da T. Pica | Apr 14, 2017
Moglie e marito, l’opera prima di Simone Godano prodotta da Matteo Rovere e Roberto Sessa, si ispira al tema dello scambio di identità, da sempre caro ai registi e agli sceneggiatori statunitensi in qualche modo ripreso negli anni ’80 anche da qualche pellicola nostrana. Questa volta lo scambio “io divento te e tu diventi me” coinvolge marito e moglie, ovvero lo stereotipo della coppia quarantenne con due figli alle prese con i primi bilanci (esistenziali e professionali), le frenesie della quotidiana routine, la carriera, i figli. La coppia che si lascia ormai sempre più frequentemente destabilizzare dalle fisiologiche incomprensioni, vedendole come insormontabili e optando per la soluzione più rapida e apparentemente ideale: la separazione e il divorzio ormai resi dal legislatore “brevi”. La coppia in questione, Sofia (Kasia Smutniak) e Andrea (Pierfrancesco Favino) – lei giornalista che sta approdando al suo debutto televisivo, lui neurologo afflitto dalla precarietà della conferma del contratto e dagli anni spesi dietro un costoso progetto di ricerca ancora non definito -, è a un passo dal precipizio della parola fine quando viene messa in stand-by proprio dallo scambio di identità realizzato dal cortocircuito di Charlie, il marchingegno creato dalla ricerca sperimentale di Andrea e del suo collega, e migliore amico, Michele (l’ottimo Valerio Aprea). Tra una serie di paradossi, gags e figuracce i due protagonisti finiranno per comprendere meglio l’uno i bisogni, le esigenze, le sofferenze e le aspirazioni dell’atra e a divenire davvero complementari? Sarà sufficiente questa osmosi di memoria e menti finte l’uno nel corpo, nei vestiti e nei lavori dell’altra per recuperare il rapporto e riunire la famiglia? In ogni caso, probabilmente, la chiave di lettura vincente suggerita dal film è quella della scena finale quando il figlio maggiore cerca la madre gridando Mamma: un naturale e complice abbattimento delle differenze di genere nella coppia. Il film è una commedia che vuole, con il sorriso, puntare l’attenzione sul quello che negli ultimi anni è tra i temi prediletti del cinema italiano (Ex, Maschi contro femmine, Perfetti sconosciuti, solo per citarne alcuni): le famiglie e le coppie di trentenni e quarantenni sempre più disorientate, fragili e inclini alla resa. Favino e Smutniak sono bravi nell’interpretare, rispettivamente, una donna e un uomo evidenziandone i tratti che li rendono da sempre due universi spesso lontani anni luce (ovviamente la Kasia Smutniak androgina in gessato, gilè e cravatta ha dalla sua parte una maggiore facilità fisica a vestire e muovere le gesta tipicamente maschili, rispetto al “barbuto” Favino con le gentili movenze femminili). Valerio Aprea, conferma la sua bravura e da spessore e sostegno all’intera pellicola seppure come attore non protagonista, conferendo al film note davvero esilaranti.
Nei primi trenta/quaranta minuti la regia e la sceneggiatura appaiono un po’ disorganiche, dispersive, ma poi si riprendono e il film trova il giusto ritmo.
data di pubblicazione:14/04/2017
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da Antonio Iraci | Apr 14, 2017
Michelle, insieme all’amica Anna, gestisce una società che produce videogiochi ed insieme si avvalgono della collaborazione di giovani informatici. La donna, pur ottenendo ottimi risultati in campo lavorativo, nel privato non riesce a trattenere la propria insoddisfazione soprattutto nell’ambito familiare sia nei confronti del figlio sia verso la madre che, al contrario di lei, riesce invece a godersi la vita nonostante la vegliarda età. Rimasta vittima di un abuso sessuale in casa propria, Michelle reagirà in maniera alquanto insolita, architettando un piano, tanto diabolico quanto perverso, nei confronti dello stupratore.
