da Antonio Iraci | Mag 1, 2017
Sirio (Alfredo Rotella), giovane operaio presso le acciaierie di Terni, decide di lasciare il proprio lavoro per seguire pienamente la propria ideologia nel militare attivamente in un gruppo di estrema sinistra. Pur contrario alla lotta armata e a qualsiasi forma di atto terroristico, azioni che avevano caratterizzato il clima politico-sociale italiano agli inizi degli anni ottanta, il giovane viene accusato di complicità in banda armata per alcuni attentati sui quali lui era completamente estraneo. Rinchiuso in un carcere insieme ad altri compagni attivisti, tra i quali il suo miglior amico Apache (Igor Zalewsky), conosce il Professore (Mauro Festa), un filosofo ritenuto il principale ideologo del movimento. Durante la sua detenzione a Sirio viene proposto di rivelare il nome dei partecipanti all’organizzazione clandestina in cambio della libertà. Al suo rifiuto le autorità reagiscono trasferendolo in un carcere di massima sicurezza dove ancora una volta, suo malgrado, si troverà coinvolto in una rivolta armata che verrà soffocata mediante l’intervento di uno speciale reparto delle forze dell’ordine. Messo in isolamento, il giovane entrerà in una crisi tale, che lo porterà pian piano a prendere le distanze dal mondo esterno e dalle idee che lo avevano convinto a cambiare la società sin dai primissimi anni della sua gioventù, durante i quali aveva iniziato a militare nei movimenti studenteschi. Il film è stato liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Nanni Balestrini che contribuì, insieme allo stesso Squitieri, alla stesura della sceneggiatura. Grande affresco di una Italia di quegli anni di piombo dove i giovani militanti, impegnati politicamente nella lotta armata, si trovarono schiacciati dal peso di quelle azioni terroristiche di cui loro stessi non seppero prevedere né la portata né le conseguenze storiche che avrebbero inciso sul contesto sociale del Paese. Il film fu ben accolto dalla critica e, presentato in quell’anno al Festival di Venezia, ottenne il Premio Cinema Nuovo.
L’ambientazione nella verdissima Umbria ci suggerisce una ricetta tipica di questa terra, molto semplice e di facile realizzazione: polpette di pollo con ricotta.
INGREDIENTI: 250 grammi di ricotta di pecora – 250 grammi di petto di pollo – 50 grammi di parmigiano grattugiato – 100 grammi circa di pan grattato – 1 uovo – olio d’oliva – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Macinare finemente i petti di pollo e mescolare insieme alla ricotta, all’uovo, a circa 30 grammi di pan grattato insieme al parmigiano. Aggiungere sale e pepe agli ingredienti e fare delle polpette da impanare e da friggere in olio d’oliva ben caldo. A fine cottura le polpette si potranno sfumare a piacere con un poco di vino bianco. Servirle tiepide accompagnate da una insalata di stagione.
da Antonella Massaro | Apr 30, 2017
Un angelo della morte si aggira spettrale tra le rovine materiali e morali di una Cagliari distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
La “femmina accabadora” è colei che, segnata da un destino in parte inevitabile, raccoglie dalla madre l’eredità di dare la morte a chi sta soffrendo troppo per poter continuare la propria vita. Sospesa tra il mito e la realtà dei racconti che disegnano una Sardegna arcaica e ancestrale, l’accabadora è una figura che ha già ispirato l’omonimo romanzo di successo di Michela Murgia, del quale il film di Enrico Pau riproduce indubbiamente atmosfere e suggestioni senza però che, contrariamente a quanto lo spettatore possa immaginare arrestandosi alla lettura del titolo, la pellicola sia tratta dal libro.
L’Accabadora è strutturato lungo la contrapposizione tra i villaggi della Sardegna dei primi anni Quaranta del secolo scorso, apparentemente immobili nella fissità di un passato che solo a fatica lascia spazio al futuro, e la moderna Cagliari, sventrata dai bombardamenti e impotente di fronte agli orrori della guerra.
Annetta (Donatella Finocchiaro) si muove dalla campagna alla città in cerca di Tecla (Sara Serraiocco), sua nipote, fuggita alla ricerca di una vita migliore dopo la morte della madre. Alloggia in una villa resa spettrale dalla guerra, rendendosene custode visto che le proprietarie, muovendosi in una direzione uguale e contraria rispetto alla protagonista, decidono di rifugiarsi in campagna.
