da Antonio Jacolina | Gen 19, 2018
Nella Francia occupata dai Tedeschi durante la seconda guerra mondiale, due giovani fratelli parigini di religione ebraica, il quattordicenne Maurice e l’ancora bambino Joseph, vengono scientemente e dolorosamente lasciati a loro stessi da parte dei genitori per meglio consentire loro di poter nascondere la propria identità e meglio sfuggire alle retate di Ebrei operate dai Nazisti. I due fratelli, soggetti ad ogni istante ad essere arrestati, fanno prova d’una incredibile dose di malizia, coraggio ed ingegnosità lungo il loro avventuroso cammino verso il sud della Francia, verso la “Zona Libera”, per potersi ricongiungere a Nizza al resto della famiglia. Il “sacchetto di biglie” da cui il giovanissimo Joseph non si separa mai è il piccolo talismano che ricorda i bei momenti spensierati, e dà forza per superare le paure e le difficoltà che lui ed il fratello incontrano.
Il giovane e poliedrico Christian Duguay, regista franco-canadese molto attivo nel campo delle miniserie televisive, dopo il suo grande successo cinematografico di Belle e Sebastien l’avventura continua (2015), sequel del primo Belle e Sebastien del 2013, conferma, con questo suo ultimo film, di cui è anche direttore della fotografia, tutta la sua particolare sensibilità verso il mondo adolescenziale e la sua abilità nel dirigere i bambini.
Un sacchetto di biglie è il secondo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo autobiografico di J. JOFFÒ, un libro di formazione giovanile divenuto in Francia un classico per ragazzi. Duguay, con una regia di lungo respiro, una buona tecnica, belle inquadrature, buon ritmo ed una fotografia interessante, sa governare con polso sicuro la storia, mantenendosi in equilibrio fra dramma e leggerezza, senza cadere nel sentimentalismo, riuscendo abilmente ad evitare i rischi che, stante il soggetto, potevano facilmente eccedere o su un lato o sull’altro. Malgrado la crudeltà dei momenti storici in cui la vicenda è ambientata, il film non cede mai alla tristezza.
Certo, l’emozione di fondo è presente, ma, il regista evita di cadere nei clichès , anzi, al contrario, dona sapore e tensione continua a tutta la narrazione. Intelligentemente sceglie di narrare la storia dal punto di vista e attraverso gli occhi e la prospettiva dei due ragazzi, raccontandoci così il loro passaggio anzitempo dall’infanzia alla consapevolezza dell’età adulta. Perfetta è la ricostruzione dei contesti storici ambientati nella Parigi e nella Nizza degli anni ’40. Eccellente è soprattutto la scelta degli attori, un casting senza false note. I due giovani interpreti Batyste Fleural e Dorien Leclech sono formidabili per la loro spontaneità recitativa e sembrano crescere e maturarsi come i loro personaggi, man mano che procedono nella loro fuga verso la Libertà. Accanto a loro, due star del cinema francese: Patrick Bruel che con talento e sincerità interpreta il padre, e l’intensa Elsa Zylberstein nel toccante ruolo della mamma. Attorno a loro anche uno stuolo di buoni attori di secondo piano che ci rappresentano la varia umanità che i ragazzi incrociano nella fuga, un’ umanità fatta di egoisti, di collaborazionisti, di tedeschi e di persone altruiste o generose.
Un film gradevole, una bella storia di famiglia, tenera ed anche maliziosa, un quadro familiare di notevole freschezza che traspira autenticità. Il tema ed il contesto storico sono un soggetto molto ricorrente nel cinema francese che però è quasi sempre trattato con garbo, senso della misura e delicatezza, basta ripensare ad Au revoir les enfants di Louis Malle del 1987 o, al più recente Monsieur Batignole del 2002 .
Va fortemente sottolineato che Un sacchetto di biglie non è affatto un film destinato e limitato al solo pubblico francese, tutt’altro, è invece un film che si rivolge a tutti, giovani ed adulti,
di qualsiasi nazionalità, anche a noi Italiani, perché è un film che tocca e denuncia temi universali, senza tempo ed anche molto attuali. La forza dei legami, l’infanzia e l’adolescenza rubate, la solidarietà, la diversità, la fuga, le famiglie separate, la debolezza della natura umana, e… nello sfondo, ovviamente, anche le discriminazioni ed il razzismo. Il tutto però senza alcuna saccente o supponente pedanteria.