Nel film La Pianista del regista Michael Haneke, tratto dall’omonimo romanzo del premio Nobel Elfriede Jelinek, Isabelle Huppert ottenne per la sua magistrale interpretazione il Premio come Migliore interprete femminile al Festival di Cannes del 2001. In quella circostanza recitava la parte di una talentuosa insegnante di piano, sessualmente repressa, con desideri sadomasochistici e voyeuristici, che ne facevano una donna fondamentalmente spietata soprattutto verso i suoi allievi. In maniera molto simile nel film Elle di Verhoeven la Huppert incarna egregiamente il ruolo di una donna ben affermata professionalmente e in società, ma incapace di instaurare un rapporto sano con la gente che la circonda, sempre alla ricerca di una soluzione subdola per danneggiare, se non addirittura distruggere la vita degli altri. Cinica sino all’inverosimile nei confronti del figlio, peraltro appena diventato padre, si scaglia con durezza anche contro la madre che al contrario è molto ottimista nella vita e soprattutto non disdegna i bei giovani che mantiene in cambio di affetto. Dopo aver subìto un attacco di violenza sessuale, una volta smascherato l’aggressore, non esiterà a relazionarsi con lui in un rapporto masochista in una perfetta sintonia nel gioco crudele vittima-carnefice, con quella sufficiente dose di violenza che in fondo lei inconsciamente aveva sempre desiderato. Il film, a tratti forse prevedibile in quanto la tematica non è del tutto originale, poggia interamente sulla rigida interpretazione della Huppert che riesce realmente a rendere l’immagine di una donna psicopatica, con una personalità instabile e malata, priva di qualsiasi decenza e con una eccessiva dose di morbosità. Tratto dal romanzo Oh… di Philippe Djian, il regista Verhoeven riesce abilmente a punzecchiare quella fascia medio borghese della società e a mettere in luce come il suo apparente perbenismo nasconda spesso dinamiche devianti, al limite della pura perversione. Obiettivo in parte raggiunto, ma siamo ben lontani dal linguaggio cinematografico di Luis Buñuel dove l’imprevedibilità non lasciva spazio a una benché minima soluzione razionale. I film ha ottenuto diversi riconoscimenti: Ai Golden Globes 2017 il Premio per il Miglior film straniero e due premi César per il Miglior film francese e per la Miglior attrice, oltre ad una Nomination agli Oscar di quest’ultima edizione. Consigliato dalla critica nazionale, lo stesso spettatore si sottopone, forse anche lui masochista, a colpi di inaudita violenza fisica e psicologica assaporando poi, con mal celata gioia, la parola Fine.
data di pubblicazione:14/04/2017
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da Alessandro Rosi | Apr 14, 2017
(Teatro Quirino – Roma, 11/13 Aprile 2017)
“Il destino intrecciato di un cane, che i propri padroni ha abbandonato, e un uomo, che dalla sua vita è invece scappato.”
È davvero il cane il miglior amico dell’uomo?
Alessandro è al parco con il suo grazioso barboncino color miele Toutou; quando all’improvviso, dopo essersi distratto a parlare con la seducente vicina, non vede più il suo cane: è scappato. Sua moglie Marzia non crede a quanto accaduto e cerca in tutti i modi di ritrovarlo (anche guardando tra la platea!). I due si interrogano allora sui motivi che hanno indotto il cane a fuggire, ma anche sul modo in cui Toutou ha inciso sulle loro abitudini di vita: molte volte è un alibi della loro pigrizia; è un impegno costante e porta via tempo prezioso; e spesso li ha costretti a rinunciare a viaggiare.
Toutou non è l’unico ad essere scappato, anche il loro amico Paolo è in fuga (dalla moglie) ed è in cerca di ospitalità. Seppur anche lui inizialmente sottolinei alcuni cambiamenti negativi, esalta successivamente tutti gli aspetti positivi dovuti alla presenza di Toutou. È il cane ad aver fatto nascere il loro amore, a rinforzare il loro sentimento e a renderlo stabile anche nei momenti più difficili. Coincide invece con il suo abbandono il momento in cui la coppia va in crisi. Ritornerà Toutou a sistemare la situazione?
L’adattamento della commedia francese Toutouè piacevole e divertente, permette di passare due ore in compagnia di numerose battute che prendono spunto dai comportamenti umani in relazione al mondo canino. Pino Quartullo, oltre a curare la regia, interpreta efficacemente il ruolo di Alessandro, ma senza incidere più di tanto. Scintillante invece Attilio Fontana (nella figura di Paolo), che nella sua interpretazione ha modo di dar prova altresì delle sue abilità canore. Rosita Celentano incarna invece alla perfezione la figura materna, ma riserva anche delle sorprese.
