IL PERMESSO – 48 ORE FUORI di Claudio Amendola, 2017

IL PERMESSO – 48 ORE FUORI di Claudio Amendola, 2017

Quattro detenuti, 48 ore di libertà, il senso di una condanna che non è solo all’interno del carcere, la disperata ricerca di uno spiraglio di riscatto nell’eterna dialettica tra “dentro” e “fuori”.

Dopo l’esordio alla regia con la commedia La mossa del pinguino, Claudio Amendola torna dietro la macchina da presa, cambiando completamente genere, per dirigere il noir Il permesso – 48 ore fuori (che Accreditati aveva già recensito già in occasione della proiezione al Noir in Festival), interpretato da lui stesso insieme a Luca Argentero, Giacomo Ferrara e Valentina Bellè.

Il film, di cui il regista è anche sceneggiatore insieme a Roberto Iannone e Giancarlo De Cataldo ( già “prestato al cinema” con Gomorra, Suburra), racconta il modo in cui quattro detenuti, diversi per età, sesso, estrazione sociale e curriculum criminale, trascorrono le 48 di libertà concesse loro prima di dover rientrare in carcere.

Donato (Luca Argentero), Angelo (Giacomo Ferrara), Rossana (Valentina Bellè) e Luigi (Claudio Amendola) sono tutti detenuti nel carcere di Civitavecchia, dove devono scontare il loro debito con la Giustizia, ma non si sono mai incontrati.

I motivi per cui si trovano in carcere sono diversi. Rossana, 25 anni, ricca e viziata, in rapporto conflittuale con la madre, è dentro per traffico di stupefacenti: è stata arrestata all’aeroporto mentre cercava di trasportare 10 kg di cocaina. Angelo, venticinquenne ragazzo di periferia, è stato condannato per rapina a mano armata, commessa con complici che non ha mai “denunciato”. Donato, 35 anni, ex pugile coinvolto in incontri clandestini, sta scontando una pena da innocente, sacrificandosi al posto del vero colpevole. Luigi, cinquantenne, è un criminale di lunga data, ha riportato una condanna per omicidio e ha già scontato 17 anni di pena.

Il film si apre con l’uscita dal carcere dei quattro detenuti: è il preludio al loro personale viaggio nel mondo esterno, che nel frattempo è cambiato e con cui devono fare i conti. Ognuno di loro è combattuto tra il desiderio di riscatto per una nuova vita e la tentazione di ricadere nella spirale della delinquenza, in una zona di confine tra colpa e redenzione, tra “dentro” e “fuori”, che pervade l’intera pellicola.

Anche se le storie dei quattro personaggi sono diverse, come lo stesso Amendola ha dichiarato in alcune interviste, sono accomunate da uno stesso sentimento che è l’amore: per un figlio, per una donna, per la persona ideale ancora da trovare.

Nonostante i protagonisti sembrino marchiati dall’illegalità in maniera indelebile e incapaci di sfuggire a un destino già scritto, il film lascia aperto uno spiraglio di redenzione. Ad una solida struttura narrativa che tratteggia in modo dinamico l’animo dei personaggi e tiene alta l’attenzione dello spettatore, si affianca una sapiente direzione della fotografia (Maurizio Calvesi), che restituisce scene ricche di pathos.

Si può dire quindi che la seconda prova da regista di Claudio Amendola non tradisce il genere, rendendo però genuino, vitale e personale il film.

Degna di nota il personaggio di Donato, ex pugile con i muscoli scolpiti e tatuati, accecato dalla rabbia e della frustrazione, alla ricerca disperata della moglie costretta a prostituirsi, interpretato egregiamente da un inedito Luca Argentero che esce dai suoi ruoli consueti e stupisce in positivo.

data di pubblicazione: 06/04/2017


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MURA di Riccardo Caporossi

MURA di Riccardo Caporossi

(Teatro Argentina – Roma 8 marzo/1 aprile)

La Sala Squarzina del Teatro Argentina ha ospitato, dall’8 marzo al 1 aprile, lo spettacolo di Riccardo Caporossi ‘Mura’. La pièce, produzione di Teatro di Roma, ricrea in scena un quadro visivo, una “scatola teatrale” all’interno della quale è eretto un muro composto da 50 mattoni.

