STABAT MATER di Antonio Tarantino, regia di Giuseppe Marini

STABAT MATER di Antonio Tarantino, regia di Giuseppe Marini

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 21 febbraio/11 marzo 2018)

È un monologo laico che però allude al religioso, al trascendente della vita.

L’impegnativo pendant di titolo e sottotitolo (“Stabat mater”, ovvero “Oratorio per voce sola”) può ingannare. Perché si ride spesso negli 80 minuti di esibizione di Maria Paiato anche se i termini sono scabri, grevi, bestemmiatori.

L’affabulazione procede a tratteggiare gli assenti e a popolare la spoglia scena, una specie di costrittivo recinto in cui si esibisce l’attrice, spesso scalando il suo vertice quando i toni si fanno concitati. C’è il figlio di cui all’inizio parla bene ma che alla fine si rivelerà la prima fonte di problemi, un uomo misterioso che alle 22 serali non arriva mai (nonostante le premesse e le promosse), un bravo prete di strada (ma “forse” bravo fino a un certo punto), amiche fidate che la capiscono fino a un certo punto, digradando in questa nomenclatura della conoscenza a un giudice misterioso che forse non esiste. Così il monologo è un lucido e formale delirio di una donna che ne ha passate tante nella vita (troppe?) e che è sul punto di esplodere. La sua vita diventa un inferno se l’uomo che le ha dato un figlio è sposata con un’altra. E se quel figlio su cui ripone tante speranze è diventato un terrorista. Dunque il testo implode su sé stesso fino a un’esulcerazione tragica.

Ambientato a Torino, ricco di espressioni gergali, lo spettacolo è affidato in tutto e per tutto alla felice gamma di espressioni della dotatissima Paiato che riscatta la monodimensionalità del monologo recitando, il raschiamento del barile esistenziale, dando, in fondo vita a tanti personaggi pur mantenendo la propria identità perdente. È la sconfitta di un’Italietta periferica che non sorride e soccombe alla crisi, impastata in quella sottocultura, dei fumetti, del porno, dell’apparente riscatto del corpo.

Sinceri applausi in scena per una prova d’attrice che ne dimostra la grandezza. Senza ridursi a contaminazioni cinematografiche, televisive o, ancor peggio, pubblicitarie, come la maggior parte dei suoi colleghi.

data di pubblicazione: 26/2/2018


Il nostro voto:

BERLINALE: ORSO D’ORO AL FILM RUMENO TOUCH ME NOT

BERLINALE: ORSO D’ORO AL FILM RUMENO TOUCH ME NOT

Al di là di ogni possibile e avventata previsione, la giuria internazionale di questa 68esima edizione della Berlinale, presieduta dal regista tedesco Tom Tykwer, ha assegnato l’Orso d’oro al film Touch me not della rumena Adina Pintilie, regista che dopo aver completato i suoi studi a Bucarest, ha da sempre mostrato nei suoi lavori uno stile cinematografico tutto proprio, che l’ha portata nel tempo ad approdare a ciò che veramente l’ha sempre attirata: lo studio profondo della psiche umana. Il film premiato è in effetti un suo ennesimo atto di coraggio in quanto porta sul grande schermo scene in cui il corpo ci viene mostrato come mezzo espressivo diretto, a partire dalla protagonista Laura che va in terapia perché non ama essere toccata, sino ad arrivare a scrutare nell’intimo altri personaggi senza alcun riguardo per le loro deformità. La scelta di premiare un film così schietto e decisamente particolare, conferma ancora una volta come la Berlinale sia un Festival che rivolge la propria attenzione a forme cinematografiche sperimentali e per un pubblico di nicchia, con messaggi a volte persino sgradevoli seppur di sicuro effetto.

Gli altri premi assegnati sono stati i seguenti:

Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria a Twarz della polacca Malgorzata Szumowska;

Orso d’Argento per il film che apre Nuove Prospettive a Las herederas di Marcelo Martinessi, Paraguay;

Orso d’Argento per la Migliore Regia a Isle of dogs di Wes Anderson;

Orso d’Argento per la Miglior Attrice a Ana Brunim  nel film Las herederas;

Orso d’Argento per il Miglior Attore a Anthony Bajon nel film francese La prière di Cédric Kahn;

Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura a Manuel Alcalà e Alonso Ruizpalacios per il film messicano Museo;

Orso d’Argento per i Migliori Custumi a Elena Okopnaya per il film Dovlatov del regista russo Alexey German Jr.

