtà inizia molti anni prima in Sicilia e anche in quel caso è la storia di due ragazzini, la storia di due coppie di fratelli.
Quella di Enzo e Franco inizia a Borgo Vecchio quartiere popolare di Palermo che l’autore ha definito “una enclave senza tempo, incastonata nel cuore della parte residenziale più prestigiosa della città. Cento metri separano il salotto di via Libertà dalla cantina del Borgo, dove vigono regole a sé stanti, e lo Stato riesce a farsi sentire solo di rado. E’ nel vuoto lasciato dallo Stato che prospera l’illegalità.”: una storia dura che li vede abbandonare la scuola nel momento in cui il padre sparisce senza lasciare alcuna traccia e Mela, la madre, ha bisogno del loro aiuto per proseguire la gestione della loro bancarella di frutta e verdura.
“Questi figli, Enzo e Franco, sono molto diversi fra loro. Il piccolo pare più grande del grande, e il grandi più piccolo del piccolo… Mentre per il piccolo grande, Franco, lasciare la scuola significa prendere la responsabilità della propria vita e gettarsi nel lavoro, per il grande piccolo, Enzo, lasciare la scuola significa gettarsi nel far niente”.
La situazione precipita quando Enzo si fidanza con una ragazza ancora più inaffidabile di lui e, nel tunnel della droga, inizia a estorcere soldi alla madre in modo sempre più brutale a cui si aggiungono le violenze cui è vittima il loro figlioletto poco più che neonato; Franco non riesce a trovare altra soluzione che uccidere il fratello e la cognata e, benché l’omicidio venga archiviato come un regolamento di conti tra drogati, madre e figlio decidono di trasferirsi nel sud della Spagna portando con loro Calò, il piccolo orfano Franco, che crescerà come proprio figlio.
E qui inizia la storia della seconda coppia di fratelli: Calò e Kevin, figlio di Franco e Helena la donna che ha sposato in Spagna.
Ma il destino non si è dimenticato di loro e per un imprevedibile avvenimento accaduto in Sicilia, si mette in moto una macchina che porterà Calò a scoprire che l’uomo che lui ha sempre considerato suo padre e che ha sempre infinitamente amato non è in realtà il suo vero padre: da quel momento è palese l’appropinquarsi della catastrofe…
Una storia semplice, raccontata in modo puntuale badando solo ai fatti, che ci prende e ci trascina, scelta dopo scelta, in un continuo alternarsi di disgrazie e felicità verso la catarsi finale.
data di pubblicazione: 19/03/2017
da Maria Letizia Panerai | Mar 19, 2017
Paolo si imbatte in Mia durante una serata in discoteca. Lei gli sviene tra le braccia: da quel momento le loro vite si legano indissolubilmente in qualcosa che è molto più grande di quanto possano sperare, perché ha a che fare con la realizzazione dei desideri più profondi, quelli che non si pensa mai, un giorno, possano diventare realtà.
Paolo, taciturno, introverso e solitario, è un uomo che vuole nascondersi alla vita e non vuol essere trovato. Cresciuto in un orfanotrofio, tra l’affetto delle suore e la compagnia di bambini sfortunati come lui, della madre non ricorda più il viso ma solo le spalle, che ancora oggi rappresentano il suo incubo ricorrente, testimonianza di un tragico abbandono. Mia, con la sua vitalità, riesce a stravolgere tanta apparente tranquillità: è una ragazza esuberante, bugiarda, che fuma e beve pur essendo in avanzato stato di gravidanza, e racconta a Paolo tasselli di una vita inventata al momento, in cui anche lei in fondo vuole crederci un po’. Eppure Paolo ci crede e ne viene attratto, proprio lui che è da poco uscito da una storia straziante con Mario, l’uomo con cui non ha voluto impegnarsi dopo aver condiviso otto anni della sua vita; con Mia invece mette tutto in discussione: lavoro, vita, abitudini, forse perché lei ha il dono di portare in grembo una creatura con cui potrebbe creare quella famiglia che non ha mai avuto, quel sogno etero, che lui colloca nella normalità, e che gli è sempre stato negato.
