da Daniela Palumbo | Set 10, 2024
Prisca e Guy stanno per separarsi. Annunceranno la decisione ai propri figli, ancora piccoli, dopo un’ultima vacanza da trascorrere tutti insieme, in un resort tropicale. Ma la spiaggia esclusiva che condivideranno con altri “fortunati” turisti – pochi prescelti con qualcosa in comune – si rivelerà presto una trappola infernale. In quel luogo stregato tutti invecchiano rapidamente, mentre qualcuno li osserva, non visto, dall’esterno. Per loro, cavie inconsapevoli di folli sperimentazioni, è impossibile fuggire. Impossibile fermare il tempo…
Liberamente tratta da Château de sable, graphic novel francese datato 2010, approda su Netflix questa pellicola di Shyamalan dal titolo impietosamente conciso: Old. Un monosillabo, un’unica cellula che vorrebbe contenere in sé un mondo, in sintesi o in embrione. Ricettacolo di reminiscenze e suggestioni narrative e cinematografiche. Old. Ovvero nulla di nuovo.
Il luogo fisico – teatro dell’azione – di questo fantamistery è lo scenario “paradisiaco” per eccellenza: la spiaggia (quasi) deserta, destinazione da sogno per soggiorni idilliaci. La vediamo qui rappresentata ora con toni macabri (onde insidiose si alternano a rocce impervie e a crepacci senza via d’uscita) ora con accenti parodistici (una gravidanza inattesa si compie in tempi da record in questa Blue Lagoon tinta di noir). L’intero dramma, forse svelato troppo precocemente, si concentra in poche ore, che contano come anni. La vita si contrae in uno spazio ristretto, e in egual misura il tempo si riduce, sotto l’occhio vigile di un Grande Fratello in versione scienziato pazzo, che osserva imperturbabile dall’alto del suo laboratorio.
Ripercorrendo lo schema classico della fiaba, la storia propone una parata – a tratti grottesca – di eroi ed antieroi. C’è l’uomo impavido che sfida il destino a costo della propria vita. C’è la donna – maga o strega – la cui bellezza esteriore finirà per contorcersi in mostruose metamorfosi. In veste di “aiutante”, c’è lo gnomo/bambino grazie al quale i due sopravvissuti risolveranno l’enigma nodale. E saranno loro, fratello e sorella – novelli Hansel e Gretel sin troppo cresciuti – a cercare, fino all’ultimo respiro, la salvezza. Mettendo a frutto l’ingegno senza rinunciare all’immaginazione, residuo d’infanzia. In questo bailamme di rimandi tragicomici sgranati in rapida sequenza, un messaggio (affidato alla discreta interpretazione di Vicky Krieps e Gael Garcia Bernal, Prisca e Guy) risulta comunque apprezzabile. A noi che inseguiamo il tempo, rincorriamo il tempo, volendo anticipare, precorrere, e abbiamo troppa fretta (Non vedo l’ora di sentire la tua voce quando crescerai – dirà la madre Prisca alla piccola Maddox) viene posto dinanzi uno specchio. Dove le nostre “brame” sono mutate in incubi. E dove tutto quanto rischia di essere annientato in pochi attimi. Nel male e nel bene (Stavamo litigando per qualcosa? Non me lo ricordo più…) cancellato, dissolto. Come fa il mare con le orme o con le scritte sulla sabbia. E persino coi castelli.
data di pubblicazione:10/09/2024
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da Antonio Jacolina | Set 10, 2024
2142 in un lontano pianeta “colonia mineraria”… Un gruppo di giovani decide di cogliere l’opportunità di fuggire dall’insalubre pianeta in cui sono destinati a lavorare ed a passare le loro vite. Contano di impadronirsi di una stazione spaziale abbandonata ed alla deriva nello spazio. Vogliono recuperare i moduli per l’ibernazione prima di affrontare il lungo viaggio verso un pianeta più accogliente. Ma… la stazione spaziale non è deserta come credono…
Ci sono film che hanno segnato un’epoca e sono nella storia della Settima Arte. Chi ama veramente il Cinema potrà pure non apprezzare il genere, ma non potrà non conoscere il mitico film di Ridley Scott: Alien. Era il 1979!