Questa 68esima edizione della Berlinale ha presentato quest’anno una rassegna vastissima di film qualitativamente superiore rispetto all’anno passato, rivolti in prevalenza alle donne che in vario modo e sotto ruoli diversi sono risultate essere le vere protagoniste del mondo in cui viviamo. Accreditati ha voluto presentare ogni giorno un film scelto tra quelli in selezione ufficiale e non, manifestando come sempre il suo opinabile punto di vista. Un arrivederci quindi al prossimo anno in cui la Berlinale avrà un nuovo direttore al posto di Dieter Kosslick, in pensione per raggiunti limiti d’età.

data di pubblicazione:24/02/2018

HANNAH di Andrea Pallaoro, 2018

HANNAH di Andrea Pallaoro, 2018

Una balena spiaggiata, tanti curiosi che assistono al “rassegnato” lavoro degli ambientalisti che tentano di mantenerla in vita continuando a bagnarla con acqua di mare. Hannah affretta il suo passo sulla spiaggia, vestita di tutto punto come per andare ad un appuntamento: guarda negli occhi il cetaceo morente forse nel tentativo di sentire cosa si prova nell’osservare una lenta agonia.

 

Il titolo originario dell’intenso film di Andrea Pallaoro doveva essere La balena, sostituito poi con il nome della protagonista, perché la scena del mammifero spiaggiato evoca la lenta deriva dell’esistenza di una donna che, all’indomani dell’arresto del marito o meglio consorte, perché da quel momento lei ne condividerà la sorte, vedrà la sua vita spegnersi lentamente. Ma quale colpa si cela dietro quell’arresto? Allo spettatore non è dato saperlo perché il film, almeno in apparenza, non fornisce spiegazioni “convenzionali”. Ciò che è dato sapere è che la protagonista tenta con tutte le forze di aggrapparsi alla sua routine fatta di piccole cose che tuttavia le sfugge di mano, attimo dopo attimo, senza che lei possa fare nulla per frenare questo processo. Il figlio non la vuole più vedere, i vicini la evitano, la piscina dove va a nuotare le revoca l’abbonamento, anche gli allievi che come lei frequentano un corso di teatro, suo unico diversivo, non le parlano mai, non le fanno mai un sorriso, non le rivolgono mai uno sguardo che la faccia sentire viva. Eppure le spiegazioni di tutto questo sono lì, davanti ai nostri occhi: le troviamo nascoste in una busta di fotografie, nei silenzi di Hannah, nelle parole pronunciate attraverso le pareti di casa dalla vicina, nel dolore soffocato di questa donna che porta sulle sue gracili spalle una colpa non sua, ma che la sta schiacciando.

Hannah è un film profondo ma non per tutti, perché l’assenza quasi totale di dialoghi genera stupore e smarrimento: lo spettatore può solo osservare ogni piega delle espressioni di questa donna, imparare ad ascoltare i suoi silenzi, guardare i suoi occhi.

Charlotte Rampling è Hannah: è lei il film ed è immensa. Tutto il resto fa solo da sfondo al suo dolore, alla sua solitudine, al suo lento crollo verso un’inevitabile deriva nata dall’isolamento in cui l’ha relegata quella piccola porzione di società, rappresentata dal suo mondo e dai suoi affetti.

Si consiglia la visone di questo film a chi vede nel cinema l’opportunità di provare sempre nuove emozioni, a chi ama affinare le proprie percezioni viaggiando nei meandri dello spirito umano, per visitare pieghe mai percorse prima.

data di pubblicazione:24/02/2018


Scopri con un click il nostro voto:

IL FILO NASCOSTO di Paul Thomas Anderson, 2018

IL FILO NASCOSTO di Paul Thomas Anderson, 2018

Londra, inizio anni 50, il celebre sarto R. Woodcock (Daniel Day-Lewis) e sua sorella Cyril (Lesley Manville) che dirige la “Maison”, sono al centro dell’Alta Moda Britannica. Woodcock che fino ad allora aveva rifiutato ogni relazione affettiva stabile per timore di perdere la propria ispirazione creativa, si innamora di una fascinosa cameriera Alma (Vicky Crieps), ne diviene il Pigmalione e ne fa il punto di riferimento per la sua vita e per la creazione delle sue collezioni. Questo incontro sconvolgerà la sua vita, la sua creatività artistica e tutto il suo essere.

