da Antonio Jacolina | Apr 22, 2018
Isabelle (Juliette Binoche) è una splendida cinquantenne, parigina, artista e madre divorziata di una adolescente. E’ una donna dalla personalità complessa, romantica, fragile e forte. Una donna che ha passata l’epoca delle illusioni amorose ma non si rassegna, e cerca ancora l’Amore, l’anima gemella, l’uomo giusto. Quanto è difficile amare veramente!
La settantenne regista e sceneggiatrice francese C. Denis è conosciuta ed apprezzata fin dal suo primo esordio nel 1988 per il suo cinema fortemente rigoroso ed impegnato, centrato tutto sullo studio della condizione umana e sulle problematiche interculturali. Con L’Amore secondo Isabelle (Un beau soleil intérieur) già presentato a Cannes 2017 e visto, in anteprima italiana, in occasione dell’VIII Festival del Cinema Francese tenutosi a Roma ad inizio mese, la regista si concede invece, di affrontare il tema delle relazioni uomo-donna, dei rapporti di forza sentimentali fra individui ed anche il discorso sul concetto dell’Amore Deluso, agendo, insolitamente per lei, con un film tutto virato sul registro dei toni di una commedia dolce-amara. Pur senza omettere di delineare una graffiante satira sociale di una certa borghesia intellettuale parigina, la cineasta ci disegna in effetti, un magnifico e luminoso ritratto di una donna matura ancora aperta all’Amore, e, nel contempo, tramite le sue vicissitudini affettive ed i suoi sentimenti, ci delinea, anche e soprattutto, un mosaico di ritratti maschili al vetriolo (seduttori, ipocriti, egoisti …) che ruotano tutti, come piccoli satelliti, attorno alla luce ardente della solarità interiore di Isabelle. L’Amore secondo Isabelle è un film pensato, scritto e diretto da donne, ma non è un film solo al femminile, al contrario è un film sui sentimenti amorosi in generale, sul bisogno d’Amore, sulla seduzione, sul potere manipolatorio delle parole, dei sottintesi e dei silenzi, il tutto all’interno di un gioco in cui si può essere, indifferentemente uomini o donne, sia attori, sia vittime, sia eterni sognatori.
Al centro del film, costantemente presente in ogni scena, punto focale della cinepresa, dei suoi amanti e dello sguardo degli spettatori è la magnifica e bella J. Binoche. L’attrice sostiene letteralmente il film regalandoci una performance eccezionale con continui cambi di registri recitativi. Attorno a lei ruota la crema degli attori francesi, e, in un significativo cameo finale, emerge anche un monumentale G. Depardieu. La Denis dirige con mestiere e seduce per il ritmo del montaggio e per la maniera di filmare con una cinepresa che sembra quasi accompagnare i movimenti degli attori come in un ballo. Primi piani, campi e contro campi sembrano voler sottolineare, di volta in volta, la forza dei diversi personaggi. Il tono generale del film è reso leggero da una sceneggiatura ben scritta e da dialoghi ironici, pungenti e scoppiettanti. A tratti però, quasi per effetto di improvvisi corti circuiti, il film ha delle cadute di tono, perde di sobrietà, diviene ripetitivo, troppo verboso e frammentato a livello di banali clichés. Ciò non di meno, pur con questa alternanza fra tanti pregi e qualche difetto, L’Amore secondo Isabelle resta un buon film d’autore, supportato da una grande interpretazione della Binoche, una pungente commedia ironica, romantica, malinconica ed anche solare sui capricci dell’Amore e sulle difficoltà di cercare l’Amore e di amare veramente.
data di pubblicazione:22/04/2018
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da Antonio Jacolina | Apr 22, 2018
Chloe (Marine Vatch) è una donna giovane ed affascinante ma fragile e depressa da star anche male fisicamente. Inizia ad andare in terapia e si innamora, ricambiata, del suo psicanalista Paul (Jérémie Renier), interrotta la terapia i due vanno a vivere insieme. Dopo qualche mese però Chloe scopre che Paul le ha nascosto una parte oscura della sua vita e della sua personalità.