Nel suo viaggio attraverso le viscere di Cagliari, Annetta incontrerà il medico Albert (Barry Ward) che presta la sua opera in una sorta di lazzaretto di corpi e di anime, al quale approderà anche la giovane Tecla. Indubbiamente interessante, sebbene non del tutto amalgamato nel tessuto narrativo, il rapporto con Alba (Carolina Crescentini), un’artista che si dedica anche al restauro di statue “malate”. L’accabadora, il medico, la restauratrice: modi diversi per far fronte alla sofferenza, tenuti insieme da una pietà che va oltre la scienza e la fede, anche se segnata da un’insuperabile sofferenza.
Sebbene il lavoro di Pau possa contare su un cast ineccepibile e su una fotografia sempre protagonista, la sceneggiatura non sembra in grado di restituire la complessità dei personaggi, a partire dalla protagonista, costringendola entro un quadro visivamente potente ma narrativamente appiattito su un andamento in larga parte identico a se stesso.
data di pubblicazione: 30/4/2017
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da T. Pica | Apr 28, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 26 aprile 2017/7 maggio 2017)
Una serata come tante, probabilmente un sabato sera, dove le persone ballano, cantano, ammiccano alla vita, si divertono. Poi si va a dormire e nel buio della notte silenziosa irrompe l’inferno, un delirio di fiamme, spari e dal caos che inaspettatamente irrompe mentre tutti dormono – se succedesse a te, cosa faresti? – ha inizio il viaggio di Enea (Fausto Russo Alesi) che tenta di lasciare la sua terra traendo in salvo la sua famiglia, la moglie Creusa (Roberta Caronia) con il loro figlio Ascanio ancora in fasce (da adulto come una “voce narrante fuori campo” interpretato da Giulio Corso), e il padre Anchise (Carlo Ragone).
Il faticoso e doloroso viaggio di Enea, che vedrà morire sotto i suoi occhi il fratello, l’amata moglie e il suo migliore amico Acate (Alessio Vassallo), è la storia di ognuno di noi, di chi ha già vissuto, ancora prima dei “resoconti” di Omero e Virgilio, il dramma dell’esodo, della fuga violenta, di chi ancora oggi è costretto ad abbandonare la sua terra e di chi, come noi italiani ed europei, in qualunque momento potrebbe trovarsi costretto a migrare e a vivere nascondendosi nella morsa della diffidenza e del pregiudizio altrui. Non a caso, a sottolineare come la storia di Enea, dei genitori di Olivier Kemeid e dei migranti che quotidianamente transitano nel Mediterraneo e sulle pagine dei nostri giornali sia la storia di tutti – per questo la loro questione meriterebbe rispetto e attenzione vera, non finta partecipazione o indifferenza -, nel ruolo della popolazione che accoglie, della società superficiale dedita al lusso e/o al menefreghismo ci sono personaggi di colore interpretati dai bravi Antoinette Kapinga Mingu ed Emmanuel Dabone. Invece gli emarginati, i rifugiati migranti sono bianchi. Emanuela Giordano ha allestito una sapiente regia del racconto frutto della storia di Olivier Kemeid fusa con l’epica classica dell’Eneide di Virgilio.
Il palcoscenico è una grande barca, una zattera, un angolo osceno di un campo profughi, è l’anima delle storie, dei ricordi, dei sentimenti dei migranti di ieri, di oggi e del migrante errante che si cela in ognuno di noi. Una regia curata e minimalista che punta sulla coralità e su una compagnia di attori di grande livello – spiccano in particolare Fausto Alesi (Enea), Roberta Caroni nel doppio ruolo, non casuale, di Creusa e Sibilla, Valentina Minzoni (Didone) e Giulio Corso (Ascanio) -, e su una sapiente fusione di musiche e ritmo scenico.
