IL MALATO IMMAGINARIO, regia di Andrée Ruth Shammah

IL MALATO IMMAGINARIO, regia di Andrée Ruth Shammah

(Teatro Eliseo – Roma, 28 novembre/17 dicembre 2017)

Gioele Dix al secolo alias Mister Ottolenghi sul palcoscenico dell’Eliseo ripresentando il Malato Immaginario (ultima versione precedente 2014) per la firmatissima regia di Andrèe Ruth Shammah non pensa minimamente di ricalcare la recitazione smorfie e sguardi storti di Alberto Sordi in una memorabile versione cinematografica.

All’Eliseo non si ruba e non si copia come ha già mostrato Dapporto “rischiando” ne Un Borghese Piccolo Piccolo dove Sordi ancora impera. Ma non è un one man show perché lo spettacolo presenta dieci attori (un lusso di questi tempi) debitamente affiatati con entrate in scena previste anche nel solo secondo tempo. Il primo in realtà è tutto suo, dell’automobilista fin troppo nervoso, con una tipizzazione efficace. Si può scrivere che Dix prenda in mano lo spettacolo e poi lo affidi ai comprimari che reggono bene la scena in una evocazione senza tempo ma dove l’uso di un’affabulazione moderna e di termini rimanda alla contemporaneità. Alla ripresa dello spettacolo c’è più Molière nell’autosfottò anche di se stesso dopo una lunga tirata (sfrondabile) sulla filosofia della medicina, la chiave di volta per il progressivo diverso parere di Argan sui propri malanni fin troppo immaginari. E’ un ipocondriaco irascibile del nostro tempo quello che viene rappresentato. Molto diverso da un italiano alle prese quotidianamente con gli ansiolitici? Diremo di no. Così in un profluvio di salassi, clisteri, medicine e piccole lezioni sanitarie prende il via e si dipana la farsa cara al teatrante francese che, ironia della sorte, morì in scena e di cui si sfrutta la pregiata traduzione di Cesare Garboli. Il sottofondo è una vicenda sentimentale fortunatamente e naturalmente risolta con un colpo di scena provocato ad arte. Particolarmente brava Anna La Rosa che spicca in un contesto affiatato e sensibilmente già rodato dalla lunga tournèe.

data di pubblicazione:16/12/2017


Il nostro voto:

GODLESS di Scott Frank – Mini serie su NETFLIX

GODLESS di Scott Frank – Mini serie su NETFLIX

So che qualcuno potrebbe storcere il naso riguardo alla scelta di recensire una serie televisiva e per di più prodotta da Netflix … lo so il cinema è un’altra cosa! Ma Godless, la mini serie ideata e scritta da Scott Frank che è stato sceneggiatore di film quali Malice, Get Shorty, Out of Sight, Minority Report, The Wolverine e Logan, per citare i più conosciuti, ha troppi meriti per non essere inserita fra i piccoli gioielli dell’anno. Intanto la produzione è a cura di Steven Soderbergh (Sex, Lies, and Videotape), a garanzia di stile e dialoghi di ottimo livello. Altro punto di forza è stato riuscire a rivitalizzare un genere, il western, che, seppure non è mai morto del tutto, ha perso negli anni il suo primogenio smalto. In Godless, come avrebbe detto il grande Tullio Kezich, c’è tutto, un concentrato di John Ford, la violenza di Sergio Leone e Sam Peckinpah, la nostalgia di Mann.

Naturalmente tutto questo non avrebbe senso se si trattasse solo di un esercizio ben fatto sul genere, va sottolineato, invece, che il tocco di Soderbergh si sente nel potente connubio fra storia (donne dure che difendono il loro paese oramai senza uomini) e dialoghi, fra racconto, sempre serrato e paesaggi, non senza trascurare (merito della narrazione seriale) i risvolti psicologici dei protagonisti, tutti interpretati da magnifici attori (su tutti Jeff Daniels) e attrici (la magnifica Michelle Dockery di Downton Abbey). Accennavo ai dialoghi sempre asciutti e mai banali ma tutto in questa rappresentazione del bene e del male riuscirà ad emozionarvi.