Dunque, un film di genere, ben riuscito, divertente e toccante che ci ricorda, ancora una volta, che il piccolo buon cinema d’autore, senza la pretesa di dover necessariamente essere un capolavoro, pur restando un prodotto “commerciale”, può e sa parlarci anche di temi drammatici, mantenendo gusto e stile. Quel gusto e quello stile che nello scenario dei film attualmente in circolazione, quali che siano i generi, molto spesso non si riesce a ritrovare.
data di pubblicazione:19/01/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 18, 2018
(Teatro Cometa Off – Roma, 15/21 gennaio 2018)
Alda Merini è mito, è la quintessenza della poesia in Italia. È donna che travalica i confini nazionali e ora si incarna anche su una scena teatrale grazie allo spettacolo in scena alla Cometa Off intitolato Dio arriverà all’alba per il testo e la regia di Antonio Nobili e la sinergia intelligente con altre componenti che rispondono ai nomi di Antonella Petrone (interprete), Paolo Marzo (colonna sonora) e Patrizia Masi, tramite come conoscente della poetessa. Non si tratta di un reading, non si tratta di un’agiografia letteraria ma di un racconto teatrale vero e proprio. Un professore universitario telefona alla sua amica Alda Merini presentandole un giovane talentuoso che si sta occupando di ricerche sulla poesia contemporanea e ha bisogno di testimonianze di prima mano. L’impatto tra i due fa nascere dialoghi, contraddizioni, scoperte e cadute facendoli addentrare in un meccanismo di riconoscimento e/o spaesamento, assolutamente proficuo per la resa sul palcoscenico. Inevitabilmente emerge il conflittuale vissuto della Merini, un’esistenza in cui dramma e ironia si fondono in maniera incandescente. L’operazione di Nobili è multimediale perché, contemporaneamente, è uscito un libro dal titolo omologo a quello dello spettacolo. Un lavoro di scandaglio profondo, rispettosamente didattico ma non assolutamente didascalico. E la poetessa non è solo in scena perché accompagnata da un ricco contorno di deuteroagonisti che ne precisano intenzione e carattere in un raffinato gioco teatrale. Gioventù e vecchiaia, i due aspetti anagrafici della vita, a volte collidono, a volte si scontrano in un climax di forte impatto emozionale.
data di pubblicazione:18/01/2018
Il nostro voto:
da Antonella Massaro | Gen 18, 2018
L’amore di fronte alla sofferenza e alla vecchiaia: Ella e John, in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte, a bordo del fedele Leisure Seeker per continuare a scrivere insieme il romanzo della loro vita.
Ella e John (Helen Mirren e Donald Sutherland) spariscono dalla casa di Wellsley (Massachusetts) a bordo del fedele Leisure Seeker (letteralmente “cercatore di svago”), il camper che li ha guidati attraverso le vacanze della gioventù. È un caravan malandato, spossato dall’implacabile scorrere del tempo, ma ancora desideroso di divorare la Route 1 della East Coast. La destinazione, del resto, vale lo sforzo: Key West, casa di Ernest Hemingway, lo scrittore che John, professore di inglese, ama in maniera incondizionata e viscerale.
La mente di John non è più lucida come una volta: dimentica nomi e persone, sprofonda spesso nel passato confondendolo con il presente, “tornando” da sua moglie solo in rari e meravigliosi momenti regalando solo in rari momenti ad Ella il suo sorriso si illumina all’improvviso. Ella è malata di cancro: le invasive e dolorose terapie cui dovrebbe sottoporsi possono solo rallentare il decorso di una malattia giunta a uno stadio troppo avanzato perché possa essere sconfitta.