Preceduto dall’alone sulfureo sollevato al Festival di Cannes 2017 e visto, in anteprima italiana, in occasione dell’VIII Festival del Nuovo Cinema Francese tenutosi a Roma ad inizio mese, eccol’attesa opera di Ozon, il poliedrico e talentuoso regista e sceneggiatore francese, di sicuro uno degli autori di maggior successo e fra i più interessanti del cinema d’oltr’Alpe. Doppio Amore è il suo 17° lungometraggio ed è stato adattato dallo stesso regista da un romanzo breve: Vita di Gemelli di J.C.Oates. Dopo il delicato ed intimista Frantz, il nostro regista torna sugli schermi in un genere e su un tema che non ci saremmo di certo aspettati veder riaffrontare. Il cineasta francese ritorna infatti al genere thriller di cui aveva già dato ottimi prodotti ai tempi dei suoi Swimming Pool ed Amanti Criminali. Lo spunto questa volta è tornare ad analizzare ancora una volta, uno dei temi a lui cari: l’esplorazione, la ricerca del “doppio di sé”, il doppio benefico o malefico, o, tutti e due contemporaneamente, che ognuno di noi porta dentro di sé. Il tema dei gemelli. Chi sono infatti i “doppi” che Chloe incontra? chi siamo noi? si domanda il regista, chi è, alla fin fine, la stessa Chloe? Quali sono e cosa si nasconde nelle zone d’ombra di ciascuno di noi? Bravo nel miscelare generi cinematografici diversi, Ozon ci offre un thriller brillante, erotico e psicologico rendendo omaggio ai thriller psicologici o sovrannaturali degli anni ‘70 ed ‘80. Il regista si inserisce scientemente nella scia dei Polanski, De Palma e Cronemberg, con anche notevoli richiami ad Hitchcock. Un tale approccio poteva essere schiacciante. Invece l’autore riesce, pur nella continua citazione dei Maestri, a rompere gli schemi, esce dall’esercizio del mero omaggio e tributo e, con talento prende in mano la narrazione con uno stile tutto suo personale, dandogli spessore ed autonomia. Ozon sembra letteralmente far sua la sceneggiatura e trascina lo spettatore in una serie di giuochi, piste e manipolazioni che già nel suo precedente Nella Casa aveva dimostrato di saper ben maneggiare. Doppio Amore, in linea con le regole del genere, è un film sufficientemente trasgressivo ed ansiogeno da poter facilmente trascinare l’immaginario dello spettatore in una serie di intrighi narrativi, giocando abilmente con la paura, l’erotismo ed il fantastico. Non tutto è però perfetto, a tratti ci si perde nei vari meandri, ci sono purtroppo degli effetti gratuiti che riducono l’impatto con il sottinteso e l’implicito, c’è qualche elemento un po’ kitsch ed un finale poi troppo spiazzante che lascia delusi. Comunque sia, pur con i difetti di cui sopra, il film è un bel viaggio nei labirinti del subconscio femminile, un buon pretesto per uno studio sulle personalità multiple. Intense le interpretazioni della sua icona M. Vatch e del suo attore feticcio J. Renier, giunto con questa alla terza collaborazione con il regista. Doppio Amore è certamente un film meno convincente di Frantz, anzi molto lontano dalla sua eleganza e bellezza, ma resta pur sempre un buon prodotto di genere, un buon dramma psicologico girato con maestria e mestiere pur con qualche furberia di troppo.
data di pubblicazione:22/04/2018
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da Paolo Talone | Apr 20, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 19/22 aprile 2018)
Il Cantico dei Cantici è uno dei libri certamente più affascinanti e misteriosi contenuti nel canone biblico, scritto probabilmente intorno al IV secolo a.C. e quindi molto antico. È un dialogo serrato tra due amanti che si rincorrono, si cercano, si dicono l’uno all’altra dolci parole piene di amore e accudimento. Nello spettacolo di Latini queste parole vengono contestualizzate nella cornice di un sogno, quello del nostro unico attore sulla scena.
