TUTTO QUELLO CHE VUOI di Francesco Bruni, 2017

TUTTO QUELLO CHE VUOI di Francesco Bruni, 2017

Roma. Quartiere Trastevere. Giorgio Ghelarducci, nato a Pisa ottantacinque anni fa, è un poeta dimenticato. La sua mente, seppur un po’ smarrita a causa dell’Alzheimer che non gli permette di fissare il presente, non cancella tuttavia quei versi che “i poeti scrivono quando non si sa dove mettere l’amore”, versi che riaffiorano improvvisi come fulmini in quel cielo ricco di nubi in movimento che è la sua memoria, assieme ai ricordi di un passato oramai molto lontano.

Rimasto vedovo e solo, di Giorgio si prende cura la sua cara amica nonché vicina di casa Laura che, conoscendolo bene, decide di trovargli una compagnia maschile che lo obblighi ogni giorno ad uscire di casa per prendere una boccata d’aria. La donna quindi propone ad Alessandro, un giovane del quartiere ignorante e per nulla incline verso qualsiasi tipo di occupazione, di fare da badante a Giorgio dedicandogli giornalmente qualche ora del suo inutile tempo in cambio di denaro. Inizialmente Alessandro prova vergogna nel farsi vedere prestare il braccio a quell’anziano signore, ma questo incarico lo sottrae dalle pressioni di suo padre che lo vorrebbe a lavoro con lui e ben presto essere di compagnia ad un famoso poeta diventa anche motivo di vanto con i suoi tre amici del bar. Ed alquanto inaspettatamente, da quella frequentazione fatta di passeggiate pomeridiane nel verde e chiacchierate a tratti surreali tra due individui così diametralmente opposti, nascerà una improbabile quanto insperata alchimia nell’incontro magico tra memoria ed ascolto.

Dopo il brillante esordio con Scialla! seguito dal tiepido Noi 4, con questo suo terzo film Francesco Bruni sviluppa il tema della memoria in quella sorta di passaggio del testimone tra generazioni diverse, invogliando i giovani a crescere senza tagliare le proprie radici e gli anziani ad avere più fiducia nel mettere i propri ricordi così pregni di esperienza nelle loro mani. Tutto quello che vuoi è un film acuto e sensibile, ben radicato nella nostra realtà, che colpisce al cuore per la semplicità della storia, in un giusto equilibrio tra commedia (perché si ride e molto) e dramma, come la vita stessa ci insegna nelle molteplicità delle sue sfaccettature. I misteriosi graffiti sui muri dello studio di Giorgio, incisi con un tagliacarte in un suo momento di profondo sconforto e che tanto incuriosiscono gli amici di Alessandro da ravvisare in essi la mappa di “un tesoro” nascosto, portano in realtà a scorgere in chi li legge, nascosti tra le righe, i desideri profondi di chi li ha tanto appassionatamente graffiati.

Troviamo i bravi Antonio Gerardi, Raffaella Lebboroni e Donatella Finocchiaro tra gli interpreti, anche se è l’esordiente Andrea Carpenzano nel ruolo di Alessandro che stupisce con quella sua aria a tratti inebetita dall’ignoranza, e che fa da spalla al grande Giuliano Montaldo (Giorgio), quel “vecchio” di cui non possiamo che innamorarci e per sempre.

data di pubblicazione:16/05/2017


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PLAY STRINDBERG di Friedrich Dürrenmatt, regia di Franco Però

PLAY STRINDBERG di Friedrich Dürrenmatt, regia di Franco Però

(Teatro Eliseo – Roma, 9/21 maggio 2017)

