da Antonio Jacolina | Gen 27, 2018
Vittoria (Virginia Efira) è una graziosa quarantenne, ottima penalista che si trova in pieno deserto affettivo, è separata e madre di due bambine cui non riesce a star dietro presa come è nel cercare di conciliare una vita frenetica fra problemi professionali, relazioni insoddisfacenti, sogni romantici ed incontri con psicologhe e veggenti. Il suo già precario equilibrio crolla quando recatasi ad un matrimonio, vi incontra due persone che le complicheranno ancor più l’esistenza: Sam (Vincent Lacoste) un ex spacciatore da lei difeso con successo nel passato, e Vincent (Melvil Poupad) un suo caro amico che accusato di tentato omicidio non vuole essere difeso che da lei. Unico testimone del fatto un cane. È l’inizio della perdita di controllo e tutte le situazioni precipitano in una spirale emotiva che Vittoria non riesce più a governare.
Tutti gli uomini di Vittoria, il cui titolo originale è più elegantemente e correttamente solo Victoria (quando cesserà il malvezzo di dare ai film stranieri titoli in italiano del tutto fuorvianti, ed ambigui?), è l’opera seconda della giovane regista francese Justine Trietche aveva esordito con successo nel 2013 con La Battaglia di Solferino. Ancora una volta il cinema francese ci regala l’opportunità di apprezzare un cinema tutto al femminile e constatare quanto i ruoli di donna dominino il cinema d’oltr’Alpe. Pensiamo solo ad Elle ad Irréprochables nel 2016 ed al recentissimo 50 Primavere.
Come in quest’ultimo film, siamo ancora una volta davanti ad una brillante collaborazione fra due donne: la regista J. Triet e la protagonista, la sempre più convincente V. Efira, giovane attrice belga molto apprezzata in Francia (l’abbiamo vista in 20 anni di meno ed in Un amore all’altezza). Anche questa volta l’anima della storia è una bella figura di donna. Vittoria è bella, brillante ed energica. Una quarantenne dei nostri tempi, pienamente affermata, che vuole avere successo in tutto, famiglia, professione ed affetti. Vittoria è l’eroina ideale per una rivista femminile. È un’eroina come tantissime altre donne in carriera, che resta però schiacciata sotto il peso della molteplicità di ruoli da sostenere, fino a perdere il controllo della sua vita. In lei c’è tutta la forza di una donna moderna ed anche tutte le sue fragilità e debolezze. La Efira è in questo film in stato di grazia ed è genialmente capace di renderci tutte le sfumature di questa donna che è volitiva ed incongruente, patetica e brillante, tenera e acida al vetriolo. Una figura di donna che ci ricorda, a tratti, il W. Allen dei primi tempi. Un Allen nevrotico tutto virato al femminile.
La Triet conferma le sue capacità riuscendo a governare la storia con mano ferma, garantendo un perfetto equilibrio fra il dramma e la commedia e dando il giusto ritmo al succedersi delle situazioni. Tutti gli uomini di Vittoria è frutto di una regia elegante, di una buona sceneggiatura e di dialoghi ben scritti nonché di un montaggio attento. Il cast è perfetto, ottimi tutti gli interpreti che non eccedono mai nel tratteggiare i loro personaggi. L. Poitreneaux, è l’ ex marito, preciso per il ruolo dell’intellettuale folle, M. Poupaud è eccellente con la sua perfetta faccia da colpevole. Il film della Triet è dunque una garbata commedia romantica molto ben riuscita. Certo, non è la Commedia dell’anno, ma di sicuro è una gradevole commedia stravagante, ricca di humour nero, drammatica e brillante che si rivela molto divertente senza andare a cercare gags o risate a tutti i costi. Se poi ci è consentito, con tutto il dovuto rispetto delle proporzioni, Tutti gli uomini di Vittoria emana anche un leggero profumo che richiama alla mente il gradevole sapore delle deliziose sophisticated comedies americane degli anni ’30 e ’40 e cerca di farne rivivere l’inventiva ed il ritmo senza essere mai banale. Sia ben chiaro, non si raggiungono i livelli dei modelli americani, ma non si è nemmeno troppo lontani dal loro spirito.
Per concludere, un buon film, un buon cinema d’Autore e, al tempo stesso, un cinema Popolare. Chi ha mai detto che l’uno e l’altro debbano per forza essere antitetici fra loro? Tutti gli uomini di Vittoria ribadisce ancora una volta che la cinematografia francese può e sa riuscire a conciliare autorialità e popolarità, e a far convivere commedia raffinata con cinema commerciale.