Poteva avere ancora un futuro cinematografico una Saga iniziata 45 anni fa dopo ben sei episodi non tutti eccezionali? Ebbene, la risposta è venuta dal talentuoso cineasta uruguaiano esperto di film del terrore. Alvarez ha avuto la capacità di fare del nuovo con del vecchio. Il suo film rende infatti un vibrante omaggio ai modelli iniziali ben attento però a non scivolare nella nostalgia. Trova il giusto equilibrio collocando il suo nuovo episodio fra il capolavoro di R. Scott e l’altrettanto mitico seguito di J. Cameron: Aliens (1986). La messa in scena e gli effetti speciali sono assolutamente coerenti con i due precedenti film in un giusto mix di passaggi obbligati e di situazioni nuove. Solo i protagonisti sono astutamente distanti dai soliti eroi della Saga e sono semplicemente dei giovani adulti. Ne risulta un lavoro più che apprezzabile che per qualità e solidità può senza dubbio porsi al terzo posto subito dopo l’originale di Scott e quello di Cameron. La sceneggiatura è perfetta, la regia impeccabile, il casting dei giovani è solido e credibile. La storia alterna abilmente elementi conosciuti con altri del tutto inediti ma sempre coerenti con lo spirito e la logica della vicenda. Gli effetti speciali non sono da meno dei precedenti. La mostruosa creatura torna ad avere un aspetto più astratto tanto più inquietante ed incombente tanto meno è visibile.
Con un notevole lavoro di direzione artistica Alvarez è veramente bravo a fondere in un nuovo e verosimile intrigo lo stile visuale, le atmosfere, gli ambienti e le dinamiche dei due primi film. Il regista divide il suo racconto in due parti. La prima serve ad introdurre i personaggi, tutti plausibili e reali ed a definire i ruoli ed i legami fra loro. La seconda è all’altezza delle più ottimistiche attese ed è un fuoco di fila di angoscia, terrore, ansia coadiuvato da un montaggio incalzante sostenuto da una banda sonora perfetta. Le infinite citazioni degli altri film faranno la gioia degli appassionati.
Alien: Romulus è senza dubbio un film più che soddisfacente, singolare, simbolico, riuscito ed efficace. Un esercizio di stile che conferma le doti di Alvarez e fa rinascere dalle sue ceneri la Saga e la innova. Ne saranno contenti i fan vecchi e nuovi della fantascienza e dell’horror.
data di pubblicazione:10/09/2024
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da Daniele Poto | Set 9, 2024
Un road movie che curiosamente passa su Netflix senza trovare per ora un adeguato passaggio nei circuiti italiani. Eppure trattasi di un blockbuster di sicuro richiamo adrenalinico se ci si abbandona al parossistico climax dei film americani al di là di ogni possibile verosimiglianza. La copia Wahlberg (stranito quanto basta)-Berry funziona. Lei, abbandonati i ruoli sexy che sfruttavano il suo corpo statuario, è un agente segreto a prova di stuntwoman.
Union è un corpo parallelo al servizio degli Stati Uniti. Come la Cia o l’Fbi. Omogeneo alle altre istituzioni ma fino a un certo punto. Gioco di spie con tradimenti anche familiari. La prerogativa del film è il ritmo, Tenerti sempre sulle spine muovendo continuamente possibili sorprese. Così il protagonista maschile viene rimosso dalle pigre e consolidate abitudine per diventare un punto di forza di questa Spectre. Un film che non lascia tracce o segni ma che comunque tiene inchiodato lo spettatore anche se la fine è nota, l’happy end e la storiellina d’amore dietro l’angolo. Progressivamente un senso di ripetitività ti coglie nell’orgasmo della concitazione fatta di inseguimenti, cruente esecuzioni e giravolte narrative. Come se l’opera lasciasse una traccia per un possibile sequel. Wahlberg è sornione quanto basta. Produzione che non bada a spese e che nel momento clou si arrocca addirittura nella meravigliosa Istria da cartolina con il facile riconoscimento di Capodistria. L’ironia nei dialoghi è sempre dietro l’angolo, a volte celata ma se attenti si può cogliere. Tra l’altro la realtà non è troppo diversa considerando tutte le guerre scatenate dagli Usa in giro per il mondo con il pretesto di restaurare la democrazia. I cattivi nel film sono inevitabilmente i russi e gli iraniani. Ma tratti si può collaborare anche con loro perché il mondo delle spie gode di una narrazione imperscrutabile.