In scena al Teatro Eliseo di Roma, fino al 21 maggio, Play Strindberg di Friedrich Durrenmatt, regia di Franco Però. I protagonisti sono Edgar, capitano d’artiglieria, interpretato da Franco Castellano, sua moglie, ex attrice, Maria Paiato, e Kurt, il cugino-amante che torna all’improvviso, Maurizio Donadoni. Interpretano l’inferno matrimoniale di una coppia, dopo venticinque anni di irrispettosa convivenza, tema ripreso dalla Danza Macabra di Strindberg riscritta e ripensata  nel 1969 da Friedrich Dürrenmatt per il Teatro di Basilea. L’autore svizzero tedesco che lavorava in quel periodo per il teatro di Basilea, insoddisfatto delle traduzioni di Danza macabra (a sua volta scritto nel 1900), decise di impegnarsi personalmente a lavorare alla riscrittura, realizzando con Play Strindberg (tradotto da Luciano Codignola) molto più di un adattamento che viene proposto attraverso un occhio più crudo e razionalista. Linguaggio sarcastico e spietato quello di Dürrenmatt che si diverte a mantenere inalterata la forza del testo di Strindberg, che viviseziona impietosamente un matrimonio fra frustrazioni e recriminazioni, andandolo però a riscrivere in chiave attuale, indagando sui valori ed i ruoli della famiglia attraverso un confronto caustico e serrato posizionando i tre protagonisti in un ring dove si studiano e si attaccano. E combattono tra sarcasmo, grottesco e ironia. Il testo prende i tre protagonisti e li scaglia in uno scontro da cui usciranno a pezzi. Una versione cattiva e ironica sulla vita di coppia ed alla fine anche molto divertente.

Uno spettacolo non esaltante e un po’ monocorde, che rimane per la bravura e personalità degli attori tutti e tre straordinari e per quell’umorismo colto e feroce, esorcizzando a scena aperta quello che tutti avremmo voluto fare o dire almeno una volta nella vita a due.

data di pubblicazione:14/05/2017


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FAMIGLIA ALL’IMPROVVISO – ISTRUZIONI NON INCLUSE di Hugo Gèlin, 2017

FAMIGLIA ALL’IMPROVVISO – ISTRUZIONI NON INCLUSE di Hugo Gèlin, 2017

Costa Azzurra. Samuel, detto Sam, è un eterno Peter Pan. Lavora in un villaggio vacanze, ma il suo più che un lavoro è un autentico divertimento, fatto di scorribande in motoscafo assieme a turisti assetati di bella vita e bagordi notturni. Nel suo doppio ruolo di accompagnatore e viveur notturno, Sam fa regolarmente strage di cuori ed ogni notte finisce inevitabilmente nel letto di una delle tante turiste invaghite della sua travolgente vitalità. Una mattina si vede recapitare, in maniera a dir poco inusuale, una neonata di appena tre mesi da una bionda ragazza londinese: quell’esserino urlante sarebbe il frutto di una di quelle tante notti d’amore che lui neanche ricorda. La sua vita da quell’istante cambierà.

Inizialmente Sam tenta di respingere quel fagottino di nome Gloria: prende un volo per Londra, lascia in panne la titolare del villaggio che non esita a licenziarlo su due piedi, ed in meno di 24 ore tenta ad ogni costo di rintracciare quella giovane donna, fragile e spaesata, che lo ha fatto diventare padre all’improvviso. Ma il tentativo purtroppo fallisce. Conosce fortuitamente Bernie, un impresario gay che, un po’ per attrazione fisica ed un po’ per fiuto professionale, decide di aiutarlo scorgendo in lui doti da stuntman, e lo scrittura immediatamente. In questa vita vissuta pericolosamente per finzione sui set cinematografici passano gli anni, Gloria cresce e Sam realizzerà che essere padre è il suo vero lavoro ad “alto rischio”: nella sua vita precedente, ad alto tasso di totale disimpegno, non avrebbe potuto neanche immaginare di avere dentro di sé neanche un briciolo di senso di responsabilità, lo stesso che lo porta a garantire alla piccola una vita piena di affetto, di attenzioni e, in un modo tutto suo, anche di regole con l’abilità di farle sembrare divertenti.

Dopo lo scivolone di Mister Chocolat, Omar Sy ritorna ad essere quel ciclone che avevamo conosciuto in Quasi Amici: seduttivo, sinuoso, irresistibile, con quella sua risata che conquista e ci travolge. Famiglia all’improvviso – istruzioni non incluse è una discreta commedia francese dai risvolti drammatici, dove non c’è posto per la retorica o i rimpianti, ma dove al contrario si può trarre insegnamento anche dalle ferite più terribili che la vita ci può riservare.