Non domandiamoci poi, perchè film gradevoli come questo trovino così poco spazio nella programmazione dei nostri cinema e perché poi, mentre in Francia il numero degli spettatori nelle sale aumenta, da noi invece cala sempre più, di anno in anno, soprattutto quello dei film italiani.
data di pubblicazione:27/01/2018
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da Antonio Jacolina | Gen 26, 2018
Da un po’ di tempo sta prendendo piede la moda degli “Eventi Cinematografici”. Proiezioni tematiche, a prezzo del biglietto più alto del solito, orari particolari e permanenza in sala solo pochi giorni. Operazione Culturale o Commerciale? My Generation ci induce a pensare chiaramente ad un’operazione commerciale piuttosto che artistica, giocata, fin dal titolo stesso, sulla nostalgia e sui ricordi di quella generazione di sessantenni di oggi che nei ruggenti anni della loro giovinezza hanno avuto la fortuna di viverli direttamente nella Swinging London di quei mitici 4/5 anni fra il 1962/63 ed il 1966/67, o che hanno partecipato altrove agli eventi ed ai cambiamenti rivoluzionari da Londra propagatisi in breve in tutto il resto del mondo. La British Revolution, quel movimento giovanile che quasi impercettibilmente, passo dopo passo, consentì, in quegli anni, alla gioventù inglese di buttar giù le barriere di classe che tenevano ingessata l’Inghilterra. La Libertà, la libertà sociale, la libertà dalle convenzioni, la libertà individuale, fu il vero detonatore iniziale, e… da lì in poi: la rivoluzione sessuale, nuovi abbigliamenti, nuove sensibilità artistiche, culturali, musicali e cinematografiche, nuova moda, nuovi colori sgargianti, nuove scelte di vita, spazio ai giovani. Le minigonne, i capelli lunghi, i pantaloni a zampa d’elefante e, soprattutto, i Beatles, gli Who, i Rolling Stones, il Beat, il Pop, le droghe, Mary Quant, Twiggy e tantissimo altro.
Detto ciò, My Generation è un documentario con la regia di D. Batty e, soprattutto prodotto da Simon Fuller, noto produttore discografico e televisivo nonché ideatore di format di spettacoli televisivi, e con lui anche Michael Caine. E’ proprio M. Caine, con il suo fascino, ad arricchire il documentario facendo sia la voce narrante sia il fil rouge che, con la sua presenza e gli spezzoni dei suoi film dell’epoca come Ipcress ed Alfie, lega i vari capitoli del documentario stesso e ci fa da guida nel tempo.
Ci troviamo davanti ad un abile collage e montaggio di materiale d’archivio, di spezzoni di filmati d’epoca, riprese delle vie di Londra, brani di trasmissioni televisive, frammenti di concerti e stralci di nuove e vecchie interviste ad alcuni dei mostri sacri di allora (M. Quant, Sandie Shaw, M. Faithfull) ed infine, scorci dei primi mitici concerti al glorioso Cavern Club di Liverpool. Il tutto ovviamente immerso in una meravigliosa e superba colonna sonora che pesca a piene mani in alcuni brani del repertorio delle Band e dei Solisti dell’epoca. E’ indubbio che chiunque sia interessato al cinema, alla musica e all’arte di quegli anni potrà, volendolo decisamente, pur riuscire a trovare qualcosa guardando My Generation, ma… è forse sufficiente per ridarci lo spessore, l’anima e la forza di quel quinquennio, la voce di M. Faithfull ? Oppure basta qualche brano dei primi concerti dei Beatles a Liverpool? O ancor più, una breve performance degli Who o le immagini di Twiggy e della meravigliosa Jean Shrimpton? Direi proprio di no! Difatti più il documentario procede, tanto più perde in capacità di approfondire la realtà e di fornire un’analisi con la giusta qualità e quantità di immagini. Dopo un po’ non bastano più nemmeno le memorie e le riflessioni dell’ironico M. Caine per farci capire cosa veramente fossero quei giorni, o, per spiegarli a chi non li conosce o, per restituirli a chi li ha vissuti di persona. Anzi, paradossalmente le stesse confidenze autobiografiche di M. Caine, annoiano perché si prolungano troppo, spezzano il ritmo e portano fuori tema e contesto lo spettatore.