Il muro è sempre stato simbolo di divisione, ostacolo, incomunicabilità fra gli uomini. La costruzione di muri nel mondo ha segnato il corso degli eventi soprattutto con la loro distruzione. Ed è proprio sopra quel muro che si svolge la scena: mani, bottiglie, scalette, cannocchiali, bastoni, ombrelli, cappelli e altri oggetti vi passano sopra ed interagiscono con esso. Le loro ombre, proiettate su una superficie bianca illuminata sullo sfondo, mutano in forme fantastiche e distorte, che riportano a un mondo fiabesco e infantile. A parte la voce narrante all’inizio e alla fine, lo spettacolo è un gioco poetico e silenzioso di incastri e forme, montaggi e smontaggi, senza trama apparente, retorica o morale. Lo spettatore è catturato dal movimento, dai gesti, dai piccoli oggetti e soprattutto dall’abilità di quelle quattro mani che spuntano, spostano i mattoni, danno vita a piccole costruzioni e poi le demoliscono, con senso e leggerezza.

La metafora è d’obbligo: non è forse vero che la storia non solo dell’uomo, ma dell’universo, è un continuo processo di costruzione e distruzione?

Circa quaranta anni dopo Cottimisti, Riccardo Caporossi riporta in scena ‘i mattoni’ con una performance che unisce l’arte e un teatro evocativo ed asciutto, fatto di immagini, dettagli e silenzi. ”Nel 1977 ho realizzato insieme a Claudio Remondi lo spettacolo ‘Cottimisti’ – ha raccontato il regista – in cui costruivamo, in scena, un muro vero con 1000 mattoni veri. Operai visionari. Altri tempi, per valutare il senso dello spettacolo. Di lì a 12 anni fu abbattuto il Muro di Berlino ”.

Come spiega Caporossi, Mura è un dettaglio di quel muro, un primo piano di memoria che riporta tutti a usare la mente e la propria conoscenza. ”Dietro quel muro, manu-fatto vero, apparivano un paio di mani che con l’alfabeto dei sordo-muti lanciavano un messaggio oltre il confine. È una pagina, una tela, uno schermo. Frammento di ciò che può esserci, di qua o di là del muro. Alla fine calava una grande sfera di metallo, sospesa tra il pubblico e il muro. Una provocazione o meglio un suggerimento per abbatterlo”.

Una performance densa e delicata, un’elegia alla conoscenza ed alla ribellione. Perché se è vero che il muro più famoso del XX secolo è stato abbattuto, nel 1989, a Berlino, ancora tanti muri resistono ancora oggi e sono spesso invisibili. Barriere e discriminazioni nei confronti del diverso. A volte sono evidenti, altre volte sono subdolamente nascosti. Bisogna riconoscerli, guardandoli da vicino, nei dettagli, guidati dalla ragione, per buttarli giù e liberare il respiro.

data di pubblicazione: 05/04/2017


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L’ARMINUTA di Donatella Di Pietrantonio – Einaudi, 2017

L’ARMINUTA di Donatella Di Pietrantonio – Einaudi, 2017

Bello, semplice, struggente, pieno di sofferenza e di dignità: una storia di genitori e figli, insindacabilmente di amore.

La storia dell’Arminuta: mai dalle pagine della Di Pietrantonio trapela il vero nome della ragazzina che, adolescente, viene riconsegnata ai suoi genitori naturali da coloro con i quali aveva vissuto per tredici anni.

L’Arminuta, “colei che è tornata”, perché dopo tanti anni torna in seno alla sua famiglia, con una madre che l’ha lasciata andare neonata e la ritrova quasi donna senza alcuna esperienza comune, senza nessuna confidenza, con un padre che è solo un’ombra, con dei fratelli per i quali diventa oggetto di scherno, ma con una sorella che imparerà ad amarla in tutto e per tutto.