Con l’occasione segnalo a quanti hanno a cuore il cinema, la scomparsa di Vito Attolini, per anni critico della Gazzetta del Mezzogiono, autore di innumerevoli testi sul cinema, grande appassionato e splendida persona di cui sentiremo certamente la mancanza.

data di pubblicazione:13/12/2017

IL RISTORANTE DELL’AMORE RITROVATO di Ito Ogawa – Neri Pozza, 2010

IL RISTORANTE DELL’AMORE RITROVATO di Ito Ogawa – Neri Pozza, 2010

Molto incuriosita dall’ultimo pubblicato La locanda degli amori diversi di Ito Ogowa, autrice che non conosco, ho iniziato ad avvicinarmi leggendo il primo libro pubblicato da Neri Pozza: Il ristorante dell’amore ritrovato.

Protagonista è Ringo, una sous chef che lavora in un ristorante turco di Tokyo; una sera rientrando a casa la trova totalmente vuota, il suo fidanzato è andato via portando con sé tutto: vestiti, mobili, gli utensili da cucina di Ringo, alcuni dei quali ereditati dalla adorata nonna, nonché tutti i suoi risparmi…

Il trauma è tale che Ringo ammutolisce, da quel momento comunicherà solo per iscritto attraverso un blocco note, l’unica cosa che riesce a fare è dirigersi alla fermata dell’autobus che l’aveva portata, quindicenne, dalla sua casa avita a Tokyo a casa della nonna e che ora, con percorso contrario, la riporterà a casa della madre nel suo paese natio.

Il rapporto con la madre è molto complicato, Ringo dovrà ingoiare il suo orgoglio e chiedere alla madre di poter affittare l’annesso della sua casa dove ricavare il suo ristorante per poter ricominciare; il ristorante, “Il Lumachino”, avrà un unico tavolo dove la chef accoglierà i commensali dopo aver parlato con loro e identificato il menù di cui hanno bisogno.

Le descrizioni dei cibi e degli ingredienti, del loro colore, dell’intensità dei sapori e dei profumi che sprigionano sono così perfette che sembra quasi di essere in cucina con Ringo, la delicatezza e la deferenza con cui la chef tratta tutti gli ingredienti è un vero tributo a ogni elemento, animale o vegetale, utilizzato; le storie dei clienti che si avvicendano nel locale sono indispensabili per rendere più concreta la figura di Ringo, definiscono meglio il suo carattere e i suoi pensieri, così come i scontri che ha con Ruriko, la madre.

La Ogowa ha creato un tourbillon di personaggi che ruotano intorno alla chef e che insieme alle riflessioni e ai sentimenti di Ringo le permetteranno di affrontare il tema dell’amore, della vecchiaia, dell’abbandono, della malattia e, soprattutto, del rapporto madre-figlia. Un bellissimo romanzo che ci porta nel Giappone del terzo millennio ma sempre comunque intriso delle sue tradizioni e delle sue memorie.

data di pubblicazione: 11/12/2017

SMETTO QUANDO VOGLIO – AD HONOREM di Sydney Sibilia, 2017

SMETTO QUANDO VOGLIO – AD HONOREM di Sydney Sibilia, 2017

La famosa banda dei ricercatori è al cinema con la sua ultima impresa. Un nuovo nemico ne ostacolerà il cammino, mettendo a dura prova le migliori menti in circolazione. 

 

In una società intrisa di serialità, mettere un punto non è mai facile. Farlo bene, poi, è ancora più complicato. Eppure, nell’ultimo capitolo della trilogia di Smetto quando voglio il regista salernitano Sydney Sibilia è riuscito a chiudere il cerchio con estrema cura dei dettagli, senza correre il rischio di cadere in storture o imprecisioni di ogni sorta. Una qualità da sottolineare, segno evidente di un grande lavoro di scrittura.

Smetto quando voglio – Ad honorem, questo il titolo della pellicola conclusiva, ha fatto il suo ingresso nelle sale lo scorso 30 novembre, a meno di un anno di distanza dalla precedente Smetto quando voglioMasterclass. Nel finale di quest’ultima avevamo lasciato i nostri ricercatori dietro le sbarre, stavolta perché traditi dall’ispettrice Paola Coletti. Ed è proprio dal carcere che le migliori menti in circolazione partiranno per compiere la loro avventura definitiva, la più importante di una carriera da insoliti criminali.