Ella decide di scegliere. Si è liberi (anche liberi di scegliere) quando non si ha nulla da perdere. Sceglie allora di esaudire il desiderio di John e di guidarlo fino alla residenza di Hemingway, senza permettere a nessuno, neppure ai suoi figli, di impedire che Leisure Seeker si metta in moto per una nuova avventura. Il risultato è un road movie che richiama inevitabilmente alla mente La pazza gioia, ma il primo film americano di Paolo Virzì, presentato alla 74. Mostra d’arte cinematografica di Venezia, è ancora più intimo, intenso, commosso e commovente. Il viaggio, come al solito, diviene lo strumento che consente ai due protagonisti di guardare negli occhi la vita trascorsa (insieme), bloccato in quelle diapositive in bianco e nero che Ella proietta la sera per esercitare la memoria di John. Helen Mirren e Donald Sutherland sono semplicemente strepitosi. La prima restituisce pienamente la forza e la fragilità di una donna decisa a non lasciare che la malattia annienti anche la sua dignità, il secondo indossando la maschera dell’alter ego entro cui la demenza imprigiona la mente e il volto di John. Il tutto tenuto insieme da un amore imperfetto eppure inossidabile tra un uomo e una donna che, senza retorica alcuna, sono diventati nel tempo “una cosa sola”. Quando Ella, che pure sembrerebbe il lato “forte” della coppia”, si trova in difficoltà, il suo eroe John accorre a salvarla, come un leone, come quei leoni tanto cari al pescatore de Il vecchio e il mare.
Al talento del regista e a quello dei protagonisti si aggiunge la gradevole perfezione di una sceneggiatura in cui tutto sembra accadere al punto giusto e che accompagna lo spettatore attraverso un crescendo narrativo emotivamente travolgente e che, sul finale, restituisce l’impressione di un’armonica chiusura del cerchio. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Michael Zadoorian e la sceneggiatura è firmata, oltre che da Paolo Virzì, da Francesca Archibugi, Stephen Amidon e Francesca Piccolo.
data di pubblicazione: 18/01/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 17, 2018
(Piccolo Eliseo – Roma, 10/28 gennaio 2018)
Gli spettacoli della Carrozzeria Orfeo sono un delirio organizzato, funzionale a rappresentare lo squilibrio della vita quotidiana. La lente è una congrega di emarginati, espulsi dalla società che conta (“la recinzione”). C’è l’ex prete deluso dalla Chiesa, il sordomuto con l’aggravante politicamente scorretta dell’omosessualità, una donna di mezz’età che cerca di sublimare il desiderio di maternità con un musulmano ormai totalmente convertito ai riti del capitalismo made in Italy. In più un borghese in via di espulsione dalla classe media che è la cartina di tornasole per misurare il disagio di chi ha avuto e si confronta con chi non ha più. Due ore di spettacolo filante, pregno di battute e di umori malinconici con il leitmotiv di una storia onirica che è anche un giallo con varie possibilità di interpretazione. Certo è che questo gruppo è fortemente emergente nella società teatrale. Il Thanks for Vaselina di loro recente produzione diventerà un film diretto da Gabriele Di Luca, prodotto da Casanova multimedia ovvero da Luca Barbareschi che ha puntato forte su questo collettivo. Ironia, sarcasmo pungente, sprezzatura della società attuale nel melting pot corrosivo per una platea visibilmente soddisfatta e multigenerazionale. Il Piccolo si conferma piccolo e intenso laboratorio sperimentale. Puntuale nell’assecondare la grevità dell’assunto una scenografia fatta di fatiscenti roulotte, di bare trafugate, di piccoli e grandi squallori quotidiani. E la nudità della povertà presentata senza falsa coscienza ma in tutta la sua disperante irreversibile condizione. La comunità in scena è lo specchio di un grande pezzo di società italiana.
data di pubblicazione:17/01/2018
Il nostro voto:
da T. Pica | Gen 16, 2018
Il premio Oscar Gabriele Salvatores, rotto il ghiaccio con Il ragazzo invisibile nel delicato e per nulla scontato mondo del genere fantasy e dei supereroi, ci prende gusto e ci regala il secondo capitolo delle avventure del ragazzo “speciale” di Trieste: Michele (Ludovico Girardello). Il ragazzo invisibile seconda generazione è strettamente legato al primo episodio, sebbene racconti un momento cruciale del ragazzo speciale dopo ben tre anni dall’avventurosa scoperta del suo super potere e dall’impresa della sventata strage di un sottomarino.