L’Arminuta si ritrova a vivere in una quotidianità che non è la sua: cresciuta da due genitori che l’avevano coccolata e vezzeggiata, figlia unica di una famiglia della media borghesia in una città di mare, si trova improvvisamente ricondotta alla sua famiglia di origine, in un paese a qualche chilometro dalla casa in cui è cresciuta, in un ambiente precario, con poco cibo e scarsa igiene, a dividere il letto singolo con la sorella nella stessa stanza in cui dormono tre fratelli che non ha mai visto, con dei genitori da cui la separa una distanza incolmabile, con una continua sensazione di inadeguatezza.

Saremo colpiti dalla storia della sofferenza dell’Arminuta, dalla sua mancanza di certezze che la scoperta della verità le procura, dal carico che si troverà sulle spalle.

Ma l’Arminuta che scrive è ormai adulta, sono passati anni dalla storia che ci sta descrivendo e, secondo me, vuole anche sottolineare che ha capito che dietro a tutto si muoveva solo ed esclusivamente dell’amore, l’immensità dell’amore che le donne riescono a provare e a dare.

L’amore di una madre che rinuncia a una figlia quando si prospetta la possibilità che possa crescere in un ambiente migliore che le possa far avere dalla vita tutto quello che lei non avrebbe mai potuto offrirle.

L’amore di una donna che alleva la figlia di un’altra donna come se fosse sua, con dedizione, attenzione, affetto e che, anche se a un certo punto se ne deve allontanare, continua ad amarla da lontano e ad accudirla come meglio può per sentirsi ancora parte della sua vita anche se da lontano per non turbarla ancora di più di quando è stata costretta a fare.

L’amore di due sorelle che la lontananza ha reso estremamente diverse, ma che si legano indissolubilmente con un affetto che solo l’universo femminile può capire e contemplare.

Uno splendido romanzo, scritto con la semplicità necessaria per entrare nel cuore di chi legge.

data di pubblicazione:04/04/2017

LA VENDETTA DI UN UOMO TRANQUILLO di Raùl Arévalo, 2017

LA VENDETTA DI UN UOMO TRANQUILLO di Raùl Arévalo, 2017

MADRID, 2007. Curro è l’unico di una banda di criminali a dover scontare una pena detentiva di otto anni per una rapina, durante la quale è stata uccisa, senza apparente motivo, una giovane donna e ridotto in fin di vita l’anziano proprietario della gioielleria svaligiata. José, uomo pacato e silenzioso, inizia a frequentare il bar di periferia gestito da Ana, la donna di Curro, e da suo fratello Marcelo: entrambi lo accolgono come uno di famiglia nonostante la palese differenza sociale tra loro e José, ed Ana sembra non rimanere indifferente ai suoi modi gentili. Tra i due inizia una tenera frequentazione.

 

La vendetta di un uomo tranquillo è opera del trentasettenne esordiente Raùl Arévalo, molto conosciuto in Spagna come attore. Il film ha riscontrato un notevole interesse presso la critica cinematografica internazionale ed è stato proclamato miglior pellicola spagnola dell’anno vincendo ben quattro premi Goya (Miglior Film, Miglior Regista Esordiente, Miglior Sceneggiatura Originale, e Miglior Attore non protagonista); Ruth Dìaz (Ana) ha inoltre vinto il premio come miglior attrice all’ultima edizione del Festival di Venezia, dove la pellicola è stata presentata nella Sezione Orizzonti. Preceduto da tutti questi riconoscimenti, il film anche nelle sale sta ottenendo un ottimo riscontro da parte del pubblico forse per la sorprendente tensione adrenalinica che pervade quasi tutta la durata della proiezione. Raùl Arévalo, che ha curato anche la sceneggiatura, è riuscito a costruire un thriller degno dei grandi maestri del brivido, dove la suspance attanaglia sin dal primo momento grazie anche ad un sonoro ben appropriato, preludio di azioni inaspettate e di sconcertanti colpi di scena, in cui si innestano intelligentemente tipici interventi folkloristici spagnoli, elementi dosati al punto giusto che agiscono da contrappunto a scene violente studiate nei minimi dettagli, che conferiscono a questa pellicola un’impronta autoriale.

