da Daniele Poto | Feb 14, 2018
(Teatro Roma di via Umbertide – Roma, 13 febbraio/28 marzo)
Gianni Clementi ha giocato la carta più ambiziosa, imprevedibile e discontinua di una lunga carriera di autore di commedie brillanti in sala dolceamara. Questa volta si è dedicato per due anni a un lavoro che mutua Shakespeare, la saga di Romeo e Giulietta in versione romanesca, anzi calcistica. Perché i due sono immersi nel viraggio dell’acceso tifo contrapposto Roma-Lazio.
L’eterno dualismo campanilistico all’italiana, virato nella storia con i guelfi e i ghibellini, con i Capuleti e i Montecchi qui si accatasta attorno a due clan che potrebbero essere mutuati dalla violenta scena inglese di Edward Bond. Atteggiamenti coatti, turpiloquio ma un’innegabile verità di fondo nelle pulsioni amorose di due giovani a cui basta vedersi una volta per cadere prede e vittime dell’amore. A un primo tempo scanzonato e dissacrante fa seguito per due ore e mezzo di scansione un secondo decisamente drammatico e ricco di pathos. È il momento in cui i riferimenti calcistici e i tentativi di vendetta degli ultras vengono messi da parte per respirare fino in fondo il dramma shakespeariano di un amore impossibile e incompiuto. È molto efficace l’entra ed esci dei quindici interpreti che poi rimangono spettatori dell’azioni con un mood davvero molto somigliante al teatro azione del cinquecento dove si attuava la perfetta sinergia di tempo tra attori e pubblico. Ci piace anche il commento fuori campo di due vittime per un dramma che sospende il tempo nella verità del momento fulminante della tragedia. Un po’ troppo telefonato invece l’andamento del finale che se evocato prima perde efficacia quando viene prevedibilmente tradotto in scena. Difficile trovare un così affiatato e nutrito gruppo di attori in uno spettacolo italiano e la scommessa è importante perché la pièce avrà una lunga durata. In scena addirittura fino al 28 marzo. Nella stagione teatrale romana non crediamo che ci sia un investimento di così lunga prospettiva e parte del merito va al produttore Gianluca Ramazzotti che ha creduto nel progetto. E per Clementi nella festosa e applauditissima “prima” scroscianti applausi non solo come autore ma come regista, un primo tentativo in proprio di una carriera che promette altri interessanti sviluppi. Da citare i due giovani principali interpreti: Giulia Fiume e Edoardo Frullini, davvero credibili nella storia non più veronese ma ormai romana.
data di pubblicazione:14/02/2018
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Feb 14, 2018
(Teatro Eliseo – Roma, 13 febbraio/4 marzo 2018)
Mettete lo scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, regista teatrale, più in voga del momento, Stefano Massini da Firenze, unitelo a un attore bello&bravo, Alessandro Preziosi, aggiungete uno dei miti per eccellenza dell’arte, quel genio “pazzerello” di Vincent Van Gogh, mescolate il tutto e non potrete che ottenere una rappresentazione teatrale “ibrida” di assoluto rilievo.