Uno spettacolo che scuote e fa riflettere e che meriterebbe di essere nella programmazione dei teatri italiani ed europei per i prossimi mesi, o meglio anni, per una corretta educazione civica e dell’anima.
data di pubblicazione: 28/04/2017
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da Rossano Giuppa | Apr 27, 2017
(Teatro Eliseo – Roma, 18 aprile/7 maggio 2017)
Lectio magistralis di teatro all’Eliseo di Roma. È infatti in scena dallo scorso 18 aprile e fino al 7 maggio lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Ruggero Cappuccio, Spaccanapoli Times, vincitore del Premio le Maschere 2016 per il Migliore autore di novità italiana. Una rappresentazione interessantissima, dinamica, intelligente, piacevole, che esalta le doti di tutti e sei gli attori sul palco e le capacità comunicative di Ruggero Cappuccio, grazie a un testo denso nei contenuti ma leggero nella esposizione ed al suo modo di far vivere i personaggi in scena, attraverso giochi di movimenti e pause e l’utilizzo di più piani di azione, che catturano e coinvolgono. Una grande prova di attori e di autore. Un grande teatro.
Lo spettacolo descrive la frenesia della Napoli di oggi e degli uomini di oggi: una sottile linea rossa fra follia e normalità. E sul palco si raccontano dramma e commedia.
Giuseppe Acquaviva (Ruggero Cappuccio) è uno scrittore sui generis, che pubblica in anonimato, vive nella stazione centrale, al binario otto. Sarà proprio lui a richiamare, nella loro casa nel cuore di Spaccanapoli, i suoi tre fratelli.
Romualdo (Giovanni Esposito), pittore fortemente segnato da una carriera mai esplosa, che distrugge i suoi quadri una volta finiti e che vive di colori e per i colori.
La sorella Gennara (Marina Sorrenti) che si è trasferita in Sicilia anni fa per amore, per sposarsi con Vitagliano. Il marito però, morto anni orsono le aveva strappato la promessa di non guardare mai più altri uomini, promessa mantenuta per quattro anni e poi sciolta a causa dell’incontro con Norberto (Giulio Cancelli) il direttore della filiale numero 3 di Palermo della Banca Monte dei Paschi di Siena, marito che puntualmente sogna tutte le notti e che la rimprovera del tradimento.
Infine c’è Gabriella (Gea Martire), zitella, ma corteggiata. Nonostante i molti pretendenti non si decide a sceglierne uno perché ancora legata al suo primo amore.
Giuseppe lì riunisce tutti lì per un semplice motivo: il Dottor Lorenzi (Ciro Damiano) farà presto loro visita per giudicare il loro stato di salute mentale e decidere se rinnovare a tutti la pensione di invalidità. Nell’attesa dell’arrivo del Dottor Lorenzi i quattro fratelli si raccontano, scontrandosi e incontrandosi, ricordando i tempi passati, in un continuo alternarsi di memorie e psicosi in quella casa dove i quattro avevano vissuto la loro infanzia ed adolescenza. Non c’è molto di quel passato, solo bottiglie d’acqua, tantissime, unica cosa che resiste al tempo e non invecchia, qualche sedia e delle sdraie per prender il sole in sala da pranzo, insieme ai fantasmi di ognuno. I quattro fratelli ormai viaggiano su binari a se stanti, ognuno con il proprio orario al polso, tentando di sintonizzarsi tutti sulle stesse coordinate, ma invano.
In questo contesto fatto di acqua, di interruttori e di luci, di ricordi e racconti distorti e sovrapposti, i quattro finiranno per perdere le pensioni ma per ritrovare forse unità e serenità.
Grandi meriti a Ruggero Cappuccio per aver costruito una metafora sulla follia e sulla libertà che la malattia mentale genera, una costruzione fatta di riflessioni e contenuti, di teatro greco e napoletano, di Pirandello, di Shakespeare, di concreta psicanalisi.
data di pubblicazione: 27/04/2017
Il nostro voto:
da Accreditati | Apr 26, 2017
(Teatro Ambra Jovinelli, Roma – 20/30 aprile 2017)
Il teatro Ambra Jovinelli ospita dal 20 al 30 aprile Paola Minaccioni protagonista ed autrice con Alberto Caviglia e Claudio Fois dello spettacolo Dal Vivo Sono Molto Meglio con musiche di Lady Coco e la regia di Paola Rota.
