NAPOLI VELATA di Ferzan Ozpetek, 2017

NAPOLI VELATA di Ferzan Ozpetek, 2017

Eros e Tanatos, bellezza e mistero, esoterismo e malaffare, presente e passato, realtà e illusione: la grande bellezza di Napoli fa da sfondo al nuovo film di Ferzan Ozpetek, che si apre con una sequenza “senza veli” e si chiude nella Cappella del Cristo velato.

Adriana (Giovanna Mezzogiorno) è un’anatomopatologa che si divide tra le autopsie dei cadaveri e le eleganti feste organizzate da sua zia (Anna Bonaiuto). Proprio durante uno di questi rendez-vous intellettuali, Adriana incontra Andrea (Alessandro Borghi): un intenso scambio di sguardi, poche parole prive di sovrastrutture convenzionali e poi l’indimenticabile notte di passione trascorsa a casa di Adriana, con la lunga e “compiaciuta” scena “senza veli” che ha reso famoso il film fin dall’altrettanto intenso battage pubblicitario precedente alla sua uscita. Non sembra solo l’incontro di una sera, visto che Andrea le dà appuntamento per il giorno stesso al Museo Archeologico di Napoli. Il ragazzo non si presenterà mai a quell’appuntamento e poche ore dopo Adriana si troverà a svolgere l’autopsia del suo cadavere deturpato. È difficile elaborare il lutto e ancor più difficile è rassegnarsi all’abbandono e al distacco, specie se, per farlo, si rende necessario “svelare” anche il proprio passato e guardarlo finalmente negli occhi.

Eros e Tanatos si rincorrono nel nuovo film di Ferzan Ozpetek, perdendosi nei labirinti dell’arte, dell’esoterismo e del mistero che avvolgono Napoli e i suoi abitanti. Siamo lontani da quella “Napoli criminale” divenuta immancabile stereotipo cinematografico e televisivo: la città mostra allo spettatore il suo volto raffinato e borghese, nel quale anche la criminalità diviene ricercata e sofisticata, con “la grande bellezza partenopea”, specie quella più nascosta, che si rende sfondo prezioso dell’intero film.

La storia raccontata da Ferzan Ozpetek illude e inganna, conducendo a un finale, non a caso girato nella Cappella del Cristo Velato, con gli apparenti punti fermi che si traducono in altrettanti interrogativi. Il tema dello sguardo è ricorrente: gli occhi che non vedono, gli occhi che vedono troppo, gli occhi che mentono, gli occhi che consolano, gli occhi chiamati a fare i conti con quel velo che si alza, ma mai fino in fondo.

Le sequenze più riuscite sono indubbiamente quelle in cui riemerge la coralità che rende Ozpetek un autentico Maestro del “cinema senza protagonisti”. Il film, almeno per certi aspetti, restituisce l’impressione di troppa carne al fuoco che non sempre riesce a raggiungere la cottura ideale. In qualche caso il regista, forse per assecondare l’incedere incalzante della storia, rischia di “strafare”, di voler caricare il film di simbolismi eccessivi che però restano eccessivamente incompiuti. Nonostante ciò Napoli velata resta un esperimento interessante, appassionate e appassionante, che consente di voltare pagina dopo la parentesi di Rosso Instabul.

Il cast di Ozpetek, come al solito, è impeccabile: superbi Peppe Barra e Luisa Ranieri, inquiete e inquietanti al punto giusto Isabella Ferrari e Lina Sastri, ottima Anna Bonaiuto nel ruolo di matrona del gruppo, convincente anche Maria Pia Calzone, che si scrolla di dosso i panni della donna Imma di Gomorra per indossare quelli di un disincantato commissario di polizia.