Star indiscussa dello spettacolo è tuttavia Toutou, il tenero cane simile a un peluche. Guardalo sul palco è una gioia per gli occhi, il solo vederlo mette di buon umore. Gli animali hanno un potere benefico sull’uomo davvero sconfinato. D’altronde è risaputo che carezzare un cane riduce il livello di stress; attraverso la pet therapy è possibile alleviare diverse patologie; i cani sono in grado di sentire con il loro olfatto sviluppato (e quindi salvare) le persone in pericolo. Ciononostante noi spesso li maltrattiamo, li abbandoniamo e in Cina si tengono Festival dove vengono crudelmente seviziati.
La domanda sorge allora spontanea. Se il cane è il miglior amico dell’uomo, è l’uomo il miglior amico del cane?
data di pubblicazione:14/04/2017
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Apr 12, 2017
Elia, noto scrittore di libri gialli, torna a casa dopo un periodo di degenza per aver subito un colpo alla testa che gli ha causato la perdita totale della memoria. La moglie cercherà di fargli tornare alla mente tutti gli aspetti della loro vita coniugale, aiutandolo a ricostruire un passato che in verità sembra essere completamente discorde dalla realtà dei fatti. Attraverso una serie di serrati dialoghi, all’interno del loro appartamento, la coppia troverà finalmente il pretesto per esaminare il loro rapporto che sembra andare, oramai irrimediabilmente, alla deriva…
Piccoli Crimini Coniugali poteva avere tutte le carte in regola per diventare un piccolo capolavoro cinematografico ed invece risulta un esercizio di stile troppo (ben) costruito, pretenzioso nella sua studiata ricerca della perfezione dialogica con il risultato poi di diventare pesante, ai limiti della pedanteria. Forse eccessivamente aderente al romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt la sceneggiatura, curata dallo stesso regista Alex Infascelli insieme a Francesca Manieri, pecca di spontaneità affidandosi quasi completamente ai ragionamenti e alle elucubrazioni dei due protagonisti, senza riuscire a conferire il giusto grado di interesse alla narrazione. Una ennesima pièce teatrale, un atto unico che vede lui e lei, marito e moglie, aggirarsi in uno spazio claustrofobico che è la loro stessa casa, troppo bella e curata per definirsi uno spazio vissuto, anch’essa intrisa di una buona dose di artificiosità al pari di chi la abita. Piccola commedia domestica noir, con la pretesa di indagare sulle dinamiche di una coppia, oramai stagionata, che si trova ad affrontare le inevitabili crisi coniugali fatte di rimproveri e di rimpianti, di gelosie e disistima, persone che si sono amate ma che ora vanno avanti per pura inerzia, in un totale reciproco disinteresse. Un gioco al massacro dove finalmente si trova il coraggio di mettere a nudo le proprie ambizioni per accusare violentemente l’altro delle aspettative mal riposte o interamente disattese. Il film manca del giusto vigore per stimolare qualche riflessione interiore sui valori del rapporto di coppia e sulla sua naturale evoluzione e lo spettatore sembra rimanere disarmato anche di fronte a quel coup de théâtre che avrebbe dovuto svegliarlo dall’inevitabile torpore che la storia e l’ambientazione infliggono inesorabilmente. Sicuramente buona la prova di Margherita Buy e Sergio Castellitto, che però si trovano loro malgrado invischiati nei dialoghi, in un labirinto di situazioni dove è veramente difficile uscirne indenni. Entrambi nella serie “In treatment”, in questi giorni in TV, risultano decisamente più credibili…
data di pubblicazione:12/04/2017
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da Rossano Giuppa | Apr 10, 2017
(Teatro Vascello – Roma, 5/9 aprile 2017)
Il Teatro Vascello di Roma ha ospitato la piece TRUMAN CAPOTE questa cosa chiamata amore, tratta dall’inedito testo di Massimo Sgorbani con la regia di Emanuele Gamba, per una produzione Fondazione Teatro della Toscana e dedicata Truman Capote, pseudonimo di Truman Streckfus Persons, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e attore statunitense, scomparso nel 1984 a soli 60 anni.