Guidati da un’intuizione del neurobiologo Pietro Zinni, il chimico Alberto, i latinisti Mattia e Giorgio, l’antropologo Andrea, l’archeologo Arturo e l’economista Bartolomeo, insieme alle new entry della seconda parte, Giulio e Lucio, si uniranno al terribile “Er Murena” per sventare un attentato terroristico. Mente del piano è Walter Mercurio, interpretato da un magnetico Luigi Lo Cascio, già incontrato in passato nell’adrenalinica scena dell’attacco al treno. Come nella più classica delle storie che abbia come protagonisti dei supereroi, lui è il villain da abbattere con tutti i poteri che si possiedono. E allora quali, se non l’astuzia, l’ingegno e il sapere appreso in tanti anni di studio?

Se con Masterclass il pubblico aveva soprattutto riso, guardando Ad honoremè innegabile che gli sia dato più spazio per riflettere, sulla precarietà e l’inefficienza di certi sistemi, sull’ingiustizia e sulla vita nel suo complesso. In un mix di generi che denota uno studio attento dell’arte cinematografica nella sua essenza, il risultato ottenuto è un’esplosione di creatività più unica che rara nel panorama attuale.

Inutile dire che gli impavidi accademici ci mancheranno tutti, ciascuno diverso dall’altro per specializzazione e caratteristiche individuali. Chissà cosa faranno adesso. Ma tranquilli: parafrasando una frase cruciale del film, di sicuro “si inventeranno qualcosa”.

data di pubblicazione:07/12/2017


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SUBURBICON di George Clooney, 2017

SUBURBICON di George Clooney, 2017

“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?” In un’America che non è disposta a fare i conti con il proprio passato e le proprie colpe, fiorisce la cittadina di Suburbicon, popolata da oneste e benpensanti famiglie tradizionali che si oppongono tenacemente all’arrivo di tre afroamericani. Proprio nella villetta accanto a quella abitata dai “negri” si consuma una tragedia familiare, ma il frastuono delle proteste e dei martelli che costruiscono muri per isolare gli invasori è così assordante da offuscare tutto il resto.

 Suburbicon è la città ideale, all’interno della cui perfezione da giornale patinato ciascun americano può realizzare la propria vita da sogno. L’arrivo dei Meyers, una famiglia di afroamericani, turba l’apparente tranquillità della cittadina popolata da oneste famiglie tradizionali, suscitando la strenua opposizione dei comitati di quartiere: i “negri” saranno ben accetti, ma solo quando si mostreranno ben educati e pronti a una convivenza civile.

Nella villetta accanto a quella degli “stranieri” vive la famiglia Lodge: Gardner (Matt Damon), Rose (Julianne Moore) e il piccolo Nicky (l’impeccabile Noah Jupe). Anche zia Margaret (sempre Julianne Moore), gemella di Rose, è solita frequentare casa Lodge. Durante una rapina in casa, Rose resta uccisa. Neppure Suburbicon (il nome, del resto, è tutto un programma) può considerarsi dunque immune dagli episodi di criminalità che scandiscono la vita del “mondo reale”.

Il fuoco del film si sposta a questo punto sui panni sporchi che si lavano nella casa dei bianchi, entra nella casa di Lodge, rendendo evidente che il vero dramma è ben lontano dalle proteste sempre più violente di fronte alla casa dei Meyers. Tutto si svolge sotto lo sguardo di Nicky, di uno di quei bambini che ci guardano dai tempi di De Sica.

Il sesto film che vede George Clooney dietro alla macchina da presa ha una scrittura che risente chiaramente dell’impronta dei fratelli Cohen: un umorismo dissacrante, che ridicolizza i cattivi senza però creare con loro empatia alcuna. Suburbicon è il frutto di un’idea che risale agli anni Ottanta, ma che, in maniera per certi aspetti sorprendente, racconta una storia più che mai attuale. Nell’America di Donald Trump, che si interroga sull’opportunità di rimuovere le statue dei generali sudisti, che ancora non ha fatto i conti con la memoria e che, forse anche per questo, non riesce a intravedere un futuro sufficientemente solido, si continua ad additare l’altro, lo straniero, il diverso, come la causa di ogni male della società, trincerandosi dietro una cortina di ipocrisia tanto spessa quanto fragile. La riflessione sulla questione razziale, che apre e chiude il film, rappresenta indubbiamente il tema centrale di Suburbicon, anche se la storia si concentra poi sulla rocambolesca caduta della “tradizionale famiglia bianca”. Le due storie parallele si congiungono grazie ai due bambini, il bianco e il nero, capaci di giocare insieme e, forse, di infondere al film un anelito di speranza.