Il protagonista, oggi sedicenne, è allo sbando. Michele hainfatti perso improvvisamente la madre adottiva (Valeria Golino) in un incidente stradale. Smarrito nel dolore del lutto, si trascina inerme, inquieto e afflitto dai già noti problemi di amore non corrisposto con la compagna di classe Stella. In questo momento di apparente calma piatta ecco che irrompono nella sua vita dalla Russia la madre biologica Yelena (Ksenia Rappoport) e, dal Marocco, una sorella che non sapeva di avere e che invece era stata trattata in salvo insieme a lui dal padre Andreij (in questo secondo episodio interpretato da Ivan Franek). Anche la sorella, Natasha (Galatéa Bellugi), è una ragazza “speciale” di seconda generazione dotata di due super poteri, come Michele: se il ragazzo speciale ha ereditato il potere dell’invisibilità dalla madre Yelena – oltre che un non ancora ben chiaro, e per questo talvolta improvviso e maldestro, potere di generare onde d’urto potentissime – Natasha ha il potere di accendere fuochi ed innescare incendi ed ha ereditato dal padre quello di sentire i pensieri delle persone. Da questo incontro apparentemente mosso dalla amorosa ricerca dei propri figli – e apparentemente provvidenziale e casuale dopo la morte della madre di Michele -, presto sarà chiaro il vero progetto egoista di megalomane vendetta distruttiva del mondo dei cd. “normali” architettato senza scrupoli dalla madre Yelena, la quale è pronta a tutto, anche a far del male ai due figli riuniti a sé dopo ben 16 anni. Chiaro il messaggio di Salvatores: attraverso la storia dei supereroi, punta la luce sul mondo dei giovani, sulle loro fragilità, le emozioni e i problemi degli adolescenti, sul loro rapporto con i genitori, specialmente con quei genitori che alimentano “il lato oscuro”. Emerge, sullo sfondo, anche la questione genitori biologici (dna) e genitori adottivi e su cosa significhi realmente “essere genitore”. Gabriele Salvatores regala un secondo capitolo, di un racconto che chissà se diverrà una trilogia, dove parallelamente alla crescita anagrafica e interiore del protagonista assistiamo a una crescita, in termini di maggiore consapevolezza e scaltrezza, del regista alle prese con un genere che nasce dai fumetti e si rivolge principalmente ai giovani, ma non solo. Il ragazzo invisibile seconda generazione è un film dalla narrazione immediata, con rapidi e semplici flashback; c’è meno spazio per la vita reale del protagonista e dei suoi amici, e dunque per il romanticismo e gli ambienti aperti, per lasciare il posto all’azione, effetti speciali e a scene decisamente più crude e dure rispetto al primo capitolo. Rispetto a Il ragazzo invisibile prima generazione la scenografia si incupisce in ambienti chiusi e decadenti: la lotta, appunto, con il lato oscuro che è dentro ognuno di noi, fin dalla nascita. E’ invece rimasta immutata la ricercatezza dell’eccellente scelta dei brani che compongono l‘eclettica colonna sonora. La prova del fuoco dei ragazzi speciali seconda generazione, Michele e Natasha, calamita lo spettatore sul grande schermo senza fiato, perché ormai Salvatores è diventato maestro dei colpi di scena e del “niente è come sembra”. Da vedere!
data di pubblicazione:16/01/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Gen 14, 2018
In scena al Teatro Quirino di Roma il capolavoro letterario di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani,best seller conosciuto in tutto il mondo con oltre 110 milioni di copie vendute.
(Teatro Quirino – Roma, 9/21 gennaio 2018)
Certamente il romanzo più cupo della scrittrice probabilmente a causa proprio degli echi della guerra che di lì a poco si sarebbero fatti sentire che rivela il lato nascosto di una classe borghese e aristocratica, pronta a sbranarsi per la sopravvivenza fino a diventare volgare e bieca.
A realizzare l’adattamento originale per il teatro fu la stessa Christie, nel 1943: anni drammatici, di guerra, in cui l’autrice optò per un finale più stemperato del suo romanzo. Ci ha pensato il regista spagnolo Ricard Reguant a recuperarlo, settant’anni dopo, riproponendo il testo della prima stesura e raggiungendo un grande successo in Spagna nella scorsa stagione.