Esce nelle sale Il padre d’Italia, secondo lungometraggio del regista e sceneggiatore Fabio Mollo, road movie in cui i protagonisti partono da Torino per arrivare, passando da Asti, Roma e Napoli, sino alle case sempre in costruzione e mai finite di Gioia Tauro, con le strade abitate da soli uomini e le case piene di donne intente a fare lavori domestici, tra il rumore di un mare cristallino di cui nessuno sembra accorgersi. Il film, attraverso le vicende intime dei due protagonisti, parla d’amore ed anche dell’importanza del ruolo genitoriale, e lo fa partendo dall’opposto ovvero dall’assenza di desideri, da quel lasciarsi andare ad una vita preconfezionata, precaria, senza futuro, fatta di non-scelte, in cui si tende a reprimere ogni sogno perché sognare vuol dire guardare al futuro quando invece, per impossibilità o semplicemente per paura, si può solo vivere il presente.
Le figure di Paolo e Mia sono, seppur estremizzate, assolutamente profonde e reali perché rappresentano gli alti e i bassi di un medesimo presente: due vite solitarie ed incomprese che riusciranno ad aprirsi uno spiraglio per guardare oltre.
Il film merita di esser visto. Una menzione particolare va agli interpreti: Isabella Ragonese (Il giovane favoloso, Dobbiamo parlare) e Anna Ferruzzo (Anime Nere, Le ultime cose), che nei ruoli rispettivamente di figlia e madre incarnano splendidamente due figure femminili agli antipodi; e il bravissimo Luca Marinelli (Non essere cattivo, Lo chiamavano Jeeg Robot), che riesce a commuoverci profondamente con la sua toccante interpretazione declinata attraverso gli occhi di Paolo, occhi che riescono ancor prima delle parole a dirci tutto ciò che c’è da sapere.
data di pubblicazione:19/03/2017
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da Alessandro Rosi | Mar 17, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 14/19 Marzo 2016)
Vita coniugale stancante interrotta da una barboncina parlante, capace di portare sensualità e ironia – e una buona dose di follia.
Cave canem è la scritta che solitamente viene usata per intimorire coloro che si avvicinano ad un’abitazione con cattive intenzioni, perché l’animale domestico è pronto a difendere con i denti il domicilio e i loro padroni. In questo spettacolo la situazione si ribalta: saranno il dentista Goodman e la stravagante Madame Pink a dover far attenzione all’esplosiva cagnolina Roxie, che la signora ha deciso di acquistare.
Nel mondo surreale plasmato da Alfredo Arias gli animali dialogano, litigano e si innamorano come gli uomini. Roxie sarà allora la protagonista indiscussa della scena, riaccendendo l’istinto sessuale della padrona – ormai anestetizzato dal marito – e portando la stessa ad avere eccitanti relazioni, ma anche profonde delusioni. In questo carosello animalesco di amori e dolori, intervallato da originali canzoni, Madame Pink e la sua cagnolina scambieranno gli amanti e vivranno esperienze fuori dal comune. Ma la giostra di emozioni è destinata a terminare e farà tornare Madame Pink al punto di partenza; stavolta, però, con una inaspettata richiesta dalla Regina d’Inghilterra.
Nello sfarzo colorato delle scene realizzate da Agostino Iacurci si entra in un’altra dimensione: attraversando le porte a forma di osso (come quello che sgranocchiano i cani) si entra in un mondo animale pitturato dal rosso della passione, accentuata dal divano Gufram al centro del palco, che dà risalto alla carnosità e alla carica sensuale imperanti.
