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50 PRIMAVERE di Blandine Lenoir, 2017

50 PRIMAVERE di Blandine Lenoir, 2017

È un grazioso ritratto, a tratti ironico, a tratti commovente e sensibile di Aurore ( Agnès Jaouì ), una cinquantenne che vive in una cittadina vicino a Bordeaux ed è in piena crisi ormonale, professionale e sentimentale. Il marito l’ha lasciata da tempo per una più giovane, ha appena perso il lavoro, si deve confrontare con le figlie ormai uscite di casa, e, con il prossimo ruolo di nonna. Tutto sembra insomma, spingerla, con grazia ma inesorabilmente verso “l’uscita“, ed a farla divenire una “donna invisibile” fuori dalla Società attiva. Aurore è però una donna moderna, positiva che riesce a reagire e decide di non accettare passivamente il percorso in discesa cui tutto sembra destinarla.

 

Blandine Lenoir, regista ed anche sceneggiatrice, qui al suo secondo lungometraggio, torna con 50 Primavere (sarebbe stato meglio lasciare il titolo originale: Aurore) ad un tema a lei caro, quello dei rapporti e del ruolo femminile nella Società. Tratteggia infatti, con delicatezza ed uno sguardo tenero, divertito e divertente, uno squarcio di vita di una bella figura di donna, ricca di personalità e sentimenti, che affronta le nuove circostanze con umiltà, ironia e  positività. Aurore riesce a cogliere attorno a sé i motivi e gli obiettivi per cui ritrovare la speranza di una vita più dolce e la capacità di rinnovare gli slanci giovanili ed affettivi, ridisegnandosi un diverso ruolo, perché la vita continua e può essere altrettanto bella nonostante l’età che avanza.

È ottima complice della regista la brava Agnès Jaouì che, in un momento in cui tutte le “eroine” dei film sono oggi solo giovani e belle, oppure solo anziane e sagge, affronta con coraggio il ruolo della cinquantenne protagonista. L’attrice ci dipinge infatti, con sensibilità, con charme e con la sua bellezza ancora seducente di donna matura, questo bel ritratto femminile, dimostrandosi  veramente a suo agio nel personaggio, e confermandoci, con la sua capacità e passione interpretativa, tutto il suo intenso talento. Se la Jaouì è l’indubbia colonna portante del film, attorno a lei gravita, nei vari ruoli secondari, anche un bel gruppo di attrici ed attori, ben noti agli spettatori francesi, tutti perfettamente calibrati e brillanti.

Una buona sceneggiatura ed un montaggio sapiente e rapido danno poi al film un ritmo brioso, diretto dall’autrice e regista con mano attenta e non convenzionale capace di governare il susseguirsi di situazioni, personaggi e dialoghi brillanti, senza soffermarcisi un secondo più del dovuto, evitando con abilità di cadere al semplice livello di sketches o di banali clichès. 50 Primavere è una piccola commedia, molto francese, ben riuscita, romantica, tenera e buffa, con un tocco leggero a tratti anche dolce-amaro perché appena, appena  velato da una sottile sensazione di nostalgia o rammarico per le opportunità che il tempo e le circostanze si sono portate via.

Anche se il film è stato scritto, diretto ed interpretato con grande complicità, abilità ed intensità tutta al femminile, non è  però un film che si rivolge esclusivamente ad un pubblico di donne, tutt’altro, perché anche il pubblico maschile può apprezzare ed essere coinvolto in questa  cronaca tenera e dolce di un momento chiave della vita di tutti.

Dunque un bel film “generazionale”, non certo per adolescenti, che scivola via con garbo e humour, complice una colonna sonora che passa ironicamente dal classico al moderno senza fratture. Un gioiellino con il gradevole e leggero sapore dei buoni piccoli film d’autore e, nel contempo, quella piacevole sensazione di assistere ad uno spettacolo già tante volte apprezzato e purtuttavia ancora pienamente apprezzabile.

data di pubblicazione:20/12/2017


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“OGNI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ACCADUTI È PURAMENTE CASUALE”: AL VIA L’ESPOSIZIONE CHE UNISCE ARTE E CINEMA

“OGNI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ACCADUTI È PURAMENTE CASUALE”: AL VIA L’ESPOSIZIONE CHE UNISCE ARTE E CINEMA

