UN RAGAZZO DI CALABRIA di Luigi Comencini, 1987

UN RAGAZZO DI CALABRIA di Luigi Comencini, 1987

Alla vigilia dei Giochi Olimpici di Roma del 1960, in un piccolo paesino calabro, un ragazzo appena tredicenne chiamato Mimì (Santo Polimeno) di famiglia molto disagiata, si allena come atleta di nascosto al padre (Diego Abatantuono) che invece gli impone di studiare per raggiungere una posizione sociale e migliorare la condizione economica familiare. La madre (Thérèse Liotard), accordasi della passione del figlio, lo difende energicamente e prende posizione contro il padre despota. In aiuto del ragazzo interverrà Felice (Gian Maria Volontè) che pur lavorando come autista di corriera, troverà il tempo per diventare l’allenatore personale di Mimì. Il ragazzo seguirà attentamente tutte le gare podistiche delle Olimpiadi entusiasmandosi ancora di più e convincendosi che quello sarà l’obiettivo della sua vita. Infatti Mimì riuscirà a realizzare il suo sogno e riuscirà ad ottenere la sua prima vittoria da campione proprio a Roma durante i giochi della Gioventù. Il film colpisce per la delicatezza del tema trattato e per la naturalezza della recitazione del giovane, scelto dal regista in maniera del tutto casuale tra gente non professionista dello schermo. Ottima anche la recitazione di Gian Maria Volontè che ottenne anche un premio secondario al Festival di Venezia di quell’anno, specialmente per l’uso molto appropriato dell’espressione dialettale locale. La Calabria, con i suoi contrasti di sapori, ci propone una ricetta saporita: panzerotti calabri.

INGREDIENTI: 400 grammi di farina bianca “00” – un dado di lievito di birra   – latte  qb – 200 grammi prosciutto cotto – 200 grammi mortadella – 200 grammi mozzarella per pizza  –  olio per frittura – sale e pepe qb.

PROCEDIMENTO: Aggiungere alla farina piano piano il latte tiepido dove è stato fatto sciogliere il lievito di birra. Aggiungere un pizzico di sale e lavorare bene il tutto sino ad ottenere un impasto morbido. Lasciare riposare. Intanto preparare il condimento tagliando a listarelle sottili il prosciutto, la mortadella e la mozzarella, aggiungere un poco di pepe. Dividere l’impasto in piccole porzioni, spianare con il mattarello in modo da ottenere dei ravioli del diametro di circa 12 centimetri. A questo punto riempire i panzerotti con il ripieno già preparato e richiudere a mezza luna stando bene attenti che i bordi, precedentemente inumiditi, siano ben sigillati. Una volta preparati si può procedere alla frittura. Sistemare i panzerotti su carta da cucina assorbente e servire poi ben caldi.

LO SCHIACCIANOCI di Petr Il’ic Cajkovskij, Balletto di Roma – Regia e coreografia Mario Piazza

LO SCHIACCIANOCI di Petr Il’ic Cajkovskij, Balletto di Roma – Regia e coreografia Mario Piazza

(Teatro Quirino – Roma, 22/23 dicembre 2016)