Siamo nel 1939, l’Europa è alle soglie della guerra. Dieci sconosciuti per vari motivi sono stati invitati in una bellissima isola deserta. Nella villa in cui sono tutti ospiti trovano affissa una poesia, “Dieci piccoli indiani”. La filastrocca parla di come muoiono, uno dopo l’altro, tutti i dieci indiani. A poco a poco, i dieci personaggi cominciano a morire in circostanze misteriose, sino a quando gli ultimi che sopravvivono non si rendono conto che il colpevole si nasconde tra loro ed il finale è puro trilling.
La versione proposta in scena fino al prossimo 21 gennaio al Teatro Quirino di Roma da Gianluca Ramazzotti e Ricard Reguant è decisamente interessante. Una recitazione coinvolgente ed impeccabile da parte di tutto il cast di attori giovani e meno giovani che, con grande padronanza del palcoscenico, offrono ognuno un ritratto esaustivo del proprio personaggio, con ironia e ritmo, e di come, alla fine, i propri peccati debbano essere espiati. Molto bello l’impianto scenografico, firmato da Alessandro Chiti, che ricostruiscono alla perfezione l’arredamento di una sfarzosa villa aristocratica anni ’40 in stile art-decò.
Convincente e piacevole lo spettacolo che grazie anche al sapiente uso della filastrocca infantile, riesce a trasferire in scena il clima angosciante che pervade tutto il romanzo e che si manifesta tra i due poli contraddittori della colpa e dell’innocenza creando un’atmosfera magica e surreale, una regressione infantile verso una vacanza nell’irrazionale nel mistero con ritmo e leggerezza.
data di pubblicazione: 14/01/2018
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Gen 13, 2018
Dopo le modeste proposte in salsa natalizia, ecco finalmente “un film” da leccarsi i baffi. Parlo di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, la pellicola che ha vinto 4 Golden Globe, quasi un’anticamera degli Oscar e che già a Venezia (migliore sceneggiatura) era stata apprezzata ben più di Downsizing di Alexander Payne con Matt Damon in versione mini uomo. La regia e lo script sono del britannico Martin McDonagh, classe 1971, di cui molti ricorderanno il gioiellino In Bruges (2008) e 7 psicopatici (2012), ma la storia potrebbe benissimo essere scambiata per un film dei fratelli Coen. Anzi direi che è da un po’ che Joel ed Ethan non riescono a raggiungere i livelli della pellicola del giovane regista che ne segue le orme. Il racconto parte dalla ricerca di una madre, Mildred (una Frances Mc Dormand da Oscar) che lotta per ottenere verità e giustizia per la figlia stuprata, assassinata e bruciata alcuni mesi prima. Il colpevole ancora non è stato trovato e la disperata donna, già di suo fuori di testa, per ridestare l’attenzione, affitta tre vecchi cartelloni pubblicitari fuori Ebbing, Missouri, in cui addossa al locale capo della polizia William Willoughby (Woody Harrelson), che scopriremo malato di cancro al pancreas, la responsabilità delle mancate indagini. Tra gli sbirri, l’agente Dixon (Sam Rockwell, premiato ai Globes), abbastanza razzista, violento ed incapace non tollera le iniziative di Mildred e cerca in tutti i modi di ostacolarne il successo, consigliato fraudolentemente da una madre ancora più razzista e bigotta. Non aggiungo altro sulla trama per non sottrarvi il gusto dell’evoluzione della storia che ha tutti i crismi di un noir della provincia USA più retriva, nell’occasione perfettamente rappresentata con tanto di stereotipi politicamente e volutamente scorretti. Non mancano, alternati a momenti di violenza fisica e psicologica, attimi di sublime poesia come, ad esempio, nella rilettura della lettera di Willoughbly, appena morto. Siamo, dunque, ai massimi livelli del genere: al film di Mc Donagh non manca niente, il ritmo, le immagini, l’empatia e i dialoghi, duri e mai banali, persino l’ironia quanto basta. Il tutto, inclusi i comprimari dei protagonisti (la deliziosa Abbie Cornish e Lucas Hedges) e la significativa colonna sonora, a farne certamente uno dei migliori film dell’anno. Buona visione!
data di pubblicazione:13/01/2018
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 9, 2018
(Teatro dell’Unione – Viterbo, 7 gennaio 2018; Teatro Roma – Roma, 9 gennaio/11 febbraio 2018)
L’Italia vista da un ospedale non è certo migliore. Traffici, corruzione, furbizie assortite e rivalità in corsia vistosamente amplificate dalla mozione teatrale in Operazione, titolo abbreviato rispetto al più articolato metaforico e ridondante In barca a vela contromano (citazione dallo spettacolo, recitata da Mattioli contro mano, efficace battuta).