Un uomo si racconta in uno spazio essenziale e dinamico, delimitato da tavolo, sedie e pannelli in rigoroso movimento. E’ un uomo solo, svestito, destato di notte da urla e calci alla porta dell’ex compagno, in realtà interessato solo alla sua fama e ai suoi soldi che inizia a parlare della sua vita. Inizia così l’interessante monologo confessione di Truman Capote, l’autore consacrato alla notorietà da A sangue freddo, romanzo verità del 1966, storia del massacro di una famiglia e capostipite di una tipologia di giornalismo letterario di grande successo, ma anche contraddittorio personaggio di mezzo secolo di storia e costume americano. Capote infatti prima che scrittore giornalista e drammaturgo, è vittima e protagonista dello star system americano, per il suo essere eccessivo, esibizionista, decadente ma anche influencer e personaggio pubblico come diremmo oggi.
E’ costui il Capote raccontato da Massimo Sgorbani, fortemente sentito e interpretato da Gianluca Ferrato ed intelligentemente diretto da Emanuele Gamba, un anticonformista che può permettersi di dissacrare Hollywood e la società letteraria newyorkese, mettendo anche dentro se stesso, i suoi vizi, le sue manie.
Capote racconta alla sua interlocutrice, Marilyn Monroe, sua grande amica ed anch’essa segnata da un’infanzia difficile e da una vita sofferta, amori, avventure, successi e sconfitte, ma anche l’America di quegli anni, le figure di Jackie e John Fitzgerald Kennedy, l’omicidio a Dallas di quest’ultimo nel 1963 e quello del fratello Bob, cinque anni dopo, l’inutile guerra in Vietnam. Ma anche l’America di Perry Smith, l’omicida della famiglia Clutter, nel Kansas del 1959, da cui nacque il romanzo A sangue freddo e del quale ricorda con dolore le visite in carcere. Truman Capote, un predestinato della scrittura, frivolo e profondo, con la sua disperata voglia di stupire, di essere apprezzato e amato.
Uno spaccato interessante quello messo in scena, in grado di esasperare le contraddizioni di un uomo vissuto tra fama e lustrini da un lato ed emarginazione dall’altro, il suo essere eccessivo e fragile. Su tutte la mano del regista, in grado di alleggerire e smussare con i passaggi veloci e l’uso di musiche ed immagini appropriate, l’enfasi di un personaggio scomodo ed esasperato per far emergere e lasciare in tutti quel senso di malinconia e profonda solitudine, quel bisogno di affetto e di amore, che a distanza di tempo è certamente quello che è più giusto ricordare dell’uomo Truman Streckfus Persons.
data di pubblicazione:10/04/2017
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Apr 10, 2017
Un nuovo libro della collana di Marsilio GialloSvezia con la scrittrice Liza Marklund e la sua Annika Bengtzon, giornalista de La Stampa della sera, le cui avventure sono diventate nel 2012 anche una serie TV.
Questo sembra quasi essere il tassello finale della storia della giornalista in cui, per godere appieno la sua felicità familiare, sarà costretta ad affrontare tutti i suoi demoni.
Il nuovo libro inizia con l’immagine di un killer che si libera del corpo della sua nona vittima.
Annika è schiacciata tra la nuova indagine sull’omicidio mai risolto di una spogliarellista, il primo caso giornalistico all’inizio della sua carriera, la consapevolezza che il giornale in cui ha lavorato per anni, dove è cresciuta professionalmente ed è diventata la reporter d’assalto che ora è, sta per chiudere i battenti: l’edizione cartacea de La stampa della sera chiuderà e dalle sue ceneri nascerà un quotidiano online in cui confluiranno alcuni dei suoi colleghi, mentre per gli altri… e la misteriosa scomparsa di sua sorella Birgitta che, dopo averle inviato una serie di messaggi inquietanti, è svanita nel nulla lasciando a casa il marito malato e la figlia di pochi anni.
Grazie alla triangolazione dei segnali del cellulare tracciati dalla sua amica ispettrice Nina Hoffman, Annika inizia le indagini che la porteranno sulle tracce della sorella che sembra si nasconda nelle zone in cui sono vissute da bambine. Il ritorno in quei luoghi, l’affrontare l’odio che la madre non ha mai nascosto nei suoi confronti, la famiglia del suo ex fidanzato, il marito violento della sorella, porteranno una profonda crisi in Annika che, costretta ad affrontare i suoi dolori, le sue paure, i suoi rimorsi, catarticamente si trasformerà in un’altra donna.