Queste, in sintesi, le credenziali per L’Odore Assordante del Bianco, di Stefano Massini, ultima sua avventura drammaturgica, rappresentata da ieri ( 13 febbraio) all’Eliseo di Roma, per la regia di Alessandro Maggi e l’interpretazione di Preziosi , nei panni del tormentato artista, spiato nella quotidianità del manicomio di Saint Point. Lo spettacolo è incentrato sul periodo (1889), quando Vincent riceve (?) la visita del fratello Theo nel quale ripone in primis la speranza di essere rilasciato in base al “codice 5”, una sorta di salvacondotto che solo il fratello potrebbe firmare. La realtà sarà ben diversa e nel suo temporaneo isolamento l’artista, tormentato e imprevedibile nelle sue reazioni, confonderà di continuo realtà e fantasie, ed al contempo sarà vittima dei soprusi degli infermieri e di uno psichiatra-aguzzino, con la sola protezione del direttore dell’istituto che avrebbe voluto salvarlo restituendogli le tele su cui dipingere. Al testo di Massini fu riconosciuto il Premio Riccione Teatro 2005; in quella occasione la giuria del Premio Tondelli, così si era espressa a riguardo: «Scrittura limpida, tesa, di rara immediatezza drammatica, capace di restituire il tormento dei personaggi con feroce immediatezza espressiva».E di questo si tratta: la rappresentazione teatrale è una sferzata di emozioni, quasi un thriller o se vogliamo una seduta psicologica che tiene incollati gli spettatori per quasi un’ora e venti nella stanza dove non c’è altro colore che bianco e una piantina anch’essa bianca, insieme a Van Gogh nel suo viaggio nella zona oscura, fra speranze, allucinazioni, realtà. Nelle parole del protagonista, in rigoroso ordine sparso, ci sono ricordi, eventi, considerazioni sul ruolo dell’arte e degli artisti, con riferimenti non solo al suo tempo, ma più in generale alla società contemporanea. Ai meriti della proposta e all’ottimo risultato della performance non sono estranei la magnifica interpretazione di Preziosi-Van Gogh, sobriamente intenso nel suo crescendo emotivo, e degli altri bravi interpreti: Massimo Nicolini-Theo, Francesco Biscione-Dottor Peyron, Roberto Manzi-Dottor Vernon-Lazare, nonché i due perfidi infermieri, Alessio Genchi e Vincenzo Zampa. Alessandro Maggi alla regia e un commento musicale in linea con la tensione narrativa suggellano una prima teatrale di grande impatto.
data di pubblicazione:14/02/2018
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Feb 13, 2018
Passato per la Festa del Cinema di Roma, dopo essere stato presentato in concorso alla 67ª edizione del Festival di Berlino dove si era aggiudicato il Guild Film Prize, The Party è un film di impostazione teatrale scritto e diretto da Sally Potter (Orlando, Lezioni di Tango, tanto per citare i più noti).
In un asciutto bianco nero, la trama si snoda in 71 minuti nei quali i protagonisti (sette persone) trasformano una festa tra amici per festeggiare la promozione della padrona di casa (nominata ministro della salute “ombra” del partito di opposizione in Inghilterra) in una polveriera dopo che Bill, malandato padrone di casa (uno splendido Timothy Spall), confessa la sua relazione con la moglie di un ospite, rivelazione che spiazza i presenti e che fa esplodere conflitti e tensioni in un crescente effetto domino. Non una rappresentazione di immediata e facile fruizione, direi quindi, non un film per tutti, ma la bravura degli attori (l’intensa Kristin Scott Thomas, Bruno Ganz, il già citato Timothy Spall, e Patricia Clarkson su tutti), i dialoghi scoppiettanti e mai banali, l’imprevedibilità e il susseguirsi dei colpi di scena, sono ingredienti tali da interessare e coinvolgere spettatori dai palati fini. Bugie, vecchi segreti, ipocrisie all’interno di un contesto apparentemente politicamente corretto, offrono lo spunto alla Potter per un’amara rappresentazione della società inglese nello specifico ma, più in generale, sulla fragilità dei rapporti umani e sulle tante convinzioni che quotidianamente la vita tende a minare.
data di pubblicazione:13/02/2018
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da Antonietta DelMastro | Feb 12, 2018
Ammetto di averlo letto per il commento di Donato Carrisi anche se, alla fine, devo dire che il personaggio che lo aveva positivamente colpito è stato quello che mi ha convinto di meno: il commissario profiler Teresa Battaglia, colei che sarà a capo dell’indagine su una serie di omicidi avvenuta a Travenì, paesino immaginario delle Dolomiti friulane. Francamente il commissario Battaglia mi è sembrato un po’ troppo costruito: un passato tristemente segnato da un avvenimento che per intrigare il lettore dovrebbe restare segreto e che viene svelato prima della fine del libro; una malattia che potrebbe renderla inabile al lavoro, che ci ricorda il caro vecchio Kurt Wallander dei romanzi di Mankell, e che la Battaglia affronta con estremo stoicismo; una vena di sarcasmo nel suo carattere duro e determinato che in realtà nasconde la sua bonarietà… un personaggio forse troppo attento a creare un rapporto di empatia con il lettore, ho sicuramente apprezzato di più il “novello” ispettore Massimo Marini “Era poco più di un ragazzo e sembrava uscito da una pubblicità di moda.”.