Giovedì 28 dicembre l’inaugurazione della mostra a cura di Federica Scarpetta, con le illustrazioni dell’artista salernitana Similasti

 

La settima arte vista attraverso le creazioni di Similasti, nome d’arte dell’illustratrice salernitana Simona Pastore. Giovedì 28 dicembre, alle 18.30, presso il Caffè Letterario G. Verdi di Salerno (Piazza Matteo Luciani, 28) verranno presentate le opere dell’artista, nel corso di un incontro moderato dalla giornalista Noemi Sellitto. La mostra, organizzata da Federica Scarpetta, si terrà fino al 4 gennaio 2018.

Otto le pellicole scelte per l’occasione, reinterpretate sotto forma di immagini. Da Le Voyage dans la luneViaggio nella Luna (1902) di Georges Méliès a HerLei (2013) di Spike Jonze, l’esposizione nasce con l’intento di dare nuova vita a personaggi già noti sul grande schermo. Tratti morbidi e corpi elastici caratterizzano i protagonisti delle illustrazioni di Similasti. Quasi tutti rappresentati con braccia lunghe e colli sottili, sembrano fare della loro leggiadria il punto di forza di un equilibrio appartenente ad un’altra dimensione. Una rottura delle regole, questa, che si sostanzia nella destrutturazione della perfezione e nell’abbandono della linea retta, a beneficio di forme curve e di un dinamismo a dir poco straordinario.

Classe ’94, Simona Pastore è nata a Salerno e vive a Milano. Il progetto artistico che porta avanti ha visto la luce sul suo profilo Instagram (@similasti), regolarmente aggiornato con i suoi disegni.

data di pubblicazione:19/12/2017

L’UOMO DEL LABIRINTO di Donato Carrisi – Longanesi, 2017

L’UOMO DEL LABIRINTO di Donato Carrisi – Longanesi, 2017

Conosco Donato Carrisi da molto poco, ho fatto incetta dei suoi libri nel corso dell’ultima primavera/estate; dopo aver preso in mano Il suggeritore  sono rimasta talmente affascinata che non ho potuto far altro che leggere tutto quello che era stato pubblicato: ça va sans dire che ho letto immediatamente anche L’Uomo del labirinto e l’ho trovato veramente geniale!!!

La maestria di Carrisi nel continuo cambiamento di tempo e scena e nell’alternarsi delle storie dei vari personaggi che popolano i suoi libri è veramente ineguagliabile: con questo ultimo libro ci troviamo tra le mani un elegante mix tra un thriller psicologico e un action-thriller.

Nel corso delle 400 pagine ritroviamo personaggi già conosciuti ne Il Suggeritore, alcuni costruiti in modo tale da non poter non riportare alla mente i loro omologhi di La ragazza nella nebbia, una sorta di ammiccamento tra autore e fedele lettore che fa sorridere.

Il romanzo inizia una mattina di febbraio; Samantha Andretti, una ragazzina di tredici anni, si sta recando in classe dove ha appuntamento con il ragazzo più ambito di tutta la scuola. Nel tragitto che la divide dal loro incontro cerca di specchiarsi in ogni vetrina per sincerarsi di essere vestita in modo adeguato per il grande evento; non può quindi lasciarsi sfuggire la possibilità di guardarsi nei vetri a specchio di un minivan parcheggiato sul suo percorso “Non può essere, si disse. E osservò meglio.  Dall’altra parte del vetro, nell’ombra, c’era un coniglio gigante”, il portello del minivan si apre e Samantha viene “trascinata nella tana

È estate, la più torrida a memoria d’uomo e la vita in città si è capovolta, la temperatura è infernale e la popolazione ha invertito il ritmo di vita: si dorme quando il sole è alto nel cielo e si lavora, si va a scuola, si fa qualsiasi attività nel pieno della notte; ed è nel pieno della notte che riemerge Samantha dopo essere scomparsa nel nulla quindici anni prima…

Siamo all’interno dell’ospedale Saint Catherine, Samantha è una “figlia del buio”, una dei bambini rapiti e segregati dai loro carnefici, qualche volta riescono a riemergere dall’abisso delle loro prigioni ma non saranno mai più gli stessi; al suo fianco il dottor Green, un profiler che cercherà di catturare l’aguzzino scavando nella sua memoria.