Va poi detto che la stessa scelta del materiale d’archivio appare troppo limitata, spesso casuale, ripetitiva e ridotta ad alcuni clichè, e, soprattutto, non riesce a dare il giusto spazio ai fatti, ai luoghi ed alle persone o alle vere immagini significative. Il regista appare quasi disorientato ed incapace di fare la giusta scelta fra cosa proporci, come evidenziarlo e come riportarlo nel giusto modo. Insomma My Gerneration , bisogna avere l’onestà di dirlo, è un documentario che non documenta nulla, o, ad essere generosi, documenta molto poco e male, privo come è di una genuina capacità di analisi, privo di anima e di sincero impegno. A tratti è veramente deludente anche per l’eccessiva semplificazione dell’”anima” di quegli anni. E’ veramente solo un’operazione commerciale.
Vale allora la pena di andare a vedere questo prodotto reso accattivante dalla sola presenza di M. Caine che fa da specchietto per le allodole essendone, del resto, anche lui coproduttore ? Come ho detto, se avete vissuto quel periodo resterete molto delusi, se volevate invece conoscere qualcosa dei luoghi e degli anni in cui nacque quel movimento e fenomeno sociale che portò poi a Berkeley ed al Maggio Francese ed al ’68 , non vi fornirà assolutamente gli elementi giusti. Meglio quindi fare qualche altra cosa!
data di pubblicazione:26/01/2018
da Antonella Massaro | Gen 25, 2018
E se la soluzione al sovraffollamento mondiale e all’imminente fine del nostro Pianeta fosse quella di rimpicciolire i suoi abitanti? Tanti Minuscoli, con meno bisogni, meno affanni e una nuova vita a portata di mano. Riusciranno i nostri (piccoli) eroi nell’impresa di salvare la Terra?
Rimpicciolire il mondo e i suoi abitanti per salvare entrambi. Downsizing di Alexander Payne (Sideways – In viaggio con Jack, Paradiso Amaro) muove da un’idea tanto semplice quanto potenzialmente dirompente. Degli scienziati norvegesi mettono a punto una tecnica di riduzione cellulare capace di trasformare (anche) gli essere umani in uomini minuscoli: riducendo le dimensioni del corpo scompare anche la massa di rifiuti che sta soffocando il nostro Pianeta e convertendo la popolazione mondiale in un esercito di Minuscoli, quindi, il sovraffollamento che sta conducendo ineluttabilmente alla distruzione della Terra potrebbe risolversi. I piccoli uomini hanno anche piccoli bisogni di tipo economico e questo, se da un lato li sottrae al “cerchio magico” dell’economia globale, dall’altro lato consente alla classe media di sperimentare il brivido della ricchezza. I Minuscoli, nelle comunità loro riservate, possono vivere in case da sogno, indossare diamanti e persino smettere di lavorare. Anche Paul Safranek (Matt Damon) e sua moglie Audrey (Kristen Wiig) decidono di sottoporsi al trattamento e di concedersi il lusso di una vita da sogno.
L’ingresso nella camera di rimpicciolimento (volevo che somigliasse a un gigantesco microonde, precisa Payne) somiglia in tutto e per tutto a una (ri)nascita, ma non serve molto tempo a rendersi conto che non è tutto oro quello che luccica. Persino l’Eldorado in scala non riesce ad evitare il formarsi (spontaneo?) di periferie e di classi sociali che vivono ai margini. Senza contare che la fine del mondo si avvicina a un ritmo sempre più incalzante, costringendo la prima comunità di Minuscoli ad escogitare un nuovo espediente che funzioni da Arca di Noè: l’obiettivo è sempre (solo?) quello di assicurare che quell’improbabile creatura che è l’essere umano possa continuare la sua straordinaria avventura.
Dopo un avvio in gran carriera, Downsizing, che ha aperto la 74. Mostra d’arte cinematografica di Venezia, diventa un crogiolo di episodi, personaggi e “morali della favola” non sempre ben amalgamati. Il cast (straordinari Christoph Waltz e Hong Chau) è di tutto rispetto costruito, ma la sceneggiatura è troppo ingombrante persino per le loro spalle robuste.