 

Paul Thomas Anderson, regista e sceneggiatore, fra i migliori autori del ”nuovo cinema americano” (suoi Magnolia, Il Petroliere, The Master), con questo film elegante e raffinato torna a lavorare con Daniel Day-Lewis, uno dei massimi interpreti dei nostri giorni ed unico ad avere vinto 3 Premi Oscar come attore protagonista. Il risultato è splendido, una vera gioia per gli amanti del Cinema! Il regista è un pittore di sentimenti e questa volta, come in altri suoi film, ci ripropone, tramite un triangolo intrigante fra Woodcock, Cyril ed Alma, quella che è la vera costante dei suoi film: la ricerca da parte dei suoi personaggi del senso del loro esistere e del loro doversi confrontare con la realtà tangibile dell’”Altro” rispetto a loro stessi. Ne Il Filo Nascosto la ricerca è inscritta all’interno di una relazione amorosa. Prendendo come punto focale il grande sarto, l’autore ci rappresenta il mistero di una coscienza indecifrabile. Woodcock, è infatti un esteta ipersensibile che non lascia entrare nessuno nel suo mondo interiore. Un uomo per il quale sono solo i suoi abiti che dovrebbero parlare per lui, e che, turbato dall’ingresso nella sua vita di Alma, si ritrova a perdere i suoi ritmi, la sua disciplina ed il suo silenzio. Che altro mai potrebbe allora essere “il filo nascosto” del titolo, se non il filo invisibile con cui Woodcock fa parlare i suoi abiti celando di proposito, dei messaggi nelle fodere delle sue creazioni e, nello stesso tempo, anche il filo impercettibile, l’amore, razionalmente rifiutato ed emotivamente bramato che invece lo tiene legato ad Alma. Un sentimento esaltante e nel contempo tossico con cui il personaggio interpretato da Day-Lewis si deve confrontare costantemente. Un discorso insomma, sul tema della dominazione e sottomissione fra due esseri presi da una reciproca follia d’amore. Il Filo Nascosto è infatti un doppio film, una apparente storia di manipolazione dell’”Altro”, sotto cui si intravvede una storia d’amore in equilibrio fra perversione e tenerezza. Anderson sa condurre questo doppio registro con una capacità narrativa alla quale dobbiamo solo affidarci, apprezzandone il risultato di alta qualità estetica così vicina alla perfezione dei dettagli che in più tratti ci ricorda Visconti. Il regista è anche autore della scenografia e direttore della fotografia, ed è bravissimo, pur avendo girato il film tutto in interni, ad evitare con il giusto ritmo cinematografico, ogni possibile elemento teatrale, aiutato in ciò da un montaggio rapido e da un eccezionale gioco delle luci e delle inquadrature. Il casting è perfetto, dai primi ai secondi ruoli. La presenza di Daniel Day-Lewis è dominante e cattura gli sguardi costantemente per la sua intensità recitativa e per la sua capacità, con pochi cenni, di rendere tutte le sfumature e complessità del suo personaggio. Eccezionale. Un quarto Oscar sarebbe meritatissimo! La giovane Krieps e la Manville sono poi complici di pari misuratezza e sensibilità recitativa basata tutta sulla forza dello “sguardo”.

Dunque un film bello, quanto bello è il soggetto ed è curata la sua messa in scena. Il Filo Nascosto è un film drammatico ed anche un film d’amore che rasenta quasi la perfezione, di sicuro un ottimo “film classico” in una perfetta fusione di forma e sostanza. Un film di un grande autore e di grandi attori destinato in assoluto alla gioia degli amanti del Vero Cinema.

data di pubblicazione:23/02/2018


Scopri con un click il nostro voto:

BERLINALE [9] – THE BOOKSHOP di Isabel Coixet, 2018

BERLINALE [9] – THE BOOKSHOP di Isabel Coixet, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Florence Green, oramai vedova da diversi anni, vuole scrollarsi di dosso la tristezza che pervade la sua vita e decide di realizzare il suo sogno nascosto che è quello di aprire una libreria. Sfortunatamente sceglie il posto meno adatto: Hardborough sulla costa inglese, una piccola cittadina che vive come in un perenne letargo. Florence dovrà ben presto affrontare oltre allo scetticismo della gente del luogo, anche l’ostruzionismo della ricca Mrs. Gamart che vuole assolutamente difendere la propria influenza culturale sulla città. A tutto questo si aggiunge lo scandalo sollevato dalla vendita di libri quali Lolita di Nabokov e Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Sommersa da inevitabili problemi di natura economica, Florence dovrà accettare ben presto l’idea di vedere andare in fumo la sua amata libreria, abbandonando così quel progetto al quale aveva dedicato tutte le sue energie.