data di pubblicazione:09/09/2024
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da Giovanni M. Ripoli | Set 8, 2024
Come scrive Emmanuel Carrère nel suo fortunato romanzo: Limonov non è un personaggio inventato. Onestamente si fa fatica a crederlo vista la marea di avvenimenti che ha contraddistinto la vita di Eduard Limonov. Dopo un parto travagliato il film, liberamente tratto dal romanzo, è approdato sugli schermi del Festival di Cannes ed è ora nei nostri cinema.
Si accennava alle difficoltà incontrate nella trasposizione cinematografica della brillante opera di Carrère. Inizialmente il film doveva essere diretto da Saverio Costanzo, pare non in totale sintonia con l’ideologia del personaggio da trattare. Ecco allora intervenire, successivamente Pawel Pawlikowski, regista polacco già premio Oscar (Ida e Cold War) e infine Kirill Serebrennikov, film maker russo, dissidente, certamente più incline a una migliore comprensione e caratterizzazione del personaggio, della Russia (ancora URSS) e dei suoi concittadini. Non era certo facile condensare in poco più di due ore una trama e una personalità così eccentrica e magmatica. Serebrennikov ci riesce in buona misura, sposandone l’anima più irridente e trasgressiva, realizzando una pellicola visionaria, quasi punk, estetizzante ed eccessiva, ma per molti versi affascinante. Chi era Eduard Limonov, pseudonimo di Eduard Veniaminovic Savenko? Scrittore di romanzi fortemente auto-biografici e scandalosi, ma anche raffinato poeta, ladro e squattrinato nelle malfamate strade di New York (quelle sottolineate dai brani di Lou Reed) e maggiordomo di un ricco e influente personaggio. Perennemente alla ricerca di assicurazioni affettive anche promiscue (assai cruda e disturbante la sequenza di un rapporto gay tra il nostro e un barbone di colore). Politico rivoluzionario co- fondatore di un improbabile partito nazional-bolscevico (opportunamente messo a bando), guerrigliero nella guerra civile jugoslava al fianco dei Serbi, e troppo, troppo altro ancora. Il film ce lo presenta in molte di queste avventure ai confini tra il fallimento e il successo. Nel film, lo vediamo di seguito, esule dalla Russia, arrangiarsi in tutti modi nella Grande Mela, innamorato respinto, aspirante suicida, maggiordomo a Manhattan. Ancora scrittore di buon successo in Francia (in un caffè di Parigi c’è un cameo dello scrittore Carrère), rivoluzionario fallito pro e anti Putin, al suo ritorno nella Russia non più sovietica. Personaggio a suo modo consapevole della sua genialità e del clamore che la sua esperienza ha saputo suscitare in tutti i paesi che ha attraversato. Temperamento votato all’assoluto, in perenne contrasto con tutti e tutto, autodistruzione e appetiti sessuali voraci e tenerezza, tutto questo, Serebrennikov è riuscito a rappresentare sullo schermo a metà strada fra il visionario e il reale in situazioni che si ribaltano di continuo. Il registro scelto dal regista ha un ritmo serrato, quasi esasperato, e la narrazione è scandita da una splendida colonna sonora che ripercorre la storia del rock e del punk dei rispettivi paesi. Il film può dirsi riuscito per la capacità del regista di offrire non solo il ritratto di Limonov, ma anche una lucida panoramica del mondo, in primis, URSS, USA, Francia e nuova Russia, mostrandone anche gli aspetti più deteriori, con uno sguardo non ideologico. Detto dell’ottimo montaggio (Juriij Karich), della strepitosa colonna sonora (Sex Pistols e Lou Reed a gogò), la pellicola trova la completa realizzazione grazie alla straordinaria interpretazione di Ben Wishshaw, perfetto nel ruolo del “Bukowski” di Russia. Sorprende sapere che nessuna scena è stata girata a New York, ricostruita negli studios di Riga in Lettonia e pochissime in Russia per le divergenze intervenute fra il regista e Putin al momento dell’invasione dell’Ucraina.