Terzo e ultimo appuntamento per il trittico presentato dalla compagnia Fortebraccio Teatro, in scena al Vascello fino a domenica. Dopo il confronto con due grandi classici della letteratura teatrale, I giganti della montagna e Amleto, Roberto Latini rivede e interpreta uno dei testi più belli di tutta la Bibbia: il Cantico dei Cantici. Il testo originale, un poema che si presenta sotto forma di dialogo tra due amanti, è ripreso in maniera letterale, senza nessuna particolare interpretazione, è quasi una lettura. La scena è semplice, sono sparite le giostre dell’Amleto e gli effetti scenici dei Giganti. Sembra di essere in una cabina di trasmissione radiofonica, ma c’è anche una panchina dove il nostro personaggio si fa trovare addormentato appena entriamo in teatro per prendere posto. Sta già sognando e noi ci addormentiamo con lui non appena si abbassano le luci e con lui iniziamo a sognare. I pochi oggetti presenti sulla scena non svolgono una funzione narrativa, ma solo simbolica. Si accende una scritta non appena termina la musica: ON AIR. Siamo in onda? No, anche questa scritta va presa alla lettera: siamo nell’aria. Si spalanca una dimensione onirica davanti ai nostri occhi, siamo nei pensieri di un innamorato che racconta il suo tormento e la sua gioia, la sua speranza e la sua delusione, la bellezza dell’incontro e la disperazione della lontananza. La recitazione appare più statica in questo terzo appuntamento, ma si fa via via più enfatica verso il finale fino a trasformarsi in una danza erotica e dolce allo stesso momento. La musica è di nuovo protagonista: le parole scivolano e si confondono nelle note del pianoforte nei momenti più lirici, mentre ritmi travolgenti accompagnano i momenti di marcato erotismo.
Uno spettacolo ben riuscito. Premio Ubu 2017 a Roberto Latini come miglior attore/performer e a Gianluca Misiti per il miglior progetto sonoro/musiche originali.
data di pubblicazione:20/04/2018
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da Rossano Giuppa | Apr 17, 2018
Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 11/29 aprile 2018)
In scena al Piccolo Eliseo fino al 29 aprile il romanzo Scendi giù per Toledo, scritto nel 1975 da Giuseppe Patroni Griffi, che racconta la vita di Rosalinda Sprint, travestito napoletano alla disperata ricerca dell’amore, per la regia di Arturo Cirillo, qui anche interprete del monologo.
Rosalinda è l’urlo doloroso e disperato di una vita estrema e sofferta, segnata da incontri infelici, da sogni irrealizzati, da candore misto alla violenza ed all’ipocrisia del modello maschile con cui si confronta. Uomini egoisti capaci solo di abusare e di sopraffare, da cui Rosalinda prova ad allontanarsi per cercare una nuova vita sia essa vera o immaginaria in Inghilterra, scoprendo con delusione che quelle scogliere di Dover non sono poi così bianche come descritte e immaginate. Come in fondo non lo è la vita perché“nulla mai è come te lo immagini”.
Precorritrice della Jennifer di Ruccello, Rosalinda Sprint attraversa gli umori e gli attriti della città di Napoli, qui più che mai diventata un non luogo, in qualche modo immaginato e costruito.
Un testo coraggioso e forte che racconta il mondo dei travestiti napoletani, uno spaccato corale coordinato dalla presenza e dalla storia di Rosalinda Sprint attorno alla quale ruotano personaggi che si chiamano Marlene Dietrich, Baronessa, Maria Callas, Viacolvento, che affronta a viso aperto, un sottobosco velato con sincerità e ironia.