Il film riesce sapientemente a mescolare risate e lacrime, senza tuttavia rattristare nel complesso lo spettatore che esce dalla sala con un’idea di figura paterna forse fantastica, da supereroe, ma decisamente positiva in un mix perfetto di realismo e fantasia.

Il film, godibile e ben costruito, accontenta diverse fasce di età. La coppia padre-figlia funziona, come funziona sempre più questa nuova cinematografia francese che dimostra di sapersi misurare un po’ con tutto, garantendo sempre prodotti di buon livello anche in presenza di storie semplici come questa.

data di pubblicazione:14/05/2017


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ADORABILE NEMICA di Mark Pellington, 2017

ADORABILE NEMICA di Mark Pellington, 2017

Un’anziana signora intende conoscere e “controllare” in anticipo il contenuto del suo necrologio: il tentativo di sintetizzare la propria vita a un passo della conclusione rappresenterà l’occasione per riscriverla, andando ben oltre ogni razionale aspettativa.

 

Harriet Lauler (Shirley MacLaine), dopo una brillante carriera imprenditoriale nel settore pubblicitario, vive in pressoché completa solitudine, circondata solo dalla sua ossessione di controllare ogni dettaglio apparentemente insignificante della sua quotidianità, dalla potatura della siepe alla preparazione della cena.

Il suo desiderio di controllo approda infine alla decisione di definire in anticipo il contenuto del proprio necrologio, per essere ricordata, almeno dopo la sua morte, come una “brava persona”. Il piano la porterà a incontrare Anne Sherman (Amanda Seyfried), una giovane giornalista che dedica il proprio tempo alla scrittura di tanto celebrativi quanto ipocriti necrologi, tenendo nel cassetto il sogno di pubblicare una raccolta di saggi. L’incontro-scontro tra Harriet e Amanda le condurrà a incrociare la vita di Brenda (Ann’Jewel Lee), una bimba di colore cui Harriet si propone di cambiare la vita per poter aggiungere un ingrediente ulteriore al suo “necrologio perfetto”.

Anne si rende conto fin da subito di quanto possa rivelarsi ardua l’impresa: è difficile trovare persone disposte a parlar bene di Harriet o anche solo a parlarne di una donna che, evidentemente, non suscita né empatia né simpatia. Anche sua figlia preferisce non avere alcun tipo di rapporto con lei. Non impiegherà molto, però, a scoprire che la maschera di cinismo e perfezionismo che nasconde il volto di Harriet è in realtà la corazza che protegge una donna coraggiosa, intraprendente e disposta a rischiare pur di mettere a frutto le proprie doti.

Il viaggio intrapreso dalle tre donne (e dalle tre generazioni) non brilla forse per originalità, ma la solida scrittura su cui il film può contare e la sensazionale prova di Shirley MacLaine rendono Adorabile nemica un film gradevole e commovente. La parabola di Harriet ammicca a quella della diva chiamata prestarle il volto, che compare senza rughe nelle foto di apertura, ma che stupisce (ancora una volta) per l’impeccabile interpretazione di un personaggio sfaccettato e complesso.

Davvero una bella occasione per tornare sul grande schermo, anche perché affidata ai meccanismi distributivi del circuito indipendente (Adorabile nemica è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2017).

Un film da vedere, dunque (almeno per chi abbia la fortuna di trovarlo in sala). Anche per sentirsi ricordare che nella vita vale la pena assumersi dei rischi, a costo di sbagliare. Le persone, del resto, non fanno errori: sono gli errori che fanno le persone.

data di pubblicazione: 15/05/2017


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OGGI SIAMO VIVI di Emmanuelle Pirotte – Nord, 2017

OGGI SIAMO VIVI di Emmanuelle Pirotte – Nord, 2017

Dicembre 1944, Ardenne, i tedeschi stanno arrivando. Il parroco di Stoumont deve sbrigarsi a mettere in salvo la piccola Renée, un’orfana ebrea che è stata affidata alle sue cure: insieme scappano verso la campagna e la fortuna sembra assisterli, in quel momento passa una jeep americana, il parroco consegna la piccina ai due soldati e torna nella sua canonica.

Purtroppo i soldati ai quali è stata consegnata la piccola Renée sono in realtà Mathias e Hans,  soldati tedeschi dell’operazione Grifone, il cui scopo, travestiti con divise americane, è quello di infiltrarsi tra le linee alleate per compiere azioni di sabotaggio.