Di minore rilevanza se non per chi scrive, il fatto che nel corso dell’edizione di “Più libri più Liberi” ho conosciuto personalmente Eduard Limonov, ormai nelle vesti di un tranquillo vecchio scrittore che amabilmente autografava i suoi libri.
data di pubblicazione:08/09/2024
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da Salvatore Cusimano | Set 6, 2024
Stefano e Giulio sono due amici, laureati in medicina, con diverse visioni della loro professione, applicate alla situazione di guerra (1918, prima guerra mondiale). Il primo (Gabriel Montesi) vorrebbe rimandare al fronte tutti al primo accenno di guarigione, mentre il secondo (Alessandro Borghi) fa di tutto per far tornare a casa i poveri soldati,. Fra i due soldati c’è Anna, ex compagna di università.
Gianni Amelio presenta a Venezia un’opera intensa, una visione sulla prima guerra mondiale che fa guardare anche alle guerre odierne, dall’Ucraina al Medio Oriente. Ambientato in Friuli Venezia Giulia, al dramma della guerra si aggiunge anche la grande epidemia di febbre spagnola. L’ambientazione prevalente nell’ospedale militare dona una versione leggermente claustrofobica del cinema del regista italiano, che si sofferma spesso sulle ferite dei poveri soldati, non solo quelle del corpo, ma anche dell’anima, quell’anima di un paese al collasso, piena di dialetti e proprio per questo apparentemente impossibilitato ad una visione unitaria. Tratto dal romanzo La sfida (2018) di Carlo Patriarca, il film ha chiaramente il suo fulcro nelle visioni contrapposte dei due amici fraterni, interpretati da due dei migliori attori della loro generazione: Alessandro Borghi e Gabriel Montesi, qui alle prese con lo sforzo di adattamento al dialetto friulano, sforzo mediamente riuscito.
L’insistenza dei colpi di tosse, mischiata ai deboli spiragli che provengono dall’esterno, con il rumore del vento, danno un tono abbastanza mesto al tutto, inevitabile per il tema trattato. I temi come l’amicizia stretta e l’amore non dichiarato sono sempre di attualità. La frase “Qui non muore nessuno” viene ripetuta due volte ed è una sorta di mantra per volersi allontanare dalla realtà, per sfiorare l’utopia che tutti sogniamo, ma il responso di una realtà come la guerra lo conosciamo tutti.
data di pubblicazione:06/09/2024
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da Antonio Jacolina | Set 5, 2024
Rémy e Sandra sono una coppia consolidata. Non hanno dubbi sulla profondità del loro legame. Non riescono però ad avere figli pur desiderandoli. Sono affetti dalla “Sindrome degli amori passati”. Per guarire non hanno che una soluzione: andare a letto nuovamente con i loro precedenti “ex” … con tutti i possibili rischi …
Il film, opera seconda della coppia di registi e sceneggiatori belgi, è stato presentato alla Settimana della Critica di Cannes 2023. Dopo un anno di positivi apprezzamenti di critica e di pubblico nei cinema europei, esce finalmente anche sui nostri schermi. Si tratta di un’opera originale ed insolita, fresca e buffa che con intelligenza ed ironia evidenzia le difficoltà delle coppie d’oggigiorno a viversi con accettazione l’uno dell’altro e ad aprirsi alle reciproche esigenze. Lo spunto di partenza è l’idea totalmente strampalata che impone alle coppie di ripercorrere le esperienze sessuali pregresse per poter superare la Sindrome che impedisce loro di avere i figli desiderati.
L’idea come tale da sola non potrebbe certo riuscire a reggere un intero film. Eppure, gli autori riescono a rendere la storia credibile ed a catturare l’interesse degli spettatori fino alla fine. Ci riescono grazie ad una sceneggiatura ben scritta in ogni dettaglio e ad una sapiente combinazione di toni. Una giusta alternanza di scene leggere ad altre più profonde, in un susseguirsi di situazioni stravaganti. I due registi sono sempre attenti ad evitare il dramma o le situazioni strappalacrime. Cercano piuttosto di divertire pur testimoniando le tante difficoltà di essere una coppia. Rappresentano con gusto ed ironia la ricerca e la rivisitazione “fisica” dei passati amori che consentirà ai protagonisti di capire ciò che ciascuno è, e… soprattutto comprendere anche chi è l’altro (reminiscenze e citazioni di Truffaut di Domicile Conjugal e di Kubrick di Eyes Wide Shut). Proprio tramite gli “ex” i nostri potranno infatti vivere, rivivere e confrontare i propri vissuti su temi fondamentali quali: l’Amore, il sesso, il desiderio fisico dentro e fuori la coppia, l’infedeltà, la gelosia e la singolarità dell’individuo pur nell’osmosi della coppia stessa.