È un mondo vile, litigioso, sfacciato a volte anche solidale che si contrappone alla violenza ed alla crudeltà dell’universo maschile; l’amore di un uomo resta il sogno irrisolto di Rosalinda, segnato da infelici incontri prima con Gaetano con il quale per un tempo brevissimo crede di poter trovare una possibile felicità e che poi si rivelerà di una crudeltà feroce o del cugino con cui fa sesso il giorno dei funerali del padre.
Una scrittura, quella di Patroni Griffi, musicale e fisica, che saltella tra la prima e la terza persona. Un flusso di parole, un tango di dolore, un folleggiare tra la vita e la morte, ma un urlo di chi vuole vivere e non morire.
Spettacolo forte che cattura grazie ad una interpretazione esperta, forse un po’ datata, che lascia perplessi, rivolta come è al passato senza un reale raffronto con il mondo di sotto, quello delle vite sospese dei transessuali di oggi.
data di pubblicazione: 17/04/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Apr 16, 2018
(Teatro Tor di Nona – Roma, 10/15 aprile 2018 e in tournée in Italia)
Un’autoanalisi dissacrante in diretta, una flagellazione pubblica.
Si parte da Dostoevskij, dal massimo dell’impegno, e si finisce con un accenno di coprofagia. Altissimo e bassissimo un po’ come i chiaroscuri di Emanuele Salce, nato come figlio d’arte e poi ritrapiantato in palcoscenico dopo un percorso non rettilineo fatto di impegni come assicuratore, come universitario mancato, ma soprattutto come portatore sano di un’eredità pesante.
Emanuele, infatti, ha due padri: Luciano Salce e Vittorio Gasmann. E ha trascorso, atipicamente, più tempo con il secondo che con il primo. Capace di riprodurne magnificamente la voce, con timbri a stampo da copia. Dunque, inclinazioni da mattatore? Tutt’altro!
Salce jr. ci racconta la vita con un titolo originale che è la tipica espressione interrogativa del personaggio dei fumetti. La nostra sintesi potrebbe apparire prosaica se ci limitassimo a dire che dopo un accenno di trombonismo, subito messo da parte grazie alle frenate e alle accelerazioni simil registiche del suo partner Paolo Giommarelli, in sostanza si parla di due funerali e di una clamorosa crisi di dissenteria. La sostanza è questa ma indirizzata splendidamente. Perché si ride e tanto anche parlando di un corteo funebre, delle padovanelle di un celebre attore (e tutti pensano a Carmelo Bene o a Gabriele Lavia), della condizione di figlio minore all’ombra di ingombranti personalità.
Il tramite del doppio padre è naturalmente Diletta D’Andrea, prima moglie di Salce e poi di Gasmann. Di qui un intrico di parentele e di contiguità con famiglie importanti. Lo spettacolo è un’impudica rivelazione sul proprio vissuto. È un testo tagliato a misura di verità dove il confine tra rappresentazione e finzione è labile se non nel riconoscimento di alcune funzionali forzature. È uno spaccato di commedia all’italiana (come nei film di Salce) e di “ionismo”, termine di moda, come nella vita del grande Vittorio, precipitato nella depressione fino al capolinea del 2000.
È una sorte di immersione anche psicanalitica in un’esistenza che cerca la propria dimensione dopo il periodo di sbandamento giovanile e riconosciuti rischi etilici.
data di pubblicazione: 16/04/2018
Il nostro voto:
da Antonietta DelMastro | Apr 15, 2018
Nuovo romanzo del “Re”, questa volta a quattro mani con Richard Chizmar, redattore della rivista horror Cemetery Dance.