La jeep prosegue il suo cammino e si ferma in una radura nel bosco: la bambina viene fatta scendere e avanzare nella neve. Hans alza la pistola e gliela punta alla nuca: Renée si volta, oltrepassa con lo sguardo Hans e fissa i suoi occhi in quelli di Mathias. Uno sparo echeggia nell’immobilità del bosco, il corpo di Hans è riverso al suolo, Mathias è stato agganciato dallo sguardo di Renée e l’ha salvata, insieme risalgono sulla jeep e da quel momento saranno inseparabili.

Una bambina ebrea e un soldato nazista travestito da americano: le cose per loro non possono che complicarsi, e le vicissitudini da superare saranno molteplici. Gli scenari che si susseguono sono vari, la vita nelle Ardenne e durissima e i due trovano inizialmente rifugio nelle cantine della cascina Paquet; Mathias dapprima affida Renée a una famiglia lì rifugiata, ma il loro legame è ormai troppo forte per essere reciso, e ben presto torna su i suoi passi per riunirsi alla piccina. Non saranno i soli ospiti della cascina, vi si alterneranno un sparuto gruppo di soldati americani in fuga e successivamente un commando di SS: le traversie che è costretta ad affrontare questa strana copia sono notevoli, ma il loro legame diventerà sempre più profondo e li unirà sempre di più.

La guerra che si dipana davanti a Renée e Mathias, con tutte le sue brutture e tutti i suoi pericoli, li ha collocati ai poli opposti: un soldato del Reich e un’orfana ebrea, ma l’affetto che li lega supera qualsiasi pregiudizio, qualsiasi preconcetto e il loro legame si dimostrerà essere indissolubile.

Ho amato tutto di questo libro.

La scrittura della Pirotte mi ha irretita, è vivace, diretta, con flashback che ci permettono di entrare nel vissuto dei personaggi e di capire meglio la loro psicologia, ha creato dei personaggi magistrali: Renée così piccina eppure già forgiata dagli orrori indicibili a cui ha assistito… “Ebrea. Cosa significava quella parola? Non aveva mai capito bene in cosa consistesse, il fatto di essere ebreo. Era pericoloso. Punto e basta”,… cresciuta troppo in fretta, ci colpisce per la sua determinatezza a non abbattersi, a voler vivere, con una sana punta di cinismo che un poco la protegge da ciò che la circonda, e Mathias, soldato del Reich …“era un ingranaggio di quella macchina di distruzione: era un organo di quell’orco affamato…” che meccanicamente aveva portato avanti gli ordini che gli erano stati impartiti e che ora si scopre un essere capace dei più profondi sentimenti, sicuramente un uomo affascinante e pieno di contraddizioni.

Il loro è un rapporto che emoziona, un legame profondo che va al di là di tutto ciò che sono e che li circonda.

Un libro assolutamente da leggere.

data di pubblicazione:14/05/2017

HUMAN di Marco Baliani e Lella Costa, regia di Marco Baliani 

HUMAN di Marco Baliani e Lella Costa, regia di Marco Baliani 

(Teatro Argentina – Roma,  9/14 maggio 2017)

 In un mare di dolore e di speranza i migranti scrutano l’orizzonte e cercano il futuro. Marco Baliani e Lella Costa sono in scena al Teatro Argentina dal 9 al 14 maggio con Human, spettacolo scritto dai due attori con la collaborazione drammaturgica di Ilenia Carrone e regia dello stesso Baliani. Scene e costumi sono di Antonio Marras, le musiche originali di Paolo Fresu con Gianluca Petrella. La storia dell’umanità che periodicamente si ripete. Aspettative, speranze, paure e disperazioni di migrazioni e integrazioni: una metafora universale, un’opera che fa pensare e scuote.