Lucie Gousseau e Lazare Debay, pur se poco conosciuti dal pubblico italiano, sono bravi nel dare corpo e sostanza con finezza ed equilibrio a questo gioco continuo di ridefinizione dei ruoli. Attorno a loro dei coprotagonisti che non sono da meno per naturalezza recitativa. Il montaggio con inquadrature tagliate senza raccordo fra loro aumenta ancor più il ritmo della narrazione. I dialoghi sono cesellati al dettaglio ed essenziali. La messa in scena infine è piena di idee e piacevolmente onirica, poetica e surreale. Sia ben chiaro ci sono anche difetti: ripetizioni, cadute di tensione, ellissi eccessive… ma tutti accettabili in un’opera seconda.
La Sindrome degli Amori Passati è dunque una graziosa commedia, una piacevole favola moderna o, farsa contemporanea. È leggera e gioiosa, ricca di colpi di scena e fa bene allo spirito. Non mantiene certo tutte le promesse ma è ben fatta, intelligente, buffa e, malgrado i temi affrontati, priva di ogni gratuita volgarità.
data di pubblicazione: 05/09/2024
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da Daniela Palumbo | Ago 30, 2024
Un caso di cronaca che sconvolse la Lucania negli anni‘90 viene rappresentato da questa fiction diretta da Marco Pontecorvo, già trasmessa lo scorso anno su Rai uno ed approdata in sei episodi su Netflix.
La giovane Elisa – interpretata da Ludovica Ciaschetti – un giorno non fa ritorno a casa e non viene più ritrovata. L’ultimo ad averla incontrata, in una chiesa di Potenza, è Danilo Restivo, già stalker di altre giovani donne e protetto dal padre in ogni circostanza. La famiglia Claps non si arrende e conduce una lotta disperata alla ricerca di verità e giustizia. Protagonisti assoluti di una tale impresa, il fratello Gildo, che qui ha il volto di uno straordinario Gianmarco Saurino, il fratello minore Luciano (Giacomo Giorgio) e i genitori, Filomena e Antonio Claps, interpretati da Anna Ferruzzo e Vincenzo Ferrera. Una prova corale e suggestiva, per non far dimenticare Elisa. Qualcosa che lascia il segno.
È esistita davvero, Elisa Claps. Così come è scomparsa davvero, una mattina all’improvviso. Misteriosamente no. È tutto fin troppo chiaro sin dall’inizio della storia, che non a caso comincia in un giornata di sole, su una spiaggia, all’aria aperta. Dove si proietta subito anche l’ombra del male, giunto a un passo da lei, a spiarla, a coprirne la luce.
Elisa Claps vive per poco. E sulla scena vive ancora meno. Il tempo di una gita al mare col fratello e di una cena in famiglia. Poche riprese, poche inquadrature. Per noi, è come sbirciare appena da una finestra aperta, mentre qualcun altro scruta da una fessura.
Elisa Claps è un misto di tenerezza e di ironia. Lo si percepisce anche solo pronunciando il suo nome completo. Sentendola parlare col suo tono ora buffo ora quasi struggente. Guardandola negli occhi, guardandola sorridere.
Elisa – figlia, amica, compagna di scuola – muore. Muore prematuramente. Muore assassinata, per mano di qualcuno che lei conosce e chiama per nome (Ciao Danì!). Che difende persino. Da chi non è gentile con lui. Perché lo trova “strano”.