A chiusura del 2016 ricorre il primo decennale della versione de Lo Schiaccianoci di Caikovskij rivisitata da Mario Piazza. Per celebrare dieci anni di successi ininterrotti il Teatro Quirino di Roma diviene per qualche ora il tempio del Balletto d’Opera per eccellenza regalando – a romani e turisti che sanno cogliere le perle offerte dal cartellone del Teatro romano – la favola di Natale per antonomasia, quella, appunto, de Lo Schiaccianoci. Si apre il sipario e Clara e Fritz sono “rapiti” dal piattume degli schermi di tre televisori, bisticciano per avere lo “scettro” del telecomando fin quando non irrompe l’anziano zio Drosselmeyer con i regali, tra cui il dono di uno Schiaccianoci e l’inizio di un passaggio dall’infanzia all’adolescenza attraverso la dimensione onirica, nella quale si susseguono tumultuosi sentimenti, emozioni, insicurezze e angosce propriamente adolescenziali. La chiave di lettura moderna de Lo Schiaccianoci rappresentato da Mario Piazza riesce a fondere il cuore del libretto della storia originale e intramontabile dell’opera di Caikovskij (che dal 1892 è tra i topos delle storie e dell’immaginario comune – visivo, musicale e lirico – del Natale), con i sentimenti di smarrimento, di alienazione e le inquietudini interiori tipiche dei nostri tempi, anche grazie alla scenografia cupa, industriale, minimalista, priva degli sfarzi e del calore delle atmosfere natalizie da fiaba. Rafforzano questo ossimoro tra fiaba natalizia e arida alienazione i tre tvcolor che in secondo piano, alle spalle delle coreografie dei bravissimi ballerini del Balletto di Roma, proiettano senza sosta immagini frammentarie dai colori fluo, o primi piani su un occhio spaventato, oppure inviti subliminali alienanti come la frase “vieni, gioca con noi”. Tv che quasi sottolineano come spesso il sogno è sì l’unica strada per sfuggire alla monotonia della realtà commerciale di massa, ma poi esso stesso può subire repentine divagazioni in incubo o sogni tormentati e angoscianti proprio per il “martellamento” di messaggi invasivi, violenti e materialisti che tv e tecnologia hanno trasformato in fenomeni spesso devastanti per l’animo e la sensibilità dell’uomo. Lo Schiaccianoci messo in scena da Mario Piazza regala tutto questo, in un tripudio di sintonia tra le musiche di Cajkovskih, la partitura e le scene del racconto originale e i corpi eterei e soavi del corpo di ballo che sono una gioia per tutti i sensi dello spettatore. Brilla ovviamente di luce propria l’inossidabile Andrè De La Roche – nel ruolo di Schiaccianoci e, poi, di Fatina (davvero esilarante) – il quale riesce a unire ai passi di danza impeccabili, una mimica del viso, sguardi complici e giocosi, lasciandosi andare a pochi minimali versi vocali, propri del mattatore del palcoscenico internazionale. Bellissimo l’alternarsi dei passi a due e dei momenti delle danze caratteristiche (russa, araba, cinese in particolare) della Suite della Scena prima del secondo atto della partitura originale. Uno spettacolo che rapisce adulti e i numerosi bambini in sala e che riesce a far sentire la magia del Natale anche a chi ancora non era entrato nel mood delle Feste. Auguriamo a Mario Piazza e al corpo di Ballo di continuare a rappresentare con successo lo Schiaccianoci specialmente per diffondere le sue magiche atmosfere durante le settimane invernali!

data di pubblicazione:24/12/2016


Il nostro voto:

SERATA KAFKA con Roberto Herlitzka

SERATA KAFKA con Roberto Herlitzka

(Teatro Vascello – Roma, 19 Dicembre 2016)

“Reading letterario accompagnato da musica dal vivo, in cui le parole si fondono con le note musicali in un vorticoso abbraccio, generando un turbinio di emozioni.”

Il profilo sottile, lungo e dentato del clarinetto e quello invece più rotondo e curvo della fisarmonica si stagliano sul palcoscenico, illuminati da una luce bianca e fredda; ma l’atmosfera invernale sarà subito riscaldata dal suono soave emesso dai due strumenti. Con passo lento e cadenzato, fa ingresso sulla scena anche Roberto Herlitzka, che attraverso il suo timbro vocale inconfondibile ci trasporterà nel mondo kafkiano.

Un racconto di racconti che tocca temi quali la famiglia, la solitudine, il rapporto con il padre e la morte. Un distillato di pregevole fattura, con l’aggiunta di qualche goccia di ironia; l’interpretazione del testo resa da Herlitzka conferisce alle parole una nuova dimensione, materializzando cavalieri, dame, pellerossa e imperatori.

A conclusione della declamazione trovano posto gli aforismi di Zürau, minuscolo villaggio della campagna boema, immerso in un paesaggio ondulato fra macchie di boschi e prati, dove Kafka soggiornò dopo le prime manifestazioni di tubercolosi. Il malato tuttavia non nascose un certo senso di sollievo nel versare in questa condizione: la malattia era l’amante definitiva, che permetteva di chiudere i conti precedenti (come l’idea del matrimonio che lo torturava da anni). Il risultato di questa sua permanenza – come scrive Roberto Calasso – è un diamante purissimo, annidato nei vasti giacimenti carboniferi presenti in Kakfa.