Il protagonista José (Antonio de la Torre), con il suo sguardo gelido e penetrante, segue alla lettera il principio che la vendetta è un piatto che va servito freddo, anche se il film lascia spazio a vaghi spiragli di perdono che aleggiano negli sguardi degli interpreti e tra le pieghe di una storia ben architettata.

La sceneggiatura riesce realmente a scrutare il travaglio interiore dei personaggi, ciascuno per proprio conto, tutti caratterizzati da un velo di sofferenza latente che non li abbandona mai, neanche per lasciare posto ad una benché minima possibilità di redenzione.

data di pubblicazione:03/04/2017


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BRUNORI SAS – A CASA TUTTO BENE TOUR 2017

BRUNORI SAS – A CASA TUTTO BENE TOUR 2017

(Atlantico Live – Roma, 1 aprile 2017)

Brunori sas ha espugnato l’Atlantico Live della città eterna! E già, finalmente il 1 aprile si è svolta la tappa romana che, insieme a tutte le altre tappe del Tour A casa tutto bene, è stata sold out. Dario Brunori è una ventata di fresca e vigorosa autenticità, un talento nel panorama cantautoriale italiano.

Dopo la laurea in economia – che talvolta si può scorgere in qualche strofa dei suoi testi, come in Come stai tratto dall’album di esordio del 2009 – il cantautore della Sila ha fin da subito dato prova delle sue doti: voce (energica, espressiva e decisa), virtuosista della chitarra acustica e poeta, visto che i testi delle sue canzoni sono quasi sempre piccole poesie moderne che, tra versi ironici, taglienti, sfacciati e romantici su melodie rock oppure più ballabili e lente, racconta l’amore, le difficoltà e i disagi della generazione dei quarantenni e dei trentenni di oggi e fa anche denuncia sociale (si pensi al brano Colpo di pistola che racconta gli ormai dilaganti episodi di femminicidio, o a Don Abbondio e L’uomo nero, tutti sono una delle “stanze” dell’ultimo album A casa tutto bene). Dopo gli ottimi lavori degli album che si sono succeduti dal 2009 in poi – regalando importanti riconoscimenti come il Premio Ciampi e la Targa Tenco – Brunori ha finalmente raggiunto trasversalmente un pubblico più vasto ed eterogeneo con il singolo La verità che ha “aperto” la sua Casa a tutta l’Italia raccontata nell’ultimo album e che ieri sera ha aperto il live movimentando subito le migliaia di estimatori, adulti e adolescenti, accorsi per vivere, non solo ascoltare, la sua ottima musica.

Dario Brunori è un promettente mattatore: canta, suona e tiene la scena anche improvvisando degli appassionati assoli fisici con la sua chitarra che suona e contemporaneamente tiene stressa a sé come una bella donna, in una sorta di amabile ballo a metà tra il valzer e il tango. Inoltre ha uno spiccato senso ironico con cui ha concesso dei siparietti davvero divertenti regalati al pubblico con il quale non può non intrattenersi in qualche chiacchierata, come in una “scialata” serata tra amici, pubblico al quale insieme alla sua ottima band ha dimostrato di essere profondamente grato. Il concerto ha regalato in quasi due ore di performance i brani dell’ultimo lavoro – tra cui le bellissime Sabato bestiale, Secondo me, Il costume da torero, Lamezia Milano, Canzone contro la paura -, nonché alcuni dei brani storici dell’artista come Guardia ’82, Come stai (dedicata al suo papà), Lei, lui e Firenze (ricca di citazioni che evocano il profondo amore di Dario Brunori per l’arte e il cinema italiano), Rosa (tra i brani più belli del suo repertorio), Pornoromanzo, Una domenica notte, Fra milioni di stelle e l’emozionante Kurt Cobain. Un concerto giovane e maturo, dove ci siamo tutti scialati – per dirla come dice il cantautore mattatore – e che infonde un generale ottimismo vista la copiosa presenza di giovani sotto i 25 anni, anche adolescenti, che si sono appassionati ad una musica bella, rock e talentuosa, fatta di contenuti veri e impegnati con la giusta dose di leggerezza, avulsa dai talent e dai “contenitori” patinati e vuoti.