Alla scena si abbinano perfettamente i sofisticati costumi ideati da Marco De Vincenzo, che trasmettono i diversi umori dei personaggi. Il vestito nero indossato da Madame Pink al momento del suo ingresso rappresenta eloquentemente il suo stato d’animo, ma all’arrivo di Roxie l’abito si trasforma in un rosa carnale e viene adornato da plissé, le cui pieghe rievocano i pirottini delle pastarelle (come quelle che felicemente sforna nella nuova veste di pasticcera); mentre il camice del marito – nella parte superiore verde e in quella inferiore bianco – combacia con i colori degli enormi vasi sullo sfondo, così da risaltare la sua staticità. Sfondo che si solleva e muta in base al personaggio che canta, e in cui spesso i riferimenti sessuali sono espliciti: come per il contorno della chioma del barboncino e del suo muso, che ricordano sia i seni che le ovaie delle donne.
La voluttuosità portata da Flo, che interpreta Roxie, è trasmessa efficacemente e traspare anche nella parte canora. E lo stesso vale per Gaia Aprea, che attraverso la sua voce zuccherata rende più dolce lo spettacolo.
Uno show che cerca di deridere il mondo dello spettacolo americano enfatizzandone gli aspetti più ironici, ma che non riesce nel suo intento per via della trama contorta e faticosa, in cui neanche le canzoni che accompagnano lo svolgimento incidono positivamente. D’altronde lo stesso regista, prima che iniziasse lo spettacolo, aveva ammonito il pubblico che non si sarebbe capito nulla.
Uno spettacolo caramellato in cui si rischia di avere le carie.
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Mar 12, 2017
Come per tutti i suoi precedenti libri, che siano stati pubblicati con lo pseudonimo di Sophie Kinsella o con il nome di Madeleine Wickham, anche questo si apre con una giovane donna simpatica, carina e ingenua, ma sempre “vittima”, in qualche modo, di qualcuno o di qualcosa. Anche in questo caso conosciamo da subito “il principe azzurro” del quale si innamorerà e che la toglierà dai guai, dopo una serie di esilaranti episodi, e di imbarazzanti incomprensioni, di intrighi e rimbalzi degni del miglior Feydeau.
Come per tutti i suoi precedenti libri, dopo a malapena dieci pagine già sappiamo quale sarà la conclusione e, come per tutti i suoi precedenti libri, non si può non continuare a leggere con il sorriso sulle labbra, sapendo di potersi godere qualche ora di sana distrazione che sicuramente alla fine della lettura non ci lascerà argomenti di riflessione, come può fare un “grande” libro, ma altrettanto sicuramente ci avrà allontanato dalla nostra quotidianità, dai problemi della routine di ognuno di noi.
Per questa storia torniamo nel Regno Unito dove conosciamo Katie, una ragazza nata e cresciuta nel Somerset, che finalmente ha coronato il suo sogno di vivere e lavorare a Londra e che, per arrivare faticosamente a fine mese, lavora in una famosa agenzia di marketing ostaggio della sua responsabile, Demeter, della quale ammira lo charme di donna realizzata, sia nella vita privata che in quella professionale, e della quale ammira financo l’alterigia con cui si pone nei confronti di tutti i suoi collaboratori.
Fanno da contraltare alla mancanza di empatia di Demeter le colleghe di Katie che, essendo già passate sotto le forche caudine della responsabile, non possono non compatire la povera nuova assunta.
Tra incomprensioni, progetti naufragati, discussioni con i coinquilini e fuga da Londra, il racconto si snoda velocemente fino a portarci nel Somerset dove Katie, perduto il lavoro londinese a causa di esuberi, aiuterà i genitori a creare un Glamping, la sintesi di un camping “glamour”, mettendo a loro disposizione tutto il know how appreso nei mesi di vicinanza a Demeter.
Quando, e non poteva che essere così, Demeter si presenterà con la famiglia per una settimana di vacanza al Glamping nel Somerset, Katie avrà modo di vendicarsi del trattamento subito sul luogo di lavoro, ma anche di conoscere meglio la donna che era il suo superiore e capire la differenza tra come le appariva e com’è realmente.
La presa di coscienza non può lasciarla indifferente quando sarà necessario prendere una decisione e spendersi per difenderla e cercare di salvarle il posto di lavoro.