Uno splendido coro di voci tra loro diverse ed una trama di vicende, racconti, impressioni e riflessioni raccontata dai due protagonisti e da quattro giovanissimi e bravissimi attori. Un affresco che parte dall’Eneide e dal fascino del mito. Un’Eneide che oggi identifica la migrazione dei profughi alla ricerca di una nuova patria: Enea è profugo per necessità, così come l’altro mito richiamato ovvero l’amore di Ero e Leandro, i due amanti sono separati dallo stretto di mare  dell’Ellesponto e dall’ostilità delle rispettive popolazioni. Perché questo perenne migrare? Quali sogni, pensieri, speranze o ricordi tragici e tristi porta con sé chi fugge?

Un racconto che è una struggente riflessione sul nostro tempo fatta di interviste, testimonianze, riflessioni e ripensamenti della gente comune. Si parte da quanto accaduto in questi anni, dalla crisi dell’Europa e dalla negazione di idee e valori, dal muro di indifferenza e diffidenza innalzato dentro l’animo della persone, unito a smarrimento e confusione e spesso a qualunquismo, nel quale si annidano i fondamentalismi che avanzano, gli attentati che sconvolgono le città ed i profughi che cercano rifugio. Reazioni diverse connotate da superficialità, presunzione, ignoranza e ipocrisia esattamente simili a quelle vissute dagli emigrati italiani, e non solo, nel secolo scorso e poco prima: corsi e ricorsi storici. Vicende di ieri e di oggi e la  fotografia della nostra Italia fatta si di indifferenza ma anche di storie di coraggio e di rispetto verso il prossimo.

Bellissimi i costumi e le sculture di balle di stracci di Antonio Marras che raccontano il dramma di un’umanità a brandelli connotata da un metaforico rosso, colore e dolore dominante.

Un lavoro sul significato profondo di umanità tra attualità e mito, che sperimenta il teatro civile anche con ironia, leggerezza e poesia e che non può non commuovere.

 data di pubblicazione: 13/05/2017


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SONG TO SONG di Terrence Malick, 2017

SONG TO SONG di Terrence Malick, 2017

Prendete un giovane produttore discografico milionario, Cook (Michael Fassbender), un suo amico fraterno musicista in erba ingenuo e sognatore, BV (Ryan Gosling) e una giovane ragazza bella prigioniera delle passioni e della disperata ricerca di successo, libertà e amore, come Faye (Rooney Mara), anch’essa aspirante artista/musicista, e il triangolo della storia di amore, passione e amicizia a tinte rock sembrerebbe essere pronto. Il tema dell’effimero, della vacuità e della vanità, della crisi di valori in cui credere, della crisi di talenti e della fragilità che caratterizza il mondo che ruota intorno alla musica e all’arte in generale – in parte evocativo del patinato mondo effimero e superficiale della protagonista di Animali Notturni di Tom Ford – sono narrati dal regista Terrence Malick coerentemente con il suo stile, ovvero in modo frammentario, confuso, lentissimo. La storia, il triangolo amoroso, i sentimenti, la passione, la musica sono quasi del tutto assenti o inesistenti e lasciano la scena a ripetitivi primi piani e a una regia incentrata su una sapiente fotografia concentrata su paesaggi urbani e naturalistici, che però non va oltre l’estetica. Ricorrono durante l’intera pellicola elementi naturali quali l’acqua – onnipresente nelle pozzanghere lunari, nel fiume della città texana e nelle piscine avveniristiche delle ville moderne e sofisticate in cui si inseguono gli incontri lenti dei personaggi -, il verde degli alberi, delle piante e dei giardini, gli uccelli che tagliano i cieli che sovrastano le angosce dei protagonisti. In contrasto con questi elementi, simbolo di vitalità, purezza e libertà, si staglia il senso di oppressione e prigionia degli ambienti chiusi delle camere d’albergo, dei monolocali o delle ville contemporanee che altro non sono che lo specchio dell’egoismo calcolatore, della diffidenza, della superficialità, della paura di amare e di soffrire (o dell’irrefrenabile desiderio si sofferenza masochista), degli atteggiamenti e delle movenze artefatte, pseudo sofisticate di Fave e degli aspiranti artisti o artistoidi che circondano lei e il mondo vacuo in cui si è ostinatamente voluta incatenare. Il sesso, la passione che consuma i protagonisti in realtà è solo accennato: appare finto, è rappresentato come una sorta di pratica a tratti angosciante, a tratti coreografica o rigida come un’istallazione esposta in vetrina, viene accennato con stanchezza, senza trasporto, è imbalsamato. L’amore, il sesso sembrano prigionieri degli abiti glamour, eleganti e spesso aderentissimi dei protagonisti. La narrazione, come anticipato, è estremamente lenta e dispersiva, non esiste un vero copione recitato dagli attori, non ci sono dialoghi bensì voci narranti dei singoli personaggi che entrano fuori campo mentre scorrono le immagini di volti, di elementi di arredo o paesaggi. Il film tenta di far parlare volti e gesti fisici affettati, rigidi di personaggi finti e si perde come una grande allegoria delle pagine delle riviste di architettura o di arredamento. La musica, pur ispirando il titolo del film, non emerge in alcun modo, non lascia spazio alle doti canore e musicali di Rayan Gosling. La musica si intravede nei flash su prati gremiti durante i concerti (di Iggy Pop, Red Hot Chilly Peppers) e solo attraverso il cameo di Patty Smith che interpreta se stessa. Lo spettatore è esasperato dalle lente domande o dalle affermazioni, talvolta ripetitive, banali e inutili, pronunciate dai volti, a tratti inespressivi, dei tre protagonisti che sembrano trascorrere le proprie giornate unicamente giocando a sfiorarsi, rincorrendosi per stanze o giardini, muovendo le mani e gli occhi come se fossero su un set fotografico, assumendo continue pose plastiche che poi trascinano lungo pareti, balconi o viali. Il film, complice la bellezza del cast e in particolare quella delle protagoniste femminili, alle quali si unisce l’apparizione del personaggio della ricca Amanda (Cate Blanchett), sembra un lunghissimo spot tipico delle case di moda per abiti griffati e profumi sofisticati…che sia stato questo il pretesto del regista? Concedete un pò di ironia dissacrante per smorzare la pesante vanità del film che si salva solo per la fotografia e il cast, sebbene la bravura e il talento degli attori sia rimasta inespressa.