Memorabile la prova di Giovanna Mezzogiorno, che non fa certo rimpiangere i bei tempi de La finestra di fronte. Quanto ad Alessandro Borghi, la sua interpretazione, forse, non sarà ricordata (solo) per l’intensità dello sguardo.

data di pubblicazione: 30/12/2017


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LA SPALLATA di Gianni Clementi, regia di Vanessa Gasbarri

LA SPALLATA di Gianni Clementi, regia di Vanessa Gasbarri

(Teatro della Cometa – Roma, 6/31 gennaio 2017)

Una commedia tradizionale, come se ne tentano raramente. Uno spaccato di una problematica famiglia romana di borgata, immersa nel reagente di un’Italia prossima al boom e che si gode, una dopo l’altra, come rutilanti novità, l’introduzione domestica della tivù a colori, del telefono, di un primo insperato benessere. E, attorno, fuori, il mondo che cambia.

La guerra fredda, Kruscev contro Kennedy, la morte di quest’ultimo, la tragedia tutta italiana di Longarone. È il contrasto vivido che piace a Gianni Clementi provvido dispensatore di storie. Quella raccontata in La spallata è una storia che viene da lontano: è stata editata nel lontano 2003, vincendo il premio Fondi La Pastora, trovando attualità in una compagnia affiatata, dominata dalle tre interpretazioni femminili, non facili perché ricche di sfumature e di policromi adattamenti tra primo e secondo tempo.

Citazioni di merito dunque per Elisabetta De Vito, abituale spalla di Pistoia & Triestino, Gabriella Silvestri e Claudia Ferri. La fissità disadorna della scena- un interno pasoliniano, un bagno di fortuna, un materasso che indica promiscuità e mancanza di privacy- è vivificata dal gioco delle luci che mostra e fa immaginare realtà e sviluppi diversificati.

Oltre 130 minuti in scena, un impegno non da poco per la compagnia, con un finale poetico-onirico. Se si ride si ride amaro in questa tragicommedia all’italiana che sa anche di Scola, di Nanni Loy, di proletariato inconsapevole e irredento. Tra i contrasti inter-familiari tra il primo consumismo e l’adesione al Pci, i fermenti di una società che cambia e una famiglia che cerca di sbarcare il lunario. La spallata è in gergo l’alzata di una cassa da morto, piccola industria alternativa per chi non ha i mezzi per progredire con lo stesso ritmo della classe media.

La regia della Gasbarri tiene saldi con buona proprietà i diversi registri, sfruttando un linguaggio colorito e sopra le righe.

data di pubblicazione: 30/12/2017


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COME UN GATTO IN TANGENZIALE di Riccardo Milani, 2017

COME UN GATTO IN TANGENZIALE di Riccardo Milani, 2017

I valori della tolleranza e della contaminazione alla prova dell’incontro-scontro tra il centro della città e la sua periferia, con gli immancabili stereotipi e le eterne verità.

Giovanni (Antonio Albanese), collabora con il suo think tank a progetti destinati a migliorare le condizioni delle aree più disagiate nei grossi centri urbani e si fa carico di proporre a Bruxelles tali istanze. A principi ispirati alla tolleranza e alla “contaminazione” fra le diverse classi ed etnie, ha impostato la sua vita e quella della sua unica figlia. Quando la sua bambina di tredici anni inizia una relazione con un coetaneo che vive nella malfamata realtà di Bastogi, un ghetto alla periferia della Capitale, è allora che cominciano a traballare le sue convinzioni. Ancora di più, dopo il primo incontro con Monica, la madre del ragazzetto (una Paola Cortellesi vivacemente “coatta” e combattiva). Al primo scontro-incontro, i due genitori, seppure con differenti approcci, convengono che i loro figli potrebbero subire un pericoloso contraccolpo da tale improbabile infatuazione destinata a finire “come un gatto in tangenziale“, e iniziano a pedinare i figli. Fra alterne vicende, scopriranno che in fondo non sono poi così diversi e che qualche forma di integrazione- attrazione è sempre possibile anche fra gli opposti.

Riccardo Milani, che già aveva sperimentato la coppia Albanese-Cortellesi (Mamma o Papà) sviluppa insieme alla stessa Cortellesi, a GiuliaCalenda e Furio Andreotti, co-sceneggiatori, una trama non particolarmente originale che consente di raccontare due volti molto diversi di Roma e della sua gente: una intellettuale, borghese, in fondo ipocrita e una fin troppo “borgatara”. Senza scendere a livello dei film natalizi autoctoni, Come un gatto in tangenziale, rimane una commediola, moderatamente divertente con qualche intento sociale vanificato dal macchiettismo dei personaggi. Mantiene un suo minimo decoro grazie alle buone interpretazioni di Paola Cortellesi in un ruolo che ne esalta le doti di attrice brillante e di Antonio Albanese, sobrio e convincente nei panni dell’intellettuale in crisi fra “pensiero e realtà”.