Sulla strada, a condurre le indagini, ci sarà Bruno Genko, un detective privato che non ha paura di immergersi nel deep web o di percorrere i corridoi del Limbo, la sezione persone scomparse della polizia, per arrivare alla soluzione del caso.

Non è facile parlare di un thriller perché si rischia sempre di dire qualche cosa di troppo, quindi non posso far altro che consigliarne la lettura, è un libro che ti prende dalla prima pagina e non ti molla più!!!

data di pubblicazione:18/12/2017

STAR WARS – GLI ULTIMI JEDI di Rian Johnson, 2017

STAR WARS – GLI ULTIMI JEDI di Rian Johnson, 2017

Due anni dopo il Ritorno della Forza di J.Abrams, ecco oggi il regista Rian Johnson con Gli Ultimi Jedi riprendere la narrazione della Saga di Guerre Stellari. Siamo arrivati ormai all’ottavo episodio del Ciclo ed al secondo di quella che è stata già preannunciata come una terza Trilogia, quella del “Sequel”. Gli Ultimi Jedi, riparte esattamente da dove ci aveva lasciati il precedente film. La giovane Rey (Daisy Ridley) è partita alla ricerca delle sue origini e della Forza, sulle tracce dell’ultimo dei Jedi, Luke Skywalker (Mark Hamill). Lo ritrova in un’isola deserta di uno sperduto pianeta dove si era autoesiliato, deluso di sé e del mondo. Non senza contrasti gli chiede di insegnarle a trovare e governare la Forza e di tornare a sostenere la Resistenza che sta cedendo all’ormai straripante offensiva del Primo Ordine. Nel frattempo, nell’ultimo incrociatore spaziale rimasto, la principessa Leila Organa ( l’indimenticabile Carrie Fisher) e le  poche truppe ribelli superstiti, sono sotto l’attacco dell’armata del Primo Ordine guidata da Snoke (Andy Serker) e da Kylo Ben (Adam Driver),  quest’ultimo sempre più tormentato interiormente fra il Bene ed il Male, fra Luce e Oscurità. Le forze della Resistenza prossime ormai a soccombere definitivamente, cercano di salvare il salvabile con audaci ed irruente azioni ed iniziative del giovane pilota Poe (Oscar Isaac) e dell’ex assaltatore Finn (John Boyega).

 

Da quel Maggio 1977 quando usciva sugli schermi Star Wars di G. Lucas, sono passati quaranta anni. Quattro generazioni di spettatori si sono succedute ammirando e godendo la Saga di Guerre  Stellari. Cosa sarebbe la Saga se anche le generazioni di eroi e personaggi che ci hanno accompagnato finora non si avviassero a passare il testimone a nuovi eroi e nuovi personaggi? Scritto e diretto dal giovane e talentuoso regista R. Johnson (autore di Looper nel 2012), Gli Ultimi Jedi introduce nell’universo di Star Wars la domanda:”Si deve restare nell’ombra dorata del Passato, o, usare questo Passato per evolversi?” La Saga deve restare nel Passato o evolversi? Se i Miti e gli Eroi sono alla base dell’Universo Spaziale, questi stessi Miti e Leggende sono, per la prima volta, messi al centro di questo ottavo episodio. Nel film infatti si confrontano i vecchi personaggi, divenuti ormai Eroi, Miti e Leggende viventi, con i nuovi giovani protagonisti, creando e rinnovando così le basi per una nuova Mitologia che guarda verso il Futuro, mantenendo però tutta intatta la fascinazione della precedente. Il regista fa infatti una specie di inventario della Saga, umanizza le glorie e le storie dei personaggi leggendari del Passato, esplora i loro segreti, i loro errori ed i loro dubbi. Questo tuffo nell’umanità dei vecchi eroi, rende agevole il passaggio del potere dalla generazione dei protagonisti che si sono succeduti dal 1977, a quella dei nuovi, di oggi e delle prossime Trilogie che già si intravvedono, e, non ultimo, delle nuove generazioni di spettatori. Un Futuro in cui, fra personaggi liberi dei pesi del passato, si preannunciano anche varie protagoniste femminili in ruoli di sicuro sviluppo e spessore per l’intrepidità ed energia delle eroine.