La scrittura e la regia si rivelano ottimamente sincronizzate. Quanto al cast, non brilla particolarmente la prova di Matt Damon; più interessante è il doppio ruolo cui è chiamata Julianne Moore e prezioso, come al solito, l’apporto di Oscar Isaac, protagonista di alcune delle sequenze in cui la penna di Cohen mostra il suo tratto più cristallino.

Fino a quando un uomo bianco potrà attraversare in bicicletta, di notte, un quartiere “per bene”, perché tanto ci sarà sempre un “negro” cui dare la colpa, osserva Matt Damon in conferenza stampa, l’America avrà ben poche possibilità di costruire il proprio futuro. George Clooney, senza sottrarsi alle (inevitabili) domande sulla politica di Trump, risponde ai giornalisti che potrebbe essere divertente candidarsi come nuovo Presidente americano. In attesa delle presidenziali, Suburbicon può considerarsi un valido programma elettorale, politicamente interessante e cinematograficamente ben confezionato.

data di pubblicazione: 06/12/2017


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L’INSULTO di Ziad Doueiri, 2017

L’INSULTO di Ziad Doueiri, 2017

Un banale alterco diviene un caso mediatico di rilevanza nazionale. Un libanese cristiano e un palestinese si trovano contrapposti in un’aula di Tribunale, che si trasforma anche nel palcoscenico di uno dei capitoli più complessi della storia contemporanea. 

The Insult di Ziad Doueniri, in concorso a Venezia 74, sorprende con un legal drama made in Libano che, pur prendendo a prestito alcuni stilemi di un registro narrativo tradizionalmente appannaggio del made in USA, risulta un’opera nel complesso originale, tanto per la questione politico-culturale che fa da sfondo all’intera vicenda quanto per l’esito della battaglia legale che costituisce il cuore del film.

Toni (Adel Karam), libanese militante del Partito Cristiano, discute con il palestinese Yasser (Kamle El Basha, che con questa interpretazione si è aggiudicato la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile all’ultima edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia) per una grondaia “fuori norma”. Yasser, di fronte alla tracotanza mostrata da Toni e malgrado si trovi in un quartiere di Beirut socialmente e politicamente ostile ai palestinesi, insulta il suo interlocutore. Toni decide di procedere per vie legali, intentando una causa di risarcimento nei confronti di Yasser. Le leggi degli uomini, tuttavia, non sembrano in grado di risolvere una situazione così complessa che, come avviata lungo il crinale di un pendio scivoloso, degenera ulteriormente. Quello che sembrerebbe un banale alterco quotidiano si trasforma rapidamente in un caso mediatico di rilevanza nazionale, in un Paese divenuto negli ultimi decenni un crogiolo di religioni, culture, ideologie: in un Paese multirazziale che fatica a trasformarsi in un Paese multiculturale.

Allo scontro tra culture si aggiunge anche quello tra generazioni, visto che gli avvocati difensori sono un vecchio fedele alla causa cristiana (Camille Salameh) e una giovane (Diamand Bou Abboud), convinta sostenitrice dei diritti dei palestinesi. Si scoprirà poi che i due sono molto più che semplici colleghi.

I temi con i quali il processo è chiamato a confrontarsi sono quelli con cui il diritto (specie penale) è chiamato frequentemente a fare i conti, soprattutto nei momenti di più complessa e violenta transizione storica. Fanno più male le aggressioni fisiche o quelle verbali? Si può essere condannati per un reato di opinione oppure ognuno ha la libertà di pensare e dire tutto quello che desidera? La dignità del singolo, anche se l’offesa non sia arrecata pubblicamente, è suscettibile di una tutela penale? Si può reagire, secondo il codice penale libanese, anche oltre i limiti della legittima difesa, se il soggetto si trovi in uno “stato emotivo compromesso” che ha compromesso la sua lucidità. Ma la battaglia legale senza esclusione di colpi, portata a conseguenze che né Toni né Yasser avrebbero immaginato e sperato, dimostrerà che non sempre i ruoli di “vittima” e di “aggressore” sono così chiaramente delineati. Se la Presidente del collegio giudicante non leggesse a voce alta il “verdetto” della Corte d’appello, le sole immagini non lascerebbero agevolmente intuire quale dei due contendenti sia riuscito ad avere la meglio.