Il racconto apocalittico affidato ai toni della commedia grottesca (in perfetto “stile Payne”, che in conferenza stampa non fa mistero del suo amore per Cechov) insieme alla riflessione sui temi ambientali potevano risultare un binomio vincente. L’impressione, tuttavia, è quella per cui Downsizing, è il caso di dirlo, non abbia preso bene le misure.
data di pubblicazione: 25/01/2018
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da Antonio Iraci | Gen 25, 2018
(Teatro India – Roma, 24/28 gennaio 2018)
Geppetto e Geppetto (alias Tony e Luca) sono felicemente in coppia da diversi anni, quando in loro nasce il desiderio di diventare genitori. In assenza di una madre o meglio di una donna, come fece Geppetto in Pinocchio i due dovranno cercare un modo per dar vita al proprio figlio, non certo modellando un pezzo di legno, bensì ricorrendo a quello che volgarmente viene definito “utero in affitto”, operazione possibile solo all’estero dietro esborso di una ingente somma di denaro per affrontare tutte le pratiche, burocratiche e non, necessarie allo scopo.
Lo spettacolo nasce nel 2016 in occasione della XXII esima edizione della rassegna di teatro omosessuale Garofano Verde ed è stato scritto subito dopo l’approvazione in Parlamento della legge Cirinnà proprio per affrontare, tra il serio e il faceto, l’attualissimo tema della stepchild adoption che ha tanto diviso i partiti politici e l’opinione pubblica italiana in generale. Scritto e diretto da Tindaro Granata, che interpreta Luca sulla scena, il lavoro ha già avuto diversi premi che ne hanno sottolineato l’impegno sociale e divulgativo al tempo stesso, dal momento che lo si potrebbe considerare come un valido vademecum per gli aspiranti padri gay. Intramezzato da reali interviste fuori campo, lo spettacolo snocciola via via tutte le varie problematiche psicosociali che, sin dalla nascita, il figlio e i due patri, l’uno biologico e l’altro adottivo, dovranno affrontare nel quotidiano. Matteo, divenuto oramai un uomo adulto, si chiede ora del perché di questa scelta che ha permesso di farlo nascere in una famiglia diversa dove non è contemplata una figura femminile. Il regista ha ideato un buon testo, perfettamente equilibrato nel quale affronta i pro e i contro dell’intera vicenda, trattata con assoluta imparzialità, inserendo qua e là situazioni leggere e divertenti senza mai cadere nel grottesco. Un meritato bravo quindi al sicilianissimo Tindaro Granata e all’intero cast che sulla scena hanno dato vita ad un incontro/scontro dove non sono mancati anche momenti espressivi di grande impatto drammaturgico. La produzione è del Teatro Stabile di Genova, Festival delle Colline Torinesi e Proxima Res.
data di pubblicazione:25/01/2018
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da Antonio Iraci | Gen 24, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 23/28 gennaio 2018)
In scena al Teatro Vascello la Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, diretta da Veronica Cruciani, che ci presenta il riadattamento di un lavoro teatrale che Fassbinder alla fine degli anni sessanta scrisse ispirandosi alla celebre commedia goldoniana.
Torna quindi alla ribalta il regista tedesco rimasto indimenticabile per i suoi film trasgressivi che portavano in sé un disagio spesso di natura sociale di cui era intrisa la Germania di allora, dilaniata da tensioni internazionali. Gli attori si muovono in una Venezia in pieno carnevale, tutta risplendente di luci violente e di suoni che si alternano, rimandandoci dal settecento a oggi dove tutto è cambiato nell’apparenza ma non nella sostanza. Lo sguardo di Goldoni, rivolto ad una borghesia veneziana che gravita intorno alla bottega del caffè, dà spazio a una serie di personaggi pieni di contraddizioni emotive ma tutti interessati essenzialmente agli zecchini di allora, che vengono oggi convertiti automaticamente in dollari, sterline, euro con una ripetizione ossessiva, una sorta di mantra rivolto al dio denaro da cui tutti indistintamente sono attratti. Seppur uomini e donne subiscano in maniera eguale questo fascino, l’approccio all’atto pratico è poi diverso e tale differenza è ciò che caratterizza il genere maschile rispetto al genere femminile. La posizione sociale della donna, inizialmente succube, riesce alla fine a capovolgersi lasciando l’uomo a confrontarsi con la propria fragilità e le proprie incongruenze. Il cast è composto da attori molto bravi e la cura nell’adattamento scenico è amplificato da una forte drammaturgia sonora.