Compagnia solida, su un testo che ha 30 anni e che è stato traslato al cinema più di venti anni fa. Capisaldi ancora Antonio Catania, navigato capobanda, ironia di rimessa, paciosità aguzza e ficcante. E bella crescita per il protagonista giovane Nicolas Vaporidis, 11 anni dopo Notte prima degli esami, che va a sostituire Valerio Mastandrea. Non più ragazzo ma uomo e, diremo attore fatto anche in teatro, vista la personalità con cui gestisce il personaggio di un aspirante “ispettore interno” che alla fine cede alle ragioni di una profonda umanità.
Gioca di rimessa anche la “caposala” Gabriella Silvestri. Anche lei, come Catania, gioca di rimbalzo, sugli assist dei colleghi e va puntualmente in gol.
Lo spettacolo è transitato da Viterbo nel ripristinato Teatro dell’Unione che, dopo il grande freddo reale per gli spettatori in Copenaghen, ha virato su un insopportabile caldo in platea e sui palchi, facendo i conti con un difetto acustico che non è colpa degli attori ma della poco accorta ristrutturazione, complice la cancellazione della buca dell’orchestra.
Si ride, amaro, ma si ride. In soldoni la sanità italiana costa al Paese 110 milioni e circa 25 se ne perdono tra corruzione, appalti truccati, sub-cessioni forzate al privato. Come pensare dunque che anche tra i malati e nel dolore non spiri lo stesso rancoroso sgomento.
Il regista Stefano Reali , viterbese di ritorno, ci ha tenuto a ringraziare il pubblico per questo valido test di rodaggio per uno spettacolo che ora transita a Roma.
data di pubblicazione: 9/01/2018
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Gen 9, 2018
(Teatro Quirino – Roma, 2/7 gennaio 2018)
Un classico teatrale come Filumena Marturano è tornato in scena a Roma al Teatro Quirino con la regia di Liliana Cavani, nell’ambito di una lunga tournée partita due anni da Spoleto ed ancora oggi in giro per l’Italia.
Filumena Marturano, tra le commedie italiane del Dopoguerra più conosciute e rappresentate all’estero, si propone di rappresentare i drammi, le ansie e i problemi di un Paese ancora sconvolto dalla violenza e dalla crudezza della Guerra. Un’opera di grande impegno, moderna e priva retorica, scritta con grande naturalezza ed efficacia dal maestro Eduardo De Filippo. Un capolavoro.
La nota storia vede al centro un problema senza tempo: a chi appartengono i figli, biologici o attribuiti, nati dentro o fuori dal matrimonio? Al tempo della stesura (1946), la legge non proteggeva questi “figli” considerati illegittimi, una legge ferma al Medioevo. Filumena vi si ribella con la lucidità e una forza così generose da riuscire a trascinare l’ignaro borghese Domenico a capire il valore degli affetti fondamentali per la nostra vita. Una metafora di un’Italia ferita ma in cerca di riscatto. Filumena e Domenico, da sempre amanti e non sposati all’epoca in cui la prole illegittima e le donne conviventi erano marchiate e non avevano alcun diritto, grazie alla passione di lei e alla sua capacità ribellarsi, riescono a comprendere cosa significhi essere una famiglia, quali siano i veri affetti fuori dalle convenzioni culturali e burocratiche.
Nel corso degli anni il personaggio di Filumena Marturano è stato portato sul palco dei più grandi teatri italiani da attrici del calibro di Pupella Maggio, Regina Bianchi, Mariangela Melato, Sofia Loren (con accanto uno straordinario Mastroianni nella versione cinematografica di De Sica). Questa volta, la Filumena che non sa piangere è stata magistralmente interpretata da Mariangela D’Abbraccio, un’attrice poliedrica capace di donare al suo personaggio una profondità e un’intensità particolari, di grande spessore, senza alcuna forzatura e con tanta naturalezza.