Ziad Doueiri, come lo stesso regista spiega in conferenza stampa, proviene da una famiglia di avvocati e di giudici: è quindi abituato non solo al linguaggio legale, ma anche all’idea che l’unico strumento di affermazione dei diritti (umani) siano le leggi di uno Stato. Ammette di aver avuto tra i suoi modelli Il verdetto di Sidney Lumet, ma, come anticipato, il risultato di The Insult, più concentrato sulla storia che sui movimenti di macchina ad effetto, è per molti aspetti sorprendente, andando ben oltre le pastoie imposte dal recinto del film di genere.

data di pubblicazione: 06/12/2017


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MARITI E MOGLI, regia di Monica Guerritore

MARITI E MOGLI, regia di Monica Guerritore

(Teatro Quirino – Roma, 5/17 dicembre 2017)

La bravissima Monica Guerritore porta in scena al Teatro Quirino di Roma la versione teatrale del film Mariti e Mogli di Woody Allen e in un attimo lo spettatore si ritrova quasi voyeur dei “balletti” di sentimenti contrastanti, passioni, bassezze e fragilità di un gruppo di amici frequentatori di una sala da ballo e di un ristorante newyorchesi.

Come ogni settimana Gabe (Cristian Giammarini), nel ruolo che al cinema fu di Woody Allen, e Judy (Francesca Reggiani) si incontrano nella sala da ballo insieme alla coppia di amici più cari, Jack (Ferdinando Maddaloni) e Sally (Monica Guerritore). Assieme a loro frequentano la scuola di ballo anche un collega di Judy, il fascinoso Michael (Enzo Curcurù), Rain (Malvina Ruggiano), giovane allieva del corso di scrittura tenuto da Gabe, e la giunonica e un po’ svampita Sammy.

Tuttavia, quella che doveva essere una delle tante monotone, “lineari”, serate borghesi infrasettimanali della “vita perfetta” delle due coppie di amici Gabe/Judy e Jack/Sally, viene subito alterata dall’annuncio di questi ultimi: “abbiamo deciso di separarci, ma senza tensioni, rabbia e sofferenza”. Da questo fulmineo colpo di scena – al quale fa da sfondo l’inizio di un temporale -, che Jack e Sally sembrano condividere e affrontate con grande serena naturalezza, prendono il largo una serie di riflessioni, turbamenti, piccoli monologhi degli amici Gabe e Judy che riflettono un comune ma nascosto malessere della loro coppia: una latente insoddisfazione, nostalgia per la passione passata e un’inconscia attrazione verso nuove persone, più giovani. Non solo.

Quella che pareva essere una separazione consensuale e amichevole basata solo su un sentimento mutato e su riflessioni interne al rapporto tra Sally e Jack si rivela ben presto la conseguenza della banale relazione clandestina, ma ormai rivelata, di Jack con la procace Sammy. Recriminazioni, gelosie, grida di dolore e insoddisfazioni represse per anni travolgono il gruppo di aspiranti ballerini per una notte che loro malgrado sono costretti a confrontarsi ostaggio della pioggia incessante. Da una separazione dichiarata si passerà per il maldestro tentativo di trovare la felicità nella nuova dimensione di single maturi fino ad arrivare alla deriva dell’altra coppia, quella che sembrava perfetta e lontana da qualsiasi bassezza e tentazione. Mariti e Mogli, sebbene ispirato a un film del 1992, è uno spettacolo tremendamente attuale e smuove le coscienze. Sfido chiunque sia stato in sala alla prima gremita – platea composta da persone, molte coppie, di ogni età – a non essersi riconosciuto nei pensieri, gesti, parole e nelle azioni delle due coppie protagoniste, ma anche dei personaggi che ruotano intorno a loro. La fragilità dell’amore, l’ipocrisia, la paura di rimanere soli e perdere lo status di persona sposata borghese con le sue sicure abitudini, l’insidiosa voglia di trasgredire ed evadere, il bisogno di amare ed essere amati sempre e comunque. Lo spettacolo lascia indubbiamente un po’ di amara rassegnazione a tutti gli inguaribili romantici, ma grazie all’ironia e alle splendide musiche che accompagnano le parentesi ballerine dei personaggi del racconto – tra cui l’elegante “Lilies in the valley” di Jun Miyake – il cinico ritratto della realtà dei sentimenti e dei rapporti di coppia merita comunque di essere visto.

data di pubblicazione:06/12/2017


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RE LEAR di William Shakespeare, regia di Giorgio Barberio Corsetti

RE LEAR di William Shakespeare, regia di Giorgio Barberio Corsetti

(Teatro Argentina – Roma, 21 novembre/10 dicembre 2017)

Dal 21 novembre al 10 dicembre al Teatro Argentina, in prima nazionale, ha debuttato il nuovo allestimento di Re Leardi William Shakespeare, la tragedia del potere, per la regia di Giorgio Barberio Corsetti con protagonista Ennio Fantastichini.