Fra i co-protagonisti nella divertente e colorita fauna di Bastogi troviamo le gemelle, Alessandra e Valentina Giudicessa, nei panni delle sorellastre di Monica, Pamela e Suellen, irresistibili nel ruolo di ladre “compulsive”, Claudio Amendola, truce, quanto basta, la sempre impeccabile, Sonia Bergamasco, madre snob-sessantottina, e naturalmente i due ragazzi, Agnese (Alice Maselli) e Alessio (Simone De Bianchi).

Nel complesso, non indimenticabile, ma moderatamente godibile.

data di pubblicazione: 30/12/2017


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AUGURI “ACCREDITATI” DI BUON NATALE !!!

AUGURI “ACCREDITATI” DI BUON NATALE !!!

Un tempo quasi tutti i miei amici udivano la campanella, ma col passare degli anni divenne muta, per tutti loro. Anche Sara, un Natale, scoprì di non riuscire più a sentire quel dolce suono. Sebbene adulto la campanella ancora suona per me e per tutti coloro che sinceramente credono!

Dal film The Polar Express

LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE di Woody Allen, 2017

LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE di Woody Allen, 2017

Siamo nel cuore degli anni 50, nel favoloso parco dei divertimenti di Coney Island, fuori New York. Incrociamo, introdotti da una voce narrante, le vicende esistenziali di quattro personaggi, i loro sogni, le aspirazioni, le delusioni ed anche un improbabile triangolo amoroso. Gunny (l’ottima Kate Winslet) è una donna non più giovane, mancata attrice, ossessionata da un passato di speranze artistiche svanite. E’ una sognatrice, un po’ lunatica che si trova ora a fare la cameriera in un locale sul Broad Walk, il pontile di legno sul lungomare del Parco. Piuttosto che accettare la triste realtà quotidiana, si racconta che sta recitando il ruolo di cameriera. E’ sposata, non molto felicemente, con il direttore di una giostra, Humpty (Jim Belushi) la cui figlia del precedente matrimonio, Carolina (Juno Temple), emerge all’improvviso dal buio, ove era scomparsa da anni, per  ritrovare il padre e rifugiarsi a casa sua  per sfuggire dei gangster che sono sulle sue tracce. Infine Mickey (Justin Timberlake), seducente bagnino, studente alla N. Y. University che aspira a divenire un drammaturgo. Mickey che è la voce narrante degli avvenimenti, attraversa la vita di Gunny e, nonostante la differenza di età, le riaccende desideri e passione per la vita per poi però abbandonarla nella sua depressione, preferendole la giovane e vivace Carolina, anche lei sedotta dal suo “allure” di scrittore.

Puntuale come il succedersi delle Stagioni, ogni anno arriva un nuovo Woody Allen. Con La ruota delle meraviglie il troppo prolifico regista lasciate definitivamente le sue non sempre felici “escursioni” fra le città europee, questa volta ci riporta nella sua New York, negli anni e nei luoghi delle sue nostalgie. I luoghi ove il suo alter ego, la voce narrante del mitico Io ed Annie, diceva di essere nato e cresciuto proprio sotto la ruota girevole del Parco dei Divertimenti.