La location del romanzo è perfetta, siamo rapiti, incantati e intrigati dalle montagne friulane che Ilaria Tuti ci descrive con affetto e rispetto, sono i paesaggi delle montagne tra cui è nata e cresciuta e dalla sua scrittura ne traspare il suo amore sincero.
La tranquillità di queste montagne viene spezzata dal ritrovamento del corpo di un uomo a cui sono stati asportati gli occhi, poco lontano l’assassino ha preparato un fantoccio con gli indumenti della vittima. A questo omicidio ne seguiranno altri altrettanto efferati l’unico indizio per le indagini verrà dai racconti di quattro bambini di Travenì, uniti tra loro da un patto di sangue, che saranno per il commissario Battaglia una sorta di calamita che unirà i pezzi del puzzle che porteranno alla risoluzione del caso “«Forse loro vedono il mondo meglio di noi» disse, in un sussurro. «Vedono l’inferno che abbiamo sotto i piedi, mentre noi contempliamo i fiori che crescono sul terreno»”. Il romanzo si svolge su due piani narrativi che si alternano nei vari capitoli, alle vicende che si stanno svolgendo a Travenì si contrappongono quelle avvenute negli anni ’70 del Novecento in Austria e di cui sono protagonisti, anche in quel caso, dei bambini oggetto di un esperimento basato sugli studi dello psicanalista René Spitz.
Devo dire che non mi è dispiaciuto affatto, la scrittura è estremamente fluida e le descrizioni dei luoghi molto piacevole, in alcuni passaggi mi è sembrato intravedere la mano del maestro Carrisi ma forse sono solo un po’ prevenuta.
Sicuramente una scrittrice da seguire.
data di pubblicazione:12/02/2018
da Antonella Massaro | Feb 9, 2018
La sofferenza del processo creativo di un artista geniale, ma anche la sua fragilità emotiva e sentimentale. Il “ritratto” di Alberto Giacometti, tratteggiato con sapiente maestria da Stanley Tucci, è un affresco potente e, al tempo stesso, delicato di uno degli artisti più rappresentativi del secolo scorso.
James Lord (Armie Hammer, nelle sale anche per Chiamami col tuo nome), giovane scrittore americano in visita a Parigi, incontra Alberto Giacometti (Geoffrey Rush), pittore e scultore svizzero: la parabola umana di Giacometti sta volgendo al termine, ma la sua fama gode già di quel clamore che, consolidatosi nei decenni successivi, lo collocherà tra gli artisti maggiormente rappresentativi del Novecento.
Giacometti chiede a Lord di posare per un ritratto. Il giovane accetta con orgoglioso entusiasmo, ma ancora non sa quanto faticoso possa risultare il ruolo del “modello” di Giacometti. Come una bizzarra Penelope (così, sulle pagine di Accreditati, Kalibano), l’artista disfa continuamente quella che già sembrerebbe una pregevole opera d’arte. Il successo, del resto, è il terreno migliore sul quale coltivare i dubbi, anche se la perenne insoddisfazione di Giacometti diviene il motore più propulsivo della sua creatività artistica.
Accanto all’arte, c’è poi la vita privata di Giacometti. Il talento artistico è inversamente proporzionale alla maturità sentimentale ed emotiva: la sua musa ispiratrice è una prostituta (Clémence Poésy), ma Alberto non potrebbe fare a meno della moglie (Sylvie Testud) e del fratello (Tony Shalhoub), che lo supportano e lo sopportano con benevola comprensione. Il binomio “genio e sregolatezza” si trova ridotto a quello, più prosaico, “genio e fragilità emotiva”.