L’inizio de Gli Ultimi Jedi è folgorante. Immediato e subito coinvolgente fin dalle primissime immagini, proietta inaspettatamente lo spettatore in una battaglia spaziale ed in un susseguirsi di immagini mozzafiato. Johnson, che nella pur breve carriera si è già dimostrato un abile esteta dell’immagine, conferma in questo film la sua capacità di miscelare con equilibrio riprese reali con effetti speciali sempre più stupefacenti, di giocare con un’inventiva senza fine sapendo, con raffinatezza e gusto, inserire alcuni effetti retrò in certe scene, divertendosi anche a citare, per la gioia dei fans, grandi momenti dei film precedenti. Non mancano poi virtuosismi che faranno storia, come la velocità della luce delle astronavi, e, soprattutto, il “quadro” della battaglia sul deserto di sale che lascia scie di rosso sangue. Tecnicamente il regista gioca, come da suo stile, con riprese dal basso, inquadrature marcate, moltitudine di primi e primissimi piani tutti funzionali alla narrazione ed ai personaggi. La messa in scena è del tutto innovativa, si vedano per esempio i campi ed i controcampi separati da milioni di km.

Colonna portante del film sono le performances dei “vecchi” M. Hamil e C. Fisher, deceduta al termine delle sue riprese. Attorno a loro, il forse eccessivo stuolo di giovani futuri protagonisti fra cui emergono per intensità recitativa D. Ridley e A. Driver.  In due incisivi camei ammiriamo anche Laura Dern e Benicio del Toro, con la speranza di poterli rivedere anche nelle prossime puntate. Dunque, sicuramente un film bello, toccante e divertente, un grande spettacolo, probabilmente uno fra i migliori del Ciclo, dopo ovviamente, quelli della trilogia iniziale. Gli unici difetti possono essere trovati nella prima mezz’ora in cui il regista appare ancora incerto sul giusto approccio ed anche in alcuni eccessi di umorismo che, pur nella tradizione, non appaiono ancora ben controllati. La complessità della vicenda impone poi l’avvio di due trame narrative parallele, quasi due film, che si muovono però con scarti di tonalità e ritmo che sembrano inizialmente rallentare e destabilizzare l’equilibrio centrale del film. Difetti tutti che ben presto il regista riesce a ricomporre magistralmente definendo il giusto ritmo, affermando così la sua bravura e la vitalità della sua direzione. Johnson firma un vero film autoriale ed esce a testa alta dalla sfida con il Mito della Saga evitando di esserne schiacciato, dandole, al contrario, nuova energia e futuro. Le due ore e mezza di spettacolo intenso ed appassionato scorrono in un attimo, lasciando lo spettatore, da una parte, rammaricato che la storia sia già terminata e, dall’altra, già in attesa del prossimo appuntamento nel 2019.

data di pubblicazione:16/12/2017


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IL MALATO IMMAGINARIO, regia di Andrée Ruth Shammah

IL MALATO IMMAGINARIO, regia di Andrée Ruth Shammah

(Teatro Eliseo – Roma, 28 novembre/17 dicembre 2017)

Gioele Dix al secolo alias Mister Ottolenghi sul palcoscenico dell’Eliseo ripresentando il Malato Immaginario (ultima versione precedente 2014) per la firmatissima regia di Andrèe Ruth Shammah non pensa minimamente di ricalcare la recitazione smorfie e sguardi storti di Alberto Sordi in una memorabile versione cinematografica.