 data di pubblicazione: 2/o4/2017

 

PINOCCHIO di Carlo Collodi, regia di Roberto Gandini

PINOCCHIO di Carlo Collodi, regia di Roberto Gandini

(Teatro India – Roma, 29 marzo/ 7 aprile 2017)

Il Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli, con i suoi giovani attori, presenta in questi giorni al Teatro India una singolare messa in scena del celebre romanzo di Collodi. Il progetto è stato organizzato e promosso dal Teatro di Roma con il sostegno dell’Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità Solidale di Roma Capitale in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio. Ma Perché ci viene riproposta una ennesima rivisitazione, sia pur fedele al testo narrativo originario, della celebre favola conosciuta da tutti e tradotta in ben 240 lingue sparse per il mondo? Perché la storia del burattino costituisce oramai un classico della letteratura italiana non solo tra i ragazzi, ma anche tra gli adulti, soprattutto se ne imparano a ricavare utili insegnamenti di vita e comportamentali in generale. Pinocchio menzognero, con un naso che misteriosamente si allunga proporzionalmente all’intensità della bugia che dice, ci fa in sostanza riflettere sulla natura umana, in perenne contrasto tra ciò che si è e ciò che invece si vuole essere: le due cose infatti raramente coincidono. Un burattino di legno che aspira a diventare meno “diverso”, un bambino, come tutti gli altri, in carne ed ossa, ubbidiente ai genitori e desideroso di apprendere a leggere, scrivere e far di conto. Ma per arrivare a questo dovrà forzare la propria spontanea inclinazione perché, diciamolo pure, Pinocchio è un ribelle anticonformista che mal si piega alle regole sociali studiate dai grandi, frutto di personali convenienze e di comportamenti deviati che nulla hanno a che fare con a sua indole spensierata. Lui è un buono e buoni sono i suoi propositi mentre si trova invischiato in una realtà, con i suoi discutibili valori, intrisa di tornaconto personale e di falsa dabbenaggine. Ecco che la sua storia non cessa mai di essere attuale, qualunque chiave di lettura se ne voglia dare, e diventa pertanto un patrimonio universale per grandi e piccoli in tutte le diverse culture del mondo. Bravissimi tutti gli attori, nei costumi curati da Tiziano Iuculano e accompagnati dalla musica di Roberto Gori, che si sono mossi alla perfezione tra improvvisi e azzeccati cambi di scena, quest’ultima curata da Paolo Ferrari. Sicuramente da elogiare l’iniziativa del Teatro di Roma, nell’ambito della rassegna Il teatro fa Grande, che con questo allestimento ha rafforzato il proprio orientamento a promuovere una fattiva integrazione tra giovani attori, con e senza disabilità, qui insieme al lavoro per occupare uno spazio/palcoscenico dove ognuno possa esprimere le proprie diversità, da esternare liberamente e comunque sempre in sintonia con gli altri.

data di pubblicazione:01/04/2017


Il nostro voto:

IL DIRITTO DI CONTARE (HIDDEN FIGURES) di Theodore Melfi, 201

IL DIRITTO DI CONTARE (HIDDEN FIGURES) di Theodore Melfi, 201

Sarò franca. Posso dire di non conoscere pressoché nulla sulla storia americana della Nasa, dei primi razzi e dei primi uomini spediti nello spazio e al contempo non sono un’estimatrice del mondo fatto di informatica e, soprattutto, di numeri e calcoli, anzi li rifuggo anche al cinema. Invece, Il diritto di contare (Hidden Figures) di Theodore Melfi è stata una bella sorpresa, un piccolo capolavoro che sa unire sentimenti, freddi calcoli e narrazione storica in modo sublime.