Non è la prima volta che il Teatro Vascello ospita delle letture; e sempre con discreto successo, visto il largo seguito di pubblico, sia giovane che adulto. A differenza dell’ultimo spettacolo di questo genere, con uno strabiliante Massimo Popolizio, in “Serata Kafka” il rapporto tra la parte recitata e quella musicale risulta squilibrato, e le canzoni vengono relegate in uno spazio marginale. Occorre nondimeno osservare che i testi di Kafka, per loro stessa natura, difficilmente riescono a coniugarsi con la musica.

Ottime le prove di Alessandro Di Carlo, al clarinetto, e Adriano Di Carlo, alla fisarmonica, quest’ultimo avvinto al suo strumento come un amante alla sua amata. Sublime la recitazione del granitico Roberto Herlitzka, che sembra essere in grado di fermare il tempo e di aver raggiunto il nirvana. D’altra parte, come scriveva Kafka in uno dei suoi aforismi, “In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo.” 

data di pubblicazione:21/12/2016


Il nostro voto:

IO SONO L’AMORE di Luca Guadagnino, 2009

IO SONO L’AMORE di Luca Guadagnino, 2009

Il film presenta il ritratto di famiglia di un ricco imprenditore milanese, includendo i riti e le convenzioni borghesi che si consumano entro le mura domestiche. Emma (Tilda Swinton) moglie russa del ricco industriale Tancredi Recchi (Pippo Delbono), vive nel lusso della villa al centro di Milano (la dimora è la famosa villa Necchi Campiglio, oggi gestita dal FAI) insieme ai tre figli Gianluca (Mattia Zaccaro Garau), Elisabetta (Alba Rohrwacher) e Edoardo (Flavio Parenti). Mentre Gianluca segue le orme paterne anche nell’attività imprenditoriale, Edoardo invece è di carattere simile alla madre, lontano dalla mentalità cinica e borghese propria del suo ambiente. Insieme al suo amico Antonio (Edoardo Gabbriellini) decidono di aprire un ristorante in campagna sulla costa ligure approfittando delle esperienze di chef di Antonio. L’incontro casuale di questi con Emma, che poi si consoliderà in una appassionata storia d’amore, romperà definitivamente i falsi equilibri su cui poggiava la già traballante struttura familiare, tra agi e ipocrisie tipiche di un certo ambiente borghese milanese. Antonio, di basso ceto sociale, è l’unico quindi che non appartiene a questo contesto e pertanto è l’unico che riesce a risvegliare i sentimenti di Edoardo, come amico, e di Emma, come amante segreta. La vicenda avrà un epilogo fatale, ma metterà finalmente chiarezza all’interno del nucleo familiare. Ottima l’interpretazione di Tilda Swinton che riesce perfettamente ad interpretare  la figura di una esotica padrona di casa costretta a reprimere le proprie emozioni per uniformarsi al modus vivendi dell’alta borghesia milanese. Sulla tavola della famiglia Recchi si alternano pietanza raffinate e semplici come questo timballo di mezze maniche con verza al forno.

INGREDIENTI: 400 grammi di mezze maniche rigate – 500 grammi di verza lessata  – 200 grammi di pancetta affumicata – 150 grammi di provola dolce – 50 grammi di burro – 4 uova  –  3 cucchiai di panna fresca –  sale e pepe qb.

PROCEDIMENTO: Sbattere le uova con la panna, salare e pepare. Rosolare la pancetta con il burro, unire la verza già lessata tagliata a listarelle, la provola a dadini e cuocere per circa due minuti. Lessare  la pasta molto al dente e condirla con la crema di uova e panna e con la verza saltata. Imburrare una teglia e versarvi la pasta. Fare cuocere al forno a 200 gradi per circa 30 minuti, qualche minuto sotto il grill per gratinare un poco. Servire le mezze maniche non eccessivamente calde ma dopo averle fatte riposare un poco fuori dal forno.

L’ANATRA ALL’ARANCIA di William Douglas Home, regia Luca Barbareschi

L’ANATRA ALL’ARANCIA di William Douglas Home, regia Luca Barbareschi

(Teatro Eliseo – Roma, 13 Dicembre 2016/ 8 Gennaio 2017)

Uno spettacolo che ha fatto la storia recente del teatro leggero, una commedia, scritta nei primi anni Settanta, opera dello scozzese Williams Douglas-Home, poi adattata dal celebre autore teatrale francese Marc Gilbert Sauvajon, interpretata con grandissimo successo dalla coppia Alberto Lionello e Valeria Valeri e poi portata sugli schermi da Ugo Tognazzi e Monica Vitti, con la regia di Luciano Salce.