 

La regista catalana Isabel Coixet è oramai nota al pubblico italiano dopo il successo ottenuto nel 2005 con il film La vita segreta delle parole presentato al Festival di Venezia nella Sezione Orizzonti, e premiato in patria con ben quattro premi Goya tra cui quelli per miglior film e miglior regia. Qui alla Berlinale si era fatta già notare nel 2003 con La mia vita senza me candidato agli European Film Awards come miglior film oltre ad ottenere due premi Goya. Tratto da un romanzo di Penelope Fitzgerald del 1978, The bookshop è un film ben costruito con una fotografia molto curata sulla ventosa costiera britannica, che regala alla pellicola una ventata di aria fresca, facendo da contrappunto all’atmosfera polverosa della libreria di Florence (Emily Mortimer). La protagonista è un personaggio che dietro una apparente fragilità di vedova indifesa, nasconde invece una buona dose di coraggio e di risolutezza di fronte alle avverse situazioni che le si presentano: dovrà infatti lottare molto contro l’aristocratica Mrs. Gamart (Patricia Clarkson), che cercherà in tutti i modi di ostacolare l’attività della libreria ricorrendo a stratagemmi politicamente poco corretti. Seppur il finale non è proprio da definirsi un happy end dal momento che la povera Florence dovrà andarsene lasciando la propria casa e la libreria costruita con grande amore e passione, la storia nel suo complesso è alquanto prevedibile. All’assoluta e incontestabile naturalezza recitativa dei vari personaggi ha purtroppo riscontro una narrazione poco interessante e del tutto priva di qualsiasi coinvolgimento emotivo. Una nota positiva è ciò che emerge dalla figura di Florence, una donna che ama i libri, ama leggerli ma anche accarezzarli per scoprirne quel fascino segreto che va al di là della carta stampata e che riesce a sprigionare il giusto nutrimento per chi ama intensamente la lettura, come la protagonista di questo film.

data di pubblicazione:23/02/2018







BERLINALE [8] – UTOYA, 22 JULI  di Erik Poppe, 2018

BERLINALE [8] – UTOYA, 22 JULI di Erik Poppe, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Il 22 luglio 2011 circa cinquecento giovani mentre frequentavano un campeggio sull’isola di Utoya vicino Oslo, in Norvegia, furono sorpresi da un attacco armato da parte di un terrorista, poi identificato come Anders Behring Breivik. Il fanatico killer uccise 77 di quei giovani e ne ferì più di cento; i sopravvissuti alla strage rimasero per lungo tempo sotto shock perché, senza avere alcuna possibilità di fuga, rimasero impotenti di fronte alla ferocia e alla morte. Tra loro, le sorelle Kaja ed Emilia che stano trascorrendo sull’isola le loro vacanze, e che rimasero coinvolte insieme agli altri in quel massacro immotivato verso persone del tutto innocenti.

 

Il regista norvegese Erik Poppe ha lavorato per ben tre anni prima di realizzare questo film sull’atto terroristico che colpì la Norvegia ed al quale questa nazione, allora impreparata, ancora oggi pensa con profondo ed immutato dolore. Nel lungo periodo di preparazione di Utoya, 22 Juli furono intervistati molti dei sopravvissuti per capire a fondo le emozioni provate in quei terribili 72 minuti cadenzati dai colpi di fucile con cui il terrorista dava la caccia ai fuggitivi. La telecamera segue in tempo reale ogni movimento della giovane Kaja (Andrea Berntzen) alla ricerca disperata della sorella di cui aveva perso le tracce mentre nel contempo tenta, insieme agli altri, di nascondersi nel bosco per sfuggire alla morte. Un film adrenalinico dove non si può che essere coinvolti emotivamente in quanto lo spettatore si trova in medias res insieme agli altri protagonisti, vivendo il terrore di quei momenti senza fine. L’abilità del regista sta nell’avere raccontato di quel fatto ponendosi dalla parte delle vittime, più che da quella del terrorista, figura che si intravede solo in un fotogramma ma la cui presenza incombe come un macigno durante tutta la durata del film come una costante minaccia per tutti. La giovane attrice che interpreta Kaja è perfetta nel portare sulla propria persona tutta la pressione psicologica della situazione che sta vivendo.