Il film, tratto da fatti realmente accaduti, racconta le storie di tre donne di colore, Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughn (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), che nella Virginia segregazionista degli anni ’60 contribuirono nel loro piccolo a smuovere le barriere di vita quotidiana tra bianchi e neri attraverso le rispettive diverse carriere all’interno degli uffici della NASA. Katherine è stata una bambina prodigio, la prima donna afroamericana a superare le barriere segregazioniste della scuola di specializzazione West Virginia University in Morgantown (Virginia Occidentale) nonché uno dei tre studenti afroamericani, di cui l’unica donna, selezionati per integrare la scuola di specializzazione dopo la sentenza della Corte Suprema del Missouri ex rel. Gaines v Canada. Grazie alla sua naturale propensione ad una matematica che sa vedere e andare oltre i numeri diventerà un membro imprescindibile per il team di Al Harrison (Kevin Costner) che in imbarazzante affanno è stato surclassato dai Russi nella missione dell’uomo nello spazio.

Anche Doroty, esperta di calcoli matematici svolge di fatto il ruolo di responsabile del personale di colore della sezione calcoli, ma non ha diritto ad avere la qualifica ufficiale di responsabile e il relativo stipendio adeguato; tuttavia, grazie alla sua affidabile diligenza e curiosità sbloccherà l’impasse dei colleghi “bianchi” in panne davanti al primo calcolatore IBM – riuscendo a metterlo in accensione per la prima volta e a rendendolo finalmente operativo per la missione (anche se poi il freddo calcolatore automatico nulla potrà senza i calcoli eseguiti a mano da Katherine) – e le sarà riconosciuto il ruolo che merita. Mary, invece, vincerà una causa civile che le permetterà di frequentare un liceo aperto solo ai bianchi per conseguire la seconda laurea in ingegneria ed essere la prima donna afroamericana ingegnere della NASA.

In questi traguardi fondamentali si realizza una collettiva integrazione, iniziano a cadere alcune barriere, tra cui l’abbattimento del cartello “Coloured room” dei bagni dei neri – che si trovano a un kilometro e mezzo dall’ufficio di Katherine – eseguito da Harrison (interpretato da un sempre un Kevin Costner sempre impeccabile nel ruolo di personaggio duro, orso ma incredibilmente protettivo) per ribadire che il traguardo si dovrà raggiungere tutti insieme senza discriminazioni e barriere fra bianchi e neri. Amore, amicizia, collaborazione e rispetto raggiungono almeno in questo spaccato della Virginia e nella NASA un primo importante risultato, con fatica e passione. Il film è davvero ben narrato, a tratti tocca lo spettatore commuovendolo per la semplicità e la forza dei sentimenti autentici dei personaggi, tra cui l’ottima interpretazione di Taraji P. Henson.

Un cast eccellente, una buona sceneggiatura costruita anche con una delicata e sapiente ironia e davvero belli i costumi femminili che spiccano per un’eleganza e una femminilità semplici e di classe. L’ironia e la bellezza emotiva ed espressiva del cast insieme all’ottima colonna di Hans Zimmer e ai richiami delle note di Miles Davis, rendono i 120 minuti de Il diritto di contare un piccolo capolavoro, ben ritmato, da vedere per capire come la meritocrazia e la lotta per i diritti portino, laddove autentici e avulsi dall’individualismo, a realizzare piccoli e grandi sogni e a unire un popolo intero.


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data di pubblicazione: 01/04/2017