L’anatra all’arancia è una pièce con un passato importante, proposta al Teatro Eliseo da Luca Barbareschi – che ne firma anche la regia e Chiara Noschese, la coppia protagonista in crisi matrimoniale, unitamente a Ernesto Mahieux, Gianluca Gobbi e Margherita Laterza, gli altri personaggi tutti veramente bravi nel sostenere la struttura dello spettacolo ed animarla di ritmo e caratterizzazioni, angolando la vicenda secondo i propri punti di vista. Una coppia in crisi e due intrusi nel rapporto, unitamente ad un cameriere, testimone di un ipotetico adulterio ed apertamente schierato con la signora. Nell’arco temporale di un weekend, con al centro una cena in cui è servita la famigerata anatra all’arancia, si consumano gli psicodrammi dei due coniugi. Gilbert e Lisa sono sposati da 25 anni, ma con un ménage matrimoniale oramai in profonda crisi a causa della personalità del marito, inaffidabile, bugiardo, superficiale, orientato al tradimento seriale. Lisa, esasperata, finisce per innamorarsi di un altro, il nobile Volodia, personalità romantica, opposta a quella del marito.

Gilbert architetta allora, nella speranza di riconquistare la moglie, un piano di contrattacco psicologico, invitando il suo amante a casa loro con la scusa di organizzare il divorzio. In quest’operazione, che conduce avvolto nei fumi dell’alcol, Gilbert chiede aiuto alla segretaria giovanissima e sexy, sotto gli occhi interdetti del cameriere il quale, percorrendo il salotto con un’anatra starnazzante, si ritrova a essere il deus ex machina della vicenda.

Una storia che ruota più attorno all’incomprensione ed all’egoismo che alla gelosia. Un lieto fine che alla fine giunge con la buona pace di tutti e che permette alla coppia, una volta riconosciuti i propri errori e quelli del partner, di ritrovarsi e di ritrovare quell’affetto che, nonostante tutto, li ha uniti per tanti anni.  Gilbert e Lisa affermano infatti ‘noi due non sarà mai perfetto lo sai, ma sarà noi due’.

Uno spettacolo piacevole e raffinato dai giusti tempi comici, mai eccessivo. 

Data di pubblicazione: 19/12/2016


Il nostro voto:

TEMPO ASSASSINO di Michel Bussi – E/O, 2016

TEMPO ASSASSINO di Michel Bussi – E/O, 2016

Flashback continui per questo nuovo giallo di Michel Bussi; la storia si snoda contemporaneamente su due piani temporali distanti ventisette anni uno dall’altro.

Agosto 1989. Corsica, dal diario di una Clotilde quindicenne veniamo a conoscenza degli antefatti dell’evento clou di quell’estate: dopo una corsa per le tortuose strade a precipizio sul mare della penisola della Revellata, l’automobile su cui viaggia la famiglia Idrissi finisce nel vuoto; nel mortale salto muoiono i genitori e il fratello di Clotilde, solo lei si salverà, con la vita inevitabilmente segnata.

Agosto 2016. Clotilde torna per la prima volta sull’isola con il marito e la figlia adolescente, torna al Camping dei Tritoni anche se non nella stessa piazzola C29, ma è lì che la raggiunge una lettera: la calligrafia e la firma sono quelli della madre…

Clotilde non è più un’adolescente, non crede ai fantasmi. I suoi ricordi sono chiari, gli ultimi momenti prima dell’impatto li ha scolpiti nella mente: rivede ancora il padre che stringe la mano della madre elegantissima nell’abito regalatole qualche giorno prima. Quindi come si spiega questa lettera?

E non è la sola stranezza, altre se ne presentano, altre coincidenze che soltanto uno di loro quattro avrebbe potuto conoscere, e Clotilde inizia a vacillare …

Dalla famiglia non ha alcun aiuto: il marito Franck e Valentine, la figlia, non le danno ascolto, sembrano anzi annoiati dal suo rivangare gli eventi accaduti tanti anni prima, quasi a dire che il passato è passato e bisogna guardare avanti.

Clotilde non si dà per vinta e comincia la sua indagine.