All’Eliseo non si ruba e non si copia come ha già mostrato Dapporto “rischiando” ne Un Borghese Piccolo Piccolo dove Sordi ancora impera. Ma non è un one man show perché lo spettacolo presenta dieci attori (un lusso di questi tempi) debitamente affiatati con entrate in scena previste anche nel solo secondo tempo. Il primo in realtà è tutto suo, dell’automobilista fin troppo nervoso, con una tipizzazione efficace. Si può scrivere che Dix prenda in mano lo spettacolo e poi lo affidi ai comprimari che reggono bene la scena in una evocazione senza tempo ma dove l’uso di un’affabulazione moderna e di termini rimanda alla contemporaneità. Alla ripresa dello spettacolo c’è più Molière nell’autosfottò anche di se stesso dopo una lunga tirata (sfrondabile) sulla filosofia della medicina, la chiave di volta per il progressivo diverso parere di Argan sui propri malanni fin troppo immaginari. E’ un ipocondriaco irascibile del nostro tempo quello che viene rappresentato. Molto diverso da un italiano alle prese quotidianamente con gli ansiolitici? Diremo di no. Così in un profluvio di salassi, clisteri, medicine e piccole lezioni sanitarie prende il via e si dipana la farsa cara al teatrante francese che, ironia della sorte, morì in scena e di cui si sfrutta la pregiata traduzione di Cesare Garboli. Il sottofondo è una vicenda sentimentale fortunatamente e naturalmente risolta con un colpo di scena provocato ad arte. Particolarmente brava Anna La Rosa che spicca in un contesto affiatato e sensibilmente già rodato dalla lunga tournèe.

data di pubblicazione:16/12/2017


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GODLESS di Scott Frank – Mini serie su NETFLIX

GODLESS di Scott Frank – Mini serie su NETFLIX

So che qualcuno potrebbe storcere il naso riguardo alla scelta di recensire una serie televisiva e per di più prodotta da Netflix … lo so il cinema è un’altra cosa! Ma Godless, la mini serie ideata e scritta da Scott Frank che è stato sceneggiatore di film quali Malice, Get Shorty, Out of Sight, Minority Report, The Wolverine e Logan, per citare i più conosciuti, ha troppi meriti per non essere inserita fra i piccoli gioielli dell’anno. Intanto la produzione è a cura di Steven Soderbergh (Sex, Lies, and Videotape), a garanzia di stile e dialoghi di ottimo livello. Altro punto di forza è stato riuscire a rivitalizzare un genere, il western, che, seppure non è mai morto del tutto, ha perso negli anni il suo primogenio smalto. In Godless, come avrebbe detto il grande Tullio Kezich, c’è tutto, un concentrato di John Ford, la violenza di Sergio Leone e Sam Peckinpah, la nostalgia di Mann.

Naturalmente tutto questo non avrebbe senso se si trattasse solo di un esercizio ben fatto sul genere, va sottolineato, invece, che il tocco di Soderbergh si sente nel potente connubio fra storia (donne dure che difendono il loro paese oramai senza uomini) e dialoghi, fra racconto, sempre serrato e paesaggi, non senza trascurare (merito della narrazione seriale) i risvolti psicologici dei protagonisti, tutti interpretati da magnifici attori (su tutti Jeff Daniels) e attrici (la magnifica Michelle Dockery di Downton Abbey). Accennavo ai dialoghi sempre asciutti e mai banali ma tutto in questa rappresentazione del bene e del male riuscirà ad emozionarvi.

Con l’occasione segnalo a quanti hanno a cuore il cinema, la scomparsa di Vito Attolini, per anni critico della Gazzetta del Mezzogiono, autore di innumerevoli testi sul cinema, grande appassionato e splendida persona di cui sentiremo certamente la mancanza.

data di pubblicazione:13/12/2017

IL RISTORANTE DELL’AMORE RITROVATO di Ito Ogawa – Neri Pozza, 2010

IL RISTORANTE DELL’AMORE RITROVATO di Ito Ogawa – Neri Pozza, 2010

Molto incuriosita dall’ultimo pubblicato La locanda degli amori diversi di Ito Ogowa, autrice che non conosco, ho iniziato ad avvicinarmi leggendo il primo libro pubblicato da Neri Pozza: Il ristorante dell’amore ritrovato.

Protagonista è Ringo, una sous chef che lavora in un ristorante turco di Tokyo; una sera rientrando a casa la trova totalmente vuota, il suo fidanzato è andato via portando con sé tutto: vestiti, mobili, gli utensili da cucina di Ringo, alcuni dei quali ereditati dalla adorata nonna, nonché tutti i suoi risparmi…

Il trauma è tale che Ringo ammutolisce, da quel momento comunicherà solo per iscritto attraverso un blocco note, l’unica cosa che riesce a fare è dirigersi alla fermata dell’autobus che l’aveva portata, quindicenne, dalla sua casa avita a Tokyo a casa della nonna e che ora, con percorso contrario, la riporterà a casa della madre nel suo paese natio.