Protagonista è Gwendy Peterson, dodici anni di Castle Rock, una dolcissima ragazzina un poco rotondetta alla quale è stato affibbiato l’appellativo di “Goodyear” da Frankie Stone, il bullo della sua scuola elementare, che l’ha fatta diventare oggetto delle prese in giro di quasi tutti i ragazzini della scuola; è il desiderio di sbarazzarsi di quel soprannome la motivazione che la spinge tutte le mattine dell’estate del 1974 su per la “Scala del suicidio” che procede a zig-zag su per il fianco del dirupo ed è fissata con bulloni di ferro robusti anche se arrugginiti dagli anni, non vuole essere dileggiata anche l’anno successivo, ed è proprio in vetta alla scala che la sua attenzione viene richiamata da qualcuno: “Ehi, ragazzina. Avvicinati un attimo. Dobbiamo fare quattro chiacchiera tu e io.”… non possiamo non ripensare a It, all’incontro tra il piccolo George Denbrough e il pagliaccio Pennywise: “Pennywise, ti presento George Denbrough. George, questi è Pennywise. Ecco, adesso ci conosciamo. Non sono più uno sconosciuto per te e tu non sei uno sconosciuto per me. Giiiiusto?”, direi che il romanzo inizia sotto i migliori auspici!
Ma il volto di mister Farris non si trasformerà mai nel ghigno mostruoso di It, anzi la sua allegria accattivante e il suo entrare immediatamente in sintonia con i sentimenti più intimi della ragazzina conquisteranno la sua fiducia; a Gwendy verrà consegnata “una scatola dei bottoni. La tua scatola… almeno per ora” con cui, per mezzo di leve e di bottoni colorati, sarà lei a poter controllare la realtà, nel bene e nel male.
Il racconto procede veloce, Gwendy viene totalmente irretita dalla scatola che le viene offerta e le cerca immediatamente un nascondiglio che la possa proteggere da occhi indiscreti, benché sia estremamente misurata nell’uso che ne fa, già solo il possederla determina degli enormi cambiamenti nella ragazzina e non tutti sono positivi.
Lo stile del “Re” è ineccepibile, riusciamo a “vedere” la storia recitata magistralmente dagli attori creati dalla sua penna, senza sbavature e senza inutili dettagli, tutto è raccontato nel momento esatto in cui dobbiamo venirne a conoscenza ma, c’è un ma… è solo un racconto: sarebbe bastato poco di più per trasformarlo in un romanzo degno del “Re”! Ci sono tutte le caratteristiche, il racconto è un continuo crescendo, ci sono tutti gli ingredienti che creano la giusta suspense, ci sembra di correre verso l’occhio del ciclone da cui vedremo scatenarsi la potenza dei romanzi horror di King, dove la scatola comandata da Gwendy cambierà in modo inimmaginabile il futuro che l’attende e…niente, purtroppo non succede niente.
Troppo breve e con un finale deludente; ne sarebbe potuto scaturire un “librone”, in tutti i sensi, invece si resta sbigottiti e stizziti per tutte le possibilità non fruttate.
data di pubblicazione:15/04/2018
da Accreditati | Apr 15, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 14 e 15 Aprile 2018)
La piéce prende spunto e conserva la struttura dell’opera Die Hamletmaschine di Heiner Müller, andata in scena alla fine degli anni ’70, la quale a sua volta è una riscrittura del più celebre Amleto di William Shakespeare. Il testo viene quindi preso, smontato e rimontato da Latini attraverso un racconto diviso in cinque capitoli: Album di famiglia; L’Europa delle donne; Scherzo; Pest(e) a Buda battaglia per la Groenlandia; Attesa desolata/Nella spaventosa armatura/Millenni. Del dramma originario rimane pertanto solo una traccia, ma sufficiente per ricreare il pathos di una tragedia rimasta immortale nella storia della drammaturgia universale.