Le indagini delle due amiche si incroceranno quando Nina Hoffman, in Spagna alla ricerca delle prove di altri omicidi compiuti da Ivar Berglund, un efferato assassino in quel momento in custodia cautelare a Stoccolma, troverà una foto di Annika e Brigitta bambine in uno dei bunker dell’omicida.
Ma la velocità di azione della Hoffman non potrà nulla contro il destino a cui è andata incontro la Bengtzon che, da sola, dovrà affrontare l’alter ego del mostro e dei suoi raccapriccianti racconti.
Il finale sembra veramente essere la conclusione della storia della Annika Bengtzon che abbiamo imparato a conoscere in questi anni: questa volta lei è dall’altra parte “della penna”, rilascia un’intervista su quanto accaduto e accadrà e che annuncia di lasciare il lavoro perché in attesa di un figlio…
Ci abbandonerà così…?
data di pubblicazione: 10/04/2017
da Antonio Iraci | Apr 10, 2017
Ci troviamo in Toscana nel 1936, esattamente sul litorale vicino Livorno. Giovanni (Stefano Accorsi) sposato con un figlio, per caso incontra sul treno Maria (Maya Sansa) che anni prima era stata la sua ragazza. Ritrovati dopo tanto tempo, si accorgono che i loro sentimenti non sono mutati e riaccendono una relazione molto intensa approfittando del breve periodo in cui l’uomo è stato richiamato in Marina. Un giorno Maria vede da lontano Giovanni in compagnia della moglie Gabriella (Marzia Fontana) e prende improvvisamente coscienza dell’impossibilità di continuare questo rapporto destinato a procurarle solo sofferenza. Passano gli anni e, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i due si incontrano nuovamente e qualcosa sembra riaccendersi tra di loro anche se la situazione di Maria ora è cambiata visto che è sposata e ha anche una figlia. Il film fu presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed ottenne tre nomination per il David di Donatello e una per il Nastro d’Argento. Il pubblico e la critica non accolsero molto favorevolmente il lavoro di Mazzacurati giudicandolo un puro melò sentimentale pur apprezzando la recitazione molto convincente dei due attori protagonisti. In effetti il film non rispecchia l’intensità espressiva e la passione che venivano evidenziati nel romanzo Una relazione di Carlo Cassola, da cui è tratto, anzi il registra sembra indugiare sul paesaggio esterno più che sul travaglio psicologico interno dei due amanti. Si tratta della storia di un amore ritrovato, dopo anni, che esprime poco e ricade a tratti in una banalità disarmante anche per le situazioni inesorabilmente prevedibili. La dolce campagna toscana, che s’intravede dal treno in corsa, ci suggerisce un antipasto semplice, tipico della regione: crostini ai funghi porcini.
INGREDIENTI: 1 baguette – 5 funghi porcini – 1 spicchio d’aglio – 1/5 limone – 250 grammi di brie – 3 cucchiai d’olio d’oliva – 1 mazzetto d’ erba cipollina – 1 mazzetto di prezzemolo – sale e pepe.
PROCEDIMENTO: pulire attentamente i funghi, tagliarli grossolanamente a pezzetti e farli saltare in padella per due minuti con un filo d’olio d’oliva e con lo spicchio d’aglio. Sistemare i funghi in una terrina e aggiungere succo di limone, olio, prezzemolo, sale e abbondante pepe. Sistemare sulle fette di pane il brie tagliato a fette e completare con la salsa di funghi. Tenere sotto il grill del forno per qualche minuto fino a sciogliere il formaggio. Servire decorando i crostini con steli di erba cipollina.