Paola Minaccioni è certamente un’attrice di talento, eclettica, apprezzata al cinema e in televisione ed oggi ancora di più al teatro, capace di rivelarsi e di sorprendere dal vivo al meglio. Conosciuta sugli schermi per ruoli comici non solo (indimenticabile la sua Egle, la ragazza malata terminale di Allacciate le Cinture, ruolo che le è valso il Nastro d’Argento come miglior attrice non protagonista) e speaker dai mille volti nella trasmissione radio Il Ruggito del coniglio, riesce a presentare in scena con leggerezza e follia, un compendio di umanità fatto di ossessioni, nevrosi, eccessi e brutalità espressioni dell’epoca in cui viviamo.
Paola percorre un sentiero psicotico e ironico incontrando una galleria di personaggi appartenenti ad una realtà metropolitana divertente ed esasperata: donne schizzate e stressate, iposocial e surreali, tessere di un puzzle-reality intelligentemente costruito. Una poetessa sconclusionata, una hostess con la fobia del volo, una rapper appiccicata, una manager dalla doppia personalità, la madre madonna addolorata, proprietaria indiscussa delle vite dei due figlioletti quarantenni e su tutte la rumena Kattinka che si destreggia tra ruolo di badante e operatrice di call center e la coatta romana, razzista verso tutto e tutti, straordinaria ed esasperata espressione di un presente che purtroppo ci circonda. E per fortuna che perle di saggezza spicciola ma efficace le distribuisce la vecchina, degna protagonista del finale di partita, che percorre la passerella centrale omaggiando i presenti con le sue velenose riflessioni e i suoi piccanti ricordi. Grande transformer e grande improvvisatrice la Minaccioni si fa apprezzare soprattutto per le interrelazioni estemporanee con il pubblico, immediate ed efficacissime, dando il meglio di sé nelle parti improvvisate, mettendosi dalla parte degli spettatori e tra di loro, per poi risalire sul palco e riprensentare un’altra soggetta, mentre la musica della dj Lady Coco le costruisce attorno un’atmosfera ancor più esasperata.
Lo spettacolo scorre piacevolmente, mai perdendo quel tono leggero e sapientemente ironico, che è l’essenza della storia.
Una pulp story di donne alla fine assurdamente reali, specchio delle nostre nevrosi e delle assurdità del nostro tempo. Donne riconoscibilissime e presenti nel quotidiano di ognuno. Tutte divertenti e tutte applauditissime.
data di pubblicazione: 26/04/2017
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Apr 26, 2017
Un libro che va assolutamente letto, scritto con una prosa ricca ed equilibrata a cui McEwan ci ha abituati e con una vis comica godibilissima.
L’idea che la voce narrante sia quella di un bambino ancora Non-nato la trovo assolutamente geniale, tutte le sue descrizioni, i suoi commenti sono magistrali!
“Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna. Braccia pazientemente conserte ad aspettare, aspettare e chiedermi dentro chi sono, dentro che guaio mi sto per cacciare…” eccolo, un nascituro alle ultime settimane di ospitalità del grembo materno che, immobile e scomodo, ci descrive, in modo tal volta esilarante, ciò di cui è testimone non visto.
“Ascolto, prendo appunti mentali, e mi preoccupo. Tra le lenzuola sento discorsi efferati e mi agghiaccia il terrore di quel che mi aspetta, di quel che potrebbe compromettermi.”
Il bimbo è ospitato dal grembo di Trudy che sa essere, dalle poesie che il padre compone e declama alla moglie, una mamma molto avvenente con capelli biondi e occhi verdi: purtroppo lo squattrinato poeta John Cairncross, questo il nome del futuro padre, è stato allontanato dalla sua casa avita di Hamilton Terrace e a prenderne il posto, al fianco di Trudy, è il fratello di John, Claude (non si può non pensare ad Amleto! Nomen omnen), divenuto suo amante.
E’ assolutamente geniale l’escamotage che McEwan trova per far esprimere al Non-nato opinioni su gli argomenti più disparati, dalla politica all’attualità dalla sociologia all’antropologia… il piccino è stato edotto dai podcast e dai programmi radiofonici culturali che la madre ha sempre ascoltato e ha ora opinioni su tutto, opinioni che ci somministra insieme alle preoccupazioni che scaturiscono dai progetti dei due amanti: Trudy e Claude hanno deciso di uccidere John per impadronirsi della prestigiosa casa di famiglia.