LA SICILIANA RIBELLE di Marco Amenta, 2009

LA SICILIANA RIBELLE di Marco Amenta, 2009

Rita Mancuso (Veronica D’Agostino), nel giorno della sua prima comunione, assiste all’omicidio del padre Don Michele (Marcello Mazzarella) noto e rispettato boss mafioso di Palermo. A diciassette anni, dopo l’uccisione del fratello Carmelo (Carmelo Galati) sempre da parte della mafia, la ragazza decide di rivelare alla polizia prove concrete che possano portare all’arresto degli assassini. Da questo momento Rita sarà allontanata dalla sua città e dovrà vivere a Roma in assoluta segretezza e con una falsa identità, sotto sorveglianza per evitare la vendetta dei criminali mafiosi da lei accusati. Dopo l’ennesimo attentato che colpirà a morte il giudice Borselli (Gérard Jugnot), che sin dall’inizio aveva seguito le indagini sui due omicidi, Rita entra in uno stato di scoraggiamento e delusione nello stesso tempo e dopo aver fatto arrivare a Roma il suo fidanzato, contro le precise disposizioni della questura, al colmo di una crisi di identità si suiciderà davanti ai suoi occhi gettandosi dal balcone. Non è la prima volta che il regista palermitano Marco Amenta porta sul grande schermo storie vere che hanno a che fare con la spietata violenza mafiosa. Il film dedicato alla memoria di Rita Atria, anche lei costretta a vivere sotto protezione in un’altra città, fu accolto bene sia dalla critica che dal pubblico che apprezzò il coraggio del regista nel raccontare con crudezza una storia dove viene messa in luce la dinamica mafiosa ed il sistema di omertà che vi ruota attorno. Da questo se ne trae un insegnamento la cui missione è affidata alla protagonista che reagisce con i propri mezzi per affermare la verità in un contesto dove tutti gli elementi ne rivendicano invece l’annullamento. Il film, tipicamente di stampo siciliano, si abbina perfettamente a questa ricetta di tonno allo sfincione, pietanza dal gusto deciso ma sicuramente d’effetto in tavola.

INGREDIENTI: 600 grammi di tonno fresco a fette – 600 grammi di cipolle bianche – 250 grammi di pomodori pelati o a cubetti – qualche filetto d’acciuga sott’olio – origano, sale, pepe e olio d’oliva q.b..

PROCEDIMENTO: Versare in una padella abbondante olio d’oliva ed a fuoco basso fare sciogliere qualche filetto d’acciuga. Aggiungere quindi il pomodoro a cubetti o pelati e lasciare andare per circa 20 minuti. Tagliare le cipolle e lessarle in acqua salata per circa 20 minuti, scolarle e versarle nella salsa di pomodoro insieme ad una manciata di origano, pepe e sale. Sistemare in una teglia ben oleata le fette di tonno, coprirle con la salsa ottenuta ed infornare per circa 20 minuti ad una temperatura di 180 gradi. Servire il tonno tiepido accompagnando la pietanza con un’ insalata fresca di stagione.

LOVING di Jeff Nichols, 2017

LOVING di Jeff Nichols, 2017

Virginia, Stati Uniti d’America, fine anni ’50. Richard Loving, muratore di professione ed appassionato di auto nel tempo libero, è un tipo tranquillo ed accondiscendente, con un carattere molto semplice che gli consente di ben inserirsi nella comunità di colore della sua cittadina. L’uomo è innamorato di Mildred: quando lei un giorno gli comunica che aspetta un bambino, decide di sposarla. Ma il loro è un matrimonio interrazziale e, senza esserne pienamente coscienti, i due commettono un crimine che nello stato della Virginia, come in molti altri Stati dell’Unione, è severamente punito dalla legge. Condannati dal giudice, la coppia affronterà con serenità, ma anche con determinazione, una battaglia legale che li porterà, dopo molti anni, davanti al giudizio della Corte Suprema per il riconoscimento dei propri diritti civili e l’abolizione di qualsiasi forma di discriminazione.

 Jeff  Nichols, che nel 2012 a Cannes si fece notare con il suo ben riuscito Mud, affronta con questo suo ultimo lungometraggio un tema delicato che per molti aspetti risulta ancora attuale anche se potrebbe apparire banale o prevedibile. In Loving ilregista ci porta per mano in questa splendida storia d’amore, senza troppi clamori o colpi di scena, dove il tema della discriminazione razziale viene trattato con una misurata delicatezza e senza quella inevitabile retorica che ha spesso caratterizzato i film dello stesso genere e contenuto. Alla base di tutto c’è un profondo sentimento d’amore che unisce Richard (Joel Edgerton) e Mildred (Ruth Negga) e sono proprio i loro sguardi sinceri e indifesi che riescono a conquistare lo spettatore e a renderlo compartecipe delle loro ansie e preoccupazioni. Il “crimine” di cui vengono accusati e giudicati è forse più grande di quello che potessero entrambi immaginare, e la condanna è qualcosa che sconvolgerà le loro vite e li strapperà dal contesto sociale in cui da sempre erano vissuti, un esilio che li sradicherà violentemente dalle loro radici e dai loro affetti più cari. Una punizione ingiusta sin dalle premesse, che i due accettano con matura consapevolezza, perché come semplicemente afferma Mildred: non è importante perdere le battaglie, ma quello che più conta è vincere la guerra.