Con Final Portait, presentato fuori concorso alla scorsa edizione della Berlinale e tratto dal libro Ritratto di Alberto Giacometti scritto dallo stesso James Lord, il regista Stanley Tucci conduce lo spettatore nell’atelier bohémien di Giacometti e, soprattutto, tra le pieghe affascinanti e misteriose del processo creativo che guida la mente e le mani di un genio. Non si tratta di un biopic, come chiarisce il regista durante l’incontro con la stampa presso il cinema Quattro Fontane di Roma: un biopic rischia di ridursi a una mera carrellata asettica di fatti, mentre in questo caso è la “straordinaria quotidianità” dell’artista che emerge prepotentemente dallo schermo.
Geoffrey Rush è semplicemente perfetto mentre lascia correre le mani lungo le linee, ormai celeberrime, di quelle sculture filiformi fuori dal tempo e mentre riproduce la instabile emotività di Giacometti, all’inizio affabile e persino ironico, poi nevrotico, ansioso e depresso.
I movimenti di camera, mai eccessivi, conferiscono dinamismo all’immagine statica dell’atelier polveroso eppure splendente.
Una prova convincente, dunque, quella di Stanley Tucci e un film che certamente non lascia indifferenti.
data di pubblicazione: 9/2/2018
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da Antonio Iraci | Feb 9, 2018
(Teatro India – Roma, 8/11 febbraio 2018)
Il 24 ottobre 1917 viene ricordato come il giorno della disfatta di Caporetto, data memorabile nella storia della prima guerra mondiale: vari reparti, a presidio del fronte orientale, caddero in mano dell’esercito austro-germanico che riuscì cosi ad avanzare e a conquistare posizioni strategiche. Proprio in quel giorno, per circostanze del tutto casuali, si riunisce a Taranto la famiglia Fago per festeggiare l’onomastico del capofamiglia, così come documentato da una vecchia fotografia ritrovata in un polveroso album.
Questo prezioso documento fotografico dà inizio alla storia personale, quella appunto di Amedeo Fago, che da io narratore ricostruisce un dettagliato albero genealogico della sua famiglia a cavallo di due secoli, attraversando così la storia di un paese coinvolto in due conflitti mondiali. Non sarà una impresa facile rimodellare i cocci di questo “oggetto” andato in mille pezzi, ma Amedeo Fago, ideatore oltre che interprete di questo spettacolo, riesce a farlo con proverbiale pazienza certosina, spinto più che altro a far rivivere i suoi antenati che via via prendono forma vivente dalla foto, e dare loro la possibilità di raccontare ognuno la propria vita. Il regista restituisce così al teatro la sua vera natura che è quella di portare sul palcoscenico, in un punto preciso del qui e ora, quello che nel tempo convenzionalmente definiamo come passato e futuro e che, quasi per magia, viene ora posto sul medesimo piano temporale. Anche le immagini di fondo, come gli attori, sembrano confondere il reale con il virtuale per portarci inaspettatamente nella Taranto di oggi dove l’irrazionale industrializzazione ha portato ad un letale tasso di inquinamento, sfuggito per molto tempo ad ogni controllo ambientale. Il confronto finale padre-figlio (Giulio Pampiglione-Amedeo Fago) è un momento di grande intimità familiare in cui le situazioni si ribaltano dando spazio ad un dialogo serrato dove il futuro viene coniugato al passato ed il passato al futuro: sulla scena, l’orologio che scandisce il tempo può fermarsi per poi continuare a marciare ma a ritroso. Questo lavoro, con un impatto drammaturgico di rara intensità, è una produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale del 2015, e viene oggi ripreso per essere inserito nel programma Il dovere della memoria, un progetto che si propone di portare sulla scena fatti appartenenti alla storia e quindi patrimonio di tutti per favorirne la conoscenza alle nuove generazioni. Originali gli effetti speciali di Davide Ippolito e Luca Di Cecca che fanno rivivere virtualmente un cast di attori tutti di alto livello.