Corsetti ha ideato una sinfonia dolorosa e infernale che parte dalla prova d’amore pretesa da un Re alle sue tre figlie e culmina, in un crescendo delirante, nella distruzione di un regno spazzato via dall’odio e dalla sopraffazione, in cui i pochi superstiti sono chiamati a tentare una ricostruzione in vista di un futuro possibile. È la storia di un regno, di legami politici, accordi finanziari e guerre e di una famiglia divisa e distrutta dall’avidità e dall’ambizione.

Ad inizio alla rappresentazione un video in diretta: voci, corpi, urla, risate, un festino decadente che anticipa la tragedia. Lear, potente re di Britannia, stanco del peso della corona, consapevole che la vecchiaia e la morte sono irrimediabilmente vicine cede il proprio regno alle giovani figlie, sperando di godersi ricchezze e feste confidando nell’ospitalità delle proprie figlie. Vuole ritrovare la giovinezza perduta, abbandonare le cure del regno, il peso delle responsabilità, poter vagare con i suoi cavalieri da un palazzo all’altro, fare bagordi e occuparsi solo del proprio piacere.

Lear pensa di poter essere amato perché sta regalando il potere, ritenendo che il sentimento delle figlie sia una garanzia, un investimento che gli permetterà di vivere spensierato la sua vecchiaia.

Quel Lear pieno di se e padrone del mondo spartisce così il proprio regno tra le figlie Goneril e Regan, mentre Cordelia la figlia più piccola viene allontanata e diseredata. Goneril e Regan priveranno il padre di ogni amore, di ogni rispetto, negandogli sostegno economico e affettivo, trattandolo come un vecchio pazzo.

In realtà è l’epilogo di un uomo che vede frantumarsi i legami familiari fino alla morte. Diventerà pazzo, cominciando a girare per il regno, in preda a deliri sempre più violenti, accompagnato da un pazzo per finta e sostenuto dalla fedele amicizia di Gloucester, altro uomo e padre, ferito e tradito.

Giorgio Barberio Corsetti ha voluto portare Lear ai nostri giorni, cercando di creare un ponte tra passato e presente attraverso un linguaggio moderno e l’impiego della tecnologia. Un linguaggio però che non aggiunge nulla al testo, finendo per sminuire la bellezza e la drammaticità della poetica shakespeariana.

La regia punta a stupire con effetti visivi e sonori e accenti esasperati, ponendo in secondo piano la poesia, il cuore e le emozioni. La scenografia è imponente ed efficace, così come i costumi, moderni e dai colori decisi.

Rimane comunque il forte impatto scenico: il dramma delle due famiglie, Lear e Gloucester, la tempesta, la fuga, la follia, la natura che si confonde con la mente, i complotti, i tranelli, le guerre sono momenti e luoghi fisici e interiori, reali e allucinati.

La tragedia esistenziale è devastante, ma di fronte a tanto male e tanta efferatezza si intravede una speranza: lealtà e fedeltà, rispetto così come la pietà e la compassione, rappresentano ciò che alla fine rimane e dà speranza.

data di pubblicazione:06/12/2017


Il nostro voto:

HAPPY END di Michael  Haneke, 2017

HAPPY END di Michael Haneke, 2017

Dopo 5 anni torna a noi il pluripremiato regista Michael Haneke. Suoi successi: Il nastro bianco Palma d’Oro a Cannes 2009, ed Amour Palma d’Oro a Cannes 2012 ed anche Premio Oscar 2013 come miglior film straniero. Con Happy End, il regista ci dipinge, senza falsi pudori, la realtà di una famiglia altoborghese di Calais con tutte le sue perversità, le colpe celate nel profondo, gli egoismi e le centrature sull’apparenza e sull’ipocrisia sociale. La famiglia Laurent, priva di valori e quasi allo sbando, è anche specchio di una Società ormai destinata all’infelicità cui fa da sfondo lontano una Calais, luogo di transito dei tanti migranti in attesa di riuscire a passare in Inghilterra. Sotto l’apparente ed adagiata normalità di imprenditori e professionisti, tutti i Laurent hanno qualcosa di cui vergognarsi.