Kate Winslet vive infatti in un appartamento le cui finestre prospettano direttamente sul Parco e  sulla Ruota delle Meraviglie (ricreata con ottimi effetti speciali) che le riduce la vista sull’Oceano ma le illumina le stanze di casa con le sue luci blu e rosso, nello sfondo di magnifici tramonti. Sia ben chiaro, siamo molto, molto lontani da Io ed Annie e da altri capolavori NewYorkesi di W. Allen. Il regista ha 82 anni, si sentono tutti, ed il film è pervaso di una profonda tristezza esistenziale come mai prima d’ora. Il film inoltre ha un’impostazione molto teatrale, i dialoghi sono sovrascritti e freddamente letterari. L’azione e le vicende si incrociano come su un palcoscenico e l’interpretazione degli attori è molto manierata. La pellicola è ambientata negli anni 50, ma la recitazione è come in un film degli anni 40 e fa il verso alle atmosfere dei drammi teatrali di O’ Neil, o ancor più di T. Williams. Il personaggio di Gunny, interpretato magistralmente da K. Winslet è infatti pensato per farla quasi sembrare un nuova Blanche Dubois, l’eroina di Un Tram che si chiama Desiderio di Williams.

Quel che però rende particolare il film è la collaborazione di Allen con Vittorio Storaro. Siamo qui alla seconda collaborazione dopo Cafè Society, fra il regista americano ed il “nostro” direttore della fotografia, vincitore di ben tre Oscar. Oserei quasi dire che il film dovrebbe essere a doppia firma.

Storaro inquadra Coney Island volutamente con colori caldi e densi che rimandano scientemente ai film in Technicolor di quegli anni. I colori stessi sono poi una chiave di lettura del susseguirsi degli stati d’animo dei personaggi e sottolineano ancor più l’atmosfera di finzione, di distanza, per l’appunto quasi teatrale, fra la storia filmata ed il mondo reale.

Le inquadrature ed i set, le location ed i livelli cromatici sono , su dichiarazioni dello stesso Storaro, ispirati ai dipinti e ai colori di Norman Rockwel.

Oltre alla fotografia, punto centrale del film è la performance eccezionalmente vera ed appassionata di K Winslet che ci offre tutta la sua fisicità corporea ed è bravissima, senza cadere nei clichè , nel dar vita ad una donna tormentata, intrappolata nei sogni, che spera ancora di crearsi un diverso destino, un personaggio che ama, soffre, tenta di liberarsi, ma non trova una via di uscita. E’ condannata, il Fato gioca crudelmente la sua partita e vince ancora una volta. Memorabile l’interpretazione della Winslet nella scena del monologo, accompagnato da un crescendo di primi e primissimi piani del suo volto illuminato dalla luce della luna e dai riflessi dell’Oceano. Inevitabile il confronto fra la Winslet e la Cate Blanchett di Blue Jasmine che ci dava, a sua volta, un’altrettanta splendida e premiata “versione elegante” di Blanche Dubois. Gli altri attori, fra cui emerge la forte recitazione di J. Belushi, danno del loro meglio con diversi livelli di espressione e qualità anche se costretti  in ruoli molto caratterizzati.

I film però non diventano grandi per associazione. Non bastano un’ottima e coinvolgente fotografia ed una eccezionale interpretazione attoriale a rendere grande La Ruota delle Meraviglie, né tantomeno un possibile Oscar per la migliore attrice può rendere indimenticabile un film.

Allen sembra provare a ricatturare la magia creativa di Blue Jasmine ma ne siamo molto lontani ed il risultato non ha lo spessore e la verve creativa necessari, nonostante qualche lampo di bravura. Non siamo certo davanti ad uno dei migliori prodotti della sua filmografia.

Come la ruota delle meraviglie  anche la prolifica produzione di Allen gira e rigira, a volte su e a volte giù. Alcune volte il giro è più bello degli altri, altre volte invece gira un po’ su se stesso. Questa volta il regista non è certo al massimo ed il film si salva appena dal poter essere scordato.  Ma … nessuna paura, nel 2018/19 è già previsto un suo nuovo film con Jude Law. Avanti con un nuovo giro di ruota!

data di pubblicazione:24/12/2017


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RAGAZZI DI VITA di Pier Paolo Pasolini, regia di Massimo Popolizio

RAGAZZI DI VITA di Pier Paolo Pasolini, regia di Massimo Popolizio

 (Teatro Argentina – Roma, 21 dicembre 2017/7 gennaio 2018)

Al Teatro Argentina di Roma torna Ragazzi di Vita, tratto dal primo romanzo di Pierpaolo Pasolini. Nell’ambito del quarantennale dell’uccisione di Pasolini, il Teatro di Roma ha coraggiosamente portato uno dei suoi scritti più importanti, con la drammaturgia di Emanuele Trevi, la regia di Massimo Popolizio.