Come affermato dallo stesso regista in conferenza stampa: “si è voluto dare all’intera storia una versione quanto più vicina alla realtà, di come si svolsero i fatti, ricorrendo però al carattere di fiction per non urtare la sensibilità dei sopravvissuti e soprattutto quella dei genitori delle vittime”. Il regista conclude dicendo: “ho pensato a lungo se fosse prematuro fare questo film, ma poi ho pensato che tutti dovessero ricordare quei fatti, e non solo in Norvegia, affinché ognuno di noi si faccia parte attiva che tali atti non abbiano più a ripetersi”.

Il film dovrebbe essere distribuito in Italia e se ne raccomanda vivamente la visione.

data di pubblicazione:22/02/2018








BERLINALE [7] – LA TERRA DELL’ABBASTANZA di Damiano e Fabio D’Innocenzo, 2018

BERLINALE [7] – LA TERRA DELL’ABBASTANZA di Damiano e Fabio D’Innocenzo, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Mirko e Manolo sono due ragazzi di una borgata romana che frequentano svogliatamente l’ultimo anno dell’istituto alberghiero e, come tutti i giovani della loro età, non sono concentrati più di tanto sul proprio futuro quanto piuttosto di divertirsi con le ragazze. In una dello loro frequenti scorribande notturne i due investono un uomo e, invece di prestargli soccorso, fuggono sconvolti. L’indomani verranno a sapere di aver ucciso un personaggio di spicco di uno dei clan malavitosi che si contendono il dominio sulla città. Entrati così nell’entourage della “famiglia” a cui inconsapevolmente hanno fatto un piacere, i due inseparabili amici si troveranno catapultati nel mondo della droga e della prostituzione svolgendo senza scrupoli gli incarichi che di volta in volta gli verranno assegnati.

 

I due fratelli D’Innocenzo si sono da sempre dedicati alla scrittura e alla fotografia e, senza una specifica formazione cinematografica, hanno prodotto videoclips e film per la televisione e il cinema nonché un lavoro teatrale. Con La terra dell’abbastanza, presentato nella Sezione Panorama della Berlinale, sono al loro debutto come registi. Il film segue il filone Gomorra che, prendendo le mosse dal film di Matteo Garrone tratto da Saviano, ha poi invaso tutti gli spazi televisivi possibili raccontando le lotte di clan mafiosi per spartirsi il dominio in zone della città e poter così trafficare indisturbati nel proficuo campo della droga e della prostituzione. Ancora una volta sono i giovani ad essere coinvolti, agendo senza scrupoli perché spesso incoscienti di quello che a loro viene richiesto, prestandosi facilmente a svolgere le azioni più efferate in vista di facili e lauti guadagni. È questo il caso anche di Mirko e Manolo, i due giovani protagonisti del film per i quali uccidere a sangue freddo è un modo per far bella figura di fronte al capo e riscuotere il compenso. La realtà è quella prevedibile: le borgate delle grandi città (tanto care a Pasolini) e le famiglie inesistenti che si danno da fare come possono per crescere i propri figli, fornendo degli esempi di vita non proprio eticamente raccomandabili e ai limiti della legalità.

Bisogna dare atto ai registi di aver confezionato un lavoro tecnicamente ben fatto, in cui i continui primi piani su Andrea Carpenzano (Manolo) e Matteo Olivetti (Mirko) evidenziano la loro indiscutibile bravura. Ma il plot non riesce a dare al pubblico quel “qualcosa in più” che comunque ci si aspettava visto che di storie simili oramai ne siamo tutti abbastanza saturi, ed anche la figura del capo clan affidata a Luca Zingaretti non aggiunge nulla di nuovo.