Secondo appuntamento al Teatro Vascello per il trittico di spettacoli proposto dalla compagnia Fortebraccio Teatro. In scena l’autore, il regista e l’interprete del lavoro, Roberto Latini, che di nuovo si confronta con un grande e difficile personaggio della letteratura teatrale: Amleto. Dell’originale rimangono solo pochi frammenti: il dramma è stato già recitato, è stato superato. “Dov’è questo spettacolo?” urla Fortebraccio, unico testimone a rimanere in piedi nel dramma shakespeariano e unico personaggio che invade la scena. Da questo urlo prende forma l’interpretazione di Latini e per questo Hamletmaschine diventa Fortinbrasmaschine, ovvero Amleto visto e pensato attraverso Fortebraccio, colui che succederà alla guida della Danimarca una volta morto il re usurpatore, la moglie infedele e il principe Amleto. Se Müller aveva spogliato il dramma originale di tutti gli orpelli della scena elisabettiana, restituendoci solo l’ossatura della tragedia, Latini addirittura scuoia il testo, lo lacera a brandelli, ne fa coriandoli e li lancia tra la gente. Quello che rimane del mito di Amleto non sono solo tormento e sentimento, ma anche gioco inteso come meccanismo e divertimento, come giostra appunto, quella che si vede costantemente sulla scena e che diventa il recinto dove si gioca il dramma e, al tempo stesso, barriera ideale da superare. Luci e macchinari di scena, ideati dal genio di Max Mugnai, e le musiche/suoni di Gianluca Misiti dialogano con l’attore sul palcoscenico e diventano mezzo di racconto, guadagnando sulla scena la stessa dignità della parola detta, che viene veicolata attraverso l’artificio tecnico e il filtro dei microfoni. Le musiche non commentano ma dicono, restituendoci nel ritmo l’angoscia dell’umano, che Latini raccoglie e amplifica con le sue dissonanze vocali. Sala piena e pubblico giovane, in attesa di vedere la terza parte di questo trittico nel Cantico dei Cantici, sempre in scena al teatro Vascello nei prossimi giorni.
data di pubblicazione:15/04/2018
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Apr 13, 2018
Alla fine del 19esimo secolo Oscar Wilde rappresentava un’icona nell’alta società londinese, affascinata oltre che dai suoi lavori anche dalla sua personalità carica di umorismo e di trasgressione al tempo stesso. A causa della dichiarata omosessualità venne condannato e messo in prigione: due anni dopo ne uscì profondamente provato nel fisico e senza più soldi perché, nel frattempo, le sue opere teatrali erano state messe al bando e non più rappresentate. Trasferitosi in esilio a Parigi, dopo falliti tentativi di riconciliarsi con la moglie Constance, Wilde decise di chiudere la relazione con il giovane Lord Douglas responsabile di averlo trascinato in quel totale disastro. Pur tra i fumi dell’assenzio, Oscar Wilde riuscì comunque con i suoi racconti per bambini a conquistarsi l’affetto di un folto pubblico che fedelmente lo seguirà sino alla fine dei suoi giorni.
Dopo aver interpretato il ruolo di protagonista in tantissimi film di successo (per citarne alcuni: Ballando con uno sconosciuto, Il matrimonio del mio miglior amico, Shakespeare in Love, L’importanza di chiamarsi Ernesto, Stage Beauty, Hysteria) Rubert Everett è alla sua prima regia con The Happy Prince, presentato quest’anno alla Berlinale nella Sezione Teddy Award. Interpretando il ruolo di Oscar Wilde, il regista Everett sembra dare il meglio di sé e confermare una eccellente bravura supportata da una evidente maturità personale che incide in maniera determinante nell’imprimere una giusta dose di empatia nel personaggio da lui rappresentato. L’immagine che ne viene fuori si adatta perfettamente alla figura dell’insigne scrittore, che negli ultimi anni della sua vita si era completamente lasciato andare a degli eccessi che la puritana società vittoriana di allora difficilmente avrebbe potuto tollerare. Il film ci parla di Oscar Wilde oramai in esilio a Parigi, lontano dall’amata moglie Constance e dai suoi due figli, in uno stato di perenne indigenza e oramai prossimo a morire, pur tuttavia sempre pronto a ironizzare sulla propria persona e a guardare il lato buono delle cose. Ecco così che Rupert Everett riesce nel delicato compito di non rivelare il lato buio della personalità di Wilde, ma al contrario di mostrare la sua capacità di venir fuori dalle situazioni più cupe con ineguagliabile sarcasmo. Riferendosi al De Profundis, testamento di Wilde dalla prigione, Everett ci narra di un uomo che fu punito per essere quello che lui stesso desiderava essere, senza ricorrere ad ipocrisie o ad atteggiamenti che contraddicessero la sua genuina personalità. The Happy Prince è una favola per bambini, oramai di rilevanza universale, che colpisce il cuore di tutti a prescindere dall’età anagrafica ed il film che ne porta il titolo ha centrato in pieno lo spirito del suo autore, considerato a ragione tra i grandi della letteratura di tutti i tempi. Nell’ottimo cast spicca Emily Watson nella parte di Constance e Colin Firth nel ruolo dell’amico Reggie Turner. Il film è nelle sale italiane e se ne consiglia la visione.