Ottima l’iniziativa della regista di rispolverare un classico, accostando il grande nome di Goldoni a Fassbinder, che seppur lontani nel tempo, entrambi seppero scrutare l’intimo dell’uomo per rivelarne la natura e i desideri più nascosti, spesso inconfessabili.
data di pubblicazione:24/01/2018
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Gen 24, 2018
In una Russia oramai super patinata, Zhenya e Boris affrontano in maniera rancorosa e aggressiva la decisione inevitabile del loro divorzio, alla luce anche del fatto che entrambi stanno già costruendo una propria vita alternativa sulla quale ripongono grandi aspettative. Messa in vendita la casa coniugale, rimane da affrontare l’unico problema ancora rimasto irrisolto: la sistemazione del proprio figlio dodicenne Alyocha, considerato sin dalla nascita come un intralcio alla realizzazione della loro felicità. Ben consapevole di tutto questo e del futuro che lo attende, il ragazzo un giorno decide di scomparire non lasciando alcuna traccia o indizio che possa in qualche modo agevolarne le ricerche.
Il regista e attore Andrey Zvyagintsev, noto nel 2003 per aver vinto a Venezia il Leone d’Oro con il suo film d’esordio Il ritorno, ottenendo un grande successo sia di pubblico che di critica, considerato il degno discepolo del grande Tarkovsky con il suo ultimo lavoro Loveless, premiato dalla giuria al Festival di Cannes 2017, mostra ancora una volta la sua particolare sensibilità. La pellicola infatti affronta temi delicati in cui emergono le problematiche di un paese oramai saturo di benessere, dove tuttavia risultano ancora carenti gli elementi formativi basilari che, dall’intimità del singolo, investono poi il sociale. La limpidezza dei paesaggi invernali ricoperti di neve che sembra cadere senza soluzione di continuità, come a voler rimuovere qualcosa di scomodo, non sembra possa attenuare la cupezza che incombe sui personaggi, alla ricerca di un qualcosa che possa appagare la loro vita in un contesto dove, all’evidente opulenza materiale, risulta altrettanto evidente la mancanza assoluta di amore, tema sul quale ruota l’intera narrazione.
Il regista tiene pertanto a sottolineare quanto sia drammatico non tanto il fatto che Zhenya e Boris non abbiano ricevuto amore dalla famiglia di appartenenza, ma che la tragedia vera e propria risulta essere la loro incapacità nel produrre amore verso sé stessi e verso il loro unico figlio Alyocha. Il desiderio del ragazzo di essere amato si percepisce dal suo pianto silenzioso e, consapevole del deserto affettivo che lo circonda, preferisce sparire guidato dalla ferma volontà di non farsi più ritrovare. Il passare del tempo, nonostante le apparenze, sembra però non voler sbiadire il senso di colpa che attanaglia i due disgraziati genitori, anche dopo essere riusciti a costruire un nuovo nucleo familiare. Il film raggiunge momenti di grande tensione emotiva che difficilmente lo spettatore riesce a dominare, supportati da una recitazione intensa e ricca di pathos. Ci si chiede se a tutto ciò ci sia una via di scampo, se lo domanda il pubblico e la stessa Zhenya che, nella scena finale mentre si esercita in casa sul tapis roulant, guardando fisso nell’obiettivo sembra chiederci un disperato aiuto.
Un film assolutamente da non perdere.
data di pubblicazione:24/01/2018
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da Maria Letizia Panerai | Gen 24, 2018
Siamo alla fine dell’Ottocento in un piccolo villaggio della Danimarca, dove vivono due anziane sorelle, figlie di un pastore protestante che è anche il capo religioso della comunità. Dopo la morte del genitore, le due donne continuano la sua missione dedicandosi completamente agli altri, rinunciando ognuna a crearsi una famiglia. La loro vita è semplice e frugale, così come i pasti che sono solite elargire ai compaesani in difficoltà, come una sorta di mensa benefica per i più bisognosi. Un bel giorno bussa alla loro porta una donna: è Babette Hersant, sfuggita alla repressione della Comune di Parigi dove le sono stati uccisi marito e figlio. Ha con lei una lettera di presentazioni di Achille Papin, una vecchia conoscenza di una delle due sorelle, in cui viene chiesto di ospitare la donna in cambio del suo valido aiuto come governante. Passano molti anni e Babette, che nel frattempo si è conquistata la stima dell’intera congrega, un bel giorno riceve da Parigi diecimila franchi d’oro frutto di una vincita alla lotteria. Come forma di ringraziamento, prima di congedarsi per fare rientro in patria, la donna chiederà alle due sorelle di poter allestire un pranzo in memoria del pastore loro padre, omettendo di dire che userà gran parte di quella esagerata somma di danaro per il banchetto. I dodici commensali non sanno che quello sarà un pranzo speciale; solo il generale Lorens Lowenhielm, ospite d’onore della serata, riconoscerà portata dopo portata che, dietro quelle sofisticate delizie, si nasconde la mano di un prestigioso chef parigino donna che, molti anni addietro in un famoso ristorante di Parigi, riusciva con la sua cucina sublime a trasformare ogni banchetto “in una avventura amorosa”. La seduzione di quel cibo inebrierà tutti i commensali, nessuno escluso, facendo loro superare discordie ed antichi rancori, facendoli quella sera danzare tutti insieme perché “rettitudine e felicità si sono baciate”. Babette rimarrà in Danimarca senza un soldo, ma rafforzando la consapevolezza che “un artista non è mai povero”.
Tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen, Il pranzo di Babette è un autentico capolavoro da non perdere e da rivedere.
Il film venne presentato nella sezione Un Certain Regard de la 40^ edizione del Festival di Cannes dove il regista ottenne una menzione speciale dalla giuria ecumenica, per poi vincere nel 1988 l’Oscar come miglior film straniero e nell’89 il Bafta per la stessa categoria; mentre Stéphane Audran (Babette) fu insignita del Nastro d’argento nel 1988, come miglior attrice straniera.
Alla raffinatezza di questa splendida pellicola ed in onore della splendida Babette, vorrei abbinare la ricetta di un dolce sublime: la torta di mandorle e crema di mia madre Argia.
INGREDIENTI – per la sfoglia: 100 gr di burro – 4 tuorli – 4 cucchiai di zucchero – 2 etti circa di farina 00 (quanta ne assorbe per una consistenza di pasta morbida) – la buccia di 1 limone grattugiato; per la crema pasticcera: 4 tuorli – 100 gr di zucchero – 50 gr di farina 00 – 1/2lt di latte intero o alta qualità – 1 stecca di cannella; per la crema di mandorle: 150 gr di mandorle tritate finemente – 3 albumi – 125 di zucchero – buccia grattugiata di 2 limoni.
PROCEDIMENTO:
La torta consta di tre passaggi: la pasta di base con cui foderare lo stampo, la crema pasticcera e la crema di mandorle.
Per la pasta mettere in una coppa la farina a fontana ed all’interno della cavità i 4 tuorli, il burro a temperatura ambiente ridotto a pezzetti, lo zucchero, e la buccia grattugiata del limone. Mescolare il tutto sino all’assorbimento della farina. Otteniamo una palla di pasta piuttosto morbida ma che non deve risultare appiccicosa sulle dita: qualora lo fosse, aggiungere all’occorrenza un po’ di farina. Mettere la pallina in frigo avvolta alla pellicola trasparente.
Per la crema pasticcera (che può essere fatta anche la sera prima in quanto deve essere fredda e ben compatta), unire ai 4 tuorli i 100gr di zucchero e i 50gr di farina, e girare il tutto con un mestolo di legno senza creare grumi finché non si raggiunge un colore chiaro. Aggiungere il latte a filo, precedentemente riscaldato con all’interno una stecca di cannella che poi va tolta, e mettere a cuocere il tutto a fuoco lento mescolando con il mestolo sino a raggiungere una consistenza piuttosto soda.
Per la crema di mandorle, montare a neve ferma i 3 albumi con lo zucchero, ed alla fine aggiungere la buccia di 2 limoni grattugiati e i 150gr di mandorle pelate precedentemente macinate a grana sottile ma non troppo (non deve essere una farina). Gli ingredienti vanno ovviamente aggiunti agli albumi montati mescolandoli sempre dal basso verso l’alto.
Prendere a questo punto una teglia circolare da 28 cm di diametro (che, preferibilmente, dovrebbe essere di quelle con bordo sganciabile), imburratela e infarinatela, foderatela con la pasta appena tolta dal frigorifero aiutandovi con le mani, creando un bel bordo alto e bucandola sul fondo e ai lati con la forchetta. Inserire quindi sul fondo prima la crema pasticcera ed sopra a chiusura la crema di mandorle. Infornare a forno ben caldo fisso solo sotto a 160°/170° per circa 30 minuti scarsi, trascorsi i quali aprire il forno e vedere se la crema di mandorle è diventata dorata ed il bordo della pasta cotto.