Un plauso comunque va ai due promettenti registi presenti in apertura del film che, con un paio di simpatiche battute, hanno conquistato il folto pubblico presente in sala, in buona parte costituito dalla comunità italiana di Berlino.

data di pubblicazione:21/02/2018







BERLINALE [6] – EVA di Benoit Jacquot, 2018

BERLINALE [6] – EVA di Benoit Jacquot, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Bertrand, ragazzo di bell’aspetto, è l’unico a essere presente nella casa di un famoso scrittore quando questi muore per un infarto, ed anche l’unico ad essere a conoscenza dell’esistenza di un manoscritto riguardante un lavoro teatrale appena terminato. Se ne impossessa e lo spaccia per suo; la pièce, rappresentata con successo nei principali teatri, fa raggiungere al giovane Bertrand una strepitosa quanto immeritata popolarità. Casualmente Bertrand conoscerà Eva, nome d’arte di una misteriosa donna che si prostituisce ad alto livello per riscattare i debiti del marito. Da questo incontro il giovane cercherà ispirazione per realizzare un nuovo lavoro, commissionato con una certa insistenza dal suo agente, ma che ovviamente il presunto scrittore Bertrand, privo di talento letterario, avrà difficoltà a scrivere.

 

Il regista e sceneggiatore parigino Benoit Jacquot porta in concorso alla Berlinale Eva, uno psico-thriller tratto da un racconto del prolifico scrittore inglese James Hadley Chase, già proposto sul grande schermo nel 1962 da Joseph Losey, con Jeanne Moreau come protagonista femminile. La storia viene rappresentata con quel tipico carattere definito hard boiled per indicare quel genere espressivo dove violenza e sesso sono gli ingredienti principali che reggono l’intero plot. Bertrand (Gaspard Ulliel) è un giovane che ha ottenuto fraudolentemente un successo immeritato e che fa ovviamente fatica a mantenere perché incapace di scrivere: l’incontro con Eva (Isabelle Huppert), donna affascinante ma estremamente sprezzante, destabilizzerà ulteriormente la fragile personalità del giovane che, coinvolto emotivamente, verrà usato dalla donna solo per spillargli forti somme di danaro in cambio di sesso. In effetti non è l’amore ciò che Bertrand cerca ossessivamente in Eva, ma l’ispirazione per tentare di scrivere il suo nuovo (ma anche primo) lavoro teatrale, che invece stenta a decollare.

Alla indiscussa bravura della Huppert, oramai destinata a ricoprire ruoli di donna spregiudicata e cinica così come è apparsa negli ultimi film, fa da contrappunto la staticità espressiva del giovane attore Ulliel che, nonostante la nomination ai César come miglior attore protagonista per Saint Laurent nei panni del celebre stilista, non sembra qui all’altezza del ruolo. Bertrand infatti rappresenta nel film un archetipo e non una persona reale, ed è difficile provare emozione e coinvolgimento per un uomo senza carattere che precipita privo di controllo verso una spirale di totale distruzione. Le premesse potevano essere buone, ma il film rivela presto tutta la sua inconsistenza che ne fanno qualcosa di assolutamente prevedibile.

data di pubblicazione:20/02/2018







BERLINALE [5] – THE HAPPY PRINCE di Rupert Everett, 2018

BERLINALE [5] – THE HAPPY PRINCE di Rupert Everett, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Alla fine del 19esimo secolo Oscar Wilde rappresentava un’icona nell’alta società londinese che era affascinata, oltre che dai suoi lavori, anche dalla sua personalità carica di umorismo e di trasgressione al tempo stesso. A causa della dichiarata omosessualità viene messo in prigione, dalla quale ne esce dopo due anni profondamente provato nel fisico e senza più soldi perché nel frattempo le sue opere teatrali erano state messe al bando e non più rappresentate. Trasferitosi in esilio a Parigi, dopo falliti tentativi di riconciliarsi con la moglie Constance, decide di chiudere la relazione con il giovane Lord Douglas responsabile di averlo trascinato in quel totale disastro. Pur tra i fumi dell’assenzio, Oscar Wilde riesce comunque con i suoi racconti per bambini a conquistare l’affetto di tutti coloro che fedeli gli staranno accanto sino alla fine dei suoi giorni.

 