 

 

Il regista riorganizza e sintetizza il libro per l’adattamento teatrale presentandolo in capitoli diversi rispetto all’originale. Il racconto delle giornate di un gruppo di adolescenti delle periferie romane diventano così quadri, introdotti da un narratore che amalgama le storie dei diversi protagonisti, i tuffi nel Tevere, i furti di borsette e le corse in macchina, tra urla e parolacce, tra avventure amorose e botte tra giovani e cani.

Tutto lo spettacolo è un prodigioso gioco di equilibri, di strutture in movimento, di idee che si susseguono e si rinnovano, con diciotto giovani attori (tra i quali tre attrici) che si muovono armonicamente sul proscenio, davanti a sfondi con proiettate immagini astratte o su costruzioni mobili, enfatizzate da giochi di luci e ombre che avvolgono l’intera struttura dell’Argentina.

La voce del narratore fuori-dentro la scena, i protagonisti che parlano di sé stessi in terza persona, le canzoni ricantate sulle musiche originali creano una coralità potente e una vitalità trascinante, grazie anche al lavoro drammaturgico di Emanuele Trevi.

In scena gli attori non si risparmiano, entusiasmano, saltano e urlano in contrapposizione ad un narratore molto sui generis, il bravo Lino Guanciale, una presenza lieve che osserva non visto, aiuta, interferisce se serve, anch’egli attratto da un mondo che non gli appartiene ma che conosce benissimo. Una sorta di coscienza che già sa quello che deve succedere, mantenendosi sempre in equilibrio tra partecipazione e cronaca.

L’umanità affamata, dannata e vittima, incolpevole dei delitti dei quali alla fine si macchia raccontata da Pasolini nel romanzo, diviene un insieme di figure facilmente connotate nella propria semplicità, prive di qualunque complessità psicologica, collegate l’una all’altra, grazie al lavoro di regia in grado di creare un filo conduttore tra quadri, persone e contesti.

L’utilizzo simbolico delle scenografie e l’elegante pittoricità delle scene di gruppo rappresentano i veri punti di forza dello spettacolo. E poi c’è la lingua ed il glossario utilizzato: il romanesco inventato e contaminato di Pasolini enfatizzato dall’uso della terza persona.

Una citazione infine per le musiche che sono parte fondamentale del tessuto connettivo dello spettacolo e che vede gli attori cantare sulla base delle canzoni di Claudio Villa.

Un’adolescenziale vitalità di borgata che arriva diretta al pubblico, un’impresa difficile ma dovuta per restituire quell’atto d’amore che l’artista di origine friulane con il suo romanzo aveva voluto dedicare alla città di Roma.

data di pubblicazione: 22/12/2017


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LA GUERRA DEI ROSES, regia di Filippo Dini

LA GUERRA DEI ROSES, regia di Filippo Dini

(Teatro Eliseo – Roma, 19 dicembre 2017 / 7 gennaio 2018)