Una volta sfornata, aspettare che la torta sia ben fredda per toglierla dalla teglia sganciando delicatamente il bordo, perché è molto delicata e potrebbe rompersi.
E’ una torta raffinatissima, ottima come fine pasto o per un the.
da Antonio Iraci | Gen 22, 2018
Un mattino normale di una giornata normale a Napoli improvvisamente irrompe una voce grave e altisonante che sembra provenire dall’alto dei cieli per annunciare che alle ore 18 precise di quello stesso giorno inizierà il “Giudizio Universale”. L’insolito comunicato si ripete più volte e la gente presa dalle quotidiane faccende all’inizio pensa trattarsi di uno scherzo di cattivo gusto, ma poi, data l’insistenza, incomincia a prendere sul serio la questione mostrando una giustificata preoccupazione. Interessanti infatti sono le diverse reazioni da parte di questa variegata moltitudine di uomini e di come ciascuno, in maniera più o meno convinta, si prepara all’incontro con il Padreterno. Alle 18 in punto, sotto lo scrosciare di un diluvio, pure lui universale, inizia il giudizio che però si conclude in maniera enigmatica così come del resto era iniziato. Il soggetto, sapientemente scritto da Cesare Zavattini, dopo l’esperienza con De Sica nel ben riuscito film di impronta neorealistica Miracolo a Milano, questa volta assume un tono decisamente surreale, quasi un pretesto per raccontare di Napoli con le sue storie di vita quotidiana intrecciate di miseria e nobiltà. Il film fu accolto tiepidamente dalla critica che lo definì deludente come contenuto anche se supportato da un cast di attori eccezionali tutti rigorosamente scelti tra i migliori del momento, escludendo volutamente quelli napoletani pur essendo la storia totalmente ambientata a Napoli. Proprio la città partenopea ci fa affiancare a questa pellicola una ricetta di stampo prettamente mediterraneo, un piatto saporito e di ottimo effetto: melanzane a “scarpone” ripiene.
INGREDIENTI: 5 melanzane – 300 grammi di pomodorini – 100 grammi di olive nere denocciolate – 50 grammi di capperi – 150 grammi di mozzarella – 50 grammi di parmigiano grattugiato – basilico – olio – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Tagliare le melanzane a metà e svuotarle della polpa senza romperle. Disporre le melanzane sotto sale per far perdere loro l’acqua. Dopo circa un’ora sciacquarle e disporle in una teglia ricoperta di carta da forno quindi fare cuocere in forno per circa 10 minuti a 180°. Intanto tagliare la polpa delle melanzane a dadini e friggerli in olio d’oliva finché non risultano ben dorati. In una padella scottare i pomodorini tagliati a pezzetti e poi sistemarli in una ciotola insieme alle melanzane fritte, i capperi dissalati, le olive nere, il parmigiano grattugiato e la mozzarella tagliata a pezzetti. Levare dal forno gli “scarponi” di melanzane e riempirli con il composto creato. Infornare per altri 15 minuti, guarnire con qualche foglia di basilico e servire il tutto ben caldo.
da Antonietta DelMastro | Gen 21, 2018
Georgia Hunter lo ha scritto ispirandosi alla storia vera della sua famiglia, storia che ha scoperto solo casualmente in seguito a un compito assegnato alla sua classe sulle origini della propria famiglia, la Hunter aveva quattordici anni e, solo allora, ha scoperto i segreti che il suo “fantastico” nonno le aveva sempre sottaciuto “non perché mi nascondesse intenzionalmente tutte queste verità, erano semplicemente frammenti di un’altra vita, che lui aveva preferito lasciarsi alle spalle.”
È la storia della famiglia Kurc, Sol e Nechuma i genitori, Genek con la moglie Herta, Mila con il marito Salim e la figlioletta Felicia, il terzogenito Addy (nonno dell’autrice), Jacob e la moglie Bella e Halina con il marito Adam, una famiglia ebrea di Radom, Polonia, una famiglia che subito prima dell’invasione della Polonia nel settembre del 1939 era convinta che tutte le mostruosità che sentivano accadere nella Germania nazista non sarebbero mai potute avvenire in Polonia.
La narrazione è perfetta, il continuo alternarsi dei capitoli con la descrizione delle vicende di ogni membro della famiglia, fatte da loro stessi in prima persona, permette una empatia immediata con i vari personaggi.