Interroga i vecchi amici, suoi e del fratello, i nonni, tutti coloro che in qualche modo erano stati partecipi della sua vita in quell’ultima estate di felicità. Con le sue indagini, con le sue domande riesce a ricostruire cosa sia accaduto realmente quella notte sulle strade della Revellata e riporta in vita vecchie sofferenze che porteranno a conseguenza terribili: “L’uomo aprì il quaderno. Non gli piaceva quello che stava per leggere. Eppure doveva. Per nutrire il suo odio”

Bussi torna a proporci lo schema che ha usato nei suoi precedenti libri, un capitolo via l’altro con uno sfasamento temporale degli accadimenti.

Il diario di Clotilde è scritto magistralmente, forse troppo per essere quello di una quindicenne, perfetto anche il contenuto con le descrizioni dei vari personaggi: il fratello “grande” che la guida, la bella della comitiva e i comportamenti dei maschi del gruppo, le rivalità tra le amiche, i sentimenti estremi e, in ultimo, la delusione della scoperta che i genitori sono esseri umani che sbagliano e non gli esseri perfetti che ci si immagina da piccini.

Il diario di Clotilde, e le descrizioni della Corsica, sono state le cose che più ho apprezzato del libro.

La storia è originale e ben congegnata, il ritmo aumenta man mano che si va avanti, un  thriller che tiene sulle spine. La fine mi ha lasciata un poco interdetta, francamente troppo inverosimile, e avrei totalmente eliminato le ultime pagine che ci proiettano nel 2043, assolutamente!

Sicuramente un buon romanzo, in cui si riconosce la mano dell’autore di Un aereo senza di lei, purtroppo non si avvicina minimamente a Ninfee nere, che resta insuperabile!

data di pubblicazione:18/12/2016

PADRI E FIGLI – LEHMAN TRILOGY (II PARTE) di Stefano Massini, regia Luca Ronconi

PADRI E FIGLI – LEHMAN TRILOGY (II PARTE) di Stefano Massini, regia Luca Ronconi

(Teatro Argentina – Roma, 25 Novembre/18 Dicembre 2016)

Ancora in scena fino al 18 dicembre al Teatro Argentina di Roma Lehman Trilogy, ultimo capolavoro registico di Luca Ronconi, lo spaccato di oltre cento sessanta anni di storia raccontati attraverso le vicende dei Lehman, una delle famiglie più influenti d’America: dalla Guerra di Secessione alla crisi del ’29, tra continue ascese e improvvise cadute, fino al definitivo fallimento del 15 settembre 2008.

Un testo di Stefano Massini suddiviso in due parti, Tre fratelli e Padri e figli. La seconda parte si apre nella New York degli anni Dieci del Novecento. Ai tre fratelli sono succeduti i figli: Philip (figlio di Emanuel) vuole speculare in Borsa, mentre Herbert (figlio di Mayer) si dedica alla politica e diventa governatore di New York, mentre suo cugino Robert riesce a traghettare la società superando la crisi del ’29 fino agli anni ’60, riempiendo l’America “di televisori, di telefoni, di consumo”.  I Lehman cambiano pelle, con loro si evolve tutto il sistema finanziario mondiale, si passa dall’economia reale alla finanza.  Sono loro gli ultimi eredi della dinastia, alla morte di Robert, la Lehman Brothers finisce in mano a trader aggressivi e senza scrupoli e il declino si fa inarrestabile, fino al crollo definitivo del 2008.

È un’autentica epopea, una saga familiare di tre generazioni: tre fratelli, poi i figli e i nipoti, sempre più voraci in quell’illusione di fare soldi per i soldi, vittime della loro stessa spregiudicatezza. Il collasso della banca è anche, in chiave di metafora, il collasso di una famiglia ormai inesistente, moralmente svanita e preda di nuovi “mostri” ben più agguerriti nell’impadronirsi del potere.

Ed è l’ennesima ed ultima affascinante sfida di Ronconi nel voler tradurre in scena testi impossibili e indefinibili. Un percorso potente, drammatico ed ironico al tempo stesso fatto di ascesa  e declino, di capitalismo, di giochi di potere, di banche e denaro, di mutamenti sociali ed economici, specchio delle contraddizioni del mondo in cui viviamo.