L’affinato talento indagatore dell’animo umano del regista Filippo Dini porta in scena nel clima natalizio della città eterna, al Teatro Eliseo, la versione teatrale di quello che negli anni Ottanta è stato un successo letterario – il romanzo di Warren Adler (1981) -, poi amplificato da quello cinematografico – per la regia di Denny de Vito (1989) – con l’indimenticabile interpretazione di Michael Douglas e Kathleen Turner: La Guerra dei Roses. Il racconto prende le mosse da quella che poi sarà la fine: due avvocati divorzisti parlano della storia d’amore deflagrata dei loro rispettivi clienti, i coniugi Rose (noti all’alta società di Washington come i Roses). Oliver Rose (un bravissimo Matteo Cremon) e Barbara (una sorprendente Ambra Angiolini) si erano incontrati ancora studenti in una lontana estate ed era stato subito amore, condivisione. Si sposano, hanno due figli e il loro matrimonio appare forte e perfetto per 18 anni. Tuttavia, quella che sembrava essere una coppia inossidabile e realizzata inizia a scricchiolare quando in Barbara, la donna che dal primo incontro aveva dimostrato la propria generosa devozione nel sostenere anche i più piccoli sogni di Oliver (come l’aggiudicazione di un’asta di paese per due statuette di dubbio valore e scarsa bellezza), si fa strada il sogno di aprire un’attività di catering di alta qualità. Si radica nella donna la consapevolezza di aver annullato le proprie ambizioni, il sogno di divenire un prestigioso chef di fama per guidare, sostenere i sogni e la carriera di avvocato del marito. Ed è l’improvviso ricovero di Oliver per un presunto infarto, che poi si rivela essere solo un’ernia, a squarciare l’apparente equilibrio dei suoi sentimenti: Barbara, allertata dall’ospedale per il grave malore del marito, si sente leggera e felice, per nulla preoccupata per la salute del compagno di vita e non si reca al suo capezzale. Si dissolve in un baleno qualsivoglia comunione di intenti e sentimenti, “nella buona e cattiva sorte” non ha più ragione di continuare e ha così inizio la pratica di divorzio. Sebbene entrambi vogliano una separazione civile, rapida e indolore l’ostinato reciproco attaccamento per la sontuosa casa (acquistata con i sacrifici di Oliver ma impreziosita negli arredamenti dall’impegno e dal gusto di Barbara), sugellerà l’inizio della “guerra”. Al loro fianco due cinici avvocati divorzisti che parallelamente condurranno una personale guerra tra fini strateghi di cause matrimoniali (bravissimi e spassosi gli attori Massimo Cagnina e Emanuela Guaiana nei rispettivi ruoli dell’avvocato di Oliver e di Barbara). La casa diviene il pomo della discordia, l’unica ragione di vita in funzione della quale ciascuno, senza risparmiare colpi bassi al limite dell’assurdo, intende annientare l’altro per costringerlo ad abbandonare il tetto coniugale. La guerra lacera lentamente l’animo di Oliver, ancora innamorato di Barbara, e le delicate pareti della casa rappresentate, non a caso, con tessuti belli e delicati come i due protagonisti e i sentimenti di due persone che si sono profondamente amate e stanno separandosi. Nel secondo atto, dopo l’ennesimo scontro tra i coniugi belligeranti, la Casa rivelerà un presagio mostrandosi a Oliver come un essere animato che, venuta meno la loro unione, non è più in grado di tollerare la loro presenza e l’essere stata trasformata dal nido d’amore, realizzazione dei sogni di una vita, in causa di uno spregiudicato conflitto e si ribella alla loro presenza. Non c’è che dire, uno spettacolo ben rappresentato che grazie alla bravura, la mimica e l’ironia dei protagonisti e delle fondamentali “macchiette” degli avvocati, che impreziosiscono e alleggeriscono la drammaticità di un grande amore che finisce, ben rende la spesso amara futilità delle guerre che segnano le separazioni e divorzi giudiziali, spesso alimentati come stupidi incendi dall’irruente soffio di meri pretesti e questioni di cieco orgoglio.

data di pubblicazione:20/12/2017


Il nostro voto:

50 PRIMAVERE di Blandine Lenoir, 2017

50 PRIMAVERE di Blandine Lenoir, 2017

È un grazioso ritratto, a tratti ironico, a tratti commovente e sensibile di Aurore ( Agnès Jaouì ), una cinquantenne che vive in una cittadina vicino a Bordeaux ed è in piena crisi ormonale, professionale e sentimentale. Il marito l’ha lasciata da tempo per una più giovane, ha appena perso il lavoro, si deve confrontare con le figlie ormai uscite di casa, e, con il prossimo ruolo di nonna. Tutto sembra insomma, spingerla, con grazia ma inesorabilmente verso “l’uscita“, ed a farla divenire una “donna invisibile” fuori dalla Società attiva. Aurore è però una donna moderna, positiva che riesce a reagire e decide di non accettare passivamente il percorso in discesa cui tutto sembra destinarla.