Il rapporto con la madre è molto complicato, Ringo dovrà ingoiare il suo orgoglio e chiedere alla madre di poter affittare l’annesso della sua casa dove ricavare il suo ristorante per poter ricominciare; il ristorante, “Il Lumachino”, avrà un unico tavolo dove la chef accoglierà i commensali dopo aver parlato con loro e identificato il menù di cui hanno bisogno.

Le descrizioni dei cibi e degli ingredienti, del loro colore, dell’intensità dei sapori e dei profumi che sprigionano sono così perfette che sembra quasi di essere in cucina con Ringo, la delicatezza e la deferenza con cui la chef tratta tutti gli ingredienti è un vero tributo a ogni elemento, animale o vegetale, utilizzato; le storie dei clienti che si avvicendano nel locale sono indispensabili per rendere più concreta la figura di Ringo, definiscono meglio il suo carattere e i suoi pensieri, così come i scontri che ha con Ruriko, la madre.

La Ogowa ha creato un tourbillon di personaggi che ruotano intorno alla chef e che insieme alle riflessioni e ai sentimenti di Ringo le permetteranno di affrontare il tema dell’amore, della vecchiaia, dell’abbandono, della malattia e, soprattutto, del rapporto madre-figlia. Un bellissimo romanzo che ci porta nel Giappone del terzo millennio ma sempre comunque intriso delle sue tradizioni e delle sue memorie.

data di pubblicazione: 11/12/2017

SMETTO QUANDO VOGLIO – AD HONOREM di Sydney Sibilia, 2017

SMETTO QUANDO VOGLIO – AD HONOREM di Sydney Sibilia, 2017

La famosa banda dei ricercatori è al cinema con la sua ultima impresa. Un nuovo nemico ne ostacolerà il cammino, mettendo a dura prova le migliori menti in circolazione. 

 

In una società intrisa di serialità, mettere un punto non è mai facile. Farlo bene, poi, è ancora più complicato. Eppure, nell’ultimo capitolo della trilogia di Smetto quando voglio il regista salernitano Sydney Sibilia è riuscito a chiudere il cerchio con estrema cura dei dettagli, senza correre il rischio di cadere in storture o imprecisioni di ogni sorta. Una qualità da sottolineare, segno evidente di un grande lavoro di scrittura.

Smetto quando voglio – Ad honorem, questo il titolo della pellicola conclusiva, ha fatto il suo ingresso nelle sale lo scorso 30 novembre, a meno di un anno di distanza dalla precedente Smetto quando voglioMasterclass. Nel finale di quest’ultima avevamo lasciato i nostri ricercatori dietro le sbarre, stavolta perché traditi dall’ispettrice Paola Coletti. Ed è proprio dal carcere che le migliori menti in circolazione partiranno per compiere la loro avventura definitiva, la più importante di una carriera da insoliti criminali.

Guidati da un’intuizione del neurobiologo Pietro Zinni, il chimico Alberto, i latinisti Mattia e Giorgio, l’antropologo Andrea, l’archeologo Arturo e l’economista Bartolomeo, insieme alle new entry della seconda parte, Giulio e Lucio, si uniranno al terribile “Er Murena” per sventare un attentato terroristico. Mente del piano è Walter Mercurio, interpretato da un magnetico Luigi Lo Cascio, già incontrato in passato nell’adrenalinica scena dell’attacco al treno. Come nella più classica delle storie che abbia come protagonisti dei supereroi, lui è il villain da abbattere con tutti i poteri che si possiedono. E allora quali, se non l’astuzia, l’ingegno e il sapere appreso in tanti anni di studio?

Se con Masterclass il pubblico aveva soprattutto riso, guardando Ad honoremè innegabile che gli sia dato più spazio per riflettere, sulla precarietà e l’inefficienza di certi sistemi, sull’ingiustizia e sulla vita nel suo complesso. In un mix di generi che denota uno studio attento dell’arte cinematografica nella sua essenza, il risultato ottenuto è un’esplosione di creatività più unica che rara nel panorama attuale.