Il piccino ci racconta i minimi dettagli del delitto e anche i passi falsi che inevitabilmente i due complici commettono; il suo futuro si sta tingendo di tinte sempre più fosche, perché una volta liberati dalla presenta di John hanno intenzione di sistemare anche lui in qualche luogo dove, con estrema mestizia e scaltrezza, si immagina verrà cresciuto “a digiuno di libri, cresciuto a videogame, zucchero, grassi e schiaffi sulla testa”.
Riusciranno nel loro piano criminoso o in qualche modo il bambino ancora non nato riuscirà a salvare il proprio padre…?
data di pubblicazione: 26/04/2017
da T. Pica | Apr 25, 2017
La Tenerezza è quel desiderio insito in ognuno di noi di essere amati, compresi nella libertà di essere e fare quello che ciascuno di noi vorrebbe fare ed essere con il cuore, anche se poi finisce che tutto quello che facciamo si riduca ad una scusa per farci volere bene. Ma La tenerezza è anche lo sguardo, privo di preconcetti e contaminazioni, dei bambini – alcuni di loro anagraficamente cresciuti – che in una caotica e multietnica Napoli contemporanea ci raccontano la storia di due famiglie. Quella di Lorenzo (Renato Carpentieri), un avvocato vedovo in pensione che ha chiuso ogni rapporto con i suoi due figli, Saverio (Arturo Muselli) e Elena (Giovanna Mezzogiorno), e parla solo con suo nipote Francesco – figlio di Elena – perché ai bambini si può dire tutto, e la famiglia dei suoi nuovi vicini di casa, Michela (Micaela Ramazzotti) e Fabio (Elio Germano) con i loro due figli piccoli.
La vita solitaria di Lorenzo, reduce da un infarto che non lo ha minimamente scalfito, sarà invece travolta dalla forza della natura di Michela, sbadata e solare, e dalla sua famiglia: da un’iniziale “fusione” di buon vicinato dei rispettivi appartamenti uniti da un cortile, Lorenzo – chiuso e ostile a ogni legame con la sua vera famiglia – diverrà il saggio pilastro della famiglia della giovane coppia di vicini. Da questo ahimè breve “viaggio” nella loro vita, segnato da un evento inaspettato e devastante (incredibilmente attuale e vicino ai sempre più frequenti casi di cronaca) che invita a riflettere sugli inganni della bellezza e dei sorrisi di una calma serenità apparente, Lorenzo percorrerà un ulteriore viaggio interiore dei sentimenti e dal dolore della perdita riuscirà a ritrovare l’amore e la serenità tornando alla sua “vecchia casa”, ovvero alla sua vera famiglia, perché la felicità non è una metà da raggiungere, ma una casa a cui tornare…tornare, non andare. Un film potente, incredibilmente forte e vero grazie alla potenza della poesia dei dialoghi e alla delicatezza della fotografia delle strade, delle piazzette e degli interni – cupi, fatti di luci e ombre, riservati oppure luminosi, asettici e minimali – di una Napoli autentica come la storia sapientemente narrata da Gianni Amelio.
Un ottimo cast dove accanto al bravissimo protagonista Renato Carpentieri e alle conferme di Elio Germano e Micaela Ramazzotti, ritroviamo un’eccezionale Giovanna Mezzogiorno la quale, “dismesso” il ruolo della giovane donna guidata e spronata dal “vecchio saggio” maestro pasticcere (Massimo Girotti) in La finestra di fronte di Ozpetek – ruolo che nel film di Gianni Amelio sembra rievocato dal personaggio di Micaela Ramazzoti, complice la scena in cui Lorenzo e Michela sono alle prese con la preparazione di un ragù -, interpreta una donna, madre e figlia, apparentemente risoluta e forte ma di fatto tesa e fragile quando osserva da lontano, con la tenerezza e l’amore degli occhi di bambina (anche grazie alle segrete chiacchierate di suo figlio Francesco con il nonno), l’anziano padre Lorenzo che si ostina a respingerla per dedicarsi alla “causa” della vicina di casa che chiama mia figlia. Il tema della labile fragilità dei sentimenti, dell’incomunicabilità, della divergenza tra quello che si dice e quello che realmente sentiamo e vorremmo dire, il rapporto genitori/figli e le loro deviazioni talvolta degenerative, la deflagrazione latente nei segreti di famiglia, l’amore e la nostra umana complessità si fondono in un “acquarello” di Napoli dal titolo La tenerezza che scuote e consola, culminando con la dolcezza e la loquace profondità del fotogramma finale, perché un padre è sempre un padre.