Dopo aver interpretato il ruolo di protagonista in tantissimi film di successo (per citarne alcuni: Ballando con uno sconosciuto, Il matrimonio del mio miglior amico, Shakespeare in Love, L’importanza di chiamarsi Ernesto, Stage Beauty, Hysteria) Rubert Everett è alla sua prima regia con The Happy Prince, presentato oggi alla Berlinale nella Sezione Teddy Award. Interpretando il ruolo di Oscar Wilde, il regista Everet sembra dare il meglio di sé e confermare una eccellente bravura supportata da una evidente maturità personale che incide in maniera determinante nell’imprimere una giusta dose di empatia nel personaggio da lui rappresentato. L’immagine che ne viene fuori si adatta perfettamente alla figura dell’insigne scrittore che negli ultimi anni della sua vita si era completamente lasciato andare a degli eccessi che la puritana società vittoriana di allora difficilmente avrebbe potuto tollerare. Il film ci parla di Oscar Wilde oramai in esilio a Parigi, lontano dall’amata moglie Constance e dai suoi due figli, in uno stato di perenne indigenza e oramai prossimo a morire, pur tuttavia sempre pronto a ironizzare sulla propria persona e a guardare il lato buono delle cose. Ecco così che Rupert Everett riesce nel delicato compito di non rivelare il lato buio della personalità di Wilde, ma al contrario di mostrare la sua capacità di venir fuori dalle situazioni più cupe con ineguagliabile sarcasmo. Riferendosi al De Profundis, testamento di Wilde dalla prigione, Everett ci narra di un uomo che fu punito per essere quello che lui stesso desiderava essere, senza ricorrere ad ipocrisie o ad atteggiamenti che contraddicessero la sua genuina personalità. The Happy Prince è una favola per bambini, oramai di rilevanza universale, che colpisce il cuore di tutti a prescindere dall’età anagrafica ed il film che ne porta il titolo ha centrato in pieno lo spirito del suo autore, oramai tra i grandi della letteratura di tutti i tempi. Nell’ottimo cast spicca Emily Watson nella parte di Constance e Colin Firth nel ruolo dell’amico Reggie Turner. Ci auguriamo che il film venga distribuito in Italia perché è decisamente da non perdere.

data di pubblicazione:19/02/2018








BERLINALE [4] – FIGLIA MIA di Laura Bispuri, 2018

BERLINALE [4] – FIGLIA MIA di Laura Bispuri, 2018

(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)

Vittoria è una bambina di dieci anni che vive in un paesino della Sardegna, lontano dal turismo di massa, insieme ai genitori. Un giorno per caso, durante una saga paesana, conosce l’eccentrica Angelica, donna con un carattere completamente diverso da quello di sua madre Tina. Inspiegabilmente attratta dalla figura di Angelica, così spregiudicata e libera, Vittoria comincia a sentire del tutto estranea quella della madre, così eccessivamente protettiva. Da una serie di circostanze la bambina percepirà di essere al centro dell’attenzione delle due donne, e via via si troverà a dover operare delle scelte che la porteranno a scoprire verità nascoste.

 

Dopo Vergine Giurata del 2015, Laura Bispuri presenta oggi in concorso alla Berlinale il suo secondo film Figlia mia, una storia molto forte che vede due madri contendersi una figlia.

Il film è ambientato in una Sardegna assolata, dove ci sembra addirittura di percepire l’odore dello sterco dei cavalli ed il ronzio continuo delle mosche, una terra che ha la sua storia millenaria ma che sembra ancora vagare alla ricerca di una vera e propria identità, un po’ come le due protagoniste che, nonostante il loro trascorso, non sanno ancora bene chi sono e se possono collocarsi nel ruolo di madri. I paesaggi brulli, al di fuori dei riflettori mondani di un turismo che caratterizza oggi questa regione, sono la metafora di due vite aride che faticano a riconoscersi per quello che sono. Di tutto questo ne farà le spese la piccola Vittoria, che dovrà barcamenarsi tra due madri così terribilmente opposte ma che, con la loro complementarietà, le daranno lo stimolo per maturare. I lunghi piano sequenza sembrano accompagnare la bambina in questo suo percorso accidentato che, sebbene duro da affrontare, sarà invece per lei elemento di presa di coscienza. Vittoria diverrà il perno intorno al quale queste due donne dovranno ruotare, per ricucirsi addosso il giusto ruolo di madri: a lei spetterà l’arduo compito salomonico di decidere quale madre scegliere, in cui l’istinto verrà contraddetto dalla direzione dei fatti.

Intense le interpretazioni di Valeria Golino e Alba Rohrwacher, per la prima volta insieme sul set, dirette con grande maestria dalla regista. Un plauso va anche alla spontaneità della piccola Sara Casu nel ruolo non semplice di Vittoria, vera protagonista dell’intera narrazione. La pellicola è stata ben accolta dalla stampa per l’intensità dei temi affrontati, tanto che a parere di chi scrive potrebbe guadagnarsi qualche concreto riconoscimento.

data di pubblicazione:18/02/2018