data di pubblicazione:13/04/2018
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da Antonio Iraci | Apr 12, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 11 e 12 Aprile 2018)
La compagnia della contessa Ilse approda alla Villa della Scalogna, un luogo isolato dove il mago Cotrone, con altri reietti e disadattati, ha scelto di vivere lontano dalla civiltà per coltivare la passione per il teatro. Il conte, pur di assecondare la volontà dell’amata, si è ridotto senza contea e senza contanti, ma pur nella miseria è contento che la moglie si ostini a portare in scena La Favola del Figlio cambiato. Ilse, legata al poeta autore della piéce (nella realtà è lo stesso Pirandello), cerca con tenacia di portare avanti un messaggio di non facile comprensione per il suo pubblico, ed allora il mago le suggerisce di rappresentare lo spettacolo di fronte ai giganti, entità che vivono sulle montagne, dotati di poteri soprannaturali.
Con questi fatti e antefatti approdiamo a una delle opere più complesse di Luigi Pirandello, rimasta incompiuta a causa della sua morte avvenuta nel 1936, in cui il celebre drammaturgo siciliano fa nuovamente uso della formula del meta-teatro già in precedenza utilizzata in altri suoi lavori. La sua convinzione era che la vita di per sé è teatro, quindi anche ne I Giganti della Montagna si rappresenta un teatro nel teatro dove non esiste più la quarta parete che separa il pubblico dal palcoscenico in quanto ognuno diventa attore e interprete di sé. Nell’adattamento dell’opera pirandelliana Roberto Latini è regista e attore al tempo stesso. Capace di dare la sua voce a tutti i personaggi di scena, diventa una sorta di istrionico ventriloquo che con i suoi movimenti conquista il dono dell’ubiquità in una sospensione di tempo, fuori dalla realtà, nell’illusione di un sogno perpetuo senza soluzione di continuità. Molto coerente questa rilettura del testo dove riscontriamo elementi che superano il reale per invadere spazi ultraterreni che solo con la fantasia possiamo essere in grado di comprendere. I suoni (Gianluca Misiti) accompagnano la scena con un campo di grano sovrastato dal freddo chiarore della luna e dove si aggirano corvi con il loro gracchiare funesto, presagio di una morte che alla fine invade la scena: un fiume di magma primordiale che avvolge tutto quasi a cancellare ogni traccia di vita. Latini vola in alto, il suo corpo perde peso e consistenza e non ha più una propria identità, quasi un fantasma o forse un angelo asessuato reso impotente dai giganti che come dei dell’Olimpo giudicano e condannano, senza mai mostrarsi anche se ne avvertiamo la presenza. A questo punto il regista, al pari di Pirandello, si chiede e ci chiede: ma noi chi siamo? Di fronte a questa domanda non ci rimane altro che affrontare la paura di una verità crudele e l’unica via percorribile è quella di abbandonarsi al libero gioco dell’immaginazione e tentare così di recitare a essere se stessi.
Lo spettacolo è una produzione Fortebraccio Teatro, le scene sono state curate da Silvano Santinelli e Luca Baldini, mentre le luci da Max Mugnai.