da Antonio Iraci | Apr 7, 2017
Dante Fontana (Alberto Sordi), antiquario di Perugia, si reca a Londra per partecipare ad un’importante asta dove è ben deciso a farsi aggiudicare una rara urna etrusca di cui già possiede l’altra copia esistente. Immediatamente affascinato dall’atmosfera di quella città, decide addirittura di mimetizzarsi tra gli inglesi indossando il tipico abito grigio, la bombetta e l’ombrello, come un vero gentleman della City. Nel corso dell’asta conoscerà una duchessa (Amy Dalby) che, dopo essersi aggiudicata il raro pezzo, lo inviterà a trascorrere un week end nel suo castello, in occasione di una tipica caccia alla volpe da lei organizzata. Nel corso del soggiorno Fontana convince la duchessa che l’urna acquistata è un falso e si offre di lavorare l’oggetto al fine di dargli una parvenza di antichità: l’esperimento non riesce e l’uomo è costretto a fuggire per evitare ritorsioni nei suoi confronti. Successivamente incontra sul treno la nipote della duchessa, Miss Elizabeth (Fiona Lewis) che lo introdurrà nel mitico mondo della “Swinging London”, a contatto con la cultura giovanile inglese di quei mitici anni sessanta. Il mondo che gli si aprirà sarà del tutto nuovo per lui e si troverà invischiato in una serie di situazioni al limite del grottesco, in una Londra in rapida evoluzione ben lontana dalle situazioni ingessate dei composti gentlemen. Il film è diretto dallo stesso Sordi, per la prima volta in veste di regista, e si rifà, per analoghe situazioni tragicomiche, ad un precedente film Il diavolo, interpretato con successo dallo stesso attore. La pellicola ebbe un discreto consenso del pubblico proprio perché in quegli anni Londra rappresentava una meta d’obbligo per i giovani hippies disinibiti e dal sesso facile. Al buon esito della pellicola contribuì la colonna sonora curata dallo stesso Sordi e la canzone “Breve amore” per lungo tempo occupò i primi posti della hit parade. L’ambiente fumoso londinese ci suggerisce una ricetta di sicuro effetto che potrà essere preparata anche per una prima colazione elegante: muffin salati allo speck e brie.
INGREDIENTI: 150 grammi di farina bianca “00”- 100 ml di latte – 8 grammi di lievito per torte salate – 60 grammi di ricotta – 150 grammi di brie – 150 grammi di speck a cubetti – 6 cucchiai di olio d’oliva – 2 uova – 3 cucchiai di parmigiano –sale e pepe.
PROCEDIMENTO: Sciogliere il lievito nel latte tiepido, aggiungere la farina, le uova, l’olio e sbattere bene. Unire la ricotta, il parmigiano grattugiato e un pizzico di sale e pepe fino ad ottenere un composto senza grumi. Aggiungere i cubetti di speck precedentemente saltati in padella, ed il brie a tocchetti. Versare il contenuto negli stampini rivestiti con carta forno e infornare a 180° per circa 20 minuti finché i muffin saranno ben dorati.
da Rossano Giuppa | Apr 7, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 26 marzo/23 aprile 2017)
Giulia Lazzarini, una delle attrici più grandi e più amate del panorama artistico italiano, torna al teatro quale straordinaria protagonista di Emilia, un testo scritto e diretto dall’argentino Claudio Tolcachir, in prima nazionale al Teatro Argentina.
Emilia è una balia che dopo venti anni ritrova Walter (Sergio Romano) il bambino che aveva accudito; oramai è un uomo in carriera e la introduce benevolmente nel suo contesto familiare, date le difficoltà economiche che quest’ultima sta attraversando. Emilia conosce così Carol (Pia Lanciotti), la donna che Walter ha sposato, e Leo (Josafat Vagni), il figlio che lei ha avuto dal precedente matrimonio con Gabriel (Paolo Mazzarelli). Sembrano tutti felici, ma è solo apparenza. Poco a poco si scopre, attraverso i ricordi di Emilia, quanto Walter fosse un bambino complicato. E parallelamente iniziano ad apparire crepe profonde nella sua famiglia ed è sempre più evidente come le strutture emotive dell’infanzia di Walter abbiano poi sortito effetti devastanti sulla sua vita e sulla sua famiglia, rivelandolo quale uomo violento e aggressivo, geloso e incostante.
Lo spazio scenico è un ordine-disordine di coperte e casse di un trasloco, una trasposizione della mente di Emilia, una casa, luogo di amore e orrore, che protegge e imprigiona.
Claudio Tolcachir scrive e dirige una storia di legami contrastati e di relazioni familiari che celano inquietanti segreti. Ma è anche la storia della decomposizione del valore della famiglia, fatto di quotidianità apparentemente rassicuranti che crollano davanti alle crude evidenze della verità.