 

L’anziano patriarca (J.Louis Trintignant) ormai ritiratosi dagli affari, è stanco e deluso della vita e corteggia e desidera la morte; i suoi due figli: Thomas (Mathieu Kassovitz) chirurgo affermato e sposato, in seconde nozze con una giovane donna è centrato su se stesso ed è preso solo dalle sue pulsioni di meschino traditore seriale; Anne (Isabelle Huppert) governa con cinica determinazione ed ambizione l’impresa di famiglia, attenta solo a salvare le apparenze; suo figlio trentenne è imbelle, inetto ed incapace di inserirsi nella direzione degli affari familiari, infine la giovane adolescente Eva (Fantine Harduin), figlia del primo matrimonio di Thomas, che, a seguito dell’ospedalizzazione della madre vittima della depressione, vive ora anche lei nell’opulenta magione  di famiglia.

Happy End è un film sulle relazioni umane, sulla mancanza di affetto, di sentimenti e di emozioni che si ritrova nella realtà in cui noi tutti siamo immersi. E’ una denuncia della solitudine, della difficoltà e del mal di vivere, dell’anaffettività, dell’egoismo e della loro pervasività, al di là di ogni emozione, nella società attuale. E’ un film fedele alle “ossessioni” di Haneke ed alla sua maniera di filmare, in cui il regista ci ripropone i temi a lui cari e che tanto hanno fatto apprezzare i suoi precedenti successi: la morte, la malattia, le ipocrisie, il suicidio, l’aridità delle emozioni, la mancanza di sentimenti e la famiglia.

La storia viene vista con lo sguardo ed i pensieri della ben poco innocente tredicenne Eva, ed è proprio attorno a lei, e tramite lei che si sviluppa la narrazione. La giovane adolescente che vive nel più assoluto disincanto, priva di emozioni, affetti e sentimenti, osserva freddamente, filma e commenta con il proprio cellulare la realtà quotidiana ed il disgregarsi, come in un gioco al massacro, di tutta la famiglia e di tutti i suoi componenti nessuno escluso. Non c’è speranza nel futuro per nessuno, nemmeno per la stessa giovane Eva.

Tornano a recitare, ancora una volta, con Haneke i suoi due attori “feticcio”: la Huppert e  Trintignant, due mostri sacri del cinema francese e colonne portanti dei suoi passati successi ed anche anima di questo suo ultimo film che si impreziosisce veramente della loro sempre attenta ed equilibrata recitazione. Da notare poi l’interessante, brava e giovanissima Harduin che interpreta ottimamente un ruolo non certo facile, oltre a lei anche un buon cast di attori di prima qualità.

Il regista, con la sua direzione, con i suoi abili movimenti di macchina e con riprese dal taglio freddo e chirurgico, incide senza pietà nella carne della famiglia Laurent, quasi un’autopsia dal vivo, di una classe sociale cieca e suicida. Le riprese sono volutamente scarne, particolari, veri brani di ottimo cinema ed ottimo controllo della recitazione, con anche alcuni momenti recitativi e scene  di alta qualità, come il dialogo fra il patriarca e la sua giovanissima nipote, oppure la splendida e commovente inquadratura finale. La maestria di Haneke è fuori discussione e in questo film viene totalmente riconfermata. Ma … ma sono solo sprazzi di splendore affogati in un qualcosa di troppo, un qualcosa che non riesce a librarsi in alto. Questa volta, purtroppo, non ci ritroviamo nel solito meccanismo filmico in cui tutto è perfettamente equilibrato per ritmo e sottigliezza di linguaggio cinematografico cui il regista ci aveva, da tempo, abituati. La sensazione che resta addosso è che il film, a tratti, giri a vuoto o su se stesso, con una tendenza a ripetersi o a dilungarsi in frammenti insignificanti nello sviluppo narrativo.