Diciassette anni dopo la sua scomparsa, davanti a una bara bianca con un corpo finalmente ritrovato, qualcun altro, che l’ha amata come se stesso, dirà: Oggi siamo qui. A celebrare il funerale di mia sorella… “Mia sorella”, dirà. Ed è in quel preciso momento che si comprende davvero: Elisa – figlia, amica, compagna – è soprattutto “sorella”. Di tutti noi (più che semplici spettatori) come di Gildo Claps. Soffriamo per lei e con lui. Ci illudiamo fino all’ultimo di tutte le illusioni possibili e impossibili, contro ogni evidenza e pur conoscendo la storia (“fatto di cronaca”, tristemente noto). Ci sentiamo legati a quella famiglia che l’ha amata così tanto, e dove ciascuno ama ciascun altro così tanto. Ci muoviamo anche noi nella città che l’ha vista nascere, abominevole ammasso di cemento in alcune inquadrature, magico presepe illuminato dalle mille fiaccole, in altre. Città dal volto duplice: costellazione e discarica.
E certamente, proviamo rabbia e impotenza per tutto quanto rimane impunito, occultato, trascurato, eluso, per un tempo che pare senza fine. Ci perdiamo, anche noi, nei vicoli ciechi e nei pozzi senza fondo come nei cantieri abbandonati e complici. In quella sagrestia che diventa porta per l’inferno, nel sottotetto di quella chiesa che si cambia in sepolcro. Immondo, come chi collude col male più nero. Siamo vicini, non solo a Gildo, “il” fratello. Vicini a quella madre irrigidita nel dolore e al tempo stesso amorevole, a quel fratello più giovane che sente di non aver “fatto abbastanza”. A quel padre, infine, che non vuole più lottare. Un po’ accusando “l’Italia dei pagliacci” un po’ incolpando se stesso per non aver saputo proteggere la sua famiglia, proteggere Elisa. Elisa Claps. Dolce come una sonata al piano, vivace come un batter di mani. Partecipare a quei funerali postumi, in piazza, tra la gente, lui non lo vorrà. Lui, il padre – mentre Gildo “il fratello” parla alla folla commossa – preferisce stare su una panchina in mezzo a un po’ di verde, in solitudine. A fissare il vuoto, a cercare un ricordo che finalmente – almeno quello – torna ad essere vivo, e risorge.
Attraverso lo schermo, il nostro posto è lì, con lui, ma restando in silenzio. Senza disturbare.
data di pubblicazione:30/08/2024
da Antonio Jacolina | Ago 28, 2024
Gerard Butler è sopravvissuto ad un’efferata rapina in cui la moglie e la figlia sono state uccise davanti ai suoi occhi. Jamie Foxx è il procuratore che per opportunismo di carriera rinuncia, in sede processuale, a chiedere pene severe per gli autori dell’eccidio. Butler avrà un’unica ossessione la vendetta. Una vendetta elaborata e spettacolare che prenderà di mira tutti coloro che sono stati coinvolti nel processo. Metterà l’intera città nel caos e nel terrore …
Diciamolo subito all’ignaro spettatore che spinto dalla persistente calura dovesse decidere di andare a vedere Giustizia Privata. Non si tratta di un film nuovo, non è nemmeno un remake, è semplicemente lo stesso film già uscito in Italia nell’ormai lontano 2010! Un’operazione commerciale di Fine Estate funzionale a fare da traino al “seguito” prodotto da Netflix con gli stessi protagonisti e di ormai prossima distribuzione. All’epoca, pur fra giudizi contrastanti Giustizia Privata ebbe un discreto successo di pubblico e di incassi, soprattutto in America. Un revenge movie che malgrado la morale molto discutibile ha continuato negli anni a collezionare apprezzamenti e sempre nuovi fan fra gli appassionati del genere e ancora di più dopo la sua distribuzione sulle piattaforme streaming. Un successo che ha convinto Netflix ed i due protagonisti ad investire significativamente per produrre, realizzare, interpretare e distribuire un suo “seguito”.