I costumi di scena sono curati da Lia Francesca Morandini.
data di pubblicazione: 9/2/2018
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Feb 8, 2018
Quasi il complemento ideale del recente Dunkerque di C. Nolan, ecco sugli schermi L’Ora Più Buia di J. Wright, brillante regista inglese che conferma qui le qualità già espresse in Orgoglio e Pregiudizio ed in Anna Karenina. In questi film Wright aveva già messo in mostra il suo talento nella ricostruzione di realtà, atmosfere e personaggi storici. Un dono questo che sembra essere, da sempre, peculiare del cinema britannico. Quest’ultima opera è un nuovo biopic dedicato alla figura di W. Churchil, l’uomo che con la sua determinazione ha, letteralmente, cambiato il corso della Storia.
Il film si concentra su quelle settimane decisive della primavera del 1940, quando la Germania è vittoriosa in tutta Europa ed i resti dell’esercito inglese sono intrappolati a Dunkerque, lasciando così l’Inghilterra indifesa davanti ad una possibile invasione tedesca. Churchill (Gary Oldman) da poco eletto Primo Ministro, deve affrontare, nella rassegnazione generale e nello scetticismo assoluto contro di lui degli avversari politici e dello stesso Re, la drammatica scelta se negoziare una pace, o, tentare di risollevare la nazione portandola a battersi, fino allo stremo, per l’Inghilterra e per la Libertà. Sono le “ore più buie” per la Gran Bretagna e per Churchill stesso, che da solo, con la sua tenacia personale e politica, con il sostegno della moglie Clementine (K. Scott Thomas), e, soprattutto, con la sola forza delle sue parole e della sua retorica deve riuscire a restituire al Paese la speranza nella Vittoria.
Wright sfugge abilmente alla trappola di filmare una mera rievocazione quasi documentaristica o, l’ennesima ricostruzione storica. E’ proprio in questa sua intelligente scelta tutta la complessità dell’impresa e la sua bravura nel darci un’opera del tutto originale. Come in altri biopic di successo, uno fra tutti: Lincoln di Spielberg, il nostro regista preferisce ritrarre il proprio personaggio circoscrivendolo in un momento decisivo per la sua vita e per la Storia, scolpendone, in un’eccezionale visione del “dietro le quinte della Storia”, la figura attraverso i suoi discorsi fondamentali, destinati a divenire essi stessi un mito. L’Ora Più Buia è dunque un film in cui il dialogo e le parole assumono un’importanza fondamentale. E’ un film di discorsi, girato però come un film d’azione. Wright governa il difficile compito con mano sicura, con una regia asciutta ed essenziale, una perfetta sceneggiatura, un buon ritmo ed una bellezza di immagini ed allestimenti scenografici in grado di restituirci come reali i luoghi e le atmosfere. I movimenti della cinepresa tendono a rappresentare tutta la solitudine dell’uomo e del politico, sottolineando gli stati d’animo, le debolezze e l’egocentrismo di Churchill. La genialità del film è tutta qui. Ovviamente al centro di tutto è l’eccezionale interpretazione di G. Oldman, sicuro vincitore del prossimo Oscar, che è capace di impersonare lo statista con un talento artistico frutto evidente di un enorme lavoro di immersione nel ruolo, aiutato da un trucco così perfetto da far sembrare l’attore più vero dell’originale. Al suo fianco la sempre brava K. Scott Thomas. L’Ora Più Buia è dunque un film apprezzabile e godibile, un biopic non convenzionale che ridà lustro ad un genere non sempre all’altezza. Un film che è un gradevole melange di eleganza, dramma ed anche humour tutti britannici.