Il cineasta ha certamente e scientemente inteso tendere un parallelo fra la maniera fredda e controllata della vita della famiglia Laurent e la modalità, misurata e distante, con cui ha voluto riprendere la storia familiare. Lo stile adottato da Haneke è senza concessioni al conformismo e, senza dubbio, la messa in scena è molto meticolosa e rigorosa. Tutto nelle immagini è bello ed elegante, ma scene, spunti e riprese affascinanti e particolari, restano solo belle da vedere e non riescono a smuovere emozioni o sentimenti nello spettatore. Ne risulta quindi freddo ed anestetizzato anche il film stesso che non trova così il necessario scatto di qualità, perché tutto si ferma al solo e mero livello estetico e descrittivo. Il ritmo generale è poi troppo lento con molte scene troppo insistite, con notevoli vuoti narrativi ed inutili virtuosismi e divagazioni prive di intensità. È un po’ poco per un autore del calibro di Haneke e lo spettatore, anche il più ben disposto, ne resta più che disorientato e indispettito.

Dispiace dunque doverlo dire, ma Happy End, contrariamente alle attese ed agli altri film del regista, è decisamente un’opera minore, poco convincente e non perfettamente riuscita, quasi come se, ad un certo punto, Haneke avesse ceduto al vezzo di autocitarsi. Opera minore certo, ma pur sempre un film di un cineasta di alta capacità intellettuale e rappresentativa. Un film d’autore, anche se non agli alti livelli di scrittura ed estetica narrativa cui il regista ci aveva quasi resi certi ad ogni suo nuovo lavoro.

data di pubblicazione:04/12/2017


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OLTRE L’INVERNO di Isabel Allende – Feltrinelli, 2017

OLTRE L’INVERNO di Isabel Allende – Feltrinelli, 2017

Come in tutti i suoi romanzi, qualche aspetto della storia personale dell’autrice traspare dai suoi personaggi. Questa volta il suo alter ego è Lucia, cilena espatriata in Canada per sfuggire alla dittatura di Pinochet: la sua vita è segnata da un padre bigamo, dal fratello desaparecido, dalla sua personale lotta contro il cancro e da un matrimonio fallito e, nonostante ciò, è una donna viva e piena di voglia di vivere e di lasciarsi tutto alle spalle. A un certo momento della sua vita si trasferisce a Brooklyn per un semestre come visiting professor e alloggia nel seminterrato affittatole da un collega, Richard, anche lui con un passato drammatico che ha inizialmente combattuto affogando nell’alcol e che ora tiene sotto controllo con una disciplina ferrea.

Con loro protagonista del romanzo sarà Evelyn, giovanissima guatemalteca, immigrata clandestinamente negli USA per sfuggire a una gang criminale che è piombata nella sua vita segnandola in modo indelebile.

Poche settimane dopo Capodanno si scatena su New York una furiosa tempesta di neve; mentre Richard rientra a casa nella tormenta tampona il Suv davanti a lui da cui esce Evelyn che, sconvolta dall’incidente,  afferra il biglietto da visita che Richard le porge e va via come una furia. Dopo parecchie ore, ormai a tarda sera, Richard se la ritrova sulle scale di casa e, poiché con il suo stentato spagnolo non riesce a comunicare con la ragazza, trova un modo per risolvere il problema della lingua: “l’unica cosa che gli era venuta in mente fosse stata di chiamare la cilena del piano interrato”.

Per quel fortuito tamponamento e le conseguenze che porta con sé, le vite dei tre protagonisti si legano indissolubilmente: (Evelyn) aveva preso la macchina della sua datrice di lavoro…., senza dirglielo perché stava facendo un sonnellino. La ragazza aggiunse con difficoltà che, dopo il tamponamento di Richard, aveva dovuto rinunciare all’idea di tornare a casa perché non poteva raccontare cosa era successo”.

I capitoli si alternano tra la narrazione di ciò che affrontano insieme e la descrizione delle loro vite pregresse con i loro fantasmi, i dolori, gli errori, le gioie che li hanno portati a essere ciò che sono diventati.

La Allende, come sempre, ci sorprende con la sua penna. Il romanzo è un po’ un giallo, un po’ un romanzo rosa, un po’ un romanzo storico, gli argomenti che affronta sono forti come il traffico di esseri umani, il potere delle gang o lo strazio della perdita di un figlio; i suoi personaggi sono costruiti magnificamente e prendono vita sotto i nostri occhi segnati dalla differente capacità di ognuno di loro di assimilare le proprie esperienze e cercare di trovare un modo per conviverci.

Forse non sarà la Allende di La casa degli spiriti o D’amore e ombra, ma vale sempre e comunque la pena di leggerla perché, sempre e comunque, ti lascia qualche cosa dentro che è irrinunciabile avere.

data di pubblicazione: 4/12/2017