data di pubblicazione:11/05/2017


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LA SECONDA NOTTE DI NOZZE di Pupi Avati, 2005

LA SECONDA NOTTE DI NOZZE di Pupi Avati, 2005

Il film, che segna l’esordio di Katia Ricciarelli come interprete cinematografica e che le valse il Nastro d’argento come miglior attrice protagonista, è una di quelle chicche che Pupi Avati è riuscito a tirare fuori dal cilindro nella sua lunga e prolifica carriera, fatta di tante pellicole di successo. La storia come sempre, in ogni suo film, parte dalla sua amata Bologna per poi svilupparsi nelle zone rurali della Puglia all’interno di contrade e masserie vicino Monopoli, Fasano, Savelletri e Torre Canne, sino alla bellissima Ostuni. La melanconia, tipica delle pellicole di Avati, ne La seconda notte di nozze è incarnata splendidamente da un bravissimo Antonio Albanese, capace di dare spessore ed umanità al personaggio di Giordano, infatuato di sua cognata Liliana (K.Ricciarelli) sin dall’adolescenza e che continua a coltivare questo puerile sentimento anche da adulto. Liliana, rimasta vedova il giorno seguente alle nozze e donna ancora piacente ma in gravi ristrettezze economiche (siamo nell’immediato dopo guerra), si vede costretta a lasciare Bologna a causa del figlio Nino, un fannullone interpretato da uno splendido Neri Marcorè (che aveva già lavorato con Avati ne Il cuore altrove), tendenzialmente ladro e senza alcun buon sentimento, con l’insana passione per il cinema: il suo sogno è partire per Hollywood per recitare come protagonista in un film e, purtroppo per tutti, lo farà. Nino infatti, per tentare di realizzare il suo progetto, costringe la madre a recarsi in Puglia da Giordano, quello zio un po’ “scemo” e che per questa fragilità era stato a lungo ricoverato in manicomio, ma che possiede ancora qualche acro di terra e per guadagnarsi da vivere aiuta i contadini a disinnescare gli ordigni inesplosi rimasti sotto la terra da coltivare. Giordano accetta la proposta e pur di accogliere in casa l’amata cognata e mettere a tacere le due zie Suntina (Angela Luce) e Eugenia (Marisa Merlini nella sua ultima straordinaria interpretazione), smette con le sue operazioni di artificiere, rinuncia a parte della sua eredità in favore delle avide zie e paga tutti i debiti di Nino.