Inutile dire che gli impavidi accademici ci mancheranno tutti, ciascuno diverso dall’altro per specializzazione e caratteristiche individuali. Chissà cosa faranno adesso. Ma tranquilli: parafrasando una frase cruciale del film, di sicuro “si inventeranno qualcosa”.

data di pubblicazione:07/12/2017


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SUBURBICON di George Clooney, 2017

SUBURBICON di George Clooney, 2017

“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?” In un’America che non è disposta a fare i conti con il proprio passato e le proprie colpe, fiorisce la cittadina di Suburbicon, popolata da oneste e benpensanti famiglie tradizionali che si oppongono tenacemente all’arrivo di tre afroamericani. Proprio nella villetta accanto a quella abitata dai “negri” si consuma una tragedia familiare, ma il frastuono delle proteste e dei martelli che costruiscono muri per isolare gli invasori è così assordante da offuscare tutto il resto.

 Suburbicon è la città ideale, all’interno della cui perfezione da giornale patinato ciascun americano può realizzare la propria vita da sogno. L’arrivo dei Meyers, una famiglia di afroamericani, turba l’apparente tranquillità della cittadina popolata da oneste famiglie tradizionali, suscitando la strenua opposizione dei comitati di quartiere: i “negri” saranno ben accetti, ma solo quando si mostreranno ben educati e pronti a una convivenza civile.

Nella villetta accanto a quella degli “stranieri” vive la famiglia Lodge: Gardner (Matt Damon), Rose (Julianne Moore) e il piccolo Nicky (l’impeccabile Noah Jupe). Anche zia Margaret (sempre Julianne Moore), gemella di Rose, è solita frequentare casa Lodge. Durante una rapina in casa, Rose resta uccisa. Neppure Suburbicon (il nome, del resto, è tutto un programma) può considerarsi dunque immune dagli episodi di criminalità che scandiscono la vita del “mondo reale”.

Il fuoco del film si sposta a questo punto sui panni sporchi che si lavano nella casa dei bianchi, entra nella casa di Lodge, rendendo evidente che il vero dramma è ben lontano dalle proteste sempre più violente di fronte alla casa dei Meyers. Tutto si svolge sotto lo sguardo di Nicky, di uno di quei bambini che ci guardano dai tempi di De Sica.

Il sesto film che vede George Clooney dietro alla macchina da presa ha una scrittura che risente chiaramente dell’impronta dei fratelli Cohen: un umorismo dissacrante, che ridicolizza i cattivi senza però creare con loro empatia alcuna. Suburbicon è il frutto di un’idea che risale agli anni Ottanta, ma che, in maniera per certi aspetti sorprendente, racconta una storia più che mai attuale. Nell’America di Donald Trump, che si interroga sull’opportunità di rimuovere le statue dei generali sudisti, che ancora non ha fatto i conti con la memoria e che, forse anche per questo, non riesce a intravedere un futuro sufficientemente solido, si continua ad additare l’altro, lo straniero, il diverso, come la causa di ogni male della società, trincerandosi dietro una cortina di ipocrisia tanto spessa quanto fragile. La riflessione sulla questione razziale, che apre e chiude il film, rappresenta indubbiamente il tema centrale di Suburbicon, anche se la storia si concentra poi sulla rocambolesca caduta della “tradizionale famiglia bianca”. Le due storie parallele si congiungono grazie ai due bambini, il bianco e il nero, capaci di giocare insieme e, forse, di infondere al film un anelito di speranza.

La scrittura e la regia si rivelano ottimamente sincronizzate. Quanto al cast, non brilla particolarmente la prova di Matt Damon; più interessante è il doppio ruolo cui è chiamata Julianne Moore e prezioso, come al solito, l’apporto di Oscar Isaac, protagonista di alcune delle sequenze in cui la penna di Cohen mostra il suo tratto più cristallino.