Da non perdere!
data di pubblicazione: 25/04/2017
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da Antonio Iraci | Apr 24, 2017
Léa (Chloé Jouannet) e i fratelli Adrien e Théo (rispettivamente Hugo Dessioux e Lukas Pelissier) vivono a Parigi con i genitori e per la prima volta vengono mandati a passare le vacanze estive in Provenza, nella casa di campagna dei nonni Irène (Anna Galiena) e Paul (Jean Reno). I ragazzi non avevano mai conosciuto il burbero nonno a causa di un violento litigio avvenuto vent’anni prima tra lui e la loro madre. La vacanza inizialmente sembra noiosa, in quanto la casa che li alloggia è veramente inospitale e isolata, ma poco a poco i tre ragazzi riescono ad inserirsi nella vita del villaggio vicino. E così Léa e Adrien si troveranno coinvolti in vicende amorose con gente del luogo, mentre il piccolo Théo riuscirà a conquistare le simpatie del nonno, costretto a comunicare con lui con il linguaggio dei segni visto che il bambino è sordo dalla nascita. Particolare preoccupazione desterà la relazione che Lèa intrattiene con il giovane Tiago (Tom Leeb), ufficialmente pizzaiolo per coprire l’attività di spacciatore: l’intervento del nonno metterà in fuga all’estero il giovane e riporterà a casa la nipote. Alla fine dell’estate, grazie soprattutto al piccolo Théo, Paul s’incontrerà in stazione con la figlia che non vedeva da anni ed i due si rappacificheranno, tornando a parlare come un tempo. Il film della Bosch sembra a tratti ingenuo e prevedibile, senza significativi colpi di scena, ma nonostante tutto è gradevole e a tratti divertente facendoci assaporare in pieno l’essenza dell’estate in Provenza, con i suoi odori e sapori tipici della campagna e della vita agreste nella sua semplice autenticità; ma la pellicola riesce anche a raccontare lo scontro/incontro tra diverse generazioni, ognuna con il proprio universo ben distinto, che può trovare un punto di congiunzione.
Il film pieno di luce e colori, tipico della zona in cui è ambientato, ci suggerisce una pietanza molto saporita: galletto al vino.
INGREDIENTI: 1 galletto – 200 grammi di lardo – 200 grammi di funghi – 200 grammi di burro – 150 grammi di cipolline – 3 cucchiai di olio d’oliva extravergine – 1 bottiglia di vino rosso – 100 grammi di farina bianca – 1 bicchiere di brandy – 2 spicchi d’aglio – timo, alloro, sale e pepe.
PROCEDIMENTO: Pulire bene il galletto e ridurlo in pezzi. Tagliare a dadini il lardo ed intanto fare rosolare in padella le cipolline tritate nei 100 grammi di burro. Unire quindi il lardo a dadini e farlo cuocere per circa cinque minuti, aggiungendo i funghi e facendo insaporire il tutto a fiamma moderata. Fare dorare il galletto nell’olio, unire i funghi, le cipolline e il lardo dopo che si sono ben dorati, aggiungere il sale e pepe, il timo e l’alloro. Spruzzare prima con il brandy, quindi unire l’aglio tritato ed il vino rosso e cuocere per circa 40 minuti. Scolare la carne ed i funghi e passare a setaccio il fondo, incorporare gli altri 100 grammi di burro e la farina e fare restringere sul fuoco per dieci minuti. Sistemare la carne e i funghi in una casseruola con la salsa ottenuta e servire con crostini di pane.