 

Blandine Lenoir, regista ed anche sceneggiatrice, qui al suo secondo lungometraggio, torna con 50 Primavere (sarebbe stato meglio lasciare il titolo originale: Aurore) ad un tema a lei caro, quello dei rapporti e del ruolo femminile nella Società. Tratteggia infatti, con delicatezza ed uno sguardo tenero, divertito e divertente, uno squarcio di vita di una bella figura di donna, ricca di personalità e sentimenti, che affronta le nuove circostanze con umiltà, ironia e  positività. Aurore riesce a cogliere attorno a sé i motivi e gli obiettivi per cui ritrovare la speranza di una vita più dolce e la capacità di rinnovare gli slanci giovanili ed affettivi, ridisegnandosi un diverso ruolo, perché la vita continua e può essere altrettanto bella nonostante l’età che avanza.

È ottima complice della regista la brava Agnès Jaouì che, in un momento in cui tutte le “eroine” dei film sono oggi solo giovani e belle, oppure solo anziane e sagge, affronta con coraggio il ruolo della cinquantenne protagonista. L’attrice ci dipinge infatti, con sensibilità, con charme e con la sua bellezza ancora seducente di donna matura, questo bel ritratto femminile, dimostrandosi  veramente a suo agio nel personaggio, e confermandoci, con la sua capacità e passione interpretativa, tutto il suo intenso talento. Se la Jaouì è l’indubbia colonna portante del film, attorno a lei gravita, nei vari ruoli secondari, anche un bel gruppo di attrici ed attori, ben noti agli spettatori francesi, tutti perfettamente calibrati e brillanti.

Una buona sceneggiatura ed un montaggio sapiente e rapido danno poi al film un ritmo brioso, diretto dall’autrice e regista con mano attenta e non convenzionale capace di governare il susseguirsi di situazioni, personaggi e dialoghi brillanti, senza soffermarcisi un secondo più del dovuto, evitando con abilità di cadere al semplice livello di sketches o di banali clichès. 50 Primavere è una piccola commedia, molto francese, ben riuscita, romantica, tenera e buffa, con un tocco leggero a tratti anche dolce-amaro perché appena, appena  velato da una sottile sensazione di nostalgia o rammarico per le opportunità che il tempo e le circostanze si sono portate via.

Anche se il film è stato scritto, diretto ed interpretato con grande complicità, abilità ed intensità tutta al femminile, non è  però un film che si rivolge esclusivamente ad un pubblico di donne, tutt’altro, perché anche il pubblico maschile può apprezzare ed essere coinvolto in questa  cronaca tenera e dolce di un momento chiave della vita di tutti.

Dunque un bel film “generazionale”, non certo per adolescenti, che scivola via con garbo e humour, complice una colonna sonora che passa ironicamente dal classico al moderno senza fratture. Un gioiellino con il gradevole e leggero sapore dei buoni piccoli film d’autore e, nel contempo, quella piacevole sensazione di assistere ad uno spettacolo già tante volte apprezzato e purtuttavia ancora pienamente apprezzabile.

data di pubblicazione:20/12/2017


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“OGNI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ACCADUTI È PURAMENTE CASUALE”: AL VIA L’ESPOSIZIONE CHE UNISCE ARTE E CINEMA

“OGNI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALMENTE ACCADUTI È PURAMENTE CASUALE”: AL VIA L’ESPOSIZIONE CHE UNISCE ARTE E CINEMA

Giovedì 28 dicembre l’inaugurazione della mostra a cura di Federica Scarpetta, con le illustrazioni dell’artista salernitana Similasti

 

La settima arte vista attraverso le creazioni di Similasti, nome d’arte dell’illustratrice salernitana Simona Pastore. Giovedì 28 dicembre, alle 18.30, presso il Caffè Letterario G. Verdi di Salerno (Piazza Matteo Luciani, 28) verranno presentate le opere dell’artista, nel corso di un incontro moderato dalla giornalista Noemi Sellitto. La mostra, organizzata da Federica Scarpetta, si terrà fino al 4 gennaio 2018.