Fino a quando un uomo bianco potrà attraversare in bicicletta, di notte, un quartiere “per bene”, perché tanto ci sarà sempre un “negro” cui dare la colpa, osserva Matt Damon in conferenza stampa, l’America avrà ben poche possibilità di costruire il proprio futuro. George Clooney, senza sottrarsi alle (inevitabili) domande sulla politica di Trump, risponde ai giornalisti che potrebbe essere divertente candidarsi come nuovo Presidente americano. In attesa delle presidenziali, Suburbicon può considerarsi un valido programma elettorale, politicamente interessante e cinematograficamente ben confezionato.

data di pubblicazione: 06/12/2017


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L’INSULTO di Ziad Doueiri, 2017

L’INSULTO di Ziad Doueiri, 2017

Un banale alterco diviene un caso mediatico di rilevanza nazionale. Un libanese cristiano e un palestinese si trovano contrapposti in un’aula di Tribunale, che si trasforma anche nel palcoscenico di uno dei capitoli più complessi della storia contemporanea. 

The Insult di Ziad Doueniri, in concorso a Venezia 74, sorprende con un legal drama made in Libano che, pur prendendo a prestito alcuni stilemi di un registro narrativo tradizionalmente appannaggio del made in USA, risulta un’opera nel complesso originale, tanto per la questione politico-culturale che fa da sfondo all’intera vicenda quanto per l’esito della battaglia legale che costituisce il cuore del film.

Toni (Adel Karam), libanese militante del Partito Cristiano, discute con il palestinese Yasser (Kamle El Basha, che con questa interpretazione si è aggiudicato la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile all’ultima edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia) per una grondaia “fuori norma”. Yasser, di fronte alla tracotanza mostrata da Toni e malgrado si trovi in un quartiere di Beirut socialmente e politicamente ostile ai palestinesi, insulta il suo interlocutore. Toni decide di procedere per vie legali, intentando una causa di risarcimento nei confronti di Yasser. Le leggi degli uomini, tuttavia, non sembrano in grado di risolvere una situazione così complessa che, come avviata lungo il crinale di un pendio scivoloso, degenera ulteriormente. Quello che sembrerebbe un banale alterco quotidiano si trasforma rapidamente in un caso mediatico di rilevanza nazionale, in un Paese divenuto negli ultimi decenni un crogiolo di religioni, culture, ideologie: in un Paese multirazziale che fatica a trasformarsi in un Paese multiculturale.

Allo scontro tra culture si aggiunge anche quello tra generazioni, visto che gli avvocati difensori sono un vecchio fedele alla causa cristiana (Camille Salameh) e una giovane (Diamand Bou Abboud), convinta sostenitrice dei diritti dei palestinesi. Si scoprirà poi che i due sono molto più che semplici colleghi.

I temi con i quali il processo è chiamato a confrontarsi sono quelli con cui il diritto (specie penale) è chiamato frequentemente a fare i conti, soprattutto nei momenti di più complessa e violenta transizione storica. Fanno più male le aggressioni fisiche o quelle verbali? Si può essere condannati per un reato di opinione oppure ognuno ha la libertà di pensare e dire tutto quello che desidera? La dignità del singolo, anche se l’offesa non sia arrecata pubblicamente, è suscettibile di una tutela penale? Si può reagire, secondo il codice penale libanese, anche oltre i limiti della legittima difesa, se il soggetto si trovi in uno “stato emotivo compromesso” che ha compromesso la sua lucidità. Ma la battaglia legale senza esclusione di colpi, portata a conseguenze che né Toni né Yasser avrebbero immaginato e sperato, dimostrerà che non sempre i ruoli di “vittima” e di “aggressore” sono così chiaramente delineati. Se la Presidente del collegio giudicante non leggesse a voce alta il “verdetto” della Corte d’appello, le sole immagini non lascerebbero agevolmente intuire quale dei due contendenti sia riuscito ad avere la meglio.

Ziad Doueiri, come lo stesso regista spiega in conferenza stampa, proviene da una famiglia di avvocati e di giudici: è quindi abituato non solo al linguaggio legale, ma anche all’idea che l’unico strumento di affermazione dei diritti (umani) siano le leggi di uno Stato. Ammette di aver avuto tra i suoi modelli Il verdetto di Sidney Lumet, ma, come anticipato, il risultato di The Insult, più concentrato sulla storia che sui movimenti di macchina ad effetto, è per molti aspetti sorprendente, andando ben oltre le pastoie imposte dal recinto del film di genere.

data di pubblicazione: 06/12/2017


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