Gary Gray era ed è un buon mestierante ed un habitué degli action thriller. In questo film riprende i modelli degli exploitation movie degli anni ‘70 ed ’80 quelli dei giustizieri, dei poliziotti o degli ispettori al di sopra della legge. Al centro del plot c’è infatti l’onesto cittadino, costretto a farsi giustizia da solo davanti ad un Sistema Giudiziario lassista ed ad un Procuratore ambizioso attento solo alla carriera. L’idea centrale del film è tutta nel gioco perverso e sottile fra il vendicatore ed il procuratore. Il primo si è scientemente fatto arrestare e dal carcere realizza la vendetta preparata da tempo. Il secondo cerca di anticiparne le mosse. Un approccio narrativo interessante, insolito ed intrigante, che ben prometteva. Il film è sì ricco di colpi di scena, il ritmo è sostenuto e quasi non lascia un attimo di tregua, ma qualcosa si inceppa e non va come dovrebbe. Dopo una prima parte interessante e carica di aspettative il regista non più ben sostenuto dallo script eccede in elissi narrative, i toni si fanno esagerati e si compromette così la verosimiglianza e la credibilità della vicenda a tutto danno della suspense e della logica narrativa. I due protagonisti ce la mettono tutta, ma non basta il loro impegno. La grave carenza di sceneggiatura inficia anche i loro sforzi.
Alla fine Giustizia Privata, oggi più di 14 anni fa è un film che soddisferà quegli spettatori che cercano dei semplici stimoli emotivi. Tutti gli altri che però non amano l’approssimazione o che non si contentano di vaghe suggestioni ne resteranno abbastanza delusi.
data di pubblicazione:28/08/2024
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da Maria Letizia Panerai | Ago 27, 2024
Presentato in anteprima durante l’ultima edizione del Taormina Film Fest, il secondo lungometraggio di Riccardo Antonaroli ha come protagonisti Pilar Fogliati e Filippo Scicchitano nei ruoli di Eleonora e Valerio, coppia di novelli sposi alle prese con una prima notte di nozze un po’ anomala ed alquanto scoppiettante…
Finita la festa, gli sposi si incamminano verso la loro “Love Suite” sita all’ultimo piano di un lussuoso albergo di Roma. La suite è stata offerta da Ester e Michele, gli invadenti e protettivi genitori di Valerio, scettici da sempre su questa unione già così carica di presagi negativi. Nei corridoi gli sposi si imbattono in un singolare cameriere le cui fattezze ricordano più quelle di un fantasma che di un personaggio reale. Senza essere interpellato, l’uomo (che “apparirà” più di una volta durante questa lunga notte appena iniziata) ricorderà a chiunque lo incontri i nomi dei personaggi illustri che hanno soggiornato nella “suite dell’amore”. Ma l’idea della sposa di aprire “prima” qualche regalo, darà a questa notte una valenza completamente diversa da quella che, canonicamente, avrebbe dovuto avere. Inizierà subito un battibecco tra i due sposi che diventerà lite quando Eleonora in una busta-regalo destinata allo sposo troverà un assegno bancario e un anello con su inciso ”monamour”… E così quella che doveva essere una romantica notte d’amore si trasformerà in una angosciante odissea metropolitana, fatta di incontri sbagliati, dubbi, paure, fughe e sogni infranti.
Il film è un remake di Honeymood, una commedia israeliana del 2020 presentata solo tre anni fa proprio al Taormina Film Fest. Nonostante il film pecchi decisamente di originalità vista la così stretta vicinanza in termini temporali con “l’originale”, può fortunatamente fare affidamento su di un cast d’attori che non delude, ad iniziare dalla affiatata coppia Fogliati-Scicchitano. Lei aspirante osteopata con il sogno infranto di diventare stilista. Lui, figlio di un rabbino, appassionato di libri gialli con il sogno nel cassetto di potere un giorno scriverne uno, preferisce fare l’agente immobiliare invece di lavorare nel negozio di famiglia. Ci sono poi un singolare tassista, molto minaccioso, molto romano ma molto poco romanista, interpretato da Francesco Pannofino e Armando de Razza, il cameriere-fantasma che con le sue improvvise incursioni sulla scena riesce a strappare più di un sorriso. Ma la coppia d’assi è rappresentata da Lucia Ocone e Giorgio Tirabassi, che incarnano Ester e Michele, i genitori invadenti e soffocanti di Valerio, entrambi molto nella parte, con una vena comica da navigati attori.