La storia della famiglia Lehman è la parabola del sogno americano e della voracità dell’economia. I Lehman riescono a superare tutte le crisi, tutte le guerre e crescono e si accrescono fino allo scontro finale, che li vedrà sconfitti.

Tempi rallentati associati a ritmi vorticosi, la “Trilogia Lehman” di Ronconi si basa totalmente sulla parola, con gli attori che si raccontano, descrivono le azioni, parlano in prima e in terza persona, muovendosi su una scena che è una grande scatola bianca illuminata a giorno, con un orologio appeso, sedie che salgono e scompaiono da botole, tavoli che scorrono, e insegne che disegnano linee.  Ogni personaggio che racconta se stesso ed il suo pensiero.

A portare in scena l’ascesa economica e il drammatico tracollo della famiglia americana Lehman un cast di grandi interpreti, con Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Martin Ilunga Chishimba, Paolo Pierobon, Fabrizio Falco, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti e Laila Maria Fernandez.

data di pubblicazione:17/12/2016


Il nostro voto:

ROGUE ONE: A STAR WARS STORY di Gareth Edwards, 2016

ROGUE ONE: A STAR WARS STORY di Gareth Edwards, 2016

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…una guerra civile galattica infiamma l’universo. L’Alleanza ribelle all’Impero status quoriesce ad ottenere i piani segreti di una potente arma in grado di distruggere un intero pianeta, la Morte Nera.

Rogue One è il primo spin-off della saga di Guerre Stellari, arrivata al settimo episodio (2015); gli eventi narrati si collocano tra Episodio III (2005) ed Episodio IV (1977) e sviluppano il testo introduttivo del film del 1977 che scorre sullo schermo. Forse per questo, in Rogue One non ci sono i famosi titoli di testa che scorrono nello spazio ed anche la familiare colonna sonora di Williams si riconosce ma è diversa.

Il film segue un evento fondamentale alla trama globale della saga ovvero la prima vittoria dell’Alleanza ribelle sull’Impero che governa la galassia con il terrore. Un gruppo disorganizzato di ribelli “canaglie” (rogue in inglese) si ribellano all’Impero con l’intento di distruggere la nuova temibile arma imperiale, la Morte Nera, una stazione spaziale orbitante in grado di distruggere con un raggio laser un intero pianeta. In un terribile conflitto riescono a rubare i piani di costruzione della Morte Nera. Questo permetterà al prescelto, Luke Skywalker, di distruggerla riportando una nuova speranza nella galassia ed il sacrificio di questo gruppo di uomini sarà ripagato. Il film si chiude con la scena che precede la prima di Episodio IV: Una Nuova Speranza.

Restano centrali i temi tradizionali di Star Wars, la speranza, la forza e il sacrificio. Una speranza, seppur generica, alimenta la ribellione. La forza è intensa nella protagonista, la dura Jyn Erso, interpretata dalla graziosa attrice inglese, Felicity Jones. La relazione padre-figlio, centrale nella saga, è qui rappresentata dal rapporto tra Jyn ed il padre Galen (Mads Mikkelsen) il costruttore della Morte Nera che ha anche progettato come distruggerla; sarà compito di sua figlia trovare i documenti e consegnarli all’Alleanza. La giovane donna coraggiosa è affiancata nell’impresa da un manipolo di uomini tra cui una spia, un pilota traditore, un droide con il senso dell’umorismo, uno Jedi mancato ed un samurai con il bazooka. I personaggi collaterali alla saga di Guerre Stellari diventano, in Rogue One, i protagonisti. Sono umani e inneggiano alla Forza ma non ci sono i cavalieri Jedi.

E’ un film di guerra, che con l’intensa violenza e la distruzione di massa, si discosta lievemente dalla saga tradizionalmente fantascientifica, ed esplora il conflitto stellare da un punto di vista soprattutto militare.

Data di pubblicazione: 15/12/2016


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IL PERMESSO – 48 ORE FUORI di Claudio Amendola, 2016

IL PERMESSO – 48 ORE FUORI di Claudio Amendola, 2016

Carcere di Civitavecchia (Roma). Quattro detenuti (tre uomini e una donna) usufruiscono di un permesso di 48 ore. Luigi, cinquantenne, da quasi vent’anni in galera, ha in mente solo una cosa: salvare il figlio. Donato, mosso da una rabbia insaziabile e giustificata, è alla ricerca di sua moglie. Rossana, giovane ricca ed agiata, vuole solo godersi la temporanea libertà, al pari di Angelo, ragazzo di borgata, che, nel frattempo, durante la detenzione, ha studiato e si è laureato.