data di pubblicazione:08/02/2018
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da Antonio Iraci | Feb 5, 2018
Riko lavora da trenta anni come operaio in una fabbrica di salumi a Reggio Emilia ed è sposato con Sara che è parrucchiera in un centro di estetica. La coppia, che ha anche un figlio già pronto per entrare all’università, sta attraversando un periodo di crisi coniugale che sembra riflettere appieno la profonda crisi economica che investe il paese, pervaso da una generalizzata precarietà lavorativa che investe anche la sfera esistenziale dei singoli. Di fronte a questa catastrofe, Riko e Sara sono incapaci di trovare una soluzione pratica per affrontare nel migliore dei modi un futuro che, al di là delle poco rassicuranti apparenze, può riservare invece ancora buone prerogative: l’abilità di confrontarsi affettivamente con gli amici sinceri sarà l’unico rimedio veramente efficace.
Luciano Ligabue, alla regia del suo terzo film, ci racconta l’Italia di oggi che noi tutti ben conosciamo, dove non si parla che di Stepchild, Spread, Jobs Act, termini di cui non tutti ne comprendono l’effettivo significato e forse sino in fondo neanche i politici che li usano, dando così l’esatta percezione che siano stati creati ad arte per confondere la mente di noi poveri cittadini. Ligabue regista ricorre ad un linguaggio cinematografico semplice, non troppo ragionato tuttavia efficace a trasmettere un messaggio che, pur nella sua drammaticità, riesce ad infondere un minimo di speranza non solo ad un pubblico di cittadini adulti, ma soprattutto alle nuove generazioni, che da cittadini si stanno affacciando alla vita e che il Liga cantante conosce molto bene. La storia di Riko (Stefano Accorsi) e di Sara (Kasia Smutniak) non dice dunque molto di nuovo: coppia in crisi principalmente per tradimenti da ambo le parti, precarietà in campo lavorativo, difficoltà ad affrontare la complessità del quotidiano in un paese dove tutto sembra remare contro per far ripiombare l’intera popolazione inesorabilmente in uno stato di preoccupante confusione. In questa situazione di perenne incertezza in quelli che sono gli aspetti essenziali della vita, non rimane che appoggiarsi sulla spalla degli amici per trovare in essi quella giusta dose di affetto e di solidarietà necessaria per tirare avanti, alla meglio. E se quando tutto è oramai perduto e sembra non rimanere altro che ricorrere all’atto estremo per tirarsi fuori dall’empasse, ecco che, un poco per fortuna ed un poco per quell’inconfondibile goliardia che accompagna sempre noi italiani, improvvisamente ogni cosa si ricompone al meglio e dopo la tempesta ritorna la quiete sia pur del tutto effimera. In Made in Italy sono dunque racchiusi tutti gli ingredienti della tipica commediola all’italiana con lieto fine, sia pur velato da una leggera amarezza di fondo, che poi è la prerogativa che contraddistingue noi italiani: vale a dire l’abilità di reinventarsi sempre qualcosa di nuovo per affrontare il proprio incerto futuro con un ritrovato slancio e una buona dose di ottimismo. Un plauso va ai due interpreti che sanno muoversi in maniera convincente anche nelle scene più grottesche. Quanto a Ligabue regista, se con Radio Freccia aveva toccato i nostri cuori, con Made in Italy ci ha fatto un po’ rimpiangere la sua grandiosità di artista in campo musicale.
data di pubblicazione:05/02/2018
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da Daniele Poto | Feb 5, 2018
(Teatro Bianconi – Carbognano, 3/4 febbraio e Teatro Sette – Roma, 13 febbraio/4 marzo 2018)
Il poliedrico Michele La Ginestra dismette i panni di scanzonato entertainer e da autore del resto oltre che interprete ci reintroduce in uno squarcio di antica romanità all’estero.