Con questo lavoro Roberto Latini ha vinto il Premio della Critica 2015 (ANCT) mentre Gianluca Misiti il Premio Ubu come miglior progetto sonoro/musiche originali.
data di pubblicazione:12/04/2018
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da Antonio Jacolina | Apr 11, 2018
Una banda di rapinatori, duri, determinati ed ex appartenenti alle forze speciali, progetta e mette in atto un audace colpo in una banca superblindata. Sulle loro tracce una squadra d’élite della polizia di Los Angeles composta da uomini ancora più duri e violenti che operano con modi assolutamente non convenzionali. Non ci sono buoni o cattivi, ma solo due gruppi che si affrontano senza esclusione di colpi.
Nella tana dei lupi è il primo lungometraggio di Christian Gudegast, collaudato ed affermato sceneggiatore di film d’azione che, passando dietro la macchina da presa, mostra di possedere anche un’apprezzabile maestria e capacità di governare racconto ed azione. Siamo in un film di genere, fra il poliziesco ed il noir, un film maschio, testosteronico ed adrenalinico, uno scontro fra opposti gruppi, rivalità ed anche stima fra capibranco. Un film duro, diretto ed efficace con anche tratti di eleganza nella struttura e nella messa in scena. Gudegast non lascia nulla al caso, si è chiaramente ispirato e misurato con i canoni estetici del ricchissimo genere e con alcuni classici polizieschi: Heat-La Sfida, The Town, e, non ultimo I Soliti Sospetti, non trascurando nemmeno di flirtare abbondantemente con il Western. Siamo nelle atmosfere descritte da J. Ellroy, nella Los Angeles ove le frontiere fra la legge ed il crimine sono molto tenui, sbirri e delinquenti sono buoni e cattivi, simpatici ed antipatici in pari misura. Il film fa man bassa degli archetipi e degli elementi classici dei vari generi: il poliziotto ambiguo, i gruppi contrapposti … L’autore miscela poi sapientemente le varie componenti, le mischia con gli schemi altrettanto classici e popolari del sottogenere della preparazione del colpo grosso ed infine, serve un cocktail molto gradevole, con la ciliegina di un sottofinale a sorpresa che prepara e prelude al sequel già in lavorazione ed ambientato, questa volta, a Londra. Per quanto opportunistico possa apparire il percorso, la realizzazione ed il risultato finale sono però molto efficaci e ne risulta un insieme ricco di emozioni e molto coinvolgente. Nella tana dei lupi è certamente un film con qualche cosa di più rispetto alla media, certo nulla di rivoluzionario, ma apprezzabilissimo per gli appassionati grazie ad una sceneggiatura solida e ben strutturata ed ad una messa in scena stilisticamente molto accurata. Il montaggio è tagliente, il ritmo incalzante, Los Angeles superbamente filmata e l’intero cast, fin nei ruoli più marginali è perfetto e professionale. Finalmente una buona opportunità recitativa per Gerard Butler nei panni del capo della squadra anticrimine, un attore, fino ad oggi sprecato in film d’azione improponibili o in commedie sentimentali zuccherose, che ha saputo qui cogliere forse l’occasione della sua vita disegnando ed interpretando magistralmente la figura del poliziotto dai metodi poco ortodossi. Gli fanno da contr’altare: il capobanda (Pablo Schreiber) e, soprattutto, l’autista della banda (O’Shea Jackson Jr.). Nella tana dei lupi è dunque un film astuto, un thriller-poliziesco moralmente ambiguo fino al finale, un prodotto di discreta qualità che mantiene tutte le promesse attese dagli amanti del genere e li farà felici per quasi due ore di spettacolo. Una buona occasione di svago. Non mancano di certo le inevitabili cadute di tono con dialoghi e situazioni a tratti meccaniche e stereotipate e con la proposizione di cliché con cui però il regista sembra voler scientemente giocare dando così prova di notevole autoironia ed intelligenza.
data di pubblicazione:11/04/2018
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