La semplicità del linguaggio espressivo adottato riesce a fare di questo film un piccolo capolavoro, evitando di far ricadere il tutto in qualcosa di scontato, come uno dei tanti melò sentimentali.

Buona la location che accompagna lo spirito del racconto, dove la luminosità delle immense distese agricole americane rappresenta in pieno la profondità interiore dei due protagonisti e che, insieme alla convincente prova dell’intero cast oltre che dei due protagonisti, risulta determinante alla buona riuscita di questo film di cui se ne consiglia la visione.

data di pubblicazione:28/03/2017


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IL MOSTRO di Roberto Benigni, 1994

IL MOSTRO di Roberto Benigni, 1994

Scritto dallo stesso Benigni in collaborazione con Vincenzo Cerami, il film si è verosimilmente ispirato ai fatti che insanguinarono Firenze per mano del famoso Mostro di Scandicci. Benigni impersona Loris, un disoccupato che si guadagna da vivere con lavoretti saltuari e qualche truffa e che abita in un appartamento di proprietà di un odioso amministratore di condominio. Perseguitato dai condomini, ai quali ha rubato uno dei sette nani da giardino (Mammolo), Loris cerca sempre di passare inosservato ogni volta che esce dal palazzo per non farsi vedere e fermare da nessuno. Ha tuttavia una strana ostinazione: quella di prendere lezioni di cinese da un professore apparentemente garbato e tranquillo. Ma proprio perché Loris è una brava persona che ha come unica pecca quella di arrangiarsi con qualche piccolo espediente per campare, diventerà inevitabilmente il principale sospettato di essere lui il pericoloso maniaco assassino che da qualche tempo sta terrorizzando il quartiere, uccidendo donne sole ed indifese. Loris, ovviamente ignaro di essere nel mirino delle forze dell’ordine che lo tengono sotto controllo in attesa che compia un passo falso, se la dovrà vedere con una poliziotta in borghese che cercherà di sedurlo per coglierlo in flagranza di reato, e con un psichiatra criminologo (un meraviglioso Michel Blanc) che farà di tutto per riscontrare in ogni suo più normale atteggiamento il segno di una patologia criminale, già data per scontata.

Il Mostro superò, e a ragione, il successo di Jonny Stecchino, ed alcune scene di questa meravigliosa commedia come l’esame di cinese, l’assemblea di condominio, la scene in cui il criminologo cerca di prendere le misure al corpo di Loris fingendosi “un sarto”, quella di Loris con il manichino e molte altre ancora, sono rimaste nella storia della cinematografia italiana.

Non potevamo che abbinare a questo film, in omaggio alla toscanità di questo splendido artista nonchè premio Oscar, una classica ricetta di castagnaccio.

INGREDIENTI: 300 gr di farina di castagne – 300 gr di acqua – 80 gr di noci sgusciate – 80 gr di pinoli – 50 gr di uvetta ammollata nel brandy o nel rum – 50 gr di olio di semi o extravergine d’oliva – sale e rosmarino q.b..

PROCEDIMENTO:

Setacciare la farina di castagne in una ciotola ed aggiungere l’acqua a filo mescolando con una frusta. Aggiungere quindi l’olio di semi (o a piacimento extravergine d’oliva) e, appena il composto è liscio, aggiungere le noci tritate grossolanamente, i pinoli interi e l’uvetta strizzata, tenendo da parte qualche pinolo e un po’ di uvetta da mettere sopra la torta. Mettere la carta da forno su una teglia dai bordi bassi e versare il composto livellandolo con una spatola. Cospargere la superficie con pinoli, uvetta e un pochino di rosmarino. Aggiungere un filo d’olio. Cuocere a forno caldo fisso solo sotto a 180° per 20/30 minuti. Togliere la teglia dal forno non appena sopra il castagnaccio si formeranno delle crepe e la frutta sarà dorata.