Premesso che di temi come la fuga o i pentimenti prima, durante e dopo le nozze, è piena la cinematografia mondiale e che il film non è di quelli che lasciano il segno, qualche battuta carina c’è (“…non basta essere ebrei per fare battute, bisogna essere Woody Allen…”) e l’uscita nelle sale il 28 di agosto agevolerà sicuramente la pellicola che verrà vista come una continuazione, in termini di spensieratezza, delle vacanze prima della ripresa autunnale. Al pubblico l’ardua sentenza.
data di pubblicazione:27/08/2024
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da Daniela Palumbo | Ago 24, 2024
Tratto dal romanzo omonimo di Mariapia Veladiano, il film di Marco Tullio Giordana racconta la storia di una famiglia dell’alta borghesia vicentina negli ultimi decenni del Novecento. Da Maria e Osvaldo nasce Rebecca, la figlia tanto desiderata. L’elemento perturbante e inatteso: la bambina ha una vistosa macchia rossa su un lato del viso. Colta da una forte depressione, la madre la respinge, chiudendosi in se stessa sino al tragico epilogo. Rebecca, cresciuta sotto l’ala della zia Erminia, pianista e concertista di successo, scoprirà nella musica una via di liberazione e di salvezza.
Si può amare e respingere insieme? La storia – così come il regista ha scelto di raccontarla – ruota intorno a queste poche parole. A questo interrogativo che sembra non trovare risposta. Se non nelle pieghe nascoste di una follia visionaria, nelle apparizioni oniriche, nella musica, nelle pagine di un diario segreto.
Un’atmosfera plumbea, sin dalle primissime scene, pervade la ricca dimora di una ricca famiglia di Vicenza, in attesa del primo figlio. Ricca, ma solo nella forma (poverina, poverina… poverini tutti!) È un labirinto di stanze e di saloni, di scale e di corridoi, quella grande casa. E relegata in quel labirinto, al pari di un mostruoso Minotauro, vivrà i suoi primi anni di vita Rebecca, la bambina nata da Osvaldo (Paolo Pierobon) e Maria (Valentina Bellè). Isolata e reclusa, sottratta alla vista degli altri, estranei alla famiglia, allo “sguardo che uccide” e che giudica. Rebecca (interpretata da diverse attrici, da Sara Ciocca all’esordiente Beatrice Barison) non è una bambina “come tutte le altre”. È un “mostro di natura” che la madre rifiuta di prendere in braccio e persino di guardare in viso, per consolarne il pianto.
Esattamente come una lettera scarlatta, quella macchia rosso sangue impressa sul viso rappresenta il segno evidente della colpa, di una condanna senza possibilità di espiazione. Colpa che qui si rovescia sull’innocenza più pura. Un peccato originale ricade sulla creatura appena nata a tal punto che neppure il battesimo dei cristiani potrebbe cancellarlo. Ma l’acqua santa gliela lava via la macchia? – chiederà Maria, madonna senza Dio e senza fede. Una madre fantasma, spodestata e vicariata, per forza di cose, dalla gemella di Osvaldo, Erminia (Sonia Bergamasco). Donna determinata, volitiva, composta. Decisa, tanto nell’esecuzione di un brano al pianoforte quanto nella pianificazione della propria (ed altrui) esistenza. Alter ego. Seguendo il suo esempio, Rebecca imparerà a forgiare il suo innato talento per la musica attraverso la disciplina, con esercizi estenuanti e ripetitivi. Inutili le suppliche della madre di “suonare qualcosa” (senza le scale non si va da nessuna parte).
Ridondante è anche la simbologia cromatica, nel corso di tutta la pellicola. Il rossetto vermiglio sulle labbra di Erminia, la porpora delle poltrone a teatro si contrappongono al nero luttuoso o al bianco spettrale della figura di Maria, dall’inizio alla fine, in rapida involuzione.
Il regista, con l’ausilio di una fotografia a tratti molto suggestiva, racconta dunque il corpo e lo spirito attraverso un gioco di luci ed ombre. Di tasti bianchi e neri, con delle punte rosso fuoco che s’intravvedono nei martelletti al tocco violento delle dita.
E vivendo “accanto” alle ombre, scoperchiate e risorte – non al di sopra, né sotto di esse ma accanto, così da poterle guardare negli occhi e parlarci faccia a faccia – si arriva a scoprire una verità, che è vera luce. Anche se viene dalla notte. E dalla notte estrema.
data di pubblicazione:24/08/2024
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