Otto le pellicole scelte per l’occasione, reinterpretate sotto forma di immagini. Da Le Voyage dans la luneViaggio nella Luna (1902) di Georges Méliès a HerLei (2013) di Spike Jonze, l’esposizione nasce con l’intento di dare nuova vita a personaggi già noti sul grande schermo. Tratti morbidi e corpi elastici caratterizzano i protagonisti delle illustrazioni di Similasti. Quasi tutti rappresentati con braccia lunghe e colli sottili, sembrano fare della loro leggiadria il punto di forza di un equilibrio appartenente ad un’altra dimensione. Una rottura delle regole, questa, che si sostanzia nella destrutturazione della perfezione e nell’abbandono della linea retta, a beneficio di forme curve e di un dinamismo a dir poco straordinario.

Classe ’94, Simona Pastore è nata a Salerno e vive a Milano. Il progetto artistico che porta avanti ha visto la luce sul suo profilo Instagram (@similasti), regolarmente aggiornato con i suoi disegni.

data di pubblicazione:19/12/2017

L’UOMO DEL LABIRINTO di Donato Carrisi – Longanesi, 2017

L’UOMO DEL LABIRINTO di Donato Carrisi – Longanesi, 2017

Conosco Donato Carrisi da molto poco, ho fatto incetta dei suoi libri nel corso dell’ultima primavera/estate; dopo aver preso in mano Il suggeritore  sono rimasta talmente affascinata che non ho potuto far altro che leggere tutto quello che era stato pubblicato: ça va sans dire che ho letto immediatamente anche L’Uomo del labirinto e l’ho trovato veramente geniale!!!

La maestria di Carrisi nel continuo cambiamento di tempo e scena e nell’alternarsi delle storie dei vari personaggi che popolano i suoi libri è veramente ineguagliabile: con questo ultimo libro ci troviamo tra le mani un elegante mix tra un thriller psicologico e un action-thriller.

Nel corso delle 400 pagine ritroviamo personaggi già conosciuti ne Il Suggeritore, alcuni costruiti in modo tale da non poter non riportare alla mente i loro omologhi di La ragazza nella nebbia, una sorta di ammiccamento tra autore e fedele lettore che fa sorridere.

Il romanzo inizia una mattina di febbraio; Samantha Andretti, una ragazzina di tredici anni, si sta recando in classe dove ha appuntamento con il ragazzo più ambito di tutta la scuola. Nel tragitto che la divide dal loro incontro cerca di specchiarsi in ogni vetrina per sincerarsi di essere vestita in modo adeguato per il grande evento; non può quindi lasciarsi sfuggire la possibilità di guardarsi nei vetri a specchio di un minivan parcheggiato sul suo percorso “Non può essere, si disse. E osservò meglio.  Dall’altra parte del vetro, nell’ombra, c’era un coniglio gigante”, il portello del minivan si apre e Samantha viene “trascinata nella tana

È estate, la più torrida a memoria d’uomo e la vita in città si è capovolta, la temperatura è infernale e la popolazione ha invertito il ritmo di vita: si dorme quando il sole è alto nel cielo e si lavora, si va a scuola, si fa qualsiasi attività nel pieno della notte; ed è nel pieno della notte che riemerge Samantha dopo essere scomparsa nel nulla quindici anni prima…

Siamo all’interno dell’ospedale Saint Catherine, Samantha è una “figlia del buio”, una dei bambini rapiti e segregati dai loro carnefici, qualche volta riescono a riemergere dall’abisso delle loro prigioni ma non saranno mai più gli stessi; al suo fianco il dottor Green, un profiler che cercherà di catturare l’aguzzino scavando nella sua memoria.

Sulla strada, a condurre le indagini, ci sarà Bruno Genko, un detective privato che non ha paura di immergersi nel deep web o di percorrere i corridoi del Limbo, la sezione persone scomparse della polizia, per arrivare alla soluzione del caso.

Non è facile parlare di un thriller perché si rischia sempre di dire qualche cosa di troppo, quindi non posso far altro che consigliarne la lettura, è un libro che ti prende dalla prima pagina e non ti molla più!!!

data di pubblicazione:18/12/2017