L’opera si snoda a partire dalla sobria camera da letto dove Domenico Soriano ha appena scoperto che la donna che credeva di aver sposato in articulo mortis, è in realtà ben viva e pronta a far valere i suoi diritti. Filumena, costretta dalla fame a vendersi in un bordello appena diciassettenne, assurge a simbolo di una realtà sociale dolente, sconvolta nei suoi valori dalla guerra, in cui il dramma si consuma soprattutto in quella sua maternità nascosta per difendere tre bambini innocenti, uno dei quali è certamente figlio di Domenico Soriano. Le infinite sfumature emotive del personaggio, nelle scelte espressive di Mariangela D’Abbraccio diventano rabbia, lotta, determinazione, ma anche dolcezza di una madre che può finalmente svelare ai figli ormai adulti il proprio ruolo.
Del pari, Geppy Gleijeses, aiutato da una gestualità contenuta, ma estremamente espressiva, si appropria della libertà di sentirsi uomo ancor giovane, pronto a farsi trascinare da una bella ragazza in una ulteriore storia sentimentale, e a rivendicare il diritto maschilista di maltrattare l’amante che gli ha fatto da governante e da tutrice, ma pronto anche ad appropriarsi di una dignità emotiva quando i tre figli di Filumena gli si rivolgono chiamandolo “papà”.
Sul palcoscenico un cast di bravi interpreti, capaci di raccontare i momenti tragici e ridicoli di una quotidianità che, come la realtà, a volte diventa surreale.
Pur potendosi configurare nel novero degli allestimenti tradizionali, la regia della Cavani riesce a scavare nel tessuto psicologico di personaggi così forti, connotandoli ma alleggerendoli al tempo stesso. Uno spettacolo austero e delicato, capace di esplicitare ulteriori nuove sfumature di una vicenda e di personaggi, pietre miliari del nostro grande teatro.
data di pubblicazione: 9/01/2018
Il nostro voto:
da Noemi Giulia Sellitto | Dic 31, 2017
Si concluderà giovedì 4 gennaio l’esposizione delle illustrazioni di Similasti, pseudonimo di Simona Pastore. La mostra, a cura dell’organizzatrice di eventi Federica Scarpetta, sarà aperta al pubblico tutti i giorni presso il Caffè Letterario G. Verdi di Salerno (Piazza Matteo Luciani, 28). L’ingresso è gratuito.
È il cinema il filo conduttore che lega tra loro le otto opere selezionate per l’occasione, presentate al pubblico giovedì 28 dicembre nella stessa sede. L’incontro, moderato dalla giornalista Noemi Sellitto, ha permesso all’artista salernitana di raccontarsi senza filtri, analizzando nel dettaglio il percorso professionale che l’ha portata a concepire uno stile così originale. Il suo è un mondo fatto di leggerezza ed elasticità, dove i corpi delle persone si allungano a più non posso, fino a sfidare le leggi della natura. Eppure, è proprio nella ricerca di un simile dinamismo che i personaggi da lei rappresentati riescono a trovare il loro equilibrio sul foglio.
Nel corso della serata, Simona Pastore si è concentrata sul suo rapporto con i social. Visti positivamente come vetrina per pubblicare i lavori appena realizzati, si è soffermata sulle sfide che nel tempo si è data per tenersi allenata. Sul profilo Instagram che gestisce (@similasti), ha postato più volte un disegno al giorno per trenta giorni, optando per temi sempre diversi. Un modo per crescere e mettersi alla prova quotidianamente, al fine di migliorare tecnica e stile.
Durante l’appuntamento, è stata centrale soprattutto la spiegazione del rapporto che intercorre tra arte e illustrazione. Ancora poco diffusa in Italia, quest’ultima si differenzia dalla prima per finalità e intenti. Adatta a superfici e sperimentazioni di ogni genere, negli ultimi anni si sta evolvendo grazie all’utilizzo del digitale. Nell’ambito di questa rivoluzione, Similasti ha deciso di proiettare anche un booktrailer animato, tratto da Il segreto del bosco vecchio di Dino Buzzati.
Le pellicole reinterpretate sotto forma di immagini vanno da Le Voyage dans la lune – Viaggio nella Luna (1902) di Georges Méliès a Her – Lei (2013) di Spike Jonze. Presente anche un set di carte napoletane interamente fatto a mano.
data di pubblicazione: 31/12/2017
Gli ultimi commenti…