Nella sua lotta per la verità sarà affiancata da Alex, giovanissimo manager della società in cui lavora Demeter che, grazie alla sua apparizione, contribuirà a creare una serie di incomprensioni sempre più comiche tra Katie e la sua famiglia.
Non sto certo spoilerando il libro dicendo che, alla fine, vincerà l’amore, l’amicizia e l’onestà: i libri della Kinsella sono la quinta essenza delle storie a lieto fine.
Una lettura piacevole e veloce per una domenica uggiosa in casa sul divano o in spiaggia al sole, comunque sia adatto per distrarsi completamente dai problemi di tutti i giorni e sorridere!!!
data di pubblicazione:12/03/2017
da Rossano Giuppa | Mar 12, 2017
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 7/26 marzo 2017)
Il professor Ardeche è un insegnante di materie letterarie. La sua classe si trova nel cuore dell’esplosiva banlieue di Les Izards, la periferia di Tolosa, la scolaresca che gli è stata affidata per l’anno che sta per iniziare è ancora una volta un crogiuolo di culture e razze. Con un misto di pazienza, ironia e rassegnazione, il professor Ardeche si appresta ad affrontare l’ennesimo anno scolastico.
L’ora di ricevimento, nuova produzione del Teatro Stabile dell’Umbria è in scena al Teatro Piccolo Eliseo di Roma dal 7 al 26 marzo, con la regia di Michele Placido e gli attori della Compagnia dei Giovani del TSU cui si affianca Fabrizio Bentivoglio nei panni del protagonista.
A ciascun ragazzo l’insegnante affibbia, come sua consuetudine, un soprannome che ne riassume in sintesi le peculiarità caratteriali e comportamentali e serve ad Ardeche per distinguere gli uni dagli altri e imprimerseli nella memoria, almeno per tutta la durata dell’anno scolastico. Il professore riceve le famiglie degli scolari ogni settimana, il giovedì dalle 11 alle 12 ed è attraverso l’incalzante incastro di brevi colloqui con questa umanità assortita di madri e padri, che prende vita sulla scena l’intero anno scolastico della classe Sesta sezione C. Archede riceve le famiglie dei suoi alunni e con loro si confronta sui problemi quotidiani che i ragazzi vivono, dai piccoli incidenti scolastici al dramma dell’esclusione sociale. Tutto in quell’unica ora di ricevimento settimanale. Il “vertice della tensione” viene raggiunto durante la pianificazione della gita scolastica di aprile: una vera e propria corsa a ostacoli per conciliare le esigenze di studenti islamici, indù, ebrei, e cristiani.
L’ora di ricevimento racconta il mondo della scuola dal punto di vista degli insegnanti, scavando nel profondo della loro difficile condizione psicologica e lavorativa.
Un testo intelligente che affonda le radici nella nostra contemporaneità, nel contesto in cui oggi viviamo, una sorta di metafora di tutti noi, metafora di un l’Occidente europeo spesso impreparato a ricevere ed ad accogliere. Una regia attenta e rispettosa ed un gruppo di giovani attori capaci ed espressivi, governati da un eccellente “docente” il bravissimo Fabrizio Bentivoglio.
Nonostante anni e anni di servizio sulle spalle, Ardeche si sente un pesce fuor d’acqua che, dietro la maschera di un apparentemente solido cinismo, nasconde la dolorosa consapevolezza della propria impotenza di fronte a una realtà troppo caotica e incomprensibile, improvvisamente dichiarata in un monologo finale, con l’inattesa confessione di Ardeche che, con spietata onestà, riconosce la propria sconfitta umana e professionale.
data di pubblicazione:12/03/2017
Il nostro voto:
da T. Pica | Mar 11, 2017
(Teatro Quirino – Roma, 7 marzo 2017/19 marzo 2017)
Un sottoscala (staircase) umido, dove quasi non arriva il sole, dove la bombola del gas funziona male: è questo l’angolo di mondo in cui da circa 30 anni Harry (Tullio Solenghi) e Charlie (Massimo Dapporto) vivono la loro storia d’amore, è questo l’angolo di cielo in cui due uomini sono costretti ad amarsi, sostenersi, confrontarsi, battibeccare, coccolarsi da 30 anni solo perché uniti da un amore omosessuale?! Il tutto, ovviamente, dietro la maschera del negozio di barbiere.