La drammaturgia di Tolcachir è straordinariamente efficace grazie alla semplicità del linguaggio adottato. Emilia può parlare e raccontare la sua storia, al passato ed al presente, a seconda di come la sua mente veda i ricordi, mentre i personaggi agiscono dietro e lateralmente, in una sovrapposizione efficace di piani, e si raccontano, si confrontano, ma è come se davanti a loro ci fosse un muro oltre il quale non possono andare. Muro che li porta a rifugiarsi in se stessi e a sviluppare un meccanismo di autodistruzione.
Una pièce che parla di affetti e sentimenti nelle differenti forme e deformazioni, di gratitudine e di colpa, per uno spettacolo toccante e devastante.
data di pubblicazione:07/04/2017
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da Accreditati | Apr 6, 2017
Quattro detenuti, 48 ore di libertà, il senso di una condanna che non è solo all’interno del carcere, la disperata ricerca di uno spiraglio di riscatto nell’eterna dialettica tra “dentro” e “fuori”.
Dopo l’esordio alla regia con la commedia La mossa del pinguino, Claudio Amendola torna dietro la macchina da presa, cambiando completamente genere, per dirigere il noir Il permesso – 48 ore fuori (che Accreditati aveva già recensito già in occasione della proiezione al Noir in Festival), interpretato da lui stesso insieme a Luca Argentero, Giacomo Ferrara e Valentina Bellè.
Il film, di cui il regista è anche sceneggiatore insieme a Roberto Iannone e Giancarlo De Cataldo ( già “prestato al cinema” con Gomorra, Suburra), racconta il modo in cui quattro detenuti, diversi per età, sesso, estrazione sociale e curriculum criminale, trascorrono le 48 di libertà concesse loro prima di dover rientrare in carcere.
Donato (Luca Argentero), Angelo (Giacomo Ferrara), Rossana (Valentina Bellè) e Luigi (Claudio Amendola) sono tutti detenuti nel carcere di Civitavecchia, dove devono scontare il loro debito con la Giustizia, ma non si sono mai incontrati.
I motivi per cui si trovano in carcere sono diversi. Rossana, 25 anni, ricca e viziata, in rapporto conflittuale con la madre, è dentro per traffico di stupefacenti: è stata arrestata all’aeroporto mentre cercava di trasportare 10 kg di cocaina. Angelo, venticinquenne ragazzo di periferia, è stato condannato per rapina a mano armata, commessa con complici che non ha mai “denunciato”. Donato, 35 anni, ex pugile coinvolto in incontri clandestini, sta scontando una pena da innocente, sacrificandosi al posto del vero colpevole. Luigi, cinquantenne, è un criminale di lunga data, ha riportato una condanna per omicidio e ha già scontato 17 anni di pena.
Il film si apre con l’uscita dal carcere dei quattro detenuti: è il preludio al loro personale viaggio nel mondo esterno, che nel frattempo è cambiato e con cui devono fare i conti. Ognuno di loro è combattuto tra il desiderio di riscatto per una nuova vita e la tentazione di ricadere nella spirale della delinquenza, in una zona di confine tra colpa e redenzione, tra “dentro” e “fuori”, che pervade l’intera pellicola.
Anche se le storie dei quattro personaggi sono diverse, come lo stesso Amendola ha dichiarato in alcune interviste, sono accomunate da uno stesso sentimento che è l’amore: per un figlio, per una donna, per la persona ideale ancora da trovare.
Nonostante i protagonisti sembrino marchiati dall’illegalità in maniera indelebile e incapaci di sfuggire a un destino già scritto, il film lascia aperto uno spiraglio di redenzione. Ad una solida struttura narrativa che tratteggia in modo dinamico l’animo dei personaggi e tiene alta l’attenzione dello spettatore, si affianca una sapiente direzione della fotografia (Maurizio Calvesi), che restituisce scene ricche di pathos.
Si può dire quindi che la seconda prova da regista di Claudio Amendola non tradisce il genere, rendendo però genuino, vitale e personale il film.
Degna di nota il personaggio di Donato, ex pugile con i muscoli scolpiti e tatuati, accecato dalla rabbia e della frustrazione, alla ricerca disperata della moglie costretta a prostituirsi, interpretato egregiamente da un inedito Luca Argentero che esce dai suoi ruoli consueti e stupisce in positivo.
data di pubblicazione: 06/04/2017
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