Riuscirà infine a sposare Liliana, grata a lui per averla salvata da un destino terribile, con il patto tuttavia che il matrimonio venga consumato solo su richiesta della sposa…

A questo film, di cui se ne consiglia la visione a chi non lo avesse visto perché è una commedia melanconica e piacevole, abbiniamo una ricetta semplice, quasi campagnola: i sanacchioli, un dolce pugliese che faceva molto bene mio suocero Romano, al quale dedico con il cuore questa nuova ricetta di cinema.

INGREDIENTI: 1 kg di farina 00 – 300 gr di zucchero semolato – 180 gr di burro – 4 uova – 1 bustina e ½ di lievito per dolci – la buccia grattugiata di 1 limone – un pizzico di cannella – vaniglia – 800 gr di miele millefiori+ ½ bicchiere di acqua – granella si zucchero colorata per decorazione– olio di semi di arachidi per friggere.

PROCEDIMENTO:

Mettere la farina a fontana in una spianatoia, aggiungere le uova nel centro, lo zucchero, il burro a temperatura ambiente a pezzettini, la buccia del limone grattugiata, il pizzico di cannella e la vaniglia. Impastare il tutto. Staccare quindi dei piccoli pezzi e fare dei serpenti di circa mezzo dito di diametro e tagliare degli gnocchetti. Friggere in abbondante olio di arachidi gli gnocchetti e metterli a scolare bene, asciugandoli di volta in volta con carta assorbente. Mettere sul fuoco in una pentola dai bordi alti e bella grande il miele con il ½ bicchiere di acqua e portarlo ad ebollizione; quando sarà bello liquido, aggiungere gli gnocchetti fritti e girarli nel miele con un cucchiaio di legno senza danneggiarli, facendo sì che il miele li ricopra tutti e bene. Fate questa operazione per qualche minuto e se volte rendere il tutto più gustoso aggiungete mentre girate 1 etto di mandorle pelate e tostate.

Rovesciare gli gnocchetti ben imbevuti di miele in un recipiente da portata e decorare con la granella colorata. I sanacchioli mettono allegria e si mangiano come ciliegie: uno tira l’altro!

IL PICCOLO DIAVOLO di Roberto Benigni, 1988

IL PICCOLO DIAVOLO di Roberto Benigni, 1988

Walter Matthau è Padre Maurizio, un prete americano specializzato in esorcismi. Nel liberare una giovane donna dal demonio, questi salta fuori dal corpo della sventurata nella forma di un simpatico diavoletto che si fa chiamare Giuditta (Roberto Benigni). Scappato dall’aldilà per scoprire come funziona il mondo dei vivi e, curioso come un bambino, Giuditta dichiara immediatamente di voler restare sulla terra perché tutto gli sembra molto divertente e nuovo. Dispettoso, stravagante e burlone, Giuditta diventerà ben presto l’ossessione di Padre Maurizio, la cui vita era già abbastanza complicata a causa di una relazione sentimentale con Patrizia (Stefania Sandrelli). Diretto ed interpretato da Roberto Benigni, affiancato da un partner d’eccezione come Walter Matthau, Il piccolo diavolo è una commedia esilarante, ricca di trovate geniali e battute che ancora oggi vengono ricordate come, ad esempio, quando Maurizio viene rimpiazzato dal diavoletto per la celebrazione della Messa che verrà trasformata da questi in una simpatica sfilata di moda: famosa la frase di Benigni-Giuditta “Modello numero 4: Giuditta! Eh, ora io non voglio influenzare nessuno. Guardatelo in silenzio e riflettete. Avete aspettato un’ora ma ora finalmente lo potete vedere: è un modello scintillante, intimo, malinconico e – com’era? – e sincero e… ma è un modello soprattutto adatto per saltare questa Giuditta!”

A questo film, più che mai irriverente del toscanaccio Benigni, non potevamo che abbinare un’altra versione del castagnaccio, più ricca e gustosa di quella classica già pubblicata (vedi Il Mostro). Ecco qui di seguito come si esegue la ricetta del castagnaccio morbido.