Dite 33? Si ma 33 Dopo Cristo, location Palestina, non meno turbolenta di oggi. L’occasione per far deflagrare le due differenti personalità: quella del centurione Cassio (Wertmuller), uno che ha vissuto il momento storico della crocifissione di Cristo e quella di Stefano (La Ginestra), suo dipendente, l’uomo che diede da bere a Cristo acqua e aceto. Sullo sfondo visione e musiche d’ambiente in uno scenario desertico desolato con due uomini allo sbando e una missione che cova sotterranea. Lo spettacolo presenta due toni. Il primo è scherzoso, romanesco, sopra le righe e scanzonato. E ci sembra la cosa migliore. I due interpreti collidono e collimano parlando di varie amenità: dal cibo diverso dei luoghi in cui si trovano, alle donne, al clima, nel vano tentativo di placare il sonno. Dialoghi interrotti e spezzati, brillanti e d’epoca senza alcun facile e abborracciante riferimento all’attualità d’oggi (sarebbe stato Bagaglino allora). Poi impercettibilmente ma sicuramente ci si addentra nella rivisitazione storica-religiosa. Cassio è stato stregato dal Salvatore, convinto del suo ruolo di redenzione dell’umanità. Porta le prove del miracolo della restituzione della vista. Stefano è scettico, disincantato, è il vero romano dell’epoca. Dunque la dialettica viaggia nel solco di un sempre più teso confronto ideologico con una conclusione spiazzante ma inevitabile per le leggi dell’impero romano in corso. Della didattica religiosa esternata da Cassio rimangono frammenti molto tradizionali, cattolicamente corretti ma piuttosto ininfluenti perché di quelli già ci siamo nutriti tra oratori e impostazione religiosa. Dunque teatralmente siamo dalla parte del cinico e più umano, non convinto Stefano. La Ginestra dimostra che l’empatia attoriale di cui ampiamente dispone è valida anche per ruoli alla fine eminentemente drammatici. Si ride anche per un non corrivo uso del dialettico e delle parolacce, alla fine sembra di entrare in Chiesa.
data di pubblicazione:05/02/2018
Il nostro voto:
da Claudia Ossoni | Feb 3, 2018
(Teatro India – Roma, 30 gennaio/4 febbraio 2018)
In scena al teatro India di Roma, lo spettacolo teatrale Quasi Grazia. Al centro della rappresentazione la scrittrice italiana Grazia Deledda, interpretata dalla “neo attrice” Michela Murgia. La Deledda nasce a Nuoro nel 1871, fin da piccola ama la lettura e la scrittura.
La famiglia e la comunità dove vive ostacolano le sue potenzialità di scrittrice, in particolare la madre, interpretata in maniera egregia da Lia Careddu, attrice solida e convincente. Quest’ultima cercherà di imporre a Grazia il mondo femminile antico della loro isola, il richiamo all’arte del ricamo, ai doveri familiari, cercando di inibire le sue potenzialità. Grazia, donna libera, tenace, lotterà con tutte le sue forze per ottenere la sua emancipazione e ci riuscirà sia per se stessa che per tutte le donne dell’epoca.
Grazia Deledda approderà a Roma dalla Sardegna, scriverà molti libri tradotti in più lingue. In questi testi c’è un forte richiamo alla sua amata terra. Subirà inizialmente le critiche dei colleghi scrittori ma poi riuscirà a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1926, unica donna italiana. Significativo il rapporto con il marito Palmiro, interpretato dall’eccellente Brinzi, che la sosterrà per tutta la vita: un amore puro, sincero, un rapporto alla pari quello tra Grazia e Palmiro che rompe gli schemi del tempo. Palmiro sarà complice sincero di Grazia e l’amerà fino alla fine dei suoi giorni. La commozione è forte, l’identificazione, la stima per una donna speciale come Deledda è tanta, l’immedesimazione è totale. Il paragone è forte anche con la società di oggi, dove la condizione delle donne purtroppo è regredita. Michela Murgia entra a pieno nel migliore dei modi nei panni del personaggio, i gesti la voce, la postura che è poi quella della sua terra d’origine. Supportata dalla bravura di tutta la compagnia, lo spettacolo risulta molto piacevole. I canti e le musiche contribuiscono ad arricchire il tutto. Interessante l’impianto scenografico.
data di pubblicazione:03/02/2018
Il nostro voto:
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