Il racconto inizia nel marzo del 1939 con una lettera di Nechuma ad Addy, a Parigi per conseguire la laurea in ingegneria, la madre gli fa il resoconto di ciò che avviene in casa dei “piccoli” cambiamenti che stanno iniziando ad accadere fino a giungere al punto centrale “E ciò mi porta al motivi principale di questa lettera: io e tuo padre crediamo che faresti bene a restare in Francia, per questa Pasqua e rimandare all’estate la tua prossima visita.”. Le cose stanno cominciando a cambiare, Nechuma, la madre, è fiduciosa che sia solo un momento, tanto da consigliare al figlio di rimandare la sua visita solo di qualche mese, non crede che ciò che sta succedendo in Germania possa in qualche modo coinvolgere anche la Polonia. Il giorno della celebrazione della Pasqua sono tutti riuniti, manca solo Addy che non è potuto rientrare a casa nonostante avesse voluto e non perché la madre lo avesse sconsigliato ma perché non era riuscito a ottenere il visto necessario per attraversare i territori sotto il dominio nazista che lo separavano dalla Polonia.
Nel corso della celebrazione della Pasqua Nechuma torna con il pensiero alla celebrazione avvenuta un quarto di secolo prima, durante la Grande Guerra, in un seminterrato ed è certa che non avverrà mai più una cosa simile: “No, lei non tornerà a nascondersi come un animale selvatico, non vivrà mai più in quel modo. È impensabile che si arrivi di nuovo a questo”. Purtroppo di lì a qualche mese dovrà rivedere tutte le sue certezze, il primo settembre la Germania invade la Polonia, i Kurc dovranno arrendersi all’evidenza che il loro Paese non è più sicuro per una famiglia di ebrei. Per sfuggire al nazismo, saranno costretti a dividersi e a rassegnarsi a una vita da clandestini, senza avere alcuna notizia dei propri cari, obbligati ad affrontare le persecuzioni, la fame e il freddo, tra la Siberia e la Palestina, tra il Brasile e l’Italia, senza sapere se, quello che vivono, è il loro ultimo giorno.
Una storia coinvolgente, con mille sfaccettature; un libro splendido di cui consiglio assolutamente la lettura.
data di pubblicazione:21/01/2018
da Rossano Giuppa | Gen 20, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 16 e 17 gennaio 2018)
Michele Pogliani è tornato sul palcoscenico del Teatro Vascello di Roma dal 16 al 17 gennaio con la MP3 Projects e con un nuova produzione dal titolo Trilogìa. Lo spettacolo si articola in tre quadri ognuno dei quali rappresenta tre momenti della vita di un uomo secondo un percorso scandito dal ciclo degli anni e dell’età, tre frammenti intensi e drammatici che ricompongono il percorso di una vita.
Il primo quadro è Alea (traduzione latina di dado) e rappresenta la componente casuale della vita che sposta gli equilibri e sposta l’esito finale verso il fato, il secondo quadro è Ananke, ossia la necessità: è questo il momento del viaggio interiore che produce la catarsi mentre il terzo e ultimo quadro è Ilinx, ossia la vertigine: al centro della scena della propria esistenza il protagonista di questo assolo vive l’ebbrezza e l’alienazione, lo stordimento e l’estasi che si provano quando si è soggetti a forze che abbattono il proprio controllo. Un viaggio che si srotola pian piano fino ad arrivare a una vera e propria catarsi, l’acquisizione di una nuova consapevolezza: quella di essere solo ma di essere ma conscio di una compiutezza acquisita e accettata.
Lo spettacolo, prodotto da Sosta Palmizi, vede in scena i danzatori Enrico Alunni, Giovanni Quintiero, Gabriele Montaruli, Ivan Montis, Stefano Zumpano che hanno anche collaborato con Pogliani alla realizzazione delle coreografie.
Pogliani, a lungo danzatore di Lucinda Childs, oggi coreografo, realizza uno spettacolo che è anche una dichiarazione autobiografica di un uomo, un eroe metropolitano, concreto, reale e consapevole.
La maturità e la catarsi sono l’obiettivo di questo viaggio onirico denso di significati e di immagini, non di rimpianti, che osserva l’inevitabile scorrere del tempo e scopre la forza e la bellezza della maturità.
data di pubblicazione:20/10/2018
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