da T. Pica | Apr 17, 2017
Roma, quartiere dell’antico ghetto ebraico di fronte alla pittoresca Isola Tiberina: prendete una coppia, Elia (Toni Servillo) e Giovanna (Carla Signoris) – entrambi psicanalisti legalmente ancora sposati ma separati di fatto -, lui fascinoso burbero dallo spiccato senso di parsimonia e un po’ sovrappeso, lei cinquantenne elegante, femminile, amante dell’arte e altruista, che abitano in due appartamenti adiacenti ricavati dalla ex casa coniugale; aggiungete poi una personal trainer spagnola come Claudia (Veronica Echegui), sexy e frizzante, “fitness dipendente” dalla vita incasinata, ed Ettore (Luca Marinelli) nei panni di un delinquente galeotto, tutto tatuaggi, che, durante le ore di permesso per buona condotta, vorrebbe ritrovare attraverso la tecnica terapeutica dell’ipnosi il nascondiglio delle refurtiva della sua ultima rapina, ed ecco che la sceneggiatura per una commedia a tratti romantica, a tratti rocambolesco noir rievocativa delle atmosfere di Woody Allen o Billy Wilder è pronta.
Lasciati Andare di Francesco Amato racconta il legame inscindibile tra la mente e l’anima, da una parte, e il corpo, dall’altra, e come le due sfere influiscano l’una sull’altra ove trascurate, attraverso le storie di due protagonisti agli antipodi: lo psicanalista Elia e la personal trainer Claudia. Il primo, focalizzandosi solo sullo studio e la “cura” della mente più per lavoro che per reale interesse umanistico scientifico, ha finito per essere schiacciato dalla pigrizia e da una sorta di apatia e insofferenza per il prossimo, a cominciare dai suoi pazienti e dai frequentatori della Sinagoga. Lei, invece, improntando la sua vita sul culto del corpo e della bellezza fisica non ha studiato, trascura il dialogo disinteressato tra due “menti” e ormai da anni incappa in una serie di relazioni con uomini egoisti e cialtroni che la mettono in una serie di guai. Qualcosa però li accomuna: entrambi fanno un lavoro che serve a ristrutturare le persone – l’uno intervenendo sulla mente e l’io nascosto, l’altra lavorando sull’aspetto esteriore del corpo -, ed entrambi stanno vivendo il disagio del proprio fallimento, rispettivamente, come psicanalista e come insegnante di fitness. Claudia non riesce a ingranare con il suo lavoro, si fida di uomini che la lasciano fossilizzata nello stereotipo della disgraziata poco di buono, e non riesce a condurre una vita equilibrata e sana con sua figlia Maria – che di fatto viene educata dalla coinquilina Paola (Valentina Carnelutti) -. Elia prigioniero del proprio egoismo eccentrico e della tirchieria, si addormenta mentre i pazienti gli parlano di se stessi, ha sempre dato per scontato che sua moglie sarebbe rimasta accanto a lui (anche e soprattutto come una sorta di colf) anche da separati di fatto (senza essere ricorsi ad un avvocato appunto per risparmiare, o forse no), ed ora è del tutto impreparato a gestire e impedire l’allontanamento di Giovanna coinvolta dalla relazione con un misterioso uomo probabilmente più giovane e aitante di lui. Ecco che l’incontro tra Elia e Claudia diviene per entrambi una terapia d’urto che li porterà a riprendere le redini della propria vita partendo da un apparente scontro di mondi opposti che li condurrà, guardando l’uno negli occhi e nell’anima dell’altra, a lasciarsi andare verso la riconquista della felicità e della gioia di amare. Irresistibile Luca Marinelli, nel ruolo del maldestro e credulone galeotto Ettore, che già aveva recitato insieme a Toni Servillo in La Grande Bellezza, e che qui conferisce al film quei toni polizieschi ed esilaranti che rimandano ad uno dei suoi personaggi – per ora – più celebri come Lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot. Perfetta nel suo personaggio di donna elegante, innamorata e sarcastica Carla Signoris e impeccabile nel suo cameo Giacomo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Finalmente una commedia con la “C” maiuscola, classica e dalla sceneggiatura originale che, grazie alla bravura dell’intero cast, scorre con un buon ritmo tra spassose battute sagaci, scene esilaranti (come quella in cui Elia è in videoconferenza da casa con un gruppo di psicologi riuniti a Parigi) e gli inseguimenti a tinte gialle in alcuni angoli tra i più suggestivi – e solitamente tranquilli – del cuore di Roma Sparita. Da vedere!
data di pubblicazione:17/04/2017
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da Accreditati | Apr 15, 2017
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