Quattro persone ed altrettante storie profondamente diverse, che si intrecciano, seppur parzialmente, consentendo comunque ai protagonisti di cercare e trovare, in questo breve termine, qualcosa di profondo e significativo, magari per la prima volta nella vita.

Presentato, in anteprima assoluta, alla ventiseiesima edizione del Noir in Festival, con Il permesso – 48 ore fuori, Claudio Amendola torna alla regia dopo il debutto, in chiave comica (ma comunque significativa) avvenuto con La mossa del pinguino, e lo fa con un film crudo, potente e diretto, che rappresenta con intensità il degrado di periferia e quello di una certa, alta borghesia, quasi a dimostrare che i drammi umani non hanno età, esperienza e classe sociale.

Scritto (anche da) De Cataldo (autore, tra l’altro, dei libri Romanzo Criminale e Suburra), Amendola dirige con maestria i protagonisti, che, grazie a tali 48 ore lontane dalle sbarre, troveranno se stessi e la consapevolezza del proprio presente e futuro, nel caso di Rossana ed Angelo, la forza di difendere gli affetti più cari, per Luigi, o il riscatto attraverso la vendetta (contro una vita di abusi e soprusi), nel caso di Donato.

Il ritmo è sostenuto e la narrazione scorre fluida, senza cali o interruzioni di sorta. Ottimo debutto nel noir/thriller per Amendola.

Data di pubblicazione: 15/12/2016


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MISS PEREGRINE – LA CASA DEI RAGAZZI SPECIALI di Tim Burton, 2016

MISS PEREGRINE – LA CASA DEI RAGAZZI SPECIALI di Tim Burton, 2016

Florida, Stati Uniti d’America. Jake è un adolescente introverso e solitario, cresciuto nel mito del nonno Abe, protagonista, nei suoi racconti, di meravigliose ed esaltanti avventure, vissute durante la giovinezza in giro per il mondo. Quella che affascina maggiormente Jake è sicuramente la storia di alcuni ragazzini con facoltà fuori dall’ordinario che, durante la seconda guerra mondiale, vivevano isolati dal mondo su una sperduta isola del Galles, sotto la supervisione di una giovane e brillante istitutrice, Miss Peregrine.

 

Una sera Jake ritrova il nonno Abe in fin di vita, privato degli occhi; questi gli dice di recarsi su quell’isola del Galles per conoscere Miss Peregrine e la casa dei (suoi) ragazzi “peculiari”, i quali, sopravvissuti ai bombardamenti, dal 1943 ad oggi sono rimasti immutati nel tempo.

Presentato in anteprima alla XXVI edizione del Noir in Festival, con Miss Pregrine – La casa dei ragazzi speciali Tim Burton torna al mondo dell’immaginario, visto, letto e rappresentato in chiave dark, che aveva (temporaneamente) abbandonato con Big Eyes, sua precedente pellicola che aveva riscosso un notevole successo di pubblico, e lo fa in modo che esso sia una gioia per gli occhi e per il cuore dello spettatore.

La narrazione scorre, veloce ed appassionante, tra la scoperta dei ragazzini speciali (e dei loro poteri), la meraviglia e la fantasia del loro contesto di vita (e di apprendimento), e l’esigenza di difenderli e preservarli, non solo dal mondo che conosciamo, ma anche, e forse soprattutto, da forze malvagie pur esse di natura fantastica.

Il ritmo è sostenuto e, complessivamente, il film innesca una continua curiosità senza mai annoiare e, a parere di chi scrive, sviluppa la curiosità di sapere come la storia si sviluppi, oltre a suscitare una (inevitabile) immedesimazione nei suoi incredibili protagonisti.

Forte il sotto-testo: i ragazzi speciali, proprio in virtù delle loro peculiarità, sono diversi e, per tale ragione, non sarebbero stati accettati nel mondo; il regista riesce così, con la sua proverbiale originalità, a sviluppare in questo modo l’attualissimo tema della diversità, di importanza fondamentale, oggi più che mai, nella nostra società.

data di pubblicazione:14/12/2016


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