INGREDIENTI: 300 gr di farina di castagne – 80 gr di zucchero – 50 gr di olio di semi – 2 uova – 500 gr di latte – 80 gr di noci sgusciate – 80 gr di pinoli – 50 gr di uvetta ammollata nel brandy o nel rum –– sale e rosmarino q.b..

PROCEDIMENTO:

Setacciare la farina di castagne in una ciotola ed aggiungere prima lo zucchero e poi il latte filo mescolando con una frusta, e alternando latte alle uova una per volta; infine aggiungere l’olio di semi; appena il composto diventa liscio, aggiungere le noci tritate grossolanamente, i pinoli interi e l’uvetta strizzata. Tenere da parte qualche pinolo e un po’ di uvetta da mettere sopra la torta. Mettere la carta da forno su una teglia dai bordi bassi e versare il composto livellandolo con una spatola. Cospargere la superficie con l’uvetta e i pinoli rimasti, aggiungendo un pochino di rosmarino. Condire il tutto con un filo d’olio. Cuocere a forno caldo fisso solo sotto a 180° per 30 minuti. Sopra si formeranno delle crepe e la frutta sarà dorata.

SOLE CUORE AMORE di Daniele Vicari, 2017

SOLE CUORE AMORE di Daniele Vicari, 2017

Il precariato nel lavoro che diviene precariato nella vita. Gli ultimi che, almeno in terra, non diverranno mai i primi. Una storia semplice e al tempo stesso complicata su cui il cinema italiano aveva bisogno di riflettere.

Il motivetto scanzonato del tormentone portato al successo quindici anni fa da Valeria Rossi diviene il titolo di una storia semplice e complicata al tempo stesso. Semplice, perché una volta usciti dalla sala di proiezione basta guardarsi attorno per rendersi conto di quanto comuni siano le vicende raccontate da Daniele Vicari. Complicata, perché l’impotenza dei personaggi di Sole cuore amore somiglia molto a un sentiero senza vie d’uscita.

La riflessione sui tempi del precariato nel lavoro e nella vita è affidata alla storia di due donne, tanto amiche al punto da sentirsi sorelle.

Eli (Isabella Ragonese) è sposata con Mario (Francesco Montanari). Hanno quattro figli e un solo lavoro, quello di Eli, costretta a un’estenuante maratona di mezzi pubblici dall’alba fino al tramonto per raggiungere da Ostia un bar nel quartiere Tuscolano di Roma. Il puntuale ritardo degli autobus e le condizioni di lavoro in cui non c’è spazio per diritti e tutele iniziano a diventare un macigno troppo pesante, anche per le robuste spalle e il sorriso radioso di Eli.

Vale (Eva Grieco) ha lasciato la Facoltà di fisica per dedicarsi al mestiere di ballerina. Anzi, di performer, perennemente in bilico tra le esposizioni di arte moderna e le serate nei locali notturni. Tra una madre che prova imbarazzo per un lavoro che non considera tale, un padre morto “per colpa sua” e una sessualità che, come la sua vita, fatica a trovare una stabile collocazione, Eva sembra ricevere conforto dalla famiglia di Eli, offrendosi di spiegare ai suoi bimbi le equazioni e far aprire solo per loro le porte del parco giochi acquatico.

Sole cuore amore, affresco intriso di un realismo a tratti rassegnato, consegna al cinema italiano un’interessante riflessione su quegli ultimi che, almeno in terra, non arriveranno mai a essere primi. Presentato nell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, insieme, tra l’altro, a 7 minuti di Michele Placido, testimonia chiaramente l’urgenza della rinascita di un cinema (anche) politico-sociale.

La sceneggiatura, almeno a tratti, indulge a qualche stereotipo di troppo. Non è certo l’originalità la cifra che si ricerca in un film che pretende di raccontare la vita “comune”, ma da quei passi di danza che scandiscono dall’inizio alla fine il ritmo della storia, forse, ci si poteva aspettare qualche slancio più convinto e convincente.

Ottima la prova di Isabella Ragonese, perfetta mentre sostiene tanto le diverse anime del suo personaggio quanto i 113 minuti del film.

data di pubblicazione: 4/05/2017


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