Tratto dal romanzo Staircase di Charles Dyer, e riadattato per il teatro da Massimo Dapporto, Quei due racconta con incredibile delicatezza, ironia e leggerezza un tema importante come quello della discriminazione e della persecuzione giudiziale che negli anni ’60 in città “evolute” come Londra subita dalle persone omosessuali e del susseguente proliferare di suicidi di coloro che, solo perché diversi, venivano additati, scherniti e costretti a vivere in un perenne stato di vergogna, umiliazione e stress emotivo. Harry e Charlie sono complementari l’uno all’altro, ognuno sa quali corde toccare in un costante “pin pong” di stilettate, complimenti adulatori, rievocazione di scenette spassose del loro primo incontro, degli spettacoli della “carriera” di attore di Charlie.
I dialoghi, i bisticci, le porte sbattute civettuolamente, le critiche sulla decadenza del fisico di Harry – tra i due il più effeminato e sensibile, apparentemente il più debole della coppia – sono l’unico modo che hanno per amarsi nell’unico posto in cui sono liberi di palesarsi per quello che sono, ovvero il sottoscala/barbershop.
La storia si concentra sulla domenica e la notte che precede l’arrivo a Londra della figlia di Charlie (Margaret), avuta 32 anni prima, che per la prima volta conoscerà suo padre. Accanto all’ansia per questo incontro, che Charlie vorrebbe si svolgesse senza la presenza di Harry per celarle la sua omosessualità, si somma l’angoscia dell’ex attore per la notifica di una convocazione a comparire in tribunale con l’accusa di atti osceni. Charlie è stato colto da alcuni poliziotti in un club privato mentre con abiti femminili imitava uno dei suoi maggiori successi, l’imitazione di Marilyn Monroe che suona l’ukulele nel film A qualcuno piace caldo, seduto sulle ginocchia di un giovanotto. Charlie, per la legge inglese dell’epoca, rischia di essere nuovamente condannato a due anni di reclusione. Dal turbamento per questo accavallarsi di pensieri Charlie si sfoga e si vendica per nascondere il suo senso di colpa verso Harry, che da 30 anni lo mantiene a casa con sua madre e gli ha insegnato il mestiere di parrucchiere, punzecchiandolo per il suo essere in sovrappeso – le maniglie dell’amore come “corrimano dell’amore” – e per la sua repentina calvizie che fa soffrire enormemente il suo compagno (che la nasconde con un turbante di bende stile mummia egiziana; sulla calvizie di Harry e le sue insicurezze si sviluppa uno dei dialoghi più spassosi e esilaranti dello spettacolo). All’alba del lunedì, prima di andare a conoscere Margaret alla stazione, Charlie, dopo una serie di rivelazioni sul suo passato e il terrore di perdere Harry, riuscirà finalmente a dirgli la difficile frase “ti amo” e di prepararsi ad accoglierlo insieme a Margaret per le presentazioni ufficiali.
Quei due è uno spettacolo ben strutturato dove i due mattatori, Dapporto e Solenghi, innescano un meccanismo ad orologeria perfetto, impeccabile che coinvolge e sa raccontare con una leggerezza profonda uno spaccato di storia e di vita antropologicamente e socialmente nemmeno troppo lontano da noi e anzi estremamente attuale. Fa riflettere e sorridere Harry quando immagina un mondo in cui lui e Charlie avrebbero potuto avere un figlio tutto loro – immaginandolo come un qualcosa di bellissimo, naturale ma utopistico -, alla luce delle sentenze dei tribunali di Trento e Firenze che, nei giorni scorsi, hanno riconosciuto l’adottabilità di un minore da parte di coppie di uomini omosessuali.
Insomma, uno spettacolo da non perdere!
data di pubblicazione: 11/03/2017
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